I nostri CD

Cari Amici,
archiviato questo Natale piuttosto atipico, per usare un eufemismo, ci accingiamo ad affrontare il nuovo anno con molte speranze e pochissime certezze. Ma, dal momento che dovremo trascorrere ancora molto tempo tra le mura di casa, vi propongo una serie di album che vale la pena ascoltare.
Buona Musica e Buon Anno.

AB Quartet – “I bemolli sono blu” – TRJ records
L’AB Quartet è un gruppo costituito da Antonio Bonazzo (pianoforte), Francesco Chiapperini (clarinetto e clarinetto basso), Cristiano Da Ros (contrabbasso), Fabrizio Carriero (batteria e percussioni). L’album prende le mosse da un obiettivo esplicitamente dichiarato da Bonazzo: elaborare, in occasione del centenario dalla morte di Claude Debussy nel 2018, un progetto basato su arrangiamenti di musica di questo compositore francese.
E il titolo viene proprio da una frase di Debussy che in una lettera parla della sua visione della musica legata principalmente ad aspetti extramusicali come il colore. Di qui un repertorio di sette brani originali. Come al solito quando un album dichiara un intento si pone la classica domanda: obiettivo raggiunto? Onestamente mi risulta difficile fornire una risposta. Comunque è innegabile che i temi scelti si facciano ascoltare con attenzione così come è innegabile che in alcuni passaggi risulti evidente l’influenza di Debussy. Pertinente è anche il linguaggio adoperato dal gruppo il che non stupisce ove si tenga conto che il gruppo affonda le proprie radici nella tradizione classica. Proprio per questo i brani sono prevalentemente scritti anche se non mancano ampi spazi per le improvvisazioni singole e collettive. Un esempio di quanto sin qui detto lo si trova già nel primo brano, “Moon”; il riferimento è al “Clair de Lune” vagamente richiamato nella linea melodica per lasciare subito il posto ad una reinterpretazione cesellata dal pianoforte di Bonazzo, mentre i clarinetti di Chiapperini creano un impasto strumentale dalle timbriche originali, con batteria e contrabbasso a intessere un impianto ritmico molto più sostenuto rispetto all’originale.

Tiziana Bacchetta – “Driving Home for Christmas” – G.T.
Un’indispensabile premessa: io non amo particolarmente gli “album di Natale” per cui mi sono accinto ad ascoltare questo album con una buona dose di scetticismo. Ma poi, nota dopo nota, minuto dopo minuto, ho cambiato radicalmente idea tanto da poter affermare che questo è un CD di sicuro livello. E ciò per una serie di motivi che cercherò di elencare non in ordine di importanza. La scelta del repertorio: la vocalist romana, ad eccezione dei ben noti “Have Yourself a Merry Little Christmas” di Martin -Blane e “White Christmas” di Irving Berlin, ha preferito presentare brani, tutti musicalmente validi e raffinati ma assai meno battuti. Ovviamente ciò non sarebbe stato sufficiente; ecco quindi arrangiamenti sapidi, ben studiati e curati in ogni minimo aspetto con un gruppo affiatato in cui spicca l’individualità di Giacomo Tantillo, trombettista e flicornista siciliano di Palermo che passo dopo passo si avvia a diventare una certezza del panorama jazzistico nazionale. A questo punto sarebbe ingiusto non citare gli altri componenti il gruppo, vale a dire Raffaele Cervasio chitarra, Arturo Valente piano e Rhodes, Carlo Bordini batteria e Guerino Rondolone basso. Ma, com’è fin troppo ovvio, il merito principale dell’ottima riuscita dell’album è della leader, Tiziana Bacchetta. Giunta al suo terzo album, l’artista dà prova di grande maturità sfoggiando notevoli capacità interpretative supportate da un voce ben educata che riesce a transitare senza sforzo alcuno attraverso atmosfere assai differenziate. Ecco quindi il bruciante blues “Christmas Tears” portato al successo da Freddy King uno dei più talentuosi chitarristi del blues elettrico contemporaneo e interpretato dalla Bacchetta con trasporto e una voce ruvida il giusto, ecco la “Title Track” un brano bellissimo di Chris Rea, fino alla conclusione con l’evergreen “White Christmas” di Irving Berlin. Insomma una bella musica che ci accompagna verso le prossime festività, una sorta di raggio di luce in un panorama piuttosto plumbeo.

Michel Benita – “Looking at Sounds” – ECM
L’etichetta Ecm dedica meritoriamente due album alla scena francese, questo di Michel Benita e un altro di Matthieu Bordenave di cui ci occupiamo qui di seguito. In “Looking at Sounds” il contrabbassista franco-algerino Michel Benita si presenta in quartetto con il connazionale Philippe Garcia alla batteria, lo svizzero Matthieu Michel al flicorno e il belga Jozef Dumoulin, specialista del piano elettrico. L’album è giocato su due elementi: una raffinata ricerca timbrica e melodica, e la prevalenza del sound collettivo rispetto all’assolo. Il repertorio si compone di undici pezzi scritti in massima parte dallo stesso Benita da solo o in collaborazione con altri, cui si aggiungono due brani famosi, “Inutil Paisegem” di Antonio Carlos Jobim e Louis Olivera, e “Never Never Land” di Styne, Comden, Green. L’intro affidata al leader è una sorta di manifesto dell’intera poetica dell’album: la linea melodica, suggestiva e cantabile, disegnata dal flicorno di Matthieu Michel, viene costantemente supportata dal basso e dalla batteria di Garcia, in questo caso con mirabile gioco di spazzole, mentre Demoulin si limita a sottolineare alcuni passaggi contribuendo, però, in maniera determinante a creare quella particolare timbrica che costituisce una caratteristica dell’album. E il clima intimista, di rara suggestione si avverte per tutta la durata dell’album anche se non mancano episodi particolari come “Cloud To Cloud” declinato sul filo di una improvvisazione collettiva e il conclusivo “Never Never Land” in cui il leader, in splendida solitudine, si produce in uno dei più centrati assolo dell’album. Gustosa, infine, l’interpretazione di “Inútil Paisagem”.

Roberto Bindoni Unquiet Quartet – “Mediterranean Cowboy” – Alfa Music
E’ uscito di recente l’album d’esordio dell’Unquiet Quartet di Roberto Bindoni; il chitarrista (eccellente anche al pianoforte, strumento che però in questa occasione non usa) è accompagnato da Matteo Cuzzolin al tenore, Marco Stagni al contrabbasso e Filip Milenkovic alla batteria. Si tratta di una prova particolarmente impegnativa per Bidoni il quale si presenta anche come autore dell’intero repertorio, nove brani che riescono a ben catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore. La linea stilistica oscilla tra il jazz modale e quelle atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare nel corso degli ultimi decenni grazie ad artisti quali Jan Garbarek o Jan Balke tanto per fare qualche nome. Le atmosfere sono quindi in linea di massima pacate, con una riconoscibile linea melodica e un ritmo sostanzialmente lento, ragionato, il tutto impreziosito da arrangiamenti ben scritti sia che riguardino le parti completamente scritte sia che facciano un passo indietro per lasciare spazio all’improvvisazione, terreno su cui si muove particolarmente bene il sax tenore di Cuzzolin (lo si ascolti in “Unquiet Place” e nel già citato “Kamikaze”). Particolarmente suggestivo “Encanto” con il leader in bella evidenza. Certo, come si accennava si tratta di un disco d’esordio per cui i margini di miglioramento ci sono, ma già a questo punto è un bel sentire.

Matthieu Bordenave – “La traversée” – ECM

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Ecco il primo album da leader del sassofonista francese Matthieu Bordenave in trio con il tedesco Florian Weber al pianoforte e lo svizzero Patrice Moret al contrabbasso. In programma nove brani tutti composti dallo stesso sassofonista. Come espressamente dichiarato dallo stesso leader, l’idea musicale che ha ispirato l’album è quella del trio formato da Jimmy Giuffre, Paul Bley e Steve Swallow circa sessanta anni addietro ma ancora oggi attualissima. Di qui una musica allo stesso tempo moderna nel sound e nella ricerca di un linguaggio vicino alla musica contemporanea ma allo stesso tempo fortemente ancorata al passato. E la cosa si spiega assai bene ove si tenga conto che Bordenave può vantare una preparazione anche classica. L’album oscilla, quindi, tra questi due poli in una sorta di camerismo particolarmente attento allo spazio e alle sfumature che evidenzia al meglio le potenzialità dei tre artisti. Così se il sax del leader rimane costantemente in primo piano, con un sound non particolarmente robusto ma personale, pianoforte e contrabbasso non si limitano ad una funzione di supporto fornendo un contributo importante anche nella costruzione della linea portante; si ascolti al riguardo il sontuoso assolo di Patrice Moret in “Ventoux” o quello di Weber nel successivo “Incendie blanc”. Insomma nonostante la mancanza di una qualsivoglia percussione, la ‘traversata’ del trio solca mari non sempre placidi, alla costante scoperta di nuovi orizzonti.

Yilian Canizares – “Erzulie” – Planeta Y
Questo è uno dei pochi album che vi consiglierei di ascoltare più e più volte tale e tanta è la ricchezza di contenuti in esso racchiusa. La violinista, cantante e compositrice cubana Yilian Canizares si conferma una delle artiste più originali apparsa sulla scena musicale degli ultimi anni grazie ad una concezione musicale che le consente di accorpare una formazione di base classica e i ritmi, le melodie, le danze della sua madre patria. E tutto ciò si appalesa con grande semplicità nell’album in oggetto, registrato a New Orleans ma che in realtà prende vita da un viaggio nel 2017 ad Haiti. Quì Yilian ha avuto modo di confrontarsi con i Boukman Eksperyans, band storica che prende il nome da Dutty Boukman, un sacerdote vodou che condusse una cerimonia religiosa nel 1791, considerata l’inizio della rivoluzione haitiana. Non a caso l‘album è dedicato a “Erzulie”, divinità del pantheon vudu che personifica l’essenza della femminilità e la sensualità. In effetto l’intento della Canizares è più ampio: “raccontare la storia dell’Africa attraverso i suoi figli creoli: Haiti, Cuba e New Orleans […] musica che deriva quindi da un legame che non è morto malgrado tutto ciò che è successo storicamente”. Accanto all’artista cubana troviamo un quartetto di musicisti di nazionalità e culture musicali diverse, The Maroons, altro riferimento alla storia libertaria caraibica, che allineano Paul Beaubrun (chitarrista e vocalist haitiano), Childo Tomas (basso, cori e kalimba dal Mozambico), Charlie “BKVK” Burchell (batteria e tastiere, statunitense di New Orleans) e Inor Sotolongo (percussionsta cubano). A questi si aggiungono svariati ospiti a tromba, contrabbasso, organo, tastiere, percussioni, violoncello e flauto, a costituire una formazione straordinaria. L’album si apre con la romanticamente coinvolgente “Habanera” e si chiude con “Yeyé” cantata in dialetto yoruba (o lucumi), così come “Yemayá” mentre nella title track e in “Noyé” l’artista utilizza il creolo haitiano. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: nel brano “Libertad” sono inserite le voci campionate di tre donne di epoche diverse particolarmente significative in merito alle tematiche trattate: Simone de Beauvoir, Malala e Nina Simone.

Donatello D’Attoma – “Oneness” – Dodicilune
Donatello D’Attoma è uno dei pianisti più interessanti che si pone nella linea stilistica tracciata da alcuni grandi della tastiera, Thelonius Monk in primis e, andando più indietro nel tempo, Bill Evans. In questo album il pianista si presenta in trio con il siciliano Alberto Fidone al contrabbasso e il romano Enrico Morello alla batteria. In programma otto brani di cui ben sette dovuti alla penna del leader che quindi si dimostra anche prolifico e valente autore. La chiusura è invece affidata ad una composizione, guarda caso, di Thelonious Monk, “Coming On Thwe Hudson”. Il trio è affiatato, ben guidato e ricco di interventi solistici che impreziosiscono ogni esecuzione. Intendiamoci: nessuna dimostrazione muscolare o interventi tesi a stupire l’ascoltatore, ma grande attenzione all’espressività e quindi alla volontà di trasmettere la tensione emotiva che i tre avvertono, in un costante equilibrio tra pagina scritta e istintiva improvvisazione. In particolare D’Attoma evidenzia una solida tecnica di base cementata sia dagli studi classici sia dalla profonda conoscenza della letteratura jazzistica; di qui un rigoroso controllo di ogni elemento dell’esecuzione con un pianismo solido, raffinato, essenziale ben supportato dai compagni d’avventura che, seguendo la lezione di Evans, ricoprono un ruolo tutt’altro che marginale. E ciò appare evidente sin dal primo brano, “Fluorescent Light”, in cui i tre si muovono empaticamente, caratteristica che viene conservata per tutta la durata dell’album. I brani sono tutti godibili e ben articolati come in una sorta di percorso che mai perde d’intensità.

Elina Duni, Rob Luft – “Lost Ships” – ECM
Registrato nello studio La Buissonne nel sud della Francia nel febbraio del 2020, questo album, in quattro lingue – albanese, francese, inglese, salentino- vede la cantante svizzero albanese Elina Duni ed il chitarrista britannico Rob Luft (la cui collaborazione risale al 2017) coadiuvati da Matthieu Michel al flugelhorn (lo si ascolti particolarmente in “Brighton”) e Fred Thomas piano e batteria. A scanso di equivoci, in questo caso il jazz appare marginale ma l’album è notevole e vale quindi la pena segnalarlo. Il programma, pur essendo assai variegato, presenta come temi centrali quelli dell’emigrazione e della difesa della natura declinati attraverso brani tradizionali, composizioni originali e due canzoni rese famose rispettivamente da Frank Sinatra e Charles Aznavour. In un cartellone siffatto appare evidente come molteplici debbano essere stati gli input ed è la stessa Duni a confermarlo: «Ci sono canzoni – afferma – che hanno influenze del passato, con il suono dell’Albania ed il folclore mediterraneo sempre presenti, ma volevamo esplorare anche altre radici musicali: ballate jazz senza tempo, canzoni francesi, canzoni popolari americane…. ». Comunque l’album, come si accennava, è di assoluto livello grazie soprattutto alla maestria di vocalist e chitarrista, l’una sempre più convincente nell’interpretazione di tematiche assai delicate, l’altro in grado di sottolineare ogni passaggio con rara discrezione e altrettanta pertinenza. Così la musica acquista attimo dopo attimo sempre più consistenza, sorretta da un’intesa non comune come evidenziato nel brano in inglese, “The Wayfaring Stranger”. Il controllo delle dinamiche è assoluto così come la capacità di ricondurre ad un unicum le quattro voci melodiche. Infine una perla di raffinatezza la chiusura con “Hier Encore” di Aznavour presentata in duo, chitarra e voce.

Erodoto Project – “Mythos Metamorphosis” – Cultural bridge
Bob Salmieri sax tenore e soprano, ney, turkish klarinet, Alessandro de Angelis grand piano, Rhodes piano, Maurizio Perrone contrabbasso, Giampaolo Scatozza batteria e Carlo Colombo percussioni sono i responsabili dell’“Erodoto Project” giunto alla sua terza tappa attraverso i miti e le leggende del Mediterraneo. Dopo “Stories: Lands, Men And Gods” (2016) e “Molòn Labè” (2017) arriva “Mythos Metamorphosis” in cui il gruppo è affiancato dal Mirò String Trio, al secolo Fabiola Gaudio violino, Lorenzo Rundo viola e Marco Simonacci violoncello. In repertorio undici originali composti da Salmieri e De Angelis declinati attraverso l’avventura di Ulisse che affronta e resiste alle lusinghe delle sirene. Ecco quindi richiamate le leggende di Aci e Galatea, di Ifi e Iante, della Sibilla Cumana…via via fino al brano di chiusura dedicato a “Leucosya”, una delle tre sirene che, secondo la mitologia greca, viveva sugli scogli della baia di Salerno assieme a Partenope e Ligea. Essendo questo il quadro di riferimento, è chiaro che la musica prodotta dovesse in qualche modo riferirsi alle varie culture che dal Mediterraneo traggono linfa vitale. E così è stato. Ancora una volta Salmieri e compagni tengono fede alle premesse e ci regalano una musica di grande intensità caratterizzata da suadenti linee melodiche, armonizzazioni semplici ma non per questo banali e una tavolozza timbrica impreziosita, nell’occasione, dal trio d’archi i cui arrangiamenti sono stati curati da Alessandro de Angelis. Insomma un jazz senza etichette, non ascrivibile ad uno stile piuttosto che ad un altro, ma una musica libera che prende per mano l’ascoltatore e lo trasporta in un altrove impossibile da etichettare.

Marco Fumo – “Reflections” – Odradek Records
Merco Fumo è personaggio ben noto ed apprezzato nell’ambiente jazzistico. La sua padronanza strumentale e la sua profonda conoscenza del lessico jazzistico ne fanno personaggio di assoluto rilievo. E questo album ne è l’ennesima conferma in quanto riesce ad evidenziare, come meglio non si potrebbe, i numerosi legami – ora palesi ora più nascosti – tra l’universo euro-colto e la musica afroamericana. In un flusso rapido e spesso trascinante scorrono quindi alcuni degli autori che hanno fatto la storia della musica tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sulle due sponde dell’Oceano Atlantico. Da Scarlatti a Joplin, da Stravinsky a Nazareth, da Debussy a Ellington tanto per fare qualche nome. Ovvero dal ragtime, dal choro, dal tango, dal blues, dallo stride piano…al jazz e alla musica classica europea in un confronto tutt’altro che banale, alla scoperta di consonanze spesso inaspettate. E’ quanto si nota, come si legge nelle note che accompagnano l’album, ascoltando il “Tango” di Stravinsky risalente al 1940 e il “Café de Barracas” di Eduardo Arolas del 1920: la concezione delle masse sonore presenta molti punti di contatto nel pensiero dei due compositori. Più evidente, è ovvio, il rapporto tra il ragtime di Scott Joplin e lo stride piano di James P. Johnson. E di questi esempi se ne possono fare molti altri costituendo per l’appunto questo il punto focale della ricerca di Marco Fumo il quale ama sottolineare come nella sua vita abbia “frequentato sempre tutta la musica, indistintamente” non facendosi mai limitare “da barriere o pregiudizi”.

Danilo Gallo, Dark Dry Tears – “Hide, Show Yourself!” – PMR
Dopo lo splendido album “Thinking Beats Where Mind Dies” del 2016, il quartetto “Dark Dry Tears” si ripresenta al pubblico del jazz con un organico leggermente diverso in quanto al posto di Francesco Bearzatti figura Massimiliano Milesi (sax tenore e soprano e clarinetto) mentre rimangono al loro posto Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto), Jim Black (batteria) e ovviamente Danilo Gallo al basso elettrico. In programma tredici brani tutti composti da Gallo. Ciò detto rimane sostanzialmente identica la cifra stilistica del gruppo che evidenzia ancora una volta i suoi punti di forza nell’intenso dialogo tra i due fiati, nell’incessante straordinario supporto ritmico di Jim Black (a mio avviso uno dei migliori batteristi oggi in circolazione) e nella sapiente direzione di Gallo che si fa valere non solo per l’apporto ritmico ma anche per la spinta propulsiva forniti dal suo strumento. Quanto al ruolo dei fiati, lo stesso appare evidente sin dal primo brano per proseguire, senza soluzione di continuità, fino al pezzo di chiusura. Interessante notare come l’uso del sax soprano da parte di Milesi conferisca un sapore nuovo alla tavolozza timbrica del gruppo che presenta una compattezza, una omogeneità tutt’altro cha facili da raggiungere. I quattro si muovono in perfetta simbiosi, senza un attimo di incertezza ad interpretare le sapienti composizioni di Gallo la cui raffinatezza è soprattutto evidente nelle introduzioni e nelle chiusure dei singoli brani. Si ascolti al riguardo come il basso elettrico introduca l’intero album nel brano “Demolition” caratterizzato in seguito da un trascinante crescendo.

Keith Jarrett – “Budapest Concert” – 2 CD – ECM
Di recente su questi stessi spazi il nostro Massimo Giuseppe Bianchi si è occupato di Keith Jarrett esaminandone due aspetti: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico. Venuti a conoscenza del fatto che il pianista non potrà più suonare in pubblico, ogni suo album, per quanto registrato anni addietro, assume una particolare valenza. E’ il caso di questo “Budapest Concert” inciso il 3 luglio del 2016 alla Béla Bartok Concert Hall e declinato attraverso due CD, nel primo una serie di improvvisazioni di durata medio lunga, nel secondo ancora improvvisazioni questa volta di durata inferiore e due standard “It’s A Lonesome Old Town” di Tobias e Kisco e “Answer Me, My Love” di Winkler e Rauch. Come spesso gli capitava durante le sue performances, Jarrett preferisce mettere subito in chiaro le sue intenzioni. Ecco quindi la “Part I” sicuramente la più complessa e meno melodica dell’intero programma, in cui l’artista si lancia nelle sue ardite improvvisazioni. E tutto il primo CD, corrispondente alla prima parte del concerto, ripercorre un identico canovaccio vale a dire un pianismo allo stesso tempo lucido e imperscrutabile, vorticoso e meditativo, che comunque si lascia attrarre da quell’area culturale vicina alla musica accademica in special modo del Vecchio Continente. Il discorso cambia nel secondo disco caratterizzato sin dall’inizio da una atmosfera più raccolta, intimista e da una più avvertibile cantabilità. Fino alla degna chiusura con due standard rappresentati con dolce partecipazione. E’ sicuramente questo il Jarrett che il pubblico ama di più, quell’artista che raccoglie in sé il portato di ogni stile pianistico e che, se in stato di grazia, è capace di inanellare una serie infinita di spunti melodici come nessun altro. Ed un esempio probante si ha proprio in questo secondo CD in cui ogni singola esibizione è sugellata da una caldo applauso del pubblico senza che la tensione cali per un solo attimo: lo spettatore è definitivamente conquistato così come noi che ascoltiamo l’album comodamente accovacciati in poltrona.

Anja Lechner, François Couturier – “Lontano” – ECM
Dopo il felice debutto nel 2014 con “Moderato cantabile” sempre firmato ECM, la violoncellista tedesca e il pianista francese tornano in sala di incisione per dar vita a questo “Lontano” articolato su sedici brani sia originali sia dovuti ad autori di aree ed epoche diverse, da Ariel Ramirez a Giya Kancheli, da Anouar Brahem a Henri Dutilleux. Come si può facilmente desumere dall’organico, si tratta di una musica dall’impianto cameristico. Quel che fa la differenza rispetto ad altre registrazioni del genere è da un canto la statura artistica dei due artisti, dall’altro la scelta del repertorio. Ascoltando l’album sin dalle primissime note si ha netta la sensazione di ascoltare musicisti in grado di coniugare una preparazione classica con il linguaggio improvvisativo proprio del jazz. Di qui un suono, una timbrica, un gioco di colori molto vicini alla tradizione cameristica europea. D’altro canto non mancano pagine in cui la capacità di improvvisare prende il sopravvento sulla pagina scritta. Funzionale a tutto ciò la scelta di un repertorio che tende quasi ad annullare qualsiasi distanza temporale tra i vari brani nell’intento – del tutto riuscito – di evidenziare come la buona musica non conosca limiti di tempo. Così, dopo i primi tre brani di impronta “colta”, il ben noto e struggente “Alfonsina y el mar” di Ariel Ramirez. E questa particolare capacità di attualizzare alcune partiture appare altresì evidente, come chiarito nel libretto che accompagna l’album, in almeno altri quattro brani: in “Memory of a Melody” ci si richiama all’aria dalla Cantata BWV 105 di Bach, in “Hymne” si avverte l’influenza di Gurdjieff, in “Postludium” fa capolino l’arte del pianista e compositore ucrainoValentin Silvestrov mentre nella title track si omaggia Federico Mompou esplicitamente ricordato nel già citato “Moderato cantabile”.

Gianni Lenoci – “Wild Geese” – Dodicilune
Quando Gianni Lenoci ci lasciò improvvisamente, su questi stessi spazi ebbi modo di sottolineare come la sua dipartita lasciasse un vuoto difficilmente colmabile. E questo album, postumo, registrato nel 2017, ne è l’ennesima conferma. Lenoci era artista di indubbio talento che trovava i suoi punti di forza da un canto in una grande capacità improvvisativa declinata attraverso composizioni originali sempre indirizzate verso una sperimentazione mai fine a sé stessa, dall’altro nell’estremo rispetto degli altri, dei suoi colleghi che lo portava ad eseguire le composizioni altrui senza alcunché perdere dell’originario fascino. In questa sua ultima fatica discografica, Lenoci è in trio con Pasquale Gadaleta al basso e Ra-Kalam Bob Moses alla batteria. In repertorio nove composizioni scritte da alcuni grandi del jazz: quattro a testa da Carla Bley e Ornette Coleman, una da Gary Peacock. L’album produce una duplice sensazione: il piacere di ascoltare alcuni standard che restano nella storia della musica e allo stesso tempo l’ammirazione per come Lenoci e compagni siano capaci di riavvolgere il nastro, scomporre i nove brani e ripresentarli secondo una logica nuova, personale, che lascia intravedere, quasi in filigrana, la profonda conoscenza della musica interpretata. E a mio avviso due sono i brani che meglio illustrano quanto sin qui detto, “Latin Genetics” e il conclusivo “Ida Lupino”, senza alcunché togliere alla maestria con cui il trio affronta tutti i brani in programma, a partire dal sontuoso “And now the queen” cui fa seguito “Job Mob“ impreziosito da un Gadaleta in grande spolvero e con un Lenoci quasi a richiamare atmosfere proprie del free. Pezzi che ci introducono alla parte centrale dell’album costituita da tre brani tutti di lunghezza superiore ai dieci minuti. Insomma un album straordinario che merita di essere ascoltato anche da chi non si professa particolarmente amante del jazz: sono sicuro che piacerà anche a costoro.

Ivano Nardi – “Homage to Kandinsky” –
Il batterista Ivano Nardi può a ben ragione essere considerato personaggio storico del jazz italiano e romano in particolare. Sulla scena oramai da parecchi anni, ha collaborato con alcuni bei nomi del panorama internazionale (Massimo Urbani fra tutti e poi Mario Schiano, Marco Colonna, Steve Lacy, Evan Parker, Don Cherry e Lester Bowie) sviluppando uno stile percussivo affatto personale che oscilla tra free jazz e improvvisazione totale. In questa ultima fatica discografica si presenta in quartetto con Eugenio Colombo (sax e flauti), Roberto Bellatalla (contrabbasso) e Giancarlo Schiaffini (trombone). L’Album, come evidenziato dallo stesso titolo, trae ispirazione dai quadri del pittore russo nell’intento di rievocare, attraverso le note, i tratti caratteristici di Kandinsky, dalle armonie dei colori alla vividezza del tocco; di qui le improvvisazioni che assumono titoli quali Giallo indiano, Rosso, Giallo 1, Giallo 2, Grigio scuro, Blu ecc. In buona sostanza la materia indagata a fondo dall’artista russo viene trasformata in materia sonora ora attraverso i solo del leader ora con le improvvisazioni collettive del gruppo che ci riportano ad atmosfere proprie degli anni ’70. Il tutto viene esplicitato ulteriormente da una frase dello stesso Nardi laddove afferma, cito testualmente, che “continuo a leggere e ad approfondire cose che riguardano l’arte tutta: so che non basta una vita a raccogliere tutti questi stimoli!”.

Novotono – “Wood (Wind) at Work” – Autrecords
Sotto l’insegna dei “Novotono” incontriamo il progetto dei fratelli Adalberto ed Andrea Ferrari con il nuovo album uscito qualche mese fa. Per chi non conosca ancora questi due artisti sottolineiamo che si tratta di improvvisatori di alto livello specialisti di tutta una serie di strumenti a fiato: clarinetto basso, alto sax e baritone sax Andrea, Eb tubax, clarinetto basso, clarinetto, alto sax, soprano sax, contrabbasso clarinetto Adalberto. Già la struttura stessa dell’organico fa capire come ci si trovi dinnanzi ad una musica particolare, spesso giocata sull’aspetto timbrico ma che non trascura il lato melodico né quello ritmico. I due musicisti, fidando su capacità improvvisative non comuni, affrontano terreni spesso disagevoli inerpicandosi su chine pericolose da cui comunque escono sempre bene. Così ad esempio è davvero esemplare il modo in cui i due riescono a rendere vivo il dialogo tra gli strumenti in “Melodie Per Un Burattino Di Legno”, dialogo che sembra non risentire della mancanza di parole per rendersi esplicito nella sua natura più profonda, mentre in “Gegheghè” si abbandona questa atmosfera intima per tuffarsi in un clima rockeggiante. Ma, come si accennava, non si trascura gli spetti ritmici e melodici: ecco, quindi, “Old Durmast” caratterizzato da un andamento ritmico inusuale, a tratti sghembo ma affascinante e “Contratuba Seguoia” con una bella linea melodica ben individuabile, interrotta quasi a metà del brano da un lacerto sonoro assolutamente straniante, dopo di che il pezzo si avvia a conclusione riprendendo l’originario schema. Bella la chiusura con “Wooden Toys” scritto con piacevole ironia. Insomma un album di non facile ascolto ma di sicuro interesse da cui si ricava una importante lezione: l’improvvisazione è stato, è e sarà un elemento imprescindibile della musica jazz.

Enrico Pieranunzi – “Time’s Passage” – abeat
Enrico Pieranunzi è uno di quei non molti musicisti che mai sbaglia un colpo. Ogni qualvolta decide di entrare in sala di incisione è perché ha qualcosa da dire e solitamente si tratta di qualcosa di interessante. Anche questo album registrato nel maggio del 2019, non sfugge alla regola. Il pianista-compositore romano si presenta, questa volta, alla testa di un quintetto con il grande batterista francese Dedè Ceccarelli, il compagno di tante avventure Luca Bulgarelli al contrabbasso e basso elettrico, e due ospiti di lusso quali Andrea Dulbecco al vibrafono e Simona Severini alla voce; in programma nove brani di cui sei scritti dallo stesso leader, in epoche assai diverse e due standard dovuti alle penne di David Mann e Bob Hillard l’uno, e di Arthur Hamilton e Johnny Mandel l’altro. Già dalle prime note della title track si intuisce quale sarà l’andamento dell’album: una musica oscillante tra il jazz da camera e lo swing canonico. Ecco così la delicata “Time’s Passage” impreziosita dai delicati volteggi di un Dulbecco particolarmente brillante cui fa seguito il “Valzer” espressamente dedicato ad Apollinaire con testo in francese. Con “Biff” le atmosfere virano decisamente verso uno swing più accentuato impreziosito dalle improvvisazioni dei quattro musicisti (esclusa la Severini che non figura in questo brano). E così fino all’ultimo brano, “Vacation from The Blues”. Una curiosità: nel disco c’è una doppia versione del brano “In the wee small hours of the morning” portata al successo da Frank Sinatra, una con l’ensemble e una piano e voce. Questa scelta piuttosto anomala, come spiega lo stesso Pieranunzi, è dovuta al fatto che la Severini “ha cantato così bene in entrambe le versioni di questo delicato standard americano, ha espresso il mood della canzone con tanto feeling e fascino narrativo che non me la sono sentita di togliere una delle due versioni. Meritano assolutamente di essere ascoltate entrambe”. E come dargli torto?

Dino Rubino – “Time of Silence” – Tuk Music
Dino Rubino è senza dubbio alcuno uno dei più fulgidi talenti emersi negli ultimi due decenni. Il trombettista, flicornista, pianista, compositore siciliano si è costruito una solida reputazione passo dopo passo, mai bruciando i tempi e mai accontentandosi dei traguardi raggiunti. Da un po’ di tempo incide per la Tuk Music e con l’etichetta di Paolo Fresu sta sfornando degli album davvero eccellenti. Quest’ultimo lo vede alla testa di un quartetto con Emanuele Cisi al sassofono tenore, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. In programma dieci brani tutti originali di Rubino che si esprime al pianoforte imbracciando il flicorno solo in un brano, “Settembre”, a chiusura del programma. Spesso ci si interroga circa la pertinenza del titolo dell’album con la musica proposta. Ebbene, in questo caso, il nesso c’è ed è evidente. In un momento in cui chi strepita più forte sembra avere la meglio (e non solo in musica) Rubino sceglie una strada diversa, una strada che privilegia la melodia che non deve essere gridata, basta sussurrarla. E’ una sorta di afflato poetico quello che scaturisce dalle note del siciliano, una musica raffinata, elegante ma tutt’altro che leziosa o banale. Prendendo spunto proprio dal silenzio quale dimensione non secondaria, Rubino guida il gruppo con un pianismo che si fonde senza alcuna forzatura con il resto del gruppo a conferma di una intesa completa. Si ascolti, ad esempio, in “Claire” il modo in cui, dopo un bell’assolo del leader, Cisi raccoglie il testimone per dialogare con il pianoforte in una sorta di botta e risposta affascinante. Così come in “Karol”, i due trovano modo di integrarsi alla perfezione evidenziando le rispettive potenzialità. Potenzialità che nel caso di Rubino sono particolarmente evidenziate in “Owl in the Moon” impreziosito da un assolo pianistico coinvolgente nella sua semplicità. Infine come non segnalare l’ultimo brano, il malinconico “Settembre”, in cui Rubino si esprime magnificamente al flicorno. Al di là della musica, bella la cover dovuta all’artista svizzero Stephan Schmitz.

Terje Rypdal – “Conspiracy” – ECM
Conosco personalmente Rypdal da più di 40 anni e fin dall’inizio l’ho considerato uno dei veri, pochi in novatori che hanno illuminato la scena jazzistica internazionale negli ultimi decenni. A mio avviso una delle caratteristiche che fanno davvero grande un musicista è la riconoscibilità: tu ascolti poche note di sassofono e riconosci Charlie Parker così come ti basta qualche accenno pianistico per individuare Keith Jarrett; egualmente sono sufficienti poche note di chitarra amplificate in un certo modo per individuare tutto un mondo: quello per l’appunto di Terje Rypdal. Registrato a Oslo nel febbraio dello scorso anno in quartetto con Ståle Storløkken keyboards, Endre Hareide Hallre basso elettrico e Pål Thowsen batteria, l’album si articola in sei composizioni del leader che attraversano un po’ tutto il suo spettro compositivo. L’aggancio a quel jazz-rock degli anni ‘70 e ’80 appare evidente ma il tutto viene reinterpretato alla luce di una modernità che si respira evidente mai dando l’impressione del deja-vu. Così se il brano d’apertura “As if the Ghost… was Me?” (“Come se fossi io, il fantasma?”) velato da sottile ironia ripercorre situazioni care al Rypdal che tutti conosciamo, ecco che già in “What was I thinking” ascoltiamo un chitarrista più pensoso, più intimista a dialogare con il basso. Più legata a stilemi rockeggianti la title-track (con evidente richiamo alla Mahavishnu Orchestra) mentre tutta la seconda parte del breve album (appena una trentina di minuti) presenta una musica più evocativa, descrittiva, melodica, oserei dire malinconica a dimostrazione di come, contrariamente a quanto asserito da qualche pur illustre collega, non si tratti di un album quasi routinario ma di una realizzazione fortemente pensata e voluta da una artista che non ha perso un’oncia della sua creatività. Per concludere si ascolti con attenzione la splendida ballad “By His Lonesome”.

Dino Saluzzi – “Albores” – ECM
Tutte le volte che ho ascoltato Dino Saluzzi dal vivo ne ho sempre ricavato una forte iniezione di energia, una carica di vitalità che non sembra risentire del trascorrere del tempo. Ad onta dei suoi ottantacinque anni Saluzzi è sempre in piena attività, tanto che da poco è uscito questo suo nuovo disco. Album tra l’altro assai particolare in quanto dopo più di trent’anni il maestro argentino torna ad incidere in totale solitudine, con nove sue composizioni. Ed è ancora una volta un piccolo capolavoro. Saluzzi prosegue lungo il suo cammino, con la sua musica che è allo stesso tempo astrazione allo stato puro e narrazione di una memoria che si perde nel tempo. Di qui i riferimenti a persone a lui care e a paesaggi e scorci di natura che fanno parte del suo essere. Il tutto eseguito con uno strumento, il bandoneon, che egli ha portato a livelli di espressività mai raggiunti fino ad oggi. Certo c’è sempre Astor Piazzolla ma il linguaggio adoperato dai due è completamente diverso sì da renderne impossibile un qualsivoglia raffronto. Ma torniamo ad “Albores” che si apre con un omaggio al compositore georgiano Giya Kancheli (“Adios Maestro Kancheli”) la cui musica ha già inciso insieme al celebre violinista lettone Gidon Kremer. Immancabili i riferimenti alla musica andina che viene trasposta in un universo sonoro senza tempo (“La cruz del Sur”) così come inevitabile, lo struggente ricordo del padre (“Don Caye – Variaciones sobre obra de Cayetano Saluzzi”). Senza trascurare i rimandi ad una Buenos Aires d’altri tempi: si ascolti “Segun me cuenta la vida” una milonga ma nello stile di Saluzzi e il successivo “Intimo”. L’album si conclude con “Ofrenda – Toccata”, un brano di rara suggestione in cui misticismo e devozione coesistono a conclusione di un viaggio intriso di nostalgia, bellezza, corporeità e spiritualità a cui tutti noi siamo invitati.

The Auanders – “Text (us)” – Auand
Era il 2011 quando su un palco a New York, per festeggiare i dieci anni della Auand, prese forma l’idea di formare una sorta di all-star costituita da artisti dell’etichetta pugliese. Nel corso degli anni il progetto è stato presentato in molte città con organici differenti mentre dal punto di vista discografico siamo adesso al secondo capitolo. Questa volta il lavoro è frutto di una residenza di una settimana ad Arezzo presso il Cicaleto, con un programma di 8 brani originali commissionati ad hoc ad alcuni dei musicisti più attivi che collaborano con la Auand. Ecco quindi un tentetto base – Mirko Cisilino tromba e corno francese), Michele Tino (sax alto e flauto), Francesco Panconesi (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono e clarinetto basso), Filippo Vignato (trombone), Glauco Benedetti (tuba), Francesco Diodati (chitarra), Enrico Zanisi (pianoforte, rhodes, synth e glockenspiel), Francesco Ponticelli (basso e basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria, percussioni e voce) cui si affiancano in veste di ospiti Sara Battaglini (voce), Francesco Bearzatti (clarinetto), Stefano Calderano (chitarra), Simone Graziano (rhodes) ed Evita Polidoro (voce). Il titolo – Text(Us)(“Scrivici un messaggio”) – contiene di per sé una della carte vincenti dell’etichetta di Bisceglie, vale a dire la voglia di entrare in contatto e in empatia con l’ascoltatore . Dal punto di vista prettamente musicale l’album risulta interessante soprattutto per le modalità di esecuzione: il gruppo, pur essendo numeroso, si muove con grande scioltezza evidenziando una notevole intesa sia nelle parti d’assieme sia nei momenti in cui vengono lasciati spazi ai molti solisti. Il tutto reso possibile da centrati arrangiamenti attraverso cui gli artisti trovano, per l’appunto, modo di esprimere le proprie potenzialità. Notevoli, da questo punto di vista, le sortite, tanto per citare qualche nome, di Francesco Bearzatti in “Song to the Unborn”, Filippo Vignato in “One Week”, oltre alle splendide voci di Sara Battaglini e Evita Polidoro.

Tingvall Trio – “Dance” – Skip Records
Martin Tingvall (pianoforte), Omar Rodriguez Calvo (basso) e Jürgen Spiegel (batteria) sono i protagonisti di questo convincente album registrato per la “Skip Records”. La formazione ha oramai acquisito una solida reputazione confermata da quest’ultima fatica discografica. Tingvall e compagni prendono per mano l’ascoltatore e lo conducono in un immaginario viaggio attorno al mondo a ritmo dei vari stili di danza. Il tutto interpretato sempre con pertinenza e alla luce di un’empatia che il trio ha evidenziato in tutti gli album fin qui incisi. Quest’ultimo “Dance” è declinato attraverso tredici brani tutti scritti dal leader e arrangiati collegialmente dal trio in modo davvero assai curato come si evidenzia sia dalle intro sia dalle chiusure dei vari brani. Si parte con un esplicito richiamo al Giappone cui fa seguito la title track caratterizzata da una suadente linea melodica ben disegnata dal leader con i tamburi a sottolineare un clima arcaico, senza tempo. In “Spanish Swing”, “Cuban SMS” e “Bolero” è l’anima latina a prevalere grazie ad una caratterizzazione ritmica particolarmente centrata in “Bolero” mentre in “Arabic Slow Dance” si avvertono i profumi dell’Oriente con una significativa introduzione di Calvo impegnato poi in un fitto dialogo con il leader per tutta la durata del brano. “Ya Man” tratteggia un’atmosfera diversa dal resto dell’album in quanto siamo in pieno clima reggae con una forte tappeto ritmico intessuto da Calvo e Spiegel nel cui ambito si inserisce il pianismo di Tingvall. Se questi sono i brani in cui maggiormente si avverte il sapore della “danza” non mancano mezzi più meditativi e introspettivi come il conclusivo “In memory…”.
Oltre al CD e all’uscita digitale, sarà presto disponibile anche una stampa vinile da 180 gr.

Dominik Wania – “Lonely Shadows” – ECM
Dopo i successi ottenuti con il Maciej Obara Quartet (“Unloved”, “Three crowns”, ambedue targati ECM)), il pianista polacco Dominik Wania si misura con un ‘piano solo’ registrato nel novembre del 2019 a Lugano, ma che comincia a prendere forma già alcuni anni addietro dopo le registrazioni del citato “Unloved”. Per quanti seguono il jazz con buona attenzione non sarà sfuggito il valore di questo pianista che coniuga un background di tipo classico con capacità improvvisative proprie del jazz-man. Forte di queste caratteristiche Wania affronta la prova più difficile e importante della sua carriera e ne esce a fronte alta. In undici brani tutti di sua composizione e tutti affidati all’improvvisazione del momento, il pianista ci offre una sorta di summa delle sue capacità compositive e interpretative. La sua musica, tutt’altro che di facile ascolto, presenta evidenti richiami a Satie, Ravel e Messiaen; il tocco è leggero, fluido; grande l’attenzione per il dettaglio acustico; solida la concezione architettonica delle composizioni nonostante sia praticamente impossibile individuare chiare linee melodiche o qualsivoglia pattern ritmico. Insomma, come già accennato, siamo nel campo dell’improvvisazione totale che l’artista maneggia con disinvoltura e con originalità mai proponendo qualcosa di banale. Tra i vari brani da segnalare “AG76” un omaggio all’artista polacco Zdzisław Beksiński (1929-2005) le cui distopiche e surreali immagini hanno fortemente influenzato Wania il quale per eseguire il brano ha ricercato una timbrica delicata e nebbiosa, mentre “Indifferent Attitude” si differenzia dagli altri pezzi per essere molto vicino ad atmsfere tipiche del free jazz storico.

Marcin Wasilewski Trio, Joe Lovano – “Arctic Riff” – ECM
Incontro al vertice tra uno dei più grandi sassofonisti degli ultimi decenni e un trio polacco di tutto rispetto guidato dal pianista Marcin Wasilewski e completato da Slawomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michail Miskiewicz alla batteria. Quasi inutile sottolineare la grande versatilità di Lovano che riesce a mantenere intatta la propria individualità indipendentemente dal contesto in cui si trova ad operare. Dal canto suo il trio polacco conferma quanto di buono aveva già evidenziato anche nelle collaborazioni con il trombettista anch’egli polacco Tomasz Stanko. In repertorio composizioni dei due leader, un brano di Carla Bley e uno di Joe Lovano cui si aggiungono alcune improvvisazioni collettive. Il quartetto si muove, quindi, su coordinate piuttosto differenziate. Così, ad esempio, nella doppia versione di “Vashkar” di Carla Bley mentre nella prima dopo una breve introduzione di Lovano, Wasilewski si impossessa del tema per svilupparlo alla sua maniera dopo di che interviene ancora Lovano il tutto mantenendosi nei limiti di una visitazione piuttosto letterale, nella seconda prevale un maggior spirito improvvisativo. Ben strutturate le melodie del pianista che si avvalgono di un Lovano in gran spolvero specie in “Fading Sorrow” mentre in “L’Amour Fou” è il batterista a mettersi in particolare luce; splendido il brano finale, “Old Hat”, una suggestiva ballad impreziosita dagli assolo dei due leader che si iscrive di diritto nelle grandi tradizioni del jazz. Nelle improvvisazioni collettive è tutto il quartetto a marciare all’unisono grazie soprattutto al sassofonista che, come si accennava, è riuscito ad inserirsi perfettamente nel già rodato meccanismo del trio polacco.

Paolo Fresu, Ramberto Ciammarughi, Fabrizio Bosso special guest del Norma Ensemble in concerto per la Rassegna Around Jazz al Parco Archeologico dell’Appia Antica

Cresce l’entusiasmo per la Rassegna musicale “Dal Tramonto all’Appia – Around Jazz” promossa dal Parco Archeologico dell’Appia Antica – Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo con il sostegno della Regione Lazio e la direzione artistica di Fabio Giacchetta.
Dopo il sold out e il pienone delle scorse settimane, sono molto attesi i quattro concerti di venerdì 25 e sabato 26 settembre al Casale di Santa Maria Nova nel complesso archeologico della Villa dei Quintili (in via Appia Antica 251 – Maps https://maps.app.goo.gl/XQQfntJRQ7zSpB3h6), che avranno come grandi protagonisti il noto trombettista Fabrizio Bosso ospite del Norma Ensemble e l’incredibile duo, una novità assoluta, formato celebre trombettista Paolo Fresu e da uno dei grandi geni della musica italiana, Ramberto Ciammarughi.

Venerdì 25 settembre si terrà il primo concerto della Rassegna ambientato al Casale di Santa Maria Nova nel complesso della Villa dei Quintili, con il Norma Ensemble special guest Fabrizio Bosso. L’evento originariamente era previsto presso il Mausoleo di Cecilia Metella, ma date le previsioni meteo riportanti maltempo per tutto il weekend, l’organizzazione ha predisposto una speciale copertura del sito di Santa Maria Nova che permetterà un regolare svolgimento di tutti i prossimi concerti in programma.
I due live – il primo alle ore 18.30 e la replica alle 20.30 – segnano un incontro particolarmente interessante tra uno dei più amati e importanti musicisti del panorama italiano e internazionale, Fabrizio Bosso, e il jazz dalla spiccata matrice europea del Norma Ensemble, in cui si fondono le diverse identità culturali e creative dei quattro affermati componenti: il sassofonista Marcello Allulli, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Valerio Vantaggio. Ad Around Jazz reinterpreteranno brani originali racchiusi nell’album “Revelation”, pubblicato dall’Ensemble nella primavera 2020.

Sabato 26 settembre uno degli eventi clou della manifestazione, sempre presso il Casale di Santa Maria Nova con la formula del doppio concerto alle 18.30 e alle 20.30: protagonista l’attesissimo duo del celebre trombettista Paolo Fresu – uno dei massimi esponenti del jazz nazionale e internazionale – insieme ad uno dei grandi geni della musica italiana, Ramberto Ciammarughi. Un incontro, caldeggiato dagli amanti del jazz, che fonde due raffinate anime arrivando a toccare livelli compositivi unici. Fresu ha all’attivo con una moltitudine di progetti che lo vedono impegnato in centinaia di concerti all’anno in tutto il mondo. Ha registrato oltre 450 dischi di cui circa 90 a proprio nome spesso lavorando con progetti ‘misti’ come jazz-musica etnica, world music, musica contemporanea, musica leggera, musica antica, etc, collaborando tra gli altri con M. Nyman, E. Parker, Farafina, O. Vanoni, Alice, T. Gurtu, G. Schüller, Negramaro.
Ramberto Ciammarughi è una delle personalità più creative e profonde della musica italiana. Ha collaborato con Randy Brecker, Billy Cobham, Steve Grossman, John Clark, Dee Dee Bridgewater, Vinnie Colaiuta, Jimmie Owens ed altri. Nel 2004 è presente nel quartetto di Miroslav Vitous insieme a B. Mintzer, A. Nussbaum, D. Gottlieb, M. Giammarco. Ha suonato più volte all’estero ed è un pregiato autore per radio, cinema e televisione. Molto amato come mentore e didatta, tiene da anni richiestissimi corsi e seminari in tutta Italia.
Nel live, brani originali reinterpretati con quella poesia che testimonia la fecondità e l’alto valore di questo incontro tra due grandi artisti.

Venerdì 2 ottobre dalle 19.00 protagonista il Blue Note Quartet feat. Daniele Scannapieco, con il grande e carismatico batterista Gegè Munari insieme al pianista Domenico Sanna, al trombettista Francesco Lento e al contrabbassista Vincenzo Florio. La tradizione dello swing e del bebop sono le linee guida di questo gruppo di star del jazz italiano, perfettamente condotte dal maestro di lungo corso Gegè Munari, memoria storica del jazz italiano che non poteva mancare in questa rassegna.
A seguire, una grande jam session con alcuni dei musicisti della rassegna e tanti ospiti: un evento speciale dedicato a Marco Massa, ideatore della rassegna scomparso prematuramente. Sarà una delle serate più emozionanti di “Around Jazz”, all’insegna della grande musica e dei grandi valori, per ricordarlo insieme a tutti gli amici e agli artisti che hanno avuto l’onore di conoscerlo.

Un messaggio di speranza che guarda alle sonorità del futuro nei concerti finali della Rassegna, sabato 3 ottobre: alle 18.30 spazio alla sperimentazione con il duo della cantante Alice Ricciardi e del pianista Pietro Lussu, compagni nel progetto e nella vita, con le sonorità di ricerca del loro album “Catching a Falling Star” in cui si ritrova tutta la sintonia umana e musicale della coppia di artisti. Alle 20.30 protagonista l’Hammond Trio formato da alcuni tra i più interessanti musicisti del panorama jazz italiano: l’hammondista Leonardo Corradi, il contrabbassista Luca Fattorini e il batterista Marco Valeri. Una band dal grande interplay che si fonda intorno all’intrigante sound dell’organo Hammond, terreno fertile per l’improvvisazione. La loro è una musica che vuole tracciare una strada, così come la via Appia Antica su cui si svolge la manifestazione è traccia del mondo antico, che ancora oggi ci permette di percorrere un viaggio tra memoria e presente.

L’ingresso ai concerti è acquistabile in prevendita su TICKET ITALIA (https://ticketitalia.com/concerti/around-jazz). L’organizzazione metterà comunque a disposizione un dispositivo elettronico sul luogo dell’evento per consentire un eventuale acquisto in autonomia dei biglietti fino a qualche minuto prima dell’inizio concerto. Per favorire i più giovani e gli studenti iscritti a scuole musicali il Parco Archeologico dell’Appia Antica riserva un ingresso ridotto a €6 per gli under 18 e per gli iscritti a Conservatori statali e Istituti Superiori di Studi Musicali.

Il Casale di Santa Maria Nova, sito nell’area archeologica della Villa dei Quintili in via Appia Antica 251 (Maps https://maps.app.goo.gl/XQQfntJRQ7zSpB3h6), è raggiungibile percorrendo la via Appia Antica da via Erode Attico – via di Tor Carbone in direzione GRA. L’ingresso si trova sulla sinistra dell’Appia Antica, dopo circa 500 metri dall’incrocio con via Erode Attico – via di Tor Carbone. Si segnala la presenza di tratti di basolato romano. In alternativa il Casale è raggiungibile dalla via Appia Pignatelli, prendendo la strada sterrata al civico 454.
Per chi viene dall’Appia Nuova, la strada si trova a circa 200 metri dall’incrocio con l’Appia Nuova. Per chi percorre l’Appia Pignatelli da via dell’Almone, la strada si trova subito dopo il vivaio Flower’s village. Si segnala che il fondo stradale è molto dissestato. Alla fine della strada sterrata, in prossimità del Casale, è presente un’area demaniale nella quale in occasione degli eventi sarà possibile parcheggiare il proprio automezzo, per la sola durata del concerto.

Biglietto unico €12
Ridotti €6 (under 18 e iscritti a Conservatori statali di musica e Istituti Superiori di Studi Musicali)
Carnet 5 concerti intero €50 – ridotto €25
Carnet 2 concerti per le date con due spettacoli intero €20 – ridotto €10.

L’ingresso è subordinato alla misurazione della temperatura corporea, che dovrà essere inferiore a 37.5 °C. Per accedere alle location è necessario indossare la mascherina, coprendo naso e bocca e mantenere una adeguata distanza interpersonale.

Info e contatti
www.parcoarcheologicoappiaantica.it
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Ufficio Stampa “Around Jazz”
Fiorenza Gherardi De Candei
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Ufficio comunicazione e promozione
Parco Archeologico Appia Antica
Lorenza Campanella
tel.+39 333.6157024
pa-appia.comunicazione@beniculturali.it

Successo per la rassegna “Around Jazz” al Parco Archeologico dell’Appia Antica. Sul palco arriva il travolgente Perfect Trio di Roberto Gatto.

Successo di pubblico e grande emozione nello scenario mozzafiato del Parco Archeologico dell’Appia Antica per la Rassegna musicale “Dal Tramonto all’Appia. Around Jazz”, promossa dal Parco Archeologico dell’Appia Antica – Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo con il sostegno della Regione Lazio e la direzione artistica di Fabio Giacchetta.

Vincente la formula che unisce location uniche e suggestive con la Musica dei grandi artisti del panorama jazz nazionale e internazionale.
Le due serate, che hanno sfiorato il sold out, sono state impreziosite dalla presenza di un pubblico eterogeneo, appassionato, attento e coinvolto dall’atmosfera poetica del luogo: il Mausoleo di Cecilia Metella – Castrum Caetani e la Chiesa di San Nicola.
Ad aver inaugurato la Rassegna venerdì 11 settembre è stata una prima assoluta: il progetto “Changes” del talentuoso batterista e compositore Nicola Angelucci, accompagnato dal noto clarinettista Gabriele Mirabassi, dalla pianista, cantante e songwriter tedesca Olivia Trummer e dall’eclettico contrabbassista Luca Bulgarelli. Grande entusiasmo per i due concerto del sabato “Atomic Bass” di Giuseppe Bassi dedicato alla popolazione di Fukushima, featuring il grande sassofonista argentino Javier Girotto, e il trio del raffinato pianista Domenico Sanna che ha trasportato gli spettatori nelle atmosfere newyorkesi insieme a due fuoriclasse del jazz mondiale, Greg Hutchinson e Ameen Saleem.
Sull’onda di questo grande risultato, è attesissimo sabato 19 settembre alle ore 19 il travolgente Perfect Trio di uno dei musicisti più rappresentativi della scena italiana, il batterista e compositore Roberto Gatto, che porterà sullo stesso palco grandi energie, groove, elettronica e nuove sonorità esplorando la grande musica pop italiana e internazionale in una chiave completamente diversa e con un approccio libero da dogmi musicali, dimostrando la grandissima capacità improvvisativa e la perfezione dell’imprevisto. Da qui, “Perfect trio”. Due i compagni di palco: Alfonso Santimone, uno dei più intraprendenti e creativi musicisti in attività impegnato al pianoforte, al Fender Rhodes e ai live electronics, e Pierpaolo Ranieri, uno straordinario strumentista e attento conoscitore delle nuove tendenze. Il gruppo ha all’attivo un album dal titolo “Starship for lovers”, edito dall’etichetta Parco della Musica Records. Prevendita biglietti su https://ticketitalia.com/concerti/around-jazz
Previsto per il 18 settembre e spostato a sabato 26 settembre, nonché primo concerto al Casale di Santa Maria Nova nell’area archeologica della Villa dei Quintili è uno degli eventi clou della Rassegna, con l’inedito duo del trombettista Paolo Fresu, uno dei massimi esponenti del jazz nazionale e internazionale, e del raffinato pianista e compositore Ramberto Ciammarughi, che insieme arrivano a toccare livelli compositivi unici come uniche sono le loro due anime musicali. Questo incontro sancisce una nuova collaborazione tra due fra i migliori artisti italiani, riconosciuti a livello internazionale come grandi colonne portanti della nostra musica. Due i set: il primo alle 18.30 e la replica alle 20.30.
Tre opzioni disponibili per coloro che hanno acquistato biglietti per il concerto del 18 settembre:
– validità: i biglietti sono automaticamente validi per la data del 26 settembre, nel corrispondente orario scelto. Gli spettatori potranno presentarsi direttamente all’entrata del concerto con il vecchio biglietto acquistato, senza necessità di ulteriori comunicazioni.
– rimborso: possibilità di rimborso direttamente con Ticket Italia scrivendo alla mail info@ticketitalia.com o al tel. 0743.222889.
– cambio concerto: possibilità di cambiare il biglietto acquistato per assistere ad un altro concerto della Rassegna, compatibilmente con le disponibilità di posti, scrivendo alla mail info@ticketitalia.com o al tel. 0743.222889.
Attesissimo venerdì 25 settembre l’arrivo del celebre trombettista Fabrizio Bosso. Anche in questo caso doppio concerto al Mausoleo di Cecilia Metella – il primo alle 18.30 e la replica alle 20.30 – per un incontro particolarmente interessante tra il poliedrico e virtuoso strumentista e il jazz dalla spiccata matrice europea del Norma Ensemble, in cui si fondono le diverse identità culturali e le personalità dei quattro componenti: il sassofonista Marcello Allulli, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Valerio Vantaggio.
Venerdì 2 ottobre dalle 19.00 salirà sul palco allestito al Casale di Santa Maria Nova il Blue Note Quartet feat. Daniele Scannapieco, con il grande e carismatico batterista Gegè Munari insieme al pianista Domenico Sanna, al trombettista Francesco Lento e al contrabbassista Vincenzo Florio. La tradizione dello swing e del bebop sono le linee guida di questo gruppo di star del jazz italiano, perfettamente condotte dal maestro di lungo corso Gegè Munari, memoria storica del jazz italiano che non poteva mancare in questa rassegna.
A seguire, una grande jam session con alcuni dei musicisti della rassegna e tanti ospiti: un evento speciale dedicato a Marco Massa, ideatore della rassegna scomparso prematuramente. Sarà una delle serate più emozionanti di “Around Jazz”, all’insegna della grande musica e dei grandi valori, per ricordarlo insieme a tutti gli amici e agli artisti che hanno avuto l’onore di conoscerlo.
Un messaggio di speranza che guarda alle sonorità del futuro nel concerto finale della rassegna, sabato 3 ottobre, sul palco della Villa dei Quintili. Alle 18.30 spazio alla sperimentazione con il duo della cantante Alice Ricciardi e del pianista Pietro Lussu, compagni nel progetto e nella vita, con le sonorità di ricerca del loro album “Catching a Falling Star” in cui si ritrova tutta la sintonia umana e musicale della coppia di artisti. Alle 20.30 protagonista l’Hammond Trio formato da alcuni tra i più interessanti musicisti del panorama jazz italiano: l’hammondista Leonardo Corradi, il contrabbassista Luca Fattorini e il batterista Marco Valeri. Una band dal grande interplay che si fonda intorno all’intrigante sound dell’organo Hammond, terreno fertile per l’improvvisazione.
La loro è una musica che vuole tracciare una strada, così come la via Appia Antica su cui si svolge la manifestazione è traccia del mondo antico, che ancora oggi ci permette di percorrere un viaggio tra memoria e presente.
L’ingresso ai concerti è acquistabile esclusivamente in prevendita su TICKET ITALIA (https://ticketitalia.com/concerti/around-jazz). L’organizzazione metterà comunque a disposizione un dispositivo elettronico sul luogo dell’evento per consentire un eventuale acquisto in autonomia dei biglietti fino a qualche minuto prima dell’inizio concerto. Per favorire i più giovani e gli studenti iscritti a scuole musicali il Parco Archeologico dell’Appia Antica riserva un ingresso ridotto a €6 per gli under 18 e per gli iscritti a Conservatori statali e Istituti Superiori di Studi Musicali.
Biglietto unico €12
Ridotti €6 (under 18 e iscritti a Conservatori statali di musica e Istituti Superiori di Studi Musicali)
Carnet 10 concerti intero €90 – ridotto €50
Carnet 5 concerti intero €50 – ridotto €25
Carnet 2 concerti per le date con due spettacoli intero €20 – ridotto €10.

L’ingresso è subordinato alla misurazione della temperatura corporea, che dovrà essere inferiore a 37.5 °C. Per accedere alle location è necessario indossare la mascherina, coprendo naso e bocca e mantenere una adeguata distanza interpersonale.
Come arrivare
Mausoleo di Cecilia Metella – Castrum Caetani in via Appia Antica 161: raggiungibile in auto o con la Metro A (Arco di Travertino) e poi autobus 660 oppure 118 dal centro di Roma.
Casale di Santa Maria Nova nell’area archeologica della Villa dei Quintili in via Appia Antica 251: raggiungibile in auto o con la Metro A (Colli Albani) e poi autobus 664 oppure 118 dal centro di Roma.

Info e contatti
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Ufficio Stampa “Around Jazz”
Fiorenza Gherardi De Candei
tel. +39 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

Ufficio comunicazione e promozione
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Al Parco Archeologico dell’Appia Antica il grande jazz tra nomi internazionali e sperimentazione con la rassegna “Dal Tramonto all’Appia: Around Jazz”

Dall’11 settembre al 3 ottobre 2020 l’Appia Antica sarà la direttrice lungo la quale si snoderanno, al crepuscolo e nel silenzio della campagna romana, i dieci appuntamenti della rassegna musicale “Dal Tramonto all’Appia. Around Jazz”. Nel solco di una tradizione ormai consolidata da diversi anni, i siti del Parco Archeologico dell’Appia Antica saranno un’occasione unica per immergersi nella storia e nella bellezza del nostro patrimonio culturale attraverso la magia del jazz, interpretata da grandi protagonisti tra cui Paolo Fresu, Fabrizio Bosso, Gabriele Mirabassi, Roberto Gatto, Javier Girotto e Ramberto Ciammarughi, con ampio spazio a progetti in prima assoluta e alla contemporaneità.
Luoghi di grande suggestione, come il Mausoleo di Cecilia Metella e il Castrum Caetani, il Casale di Santa Maria Nova e l’area archeologica della Villa dei Quintili, ospiteranno all’aperto, e in piena sicurezza, un articolato programma di concerti concepito come un cammino, un viaggio musicale attraverso il tempo.
La rassegna, promossa dal Parco Archeologico dell’Appia Antica – Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, con il sostegno della Regione Lazio, nasce da un’idea di Marco Massa, con la direzione artistica di Fabio Giacchetta, produttore musicale e organizzatore di concerti con artisti di levatura internazionale.

I CONCERTI
I 10 concerti in programma si svolgeranno nel corso di otto appuntamenti in luoghi di grande fascino: il Mausoleo di Cecilia Metella, con l’imponente Castrum Caetani e l’affascinante chiesa di San Nicola, accessibili da via Appia Antica 161 ed il Casale di Santa Maria Nova nell’area archeologica della Villa dei Quintili, con ingresso da via Appia Antica 251.
Si inizia venerdì 11 settembre alle ore 19.00 con una prima assoluta sul palco eccezionalmente allestito nello spazio antistante il Mausoleo di Cecilia Metella: si tratta del progetto “Changes” del Nicola Angelucci Quartet special guest Gabriele Mirabassi, internazionalmente riconosciuto come uno dei migliori clarinettisti al mondo. Musica originale alla ricerca di nuovi spazi che il jazz apre unendo vari stili e pensieri, grazie anche alla grande sensibilità musicale di Mirabassi che incontra l’idea ritmico-armonica di Nicola Angelucci, batterista poliedrico che cura gli arrangiamenti a quattro mani con la pianista, cantante e compositrice tedesca Olivia Trummer. Completa la formazione il contrabbassista Luca Bulgarelli.
Sullo stesso palco, sabato 12 settembre due concerti. Alle 18.30 un progetto ispirato da un evento terribile – l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima in Giappone, nel 2011 – che nell’idea e nell’immaginario di Giuseppe Bassi, contrabbassista di grandissima esperienza e sensibilità sociale, vuole rappresentare la capacità dell’essere umano di adattarsi a tutte le situazioni: la musica di “Atomic Bass” con special guest il noto sassofonista argentino Javier Girotto, narra l’allontanamento della popolazione di Fukushima dalle abitazioni colpite dalle radiazioni, fino al ritorno – soprattutto delle generazioni più anziane – scegliendo di convivere con la radioattività della zona pur di non rinunciare a un ritorno alla “normalità” e alle proprie tradizioni. Un progetto toccante, divenuto un album, che Giuseppe Bassi ha realizzato in Giappone insieme ad una giovane e talentuosa pianista, Sumire Kuribaiashi, che a causa dell’emergenza sanitaria in corso non potrà essere ospite di questa rassegna. “Atomic Bass” è divenuto anche un documentario girato in diretta nelle zone colpite, che dimostra come la musica sia un supporto e un traino per ritornare alla vita. La formazione sarà completata dai talentuosi Seby Burgio al pianoforte e Giovanni Scasciamacchia alla batteria.
Sempre sabato 12 settembre alle 20.30, un live con un trio internazionale porterà il pubblico direttamente a New York, dove il jazz è linguaggio e dove la musica fa da cornice al pulsare metropolitano di ogni attimo, grazie alla ritmica del contrabbassista Ameen Saleem, del batterista Greg Hutchinson, insieme al pianista Domenico Sanna che ha sviluppato gran parte del suo percorso artistico tra i grovigli musicali della Grande Mela. Il viaggio nelle pulsazioni di un jazz moderno e attuale si percepisce pienamente grazie al grande interplay fra i tre strumentisti e al linguaggio “suonato” nei club e nelle sale concerto della patria del jazz.
Altra anteprima assoluta, venerdì 18 settembre, per uno degli eventi più attesi di questa rassegna: l’inedito duo del trombettista Paolo Fresu, uno dei massimi esponenti del jazz nazionale e internazionale, e del raffinato pianista e compositore Ramberto Ciammarughi, che insieme arrivano a toccare livelli compositivi unici come uniche sono le loro due anime musicali. Questo incontro sancisce una nuova collaborazione tra due fra i migliori artisti italiani, riconosciuti a livello internazionale come grandi colonne portanti della nostra musica. Il duo terrà due concerti, il primo alle 18.30 e la replica alle 20.30, sul palco del Mausoleo di Cecilia Metella.
Per il quinto concerto della rassegna, sabato 19 settembre, non poteva mancare sul palco di Cecilia Metella il travolgente Perfect Trio di Roberto Gatto, in cui il grande batterista romano -perfettamente supportato dalla ritmica di Pierpaolo Ranieri al basso elettrico e di Alfonso Santimone al pianoforte e synth – esplora la grande musica pop italiana e internazionale in una chiave completamente diversa e con un approccio libero da dogmi musicali, dimostrando la grandissima capacità improvvisativa raggiunta e la perfezione dell’imprevisto. Da qui, “Perfect trio”.
Attesissimo venerdì 25 settembre l’arrivo del celebre trombettista Fabrizio Bosso. Anche in questo caso doppio concerto al Mausoleo di Cecilia Metella – il primo alle 18.30 e la replica alle 20.30 – per un incontro particolarmente interessante tra il poliedrico e virtuoso strumentista e il jazz dalla spiccata matrice europea del Norma Ensemble, in cui si fondono le diverse identità culturali e le personalità dei quattro componenti: il sassofonista Marcello Allulli, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Valerio Vantaggio.
Sabato 26 settembre si terrà il primo dei tre concerti al Casale di Santa Maria Nova nell’area archeologica della Villa dei Quintili: alle 18.30 spazio alla sperimentazione con il duo della cantante Alice Ricciardi e del pianista Pietro Lussu, compagni nel progetto e nella vita, con le sonorità di ricerca del loro album “Catching a Falling Star” in cui si ritrova tutta la sintonia umana e musicale della coppia di artisti. Alle 20.30 salirà sul palco il Blue Note Quartet feat. Daniele Scannapieco, con il grande e carismatico batterista Gegè Munari insieme al pianista Domenico Sanna, al trombettista Francesco Lento e al contrabbassista Vincenzo Florio. La tradizione dello swing e del bebop sono le linee guida di questo gruppo di star del jazz italiano, perfettamente condotte dal maestro di lungo corso Gegè Munari, memoria storica del jazz italiano che non poteva mancare in questa rassegna.
Venerdì 2 ottobre dalle 19.00, il Casale di Santa Maria Nova – nell’area archeologica della Villa del Quintili – ospiterà una grande jam session con alcuni dei musicisti della rassegna e tanti ospiti: un evento speciale dedicato a Marco Massa, ideatore della rassegna scomparso prematuramente. Sarà una delle serate più emozionanti di “Around Jazz”, all’insegna della grande musica e dei grandi valori, per ricordarlo insieme a tutti gli amici e agli artisti che hanno avuto l’onore di conoscerlo.
Un messaggio di speranza che guarda alle sonorità del futuro nel concerto finale della rassegna, sabato 3 ottobre, sul palco della Villa dei Quintili. Protagonista l’Hammond Trio formato da alcuni tra i più interessanti musicisti del panorama jazz italiano: l’hammondista Leonardo Corradi, il contrabbassista Luca Fattorini e il batterista Marco Valeri. Una band dal grande interplay che si fonda intorno all’intrigante sound dell’organo Hammond, terreno fertile per l’improvvisazione.
La loro è una musica che vuole tracciare una strada, così come la via Appia Antica su cui si svolge la manifestazione è traccia del mondo antico, che ancora oggi ci permette di percorrere un viaggio tra memoria e presente.
In caso di maltempo che renda impossibile lo svolgimento dell’evento, il live sarà rinviato alla domenica seguente.
La rassegna
“Around Jazz” nasce da una idea di Marco Massa, dal suo amore per il jazz e dal suo legame con l’Appia Antica. La rassegna si inserisce in una speciale edizione del festival Dal Tramonto all’Appia che il Parco Archeologico ha voluto riproporre anche quest’anno nonostante la difficile situazione internazionale. Dopo la scomparsa dell’amico la direzione artistica è stata affidata a Fabio Giacchetta – profondo conoscitore del jazz, produttore musicale e organizzatore da oltre 30 anni di concerti con artisti internazionali – che con Marco Massa ha ideato Around Jazz. A lui è dedicato l’evento del 2 ottobre con una grande jam session che ospiterà tanti musicisti a lui cari: “Ho pensato a questo programma come se fosse un cammino così come è cammino la meravigliosa Appia Antica e la musica come metafora di un continuo viaggio attraverso il tempo. Proprio per questo il programma si sviluppa in varie direzioni musicali, con filo conduttore il jazz, musica in continua evoluzione e in continua ricerca di se stessa.”

L’ingresso ai concerti è acquistabile esclusivamente in prevendita su TICKET ITALIA (https://ticketitalia.com/concerti/around-jazz). L’organizzazione metterà comunque a disposizione un dispositivo elettronico sul luogo dell’evento per consentire un eventuale acquisto in autonomia dei biglietti fino a qualche minuto prima dell’inizio concerto. Per favorire i più giovani e gli studenti iscritti a scuole musicali il Parco Archeologico dell’Appia Antica riserva un ingresso ridotto a €6 per gli under 18 e per gli iscritti a Conservatori statali e Istituti Superiori di Studi Musicali.

Biglietto unico €12
Ridotti €6 (under 18 e iscritti a Conservatori statali di musica e Istituti Superiori di Studi Musicali)
Carnet 10 concerti intero €90 – ridotto €50
Carnet 5 concerti intero €50 – ridotto €25
Carnet 2 concerti per le date con due spettacoli intero €20 – ridotto €10.

L’ingresso è subordinato alla misurazione della temperatura corporea, che dovrà essere inferiore a 37.5 °C. Per accedere alle location è necessario indossare la mascherina, coprendo naso e bocca e mantenere una adeguata distanza interpersonale.

Come arrivare
Mausoleo di Cecilia Metella – Castrum Caetani in via Appia Antica 161: raggiungibile in auto o con la Metro A (Arco di Travertino) e poi autobus 660 oppure 118 dal centro di Roma.
Casale di Santa Maria Nova nell’area archeologica della Villa dei Quintili in via Appia Antica 251: raggiungibile in auto o con la Metro A (Colli Albani) e poi autobus 664 oppure 118 dal centro di Roma.

Info e contatti
www.parcoarcheologicoappiaantica.it
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TWITTER https://twitter.com/archeoappia

Ufficio Stampa “Around Jazz”
Fiorenza Gherardi De Candei
tel. +39 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

Ufficio comunicazione e promozione
Parco Archeologico Appia Antica
Lorenza Campanella
tel.+39 333.6157024
pa-appia.comunicazione@beniculturali.it

I nostri CD

Carla Bley – “Life Goes On”- ECM 2669
Carla Bley con il fido Steve Swallow al basso e Andy Sheppard ai sax tenore e soprano sono i protagonisti di questo nuovo album registrato nel maggio del 2019 a Lugano. In repertorio tre suite intitolate rispettivamente “Life Goes On”, “Beautiful Telephones” e “Copycat” tutte composte dalla stessa Bley. Chi ha seguito negli anni la Bley, sa bene come ad onta dei suoi ottantaquattro anni, l’artista di Oakland conservi intatta la sua straordinaria vena creativa e una stupefacente capacità di arrangiare e presentare in forme sempre originali le sue composizioni. Altro dato che si può ricavare dall’ascolto di questo suo ultimo lavoro, è la consapevolezza raggiunta dall’artista di poter finalmente trarre le fila di un discorso portato avanti oramai da molti anni. In effetti la musica che si ascolta soprattutto nella prima suite rappresenta un po’ la cifra stilistica della Bley in cui il blues viene coniugato con una certa malinconia di fondo che ben si affianca a quella carica iconoclasta e ironica che nel passato aveva caratterizzato molte composizioni della pianista. Ed ecco infatti la seconda suite che nel polemico titolo “Beautiful Telephones” richiama quella assurda espressione del presidente Trump che installandosi nello studio ovale della Casa Bianca, fu colpito soprattutto dai telefoni che definì “i più bei telefoni che abbia mai visto in vita mia”. Comunque, al di là di tutto, la musica di Carla Bley convince ancora una volta per la straordinaria carica di eleganza, modernità, coerenza in essa contenuta nonché per aver creato un jazz cameristico – se mi consentite il termine – che dovrebbe mettere d’accordo gli amanti del jazz e quelli della musica “colta” dati gli espliciti riferimenti a quel coté artistico che la Bley spesso mette in campo. Ovviamente la bella riuscita dell’album è dovuta anche alla personalità artistica dei due compagni di viaggio. Steve collabora con la Bley oramai da venticinque anni e la loro intesa è parte integrante di ogni loro album dato il peso specifico che il bassista riesca ogni volta ad assumere (lo si ascolti soprattutto nel primo movimento della “Beautiful Telephones”); dal canto suo Andy Sheppard è in grado di inserirsi autorevolmente e coerentemente nel fitto dialogo pianoforte-basso.

Paolo Damiani – “Silenzi luterani” – Alfa Music 214
Due i riferimenti colti esplicitati dallo stesso Damiani nelle note che accompagnano il CD: da un lato la Riforma di Martin Lutero che nel 1517 si staccò dalla Santa Sede romana introducendo il canto in chiesa di tutti i fedeli e componendo egli stesso musica, dall’altro l’evocazione nel titolo del CD… e non solo, delle “Lettere Luterane” di Pier Paolo Pasolini, articoli scritti nel 1975 e pubblicati sul Corriere della Sera. Ambedue, Lutero e Pasolini, si scagliavano contro i mali della società ovviamente delle rispettive epoche: ebbene, Damiani con la sua musica intende protestare contro uno stato di cose per cui l’indignazione non basta più. Di qui una musica a tratti sghemba, difficile, ma di sicuro fascino, impreziosita dal fatto che viene liberamente interpolata con frammenti melodici scritti da Lutero e testi di Pasolini. Ancora una volta Damiani evidenzia la sua ottima conoscenza del mondo musicale, inteso nell’accezione più ampia del termine, riuscendo così a far convivere nella stessa espressione artistica echi di mondi assai lontani con suggestioni derivate dal presente, in un gioco di incastri, di rimandi che disegnano un universo davvero senza confini. Insomma un’operazione tutt’altro che banale per la cui riuscita era necessaria una perfetta intesa degli esecutori. Ecco quindi la formazione posta in campo da Damiani, formata dai migliori ex allievi del dipartimento jazz del conservatorio di Santa Cecilia, dipartimento fondato e guidato dallo stesso Damiani fino al 2018: quattro voci capitanate da Daniela Troilo (in questa sede anche arrangiatrice), Erica Scheri al violino, Lewis Saccocci al pianoforte, Francesco Merenda alla batteria cui si aggiunge, in veste di ospite, Daniele Tittarelli ai sassofoni. In repertorio sette brani, tutti composti dal leader, registrati in occasione di due concerti tenuti presso la Sala Accademia del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e la Sala Concerti della casa del Jazz di Roma, nel 2017.

Vittorio De Angelis – “Believe Not Belong” – Creusarte Records
Una delle strade maestre su cui oramai si è indirizzato il jazz è quella di far confluire in un unico linguaggio input derivanti da varie fonti, soprattutto jazz mainstream, soul e funk. Certo, se la strada è la stessa, il modo di percorrerla è diverso ed è proprio su questo parametro che si può valutare oggi la valenza di una esecuzione. Da questo punto di vista, l’album in oggetto si lascia ascoltare non tanto per l’originalità delle composizioni (7 brani tutti composti dal leader sassofonista, flautista e compositore napoletano) quanto per il particolare organico. De Angelis ha infatti scelto di puntare sul “double trio” vale a dire due batterie, due tastiere, due fiati; manca il bassista in quattro dei sette brani sostituito dai due tastieristi (Domenico Sanna al basso sinth e Sebi Burgio al piano basso Rhodes). Insomma due trio indipendenti che suonano assieme e che proprio per questo producono una sonorità particolare, pregio principale di queste registrazioni. E non è poco ove si tenga conto che si tratta del primo album di Vittorio De Angelis leader, il quale, tra l’altro ha avuto l’intelligenza di chiamare accanto a sé musicisti di livello tra cui Domenico Sanna pianista di Gaeta, classe 1984, che ha già collaborato con musicisti di livello internazionale quali Steve Grossman, Rick Margitza, Dave Liebman, JD Allen, Greg Hutchinson; Seby Burgio, altro talentuoso tastierista (Siracusa 1989 ) che può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Larry James Ray, Tony Arco, Michael Rosen, Alfredo Paixao; Francesco Fratini uno dei più promettenti trombettisti italiani e Takuya Kuroda trombettista e arrangiatore giapponese, classe 1980, che incide per la Blue Note e ha già al suo attivo cinque album sotto suo nome.

e.s.t. – “Live in Gothenburg” – ACT 9046 2
Ascoltando queste registrazioni effettuate live il 10 Ottobre del 2001 alla Concert Hall di Gothenburg si rinnova il rimpianto per aver perso troppo presto e in maniera davvero assurda un talento come Esbjörn Svensson qui accompagnato dai fidi partner Dan Berglund al basso e Magnus Ostrom alla batteria. Siamo negli anni in cui il trio sta consolidando il proprio essere gruppo omogeneo, compatto in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur affollato panorama dei trii piano-basso-batteria. Ciò ovviamente per merito di tutti e tre i musicisti ma in modo particolare, del leader, il pianista Esbjörn Svensson affermatosi in brevissimo tempo come uno dei più fulgidi talenti del piano jazz a livello internazionale. In questo concerto, poi riportato sul doppio CD in oggetto, il trio rivisita alcuni dei brani contenuti nei due album già usciti in quel periodo, vale a dire “From Gagarin´s Point of View” del 1999 e “Good Morning Susie Soho” del 2000. E si è trattato di una performance davvero molto rilevante se lo stesso Svensson aveva più volte dichiarato di considerare questo concerto uno dei migliori della sua carriera. E come dargli torto? La musica è assolutamente ben costruita, ben arrangiata e altrettanto ben eseguita con i tre artisti che si ascoltano e interagiscono con immediatezza e pertinenza. Ascoltando in sequenza tutti e gli undici brani dei due CD è davvero difficile, se non impossibile, capire quando i tre improvvisano e quando seguono qualcosa di stabilito in precedenza. E non credo di esagerare affermando che dopo i mitici trii di Bill Evans, che hanno rivoluzionato il modo di concepire il combo piano-batteria-contrabbasso, questa di Svensson e compagni sia stato la formazione che più di altre è riuscita a dire qualcosa di nuovo e originale in materia.

Giovanni Falzone – “L’albero delle fate” – Parco della Musica
Il trombettista Giovanni Falzone, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Alessandro Rossi sono i protagonisti di questo album registrato nel febbraio del 2019 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La musica è di segno naturistico, se mi consentite l’espressione, in quanto Giovanni per comporla si è ispirato ai sentieri, ai grandi sassi, agli alberi, agli animali, ai colori, alle fonti d’acqua che vivificano il lago di Endine, in provincia di Bergamo, dove il trombettista ama trascorrere parte del suo tempo libero. Di qui nove brani che lo stesso Falzone definisce “cartoline sonore”; ma attenzione, quanto fin qui detto non tragga in inganno ché quella di Falzone resta una musica ben lontana dal New Age e viceversa ben ancorata alle grandi tradizioni del jazz. Così nel suo linguaggio è possibile riscontrare echi di Armstrong così come, per venire a tempi a noi più vicini, di Kenny Wheeler, di Enrico Rava (al quale in occasione dell’ottantesimo compleanno il 20 agosto scorso ha dedicato una intensa ballad), di Miles Davis (ma quale trombettista non è stato influenzato da Miles?). Quindi un jazz ora vigoroso (“Il mondo di Wendy”), ora più intimista (“Capelli d’argento”) ma sempre splendidamente suonato e arrangiato. Frutto evidente dell’intesa che si respira nel gruppo in cui tutti si esprimono al meglio delle rispettive possibilità.

Claudio Fasoli – “The Brooklyn Option” – abeat 206
Questo album è in realtà la riedizione di un CD pubblicato nel 2015; quindi, dal punto di vista del contenuto musicale, nessuna novità; cambia, invece, la copertina adesso rappresentata da una bella foto scattata dallo stesso Fasoli. Il sassofonista è reduce da una serie di brillanti riconoscimenti: nel 2018 ha vinto il Top Jazz come musicista dell’anno mentre nel 2017 il suo album “Selfie” sul mercato francese è stato votato dalla rivista “JazzMagazine” come “disco shock” del mese. In questa occasione è alla testa di un quintetto all stars comprendente Ralph Alessi alla tromba, Matt Mitchell al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Fasoli è in forma smagliante sia come compositore sia come esecutore. In effetti tutti e tredici i brani contenuti nell’album sono da lui stesso firmati e ci mostrano un musicista maturo, assolutamente consapevole dei propri mezzi ed in grado di scrivere musica a tratti coinvolgente, sempre, comunque, interessante e ben lontana dal ‘già sentito’. Ovviamente almeno parte di queste positive valutazioni dipende anche dall’esecuzione: ebbene al riguardo occorre sottolineare come il gruppo funzioni a meraviglia, con un altissimo grado di interplay che consente ai musicisti di muoversi in assoluta libertà, certo che il compagno di strada saprà quasi percepire in anticipo le sue proposte e sarà quindi in grado di condurle alle finalità desiderate. Straordinario, al riguardo, il modo in cui tromba e sassofono dialogano e suonano anche all’unisono sul filo di un idem sentire non facilissimo da raggiungere. Ancora una volta Alessi si qualifica come una delle più belle e originali voci trombettistiche degli ultimi anni. E non c’è un solo momento nel disco che non si percepisca questa intesa, questa gioia di suonare assieme. Tali caratteristiche si colgono sin dall’inizio, vale a dire dai tre movimenti che compongono la suite “Brooklyn Bridge”, aperta da una esposizione del tema armonizzata dai fiati che lasciano quindi spazio alla sezione ritmica con Mitchell, Gress e Waits a dimostrare quanto sia meritata la fama raggiunta nel corso degli ultimi anni.

Luca Flores – “Innocence” – Auand 2 cd
Ascoltare un inedito di Luca Flores è sempre emozionante e non solo per le vicende umane legate alla prematura scomparsa dell’artista, quanto perché la sua musica è come una sorta di scrigno contenente delle perle rare e preziose. Ovviamente anche quest’ultimo doppio album non sfugge alla regola: sedici tracce inedite incise da Luca Flores tra il 1994 e il 1995 di grande livello. Ma prima di spendere qualche parola sul contenuto artistico di “Innocence” vorrei ringraziare, a nome di tutti gli appassionati di jazz, l’amico Luigi Bozzolan, anch’egli valente pianista, il quale da tempo si sta adoperando per illustrare al meglio il lavoro di Flores, Stefano Lugli, il sound engineer che aveva curato quelle registrazioni, e Michelle Bobko, che ne aveva conservate delle copie, per aver ritrovato questo materiale e averlo regalato all’ascolto di noi tutti. E un doveroso riconoscimento va anche al pianista Alessandro Galati che ha curato selezione e mastering dell’opera. Il titolo di questo doppio cd è quello che Luca aveva indicato al produttore Peppo Spagnoli della Splasc(H) per quello che sarebbe stato il suo nuovo lavoro, un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico e che prevedeva un organico allargato con violoncello, percussioni, vibrafono e armonica, nonché la voce di Miriam Makeba. Data la complessità del progetto, dai costi piuttosto elevati, si decise di pubblicare un piano solo (“For Those I Never Knew”, edito da Splasch Records), con l’aggiunta di nuove tracce registrate il 19 marzo 1995; il pianista sarebbe scomparso dieci giorni dopo cosicché l’album uscì postumo. Tornando a “Innocence” i due CD si differenziano per un particolare non secondario: il primo è dedicato a brani mai incisi mentre il secondo presenta versioni alternative di pezzi già registrati. Ovviamente ciò nulla toglie all’omogeneità delle registrazioni che ci restituiscono ancora una volta un musicista straordinario dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo. Il suo pianismo è sempre lucido, fluido, mai teso a stupire l’ascoltatore ma sempre rivolto ad esprimere il proprio io, la propria anima. Di qui una capacità di scavare all’interno di ogni singolo brano che solo i grandi possiedono. Si ascolti al riguardo come sia riuscito a fondere in un unicum “Broken Wing” e “Lush Life” e come dimostri di saper padroneggiare diversi stili, dal bop di “Work” di Thelonious Monk e “Donna Lee” di Charlie Parker, allo swing di “Strictly Confidential” fino ad un pianismo di marca intimista in “Kaleidoscopic Beams” impreziosito da un unisono piano/voce prima e dopo il lungo assolo e “Silent Brother” che chiude degnamente il cd.

Jan Garbarek, The Hilliard Ensemble – “Remember me, my dear” – ECM New Series 2625
Ho conosciuto personalmente Jan Garbarek nel 1982 quando abitavo in Norvegia; in quella occasione l’ho trovato persona squisita, cortese, sensibile…oltre che straordinario musicista. E questa valutazione sull’artista nel corso degli anni non è mutata di una virgola…anzi. Quest’ultimo album mi conferma vieppiù nel considerare Jan Garbarek uno dei musicisti più originali, maturi, straordinari degli ultimi decenni. Ancora una volta accanto all’Hilliard Ensemble (questo è il quinto album da loro inciso nel corso degli ultimi ventisei anni), il sassofonista norvegese ci regala un’altra rara perla, una musica assolutamente inconsueta che affascina chi mantiene mente e cuore aperti. Qui non c’è più la distinzione tra generi: non si tratta di jazz, di musica classica, di folk, di musica religiosa ma di una straordinaria miscela di suoni, ricca di pathos, che ci trasporta in una dimensione trascendente l’attualità per instaurare un colloquio diretto con l’anima di chi ascolta. Ecco quindi un repertorio che abbraccia un lunghissimo arco di tempo, con quattordici brani di cui due firmati rispettivamente da Christ Komitas e Nikolai N. Kedrov autori a cavallo tra Otto e Novecento, cinque di autore anonimo, uno a testa per Guillaume le Rouge, maestro Pérotin, Hildegard von Bingen, Antoine Brumel tutti databili da 1098 al 1500,lo splendido “Most Holy Mother of God” di Arvo Pärt, più due composizioni originali dello stesso Garbarek. L’apertura è affidata a “Ov zarmanali” inno battista del religioso armeno Christ Komitas, interpretato da Garbarek in solitudine ed è questo il brano in cui si ascolta maggiormente il sax soprano del musicista norvegese, dal momento che negli altri pezzi a prevalere sono sostanzialmente le voci. Particolarmente degna di nota l’”Alleluia Nativitas” del Maestro Perotino. Un’ultima notazione: la registrazione, effettuata nella Chiesa della Collegiata dei SS.Pietro e Stefano di Bellinzona risale all’ottobre del 2014; come mai è stata pubblicata solo adesso?

Ghost Horse – “Trojan” – Auand 9090
Ecco la nuova formazione posta in essere sulle orme del precedente gruppo “Hobby Horse” dal sassofonista Dan Kinzelman con Filippo Vignato al trombone, Gabrio Baldacci alla chitarra baritona, Joe Rehmer al basso elettrico, Stefano Tamborrino alla batteria e Glauco Benedetti all’eufonio e alla tuba. Come si nota un organico piuttosto insolito così come insolita è la musica proposta. Una musica che trae spunti dal jazz, dal rock, dalla psichedelia cui si riferisce la frequente reiterazione di brevi frasi musicali che finiscono per ottenere un effetto in bilico tra l’onirico e l’ipnotico. Il tutto impreziosito da una intelligente ricerca sul suono, sulla timbrica e sulla dinamica particolarmente evidente nel brano di chiusura “Pyre” di Kinzelman (autore di cinque degli otto brani in repertorio) caratterizzato sul finire da quella reiterazione cui prima si faceva riferimento. Ma è l’intero album che si fa ascoltare con interesse dal primo all’ultimo minuto. Così, tanto per citare qualche altro titolo, la title track che apre l’album evidenzia la volontà del gruppo di non fermarsi su terreni particolarmente frequentati e di ricercare da un canto una propria specificità con frasi oblique, sghembe, tutt’altro che scontate, dall’altro una dimensione quasi orchestrale con un crescendo in cui tutti i componenti il sestetto hanno modo di mettersi in luce. In “Il bisonte” è in primo piano il sound così particolare della tuba utilizzata in un ruolo tutt’altro che coloristico. Convincente l’impianto narrativo di “Five Civilized Tribes” con in primo piano Gabrio Baldacci e Stefano Tamborrino autore del brano. Più legato a stilemi tradizionali, ma non per questo meno affascinante, “Hydraulic Empire” con un Vignato in grande spolvero mentre in “Dancing Rabbit” è in primo piano la sezione ritmica di Tamborrino e Rehmer. Per chiudere una menzione la merita anche la crepuscolare “Forest For The Trees” (di Kinzelman) in cui si avverte forse più che altrove quel fine lavoro di cesello cui si dedicano i fiati.

Rosario Giuliani – “Love in Translation” – VVJ 133
Una sezione ritmica tra le migliori del jazz non solo italiano (Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; li si ascolti in “Hidden force of love”) e una front line costituita da due grandi performer quali Rosario Giuliani ai sax alto e soprano e Joe Locke al vibrafono: ecco in poche righe spiegati i motivi del perché questo album si percepisce con grande piacere. Come solo i grandi musicisti sanno fare, i brani si susseguono con scioltezza e si ha l’impressione che tutto sia facile anche quando, ascoltando più attentamente, si scopre che le cose non stanno proprio così. In effetti gli arrangiamenti sono tutt’altro che banali e il modo di interloquire vibrafono-sax è il frutto di un’intesa assai solida, cementificata da un ventennio di collaborazione che i due intendono festeggiare proprio con l’uscita di questo album. Il repertorio è quanto mai variegato passando da classici del jazz (“Duke Ellington’s Sound of Love” di Charles Mingus, o “Everything I Love” di Cole Porter”) a hit della musica pop quali “I Wish You Love”, versione inglese della celeberrima “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet o quel “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss che inopinatamente troveremo anche nel CD di Oded Tzur di cui si parla più in basso; a questi si aggiungono alcuni original quali “Raise Heaven” dedicato da Joe Locke a Roy Hargrove e “Tamburo” di Rosario Giuliani per l’amico Marco Tamburini. Come prima sottolineato, tutti e dieci i brani in repertorio si ascoltano con molta piacevolezza, tuttavia mi ha particolarmente impressionato il dialogo di sax e vibrafono in “Can’t Help Falling In Love” e le modalità con cui il gruppo nella sua interezza ha approcciato un brano non facile come il mingusiano “Duke Ellington’s Sound of Love”.

Wolfgang Haffner – “Kind of Tango” – ACT 9899-2
Ad alcuni sembrerà forse strano che dei musicisti nordeuropei si interessino di tango, ma si tratta di una impressione totalmente errata. In effetti il Paese dove il tango è più frequentato, ascoltato, ballato – ovviamente al di fuori dell’Argentina – è un Paese del Nord Europa e precisamente la Finlandia. Chiarito questo equivoco, con questo album siamo in terra di Germania dove il batterista Wolfgang Haffner ha costituito un gruppo di stelle a livello internazionale per affrontare un repertorio piuttosto impegnativo dal momento che sotto l’insegna del tango si ascoltano sia brani di compositori celebri come Astor Piazzolla, Gerardo Matos Rodriguez sia original dei componenti il sestetto. Ecco quindi uno accanto all’altro il già citato Haffner, gli altri tedeschi Christopher Dell al vibrafono e Simon Oslender al piano, il francese Vincent Peirani all’accordion, gli svedesi Lars Danielsson al basso e cello e Ulf Wakenius alla chitarra, “rinforzati” dalla presenza in alcuni brani dei tedeschi Alma Naidu vocalist e Sebastian Studnitzky trombettista, dello svedese Lars Nilsson flicorno e del sassofonista statunitense Bill Evans. E c’è un altro equivoco da chiarire. In questo caso non si tratta della m era riproposizione delle atmosfere tipiche del tango, quanto di un’operazione un tantino più complessa e ben illustrata dallo stesso batterista quando afferma che per lui ascoltare e scrivere un tango non è una semplice traduzione in musica di ciò che ha sentito ma l’assorbire e l’adattare degli input ricevuti in un processo da cui può scaturire qualcosa di nuovo e contemporaneo. Ed in effetti ascoltando la riproposizione dei tanghi più celebri da tutti conosciuti quali “La Cumparista”, “Libertango” e “Chiquilin de Bachin” da un lato non c’è quel pathos che caratterizza le esecuzioni di un Astor Piazzolla, dall’altro si avverte la volontà di distaccarsi dai modelli originari per giungere su spiagge inesplorate. Tentativo riuscito? A mio avviso sì, ma ascoltate e giudicate.

Ayler’s Mood “Combat joy” e Pasquale Innarella “Go Dex”Quartet– aut records 051, 053
Due cd dedicati a due giganti del sax: il Trio Ayler’s Mood, costituito da Pasquale Innarella al sax, Danilo Gallo al basso elettrico e Ermanno Baron alla batteria sono i protagonisti di “Combat Joy”, dedicato ad Albert Ayler, e Pasquale Innarella e “Go Dex Quartet” dedicato a Dexter Gordon. Una sfida molto, molto difficile, quella con i mondi sonori di due grandi sassofonisti molto diversi tra di loro e quindi impossibili da ricondurre ad un unicum. Di qui l’intelligenza poetica – mi si passi il termine – di questi due gruppi e di Innarella che, come sassofonista, ben lungi dal voler imitare l’inimitabile, ha voluto con i suoi compagni di viaggio, piuttosto, rileggere le esperienze dei due grandi artisti. In particolare nel primo album, “Ayler’s Mood”, registrato live durante un concerto a “Jazz in Cantina”, zona Quarto Miglio, Roma, il 22 dicembre del 2018, Innarella (nell’occasione anche al sax soprano) coadiuvato da due eccellenti partner quali Danilo Gallo al basso e Ermanno Baron alla batteria, si rivolge all’universo di Albert Ayler (1936-1970) considerato a ben ragione uno dei massimi esponenti del free anni sessanta; lo stile del musicista di Cleveland era caratterizzato da un vibrato molto aggressivo e da un linguaggio che destrutturava gli elementi fondativi della musica, vale a dire melodia, armonia e timbro. Come affrontare quindi, tale musica senza ricorrere a sterile imitazioni? Lasciandosi andare ad una improvvisazione pura, estemporanea (come sottolineato nella presentazione dell’album) è stata la risposta di Innarella e compagni. Un flusso sonoro di circa un’ora che coinvolge l’ascoltatore in una sorta di viaggio senza meta, assolutamente coinvolgente. I tre suonano liberamente ma con estrema lucidità, in un quadro in cui nessuno ha la prevalenza sull’altro e in cui la musica di Ayler rivive in tutta la sua drammatica attualità con lacerti di free che si alternano con accenni di calypso o di R&B…senza trascurare alcune citazioni ben riconoscibili.
Nel secondo CD, “Go Dex”, Innarella è in quartetto con Paolo Cintio al piano, Leonardo De Rose al contrabbasso e Giampiero Silvestri alla batteria. In questo caso il discorso è completamente diverso e non potrebbe essere altrimenti dato che Dexter Gordon (1923-1990) è stato uno degli alfieri del bebop, un artista straordinario di recente ricordato in un bel volume della EDT di cui ci si occuperà quanto prima. Nell’album Innarella esegue sette composizioni di Dexter Gordon con l’aggiunta di un celeberrimo standard, “Misty” di Errol Garner. Ma è già nel termine “Go Dex” che si vuole omaggiare il sassofonista di Los Angeles dal momento che “Go” è il titolo che lo stesso Dexter volle dare ad un suo album registrato nell’agosto del 1962 con Sonny Clark piano, Butch Warren basso e Billy Higgins batteria. Ma Pasquale non si è fermato qui: Gordon ha scritto pochi brani e Innarella ha voluto, quindi, riproporne almeno una parte tenendosi però ben lontano da una pedissequa imitazione. Quindi non un linguaggio boppistico ma un jazz moderno, attuale, che non disdegna incursioni nel mondo del free. Ecco le prime battute dell’album eseguite secondo stilemi molto vicini al free accanto ad una convincente e canonica interpretazione di “Misty” con sonorità più legate alla tradizione; ecco “Soy Califa” dall’andamento funkeggiante, illuminato da uno splendido assolo di Paolo Cintio accanto al conclusivo “Sticky Wichet” che ci riconduce ad atmosfere molto accese… il tutto senza perdere di vista, in alcun momento, quelli che erano i principi ispiratori di Gordon e che ritroviamo intatti in questo pregevole album.

Keith Jarrett – “Munich 2016” – ECM 2667/68
Passano gli anni ma è sempre un’esperienza appagante ascoltare Keith Jarrett specie su disco (ché dal vivo alcune intemperanze sono francamente insopportabili). In questo doppio CD, registrato alla Philarmonic Hall di Berlino il 16 luglio del 2016, ultima sera di un tour europeo, Jarrett, in totale solitudine, ci presenta una suite in dodici parti dal titolo “Munich” totalmente improvvisata e tre bis, “Answer Me, My Love” (versione inglese della canzone tedesca del 1953, “Mütterlein”), “It’s A Lonesome Old Town” e “Somewhere Over The Rainbow”. Com’è facile immaginare, il Jarrett migliore lo si trova nella prima parte, e soprattutto nel primo movimento dove, in circa quindici minuti di musica magmatica e complessa, il pianista improvvisa liberamente mescolando gli input che oramai da tempo costituiscono gli ingredienti fondamentali della sua cifra stilistica, vale a dire jazz, blues, gospel, folk, musica colta. Ed è davvero un bel sentire: gli intricati percorsi disegnati da Jarrett confluiscono sempre laddove l’artista vuole arrivare, nonostante le spericolate armonizzazioni e la velocissima diteggiatura che alle volte non consentano all’ascoltatore, seppur attento, di immaginare il percorso immaginato dall’artista. E seppur meno intense anche i successivi momenti della suite mantengono davvero alto lo standard esecutivo ed improvvisativo di Jarrett. Leggermente diverso il discorso per i tre brani. Jarrett sembra essersi relativamente placato fino a regalarci una splendida versione del celeberrimo “Over The Rainbow” che da solo vale l’acquisto dell’album.

Lydian Sound Orchestra – “Mare 1519” – Parco della Musica Records
Oramai da tempo la Lydian Sound Orchestra viene a ben ragione considerata una delle migliori big band a livello internazionale e ciò per alcuni validi motivi; innanzitutto la bontà dell’organico che prevede artisti tutti di assoluto spessore quali i sassofonisti Robert Bonisolo, Rossano Emili e Mauro Negri anche al clarinetto, Gianluca Carollo alla tromba e flicorno, Roberto Rossi al trombone, Giovanni Hoffer al corno francese, Glauco Benedetti alla tuba, Paolo Birro al piano e al Fender Rhodes, Marc Abrams al basso e Mauro Beggio alla batteria, Riccardo Brazzale piano e direzione, Bruno Grotto electronics e Vivian Grillo voce. In secondo luogo il grande lavoro svolto da Riccardo Brazzale che è stato capace di mettere assieme una compagine di tutto rispetto e di scrivere per essa arrangiamenti coinvolgenti che non a caso sono stati interpretati dall’orchestra con estrema compattezza. A ciò si aggiunga una sempre lucida scelta del repertorio che anche questa volta è composto sia da composizioni originali del leader sia da composizioni di alcuni grandi della musica come Ellington, Monk, Shorter, Miles Davis, Paul Simon. In più questo album è una sorta di concept dal momento che, come spiegato nelle note, due numeri, 1 e 9, accompagnano nel corso dei secoli i viaggi e i viaggiatori, a partire dall’impresa di Magellano del 1519 ( considerata l’inizio dell’era moderna ) per finire al 2019 quando il mar Mediterraneo continua a raccontare di nascite e di morti; insomma questa volta Brazzale vuole prendere per mano l’ascoltatore e condurlo attraverso quel mar Mediterraneo, testimone delle più importanti vicende dell’umanità, per un viaggio che metaforicamente riproduce alcune fasi della storia del jazz. Di qui una musica immaginifica, travolgente a tratti, sempre improntata alla commistione di più elementi, dal jazz al folk alla musica classica, il tutto impreziosito da una originalità di linguaggio vivificata dal grande livello dei vari solisti cui prima si faceva riferimento.

Christian McBride – “The Movement Revisited” – Mack Avenue 1082
“The Movement Revisited: A Musical Portrait of Four Icons” è esplicitamente dedicato a quattro figure chiave del movimento per i diritti civili degli afro-americani: Rev. Dr. Martin Luther King Jr., Malcolm X, Rosa Parks e Muhammad Ali. In realtà questa monumentale opera ha una storia piuttosto complessa che ha origine nel 1998 quando, su commissione della Portland Arts Society, McBride scrisse una composizione per quartetto e coro gospel che rappresenta, per l’appunto, la prima versione di “The Movement Revisited”. Nel 2008 la L.A. Philharmonic chiese a McBride di farne una versione orchestrale e così “The Movement Revisited” diventò una suite in quattro parti per big band jazz, piccolo gruppo jazz, coro gospel e quattro narratori. In questa registrazione, effettuata nel 2013, è stato aggiunto un quinto movimento, “Apotheosis”, dedicato all’elezione di Barack Obama come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Evidente, quindi, l’intento di Christian McBride (contrabbassista, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, poeta, vincitore di due Grammy con “The Good Feeling” nel 2011 e “Bringin ‘It” nel 2017) di presentare un album che andasse ben al di là del fattore squisitamente musicale riallacciandosi direttamente alla lotta per una effettiva eguaglianza tra bianchi e neri, ancora ben lungi dall’essere raggiunta negli States. La suite è eseguita da una big band di 18 elementi, con coro gospel e narratori, questi ultimi nelle persone di Sonia Sanchez, Vondie Curtis-Hall, Dion Graham, e Wendell Pierce. E come accade alle volte, è impossibile scindere il mero valore artistico dal valore sociale, politico, culturale che questa musica veicola. Non a caso l’album ha ottenuto i più sinceri riconoscimenti da parte di accreditati critici statunitensi. In effetti ascoltando il CD è come se ci si muovesse in un contesto teatrale con i quattro attori che riportano stralci dei discorsi dei protagonisti e un sound che è una sorta di summa di tutta la musica nera, quindi jazz, soul, funk, gospel, spiritual…Insomma una musica che è allo stesso tempo un grido di dolore per quanto accaduto e un segno di speranza per un futuro che non può essere disgiunto dal passato in quanto, come nota lo stesso McBride, “ci sono oggi nuove battaglie che stiamo combattendo, ma sento che queste nuove battaglie cadono sotto l’ombrello di uguaglianza, equità e diritti umani – e questa è una vecchia battaglia». Particolarmente emozionante, al riguardo, riascoltare “I Have a Dream”, un discorso che credo tutti dovremmo, ancora oggi, apprezzare nei suoi profondi significati.

Dino e Franco Piana – “Open Spaces” – Alfa Music
Conosco Dino e Franco Piana oramai da tanti anni e mi ha sempre stupito la straordinaria intesa tra padre e figlio che ha portato questi due personaggi ad attraversare l’oceano del jazz con signorilità, competenza e pochi ma significativi album. In effetti i due (il primo nella veste di trombonista dalla classe eccelsa, il secondo nella quadruplice funzione di compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e flicornista) entrano in sala di incisione solo quando sentono di avere qualcosa di nuovo da dire. Di qui gli ultimi tre album particolarmente significativi, tutti registrati per l’Alfa Music, “Seven” (2012), “Seasons” (2015), e adesso questo “Open Spaces” il cui organico è sostanzialmente lo stesso dell’album precedente cui si aggiungono i cinque archi della Bim Orchestra. Quindi, oltre a Dino e Franco Piana, si possono ascoltare Fabrizio Bosso alla tromba, Max Ionata al sax tenore, Ferruccio Corsi al sax alto, Lorenzo Corsi al flauto, Enrico Pieranunzi al piano, Giuseppe Bassi al basso e Roberto Gatto alla batteria. In repertorio due suite, “Open Spaces” e “Sketch of Colours”, articolate la prima su una Introduzione e tre Variazioni, la seconda su una Introduzione e due Movimenti, ed in più altri tre brani “Dreaming”, “Sunshine” e “Blue Blues”, tutti composti e arrangiati da Franco Piana eccezion fatta per “Sketch of Colours” scritto da Franco Piana e Lorenzo Corsi. L’album è davvero di assoluto livello e per più di un motivo. Innanzitutto la scrittura di Franco che, accoppiata ad una evidente bravura nell’arrangiamento, riesce a ricreare una sonorità caratterizzata da timbri e colori assolutamente originali, rimanendo fedele ad un linguaggio prettamente jazzistico. In secondo luogo l’affiatamento dell’orchestra che pur essendo composta da grandi personalità ha trovato una sua cifra di coesione che l’accompagna in tutte le esecuzioni. In terzo luogo la caratura dei vari assolo che vedono protagonisti tutti i componenti della band. A questo punto non resta che auguravi buon ascolto!

Stefania Tallini – “Uneven” – Alfa Music 226
Ebbene lo confesso: sono un grande amico di Stefania Tallini che ammiro non solo come pianista e compositrice ma anche come persona gentile, equilibrata, mai sopra le righe e soprattutto affettuosa, che si è sempre mantenuta con i piedi per terra nonostante gli innumerevoli successi a livello internazionale. Ecco, questo album inciso in trio con Matteo Bortone valente contrabbassista che ha suonato tra gli altri con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi, e Gregory Hutchinson statunitense a ben ragione considerato uno dei migliori batteristi di questi ultimi anni, è probabilmente uno degli album più significativi registrati dalla pianista. La filosofia dell’album è racchiusa nello stesso titolo, “Uneven” ovvero “Irregolare”: in effetti, spiega la stessa Tallini, “questa parola inglese è l’espressione di qualcosa di inatteso, di inaspettato, che rimanda ad un carattere di imprevedibilità, appunto, che è proprio ciò che amo nella musica e nella vita.” E per esplicitare al meglio queste sue posizioni, Stefania ha voluto fortemente accanto a sé i due musicisti cui prima si faceva riferimento. I risultati le danno ragione. L’album è convincente in ogni suo aspetto: intelligente la scelta del repertorio che accanto a dieci composizioni originali della pianista annovera “Inùtìl Paisagem” di Antonio Carlos Jobim e lo standard “The Nearness of You” di Hoagy Carmichael eseguito in solo; assolutamente ben strutturata la scrittura in cui ricerca della linea melodica e armonizzazione si equilibrano in un linguaggio che non consente espliciti punti di riferimento. Tra i vari brani una menzione particolare, a mio avviso, per il brano di Jobim proposto con grande partecipazione e delicatezza, impreziosito anche dagli assolo dei compagni di viaggio, e l’original “Triotango” che ben cattura l’essenza di questo genere musicale.

Oded Tzur – “Here Be Dragons” – ECM 2676
Questo “Here Be Dragons” è l’album d’esordio in casa ECM per il sassofonista israeliano, ma da tempo residente a New York, Oded Tzur. Accanto a lui Nitai Hershkovits al pianoforte, Petros Klampanis al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria, quindi una piccola internazionale del jazz dal momento che se Hershkovits è anch’egli israeliano, il bassista è greco di Zakynthos‎ e il batterista statunitense di Filadelfia. Registrato nel giugno del 2019 presso l’Auditorio Stelio Molo in Lugano, l’album presenta in repertorio otto brani di cui ben sette scritti dallo stesso sassofonista cui si aggiunge “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss, portato al successo nientemeno che da Elvis Presley. Fatte queste premesse, anche per inquadrare il personaggio ancora non molto noto presso il pubblico italiano, occorre sottolineare la valenza della musica proposta. Una musica che sottende una particolare bravura di Tzur sia nell’esecuzione sia ancora – e forse di più – nella scrittura, sempre fluida, facile da assorbire seppure non banale e soprattutto frutto di una straordinaria capacità di introiettare input provenienti da mondi i più diversi. In effetti egli, israeliano di nascita, ha dedicato molta parte del suo tempo a studiare la musica classica indiana considerata, come egli stesso afferma, “un laboratorio di suoni”. Ecco quindi stagliarsi in modo del tutto originale il suono del suo sassofono chiaramente influenzato dagli studi con il maestro di bansuri (flauto traverso tipico della musica classica indiana) Hariprasad Chaurasia, iniziati nel 2007. Ed è proprio la particolarità del sound che a mio avviso caratterizza tutto l’album, con i quattro musicisti che si intendono a meraviglia pronti a supportarsi in qualsivoglia momento. I brani sono tutti ben scritti e arrangiati con una prevalenza, per quanto mi riguarda, per “20 Years” la cui linea melodica viene splendidamente disegnata da Hershkovits altrettanto splendidamente sostenuto da Blake il cui lavoro alle spazzole andrebbe fatto studiare ai giovani batteristi.

Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand – ACT 9739-2
Ecco un album che sicuramente susciterà l’interesse e la curiosità degli appassionati italiani: protagonisti due artisti estoni, la cantante, pianista e compositrice Kadri Voorand e il bassista Mihkel Mälgand. Kadri da piccola cantava nel gruppo di musica popolare di sua madre, avvicinandosi successivamente al pianoforte classico e quindi al jazz nelle accademie di Tallinn e Stoccolma.  Oggi viene considerata una stella nel proprio Paese grazie ad uno stile versatile che le consente di mescolare jazz contemporaneo, folk estone, rhythm & blues e ritmi latino-americani. Non a caso nel 2017 è stata insignita del premio musicale estone per la miglior artista ed è stata premiata per il miglior album jazz dell’anno (“Armupurjus”). Mihkel Mälgand è uno dei bassisti estoni di maggior successo, avendo lavorato, tra gli altri, con musicisti come Nils Landgren, Dave Liebman e Randy Brecker. In questo album si presentano nella rischiosa formula del duo con la vocalist che suona anche kalimba e violino mentre Mihkel si cimenta anche con bass guitar, bass drum, cello e percussioni. In un brano ai due si aggiunge come special guest Noep. In repertorio 12 brani scritti in massima parte dalla Voorand e cantati in inglese eccezion fatta per due nella sua lingua madre (due splendide song tratte dal patrimonio folcloristico estone). L’album è notevole ed è stato apprezzato anche al di fuori dell’Estonia: Europe Jazz Network, la rete europea di operatori del settore jazz, che stila la Europe Jazz Media Chart, una selezione mensile dei migliori titoli usciti curata da un pool di giornalisti specializzati, ha incluso “Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand” tra le migliori registrazioni del marzo 2020. La musica scorre fluida ed evidenzia appieno la valenza dei due musicisti che si muovono con maestria ben supportati da un tappeto intessuto dagli effetti elettronici padroneggiati con misura ed euqilibrio. La voce della Voorand è fresca, e affronta il difficile repertorio con disinvoltura non scevro da una certa dose di ironia. Dal canto suo Mälgand non si limita ad accompagnare la vocalist ma ci mette del suo prendendo spesso in mano il pallino dell’esecuzione sempre con pertinenza.

I nostri CD. Curiosando tra le etichette (parte 6)

UR Records

Ecco una nuova etichetta discografica in ambito jazz e musica d’autore. UR, “tu sei” – spiegano i responsabili dell’etichetta – “è il manifesto della volontà di mettere la musica e l’artista al centro della produzione, di porre la qualità del lavoro prima di tutto. Tu sei la musica, il pensiero, l’energia, il valore. In tal senso, “tu sei” non è più riferito solamente all’artista, ma a tutti, perché l’ascolto è la forma più autentica di partecipazione e di collaborazione”.

A.B. Normal – “Out Of A Suite”
“Out Of A Suite” è il primo disco da leader di Andrea Baronchelli, trombonista e tubista classe 1989, in possesso di una solida preparazione di base sia in campo classico (diploma al Donizetti di Bergamo) sia in Jazz (diploma al Verdi di Milano). Accanto a lui Michele Bonifati chitarra, Danilo Gallo basso elettrico e Alessandro Rossi batteria, cui si aggiunge Stefano Castagna all’elettronica nel brano “Cortex”. L’album si compone di due parti. La prima, intitolata “A Suite” consta di cinque brani tutti composti dal leader. La seconda parte, “Out”, presenta due brani, “Starting with a Cherry”, di Michele Bonifati, e “Syriarin” ancora di Baronchelli, ispirato da una delle stragi compiute in Siria. Il gruppo si qualifica, a nostro avviso, soprattutto per una attenta ricerca timbrica: ottimamente sostenuto da una poderosa sezione ritmica sempre in primo piano (li si ascolti ad esempio in “Outro”), chitarra e fiato si muovono con grande libertà andando ad esplorare terreni tutt’altro che usuali. Ecco quindi un sapiente ricorso all’elettronica e a sonorità spesso di matrice rock, la ricerca di una timbrica particolare, il mutare completamente di atmosfere senza che ciò incida sull’omogeneità della proposta musicale. Esemplare, al riguardo, “Cortex” che dopo un’intro quasi in punta di piedi si risolve in un tema coinvolgente mentre “The Crown” è una malinconica ballad caratterizzata da un fitto dialogo fra trombone e chitarra.

Archipelagos – “In Your Thoughts”
10 brani. Che appaiono nei pensieri quali sagome fluttuanti di isolette, scogli, faraglioni, disposti a forma di J come jazz, generando visioni di mare calmo e mosso, vento e tempesta, albe e tramonti, scorci e landscapes. Questo è quanto suggerisce l’album “In Your Thoughts”, a cura del 4et Archipelagos, per i tipi musicali della UR Records. C’è un consiglio riportato all’interno della cover “tutto ciò che può fare l’ascoltatore è lasciarsi trascinare in questa traversata senza porsi troppe domande su quello che potrebbe incontrare in prossimità della prossima isola”. Seguire la marea di suoni, ok, ma pensando in alcuni brani – l’iniziale ‘Intro’ o la finale ‘Outro’ (The Big Vedra In The Sky) – ad un’erranza su di una dorsale di natura vulcanica che preme con intermittenti esplosioni di energia della batteria “condotta” da Marco Soldà ed in altri che la musica eroda cavità di conchigle sedimenti il fondo del mare depositandole, tanto è insinuante il gesto pianistico di Francesco Pollon (ad esempio in ‘Mr. mcFallen Waltz’) mentre il contrabbasso di Simone Di Benedetto veleggia sicuro nell’assecondare la mano sinistra nel ritmico “remare” del piano (‘Sabba’) e il sax di Manuel Caliumi detta la rotta armonico/melodica da seguire: a partire dalla sua ‘Nemesi’ per continuare con i tracciati indicati dai compagni di peregrinaggio (‘Sara’, ‘A Smile’, ‘From A Magic Pillow Dream’ …) . Nessun uomo è un’isola, ha scritto Thomas Merton. Ma insieme possono formare un Arcipelago. (Amedeo Furfaro)

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Via Veneto Jazz / Jando Music

La Via Veneto Jazz nasce nel 1993, quasi per caso, dall’incontro fortuito del produttore Biagio Pagano con alcuni musicisti e alcuni fonici uniti dall’esigenza comune di voler valorizzare il lavoro e la musica di molti musicisti e compositori per lo più sconosciuti fuori dell’ambiente degli addetti ai lavori. Man mano la Via Veneto conquista la stima di pubblico e critica specializzata sì da imporsi come une delle più qualificate Etichette di Musica Jazz Italiana. Purtroppo il 28 settembre 2004 l’amico Biagio Pagano lascia questa vita, cosicché la guida dell’etichetta passa al fratello Matteo Pagano che già lavorava con lui e che si è adoperato nel migliore dei modi per raggiungere gli obiettivi cui prima si faceva riferimento. Nel 2011 si verifica un evento a dir poco imprevisto ed inusuale nel mondo discografico in genere, l’inizio di una collaborazione tra la VVJ ed una etichetta nascente, la Jando Music di Giandomenico Ciaramella, personaggio eclettico e veramente appassionato, che porta nella partnership un entusiasmo e possibilità nuove, trovando in cambio una realtà che offre una storia, un prestigio e un know-how già immediatamente disponibili per conservare un riconosciuto ad alto livello, anche all’estero. Questa collaborazione ancora dura, e permette alle due etichette di costituire una delle realtà discografiche indipendenti più interessanti del Paese, conosciuta e presente anche nei mercati esteri.

Doctor 3 – “Canto libero”
Probabilmente non c’è un solo appassionato di musica al quale, in Italia, l’espressione “canto libero” non richiami alla mente il celebre pezzo di Mogol-Battisti. Ed in realtà questo CD è un nuovo, appassionato omaggio ad uno dei più grandi esponenti del cantautorato nazionale. A firmarlo un gruppo i cui fan vanno ben al di là della purtroppo ancora ristretta cerchia del jazz, i “Doctor 3” ovvero Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria. Per i tanti, tantissimi che ben conoscono il trio probabilmente non ci sarebbe da aggiungere altro se non il fatto che anche questo album si iscrive di diritto nella loro migliore produzione. Viceversa per quei quattro o cinque che ancora non avessero mai ascoltato i “Doctor 3” sarà forse interessante sapere che si tratta di un gruppo tra i più celebrati del nostro panorama jazzistico degli ultimi 20 anni. Un gruppo che forte della solidissima preparazione dei suoi componenti, può permettersi il lusso di affrontare qualsivoglia partitura e di piegarla alle proprie esigenze espressive senza perdere alcunché dello spirito originario. E ovviamente la stessa cosa si ripete con questo repertorio, in cui, eccezion fatta per tre composizioni del Trio significativamente intitolate “Doctor 01”, “Doctor 02” e “Doctor 03”, ritroviamo tutti i brani più celebrati di Lucio, da “Pensieri e parole” a “Il mio canto libero”, da “Emozioni” a “29 settembre” da “Mi ritorni in mente” a “Fiori rosa fiori di pesco”…fino a chiudere con un pezzo meno noto ma di una struggente bellezza “Umanamente uomo: il sogno”.

Rosario Bonaccorso – “A New Home”
“Da quando vivo in questa “Nuova Casa”, le sensazioni che ho avuto la fortuna di poter esprimere attraverso la musica di questo nuovo cd, rappresentano un omaggio alla vita, questo grande regalo che ci viene offerto di vivere”: sono le parole con cui Rosario Bonaccorso, bassista sessantenne, chiarisce il senso di questa nuova produzione discografica realizzata in quintetto con Fulvio Sigurtà tromba e flicorno, Enrico Zanisi pianoforte, Alessandro Paternesi batteria e Stefano Di Battista sax soprano e sax alto, compagno di mille avventure. In effetti Bonaccorso e Di Battista vantano una intesa più che ventennale avendo suonato assieme fin dal 1997 in collaborazione con artisti del calibro di Lucio Dalla, Michael Brecker, Joe Lovano, Ivan Lins e avendo inciso alcuni CD per la Blue Note con altre star del jazz come Vince Mendoza, Kenny Barron, Elvin Jones, Jacky Terrasson e Herlin Riley. Varcata la soglia dei 60, Bonaccorso, rispondendo alla sua indole di uomo gentile e riflessivo, si trova a riconsiderare gli anni trascorsi e a guardare al futuro con una nuova consapevolezza. Certo, queste sono sensazioni assai difficili da esplicitare in uno o più brani ma gli undici pezzi, contenuti nel CD tutti a firma del leader, contengono questa forte carica suggestiva sì da immaginare una sorta di filo rosso, una non banale narrazione che accompagna l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota. Il tutto porto con grande naturalezza, calore e sensibilità doti che, come si sottolineava, appartengono non solo al Bonaccorso musicista ma anche al Bonaccorso uomo.

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We Insist! Records

WE INSIST! Records nasce a giugno del 2018 da un’idea di Maria Borghi, Nino Locatelli, Gianmaria Aprile e Pietro Bologna, con la volontà di dare spazio a progetti musicali fortemente improntati alla sperimentazione, alla ricerca e all’improvvisazione. Un progetto che si richiama al titolo dello storico album del 1960 di Max Roach: We Insist! Max Roach’s Freedom Now Suite. Il messaggio dell’etichetta è quello di insistere in tempi di crisi, di andare controcorrente, puntando sempre sulla qualità e sulla musica. Di qui la volontà di promuovere un gruppo di musicisti che pur trattando generi differenti possiedono una visione comune del fare musica; musica fatta con dedizione e pazienza, a cui dedicare tempo, scavando, ricercando. La linea editoriale della WE INSIST! non è indirizzata ad un preciso genere musicale, non è pro o contro questa o quella musica, l’ambizione è di unificare ciò che all’apparenza può sembrare diverso. Inoltre l’incontro con le altre arti è per We Insist linfa vitale, stimolando a ideare e realizzare progetti di ampio respiro, all’interno dei quali creare nuovi sodalizi. Si procede, quindi, per piccoli passi, con l’obiettivo di crescere mantenendo uno spirito di continua ricerca.

Pipeline 8 – “Prayer”
Giancarlo Nino Locatelli – “Situations”
I protagonisti di questi album, offerti in duplice versione – cd o lp – sono il clarinettista Giancarlo Nino Locatelli nella veste di esecutore e Steve Lacy in quella di autore.In effetti la quasi totalità del repertorio contenuto nei due album è dovuto alla penna del grande sassofonista scomparso nel 2004. Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra “Prayer” e “Situations”: nel primo Locatelli suona inserito nel gruppo dei “Pipeline 8” completato da Gabriele Mitelli al flicorno contralto e alle percussioni, Sebastiano Tramontana al trombone, Alberto Braida al piano, Gianmaria Aprile alla chitarra, Luca Tilli al violoncello, Andrea Grossi al contrabbasso e Cristiano Calcagnile a batteria e percussioni, mentre in “Situations” Locatelli suona in splendida solitudine. Ad onor del vero è proprio questo secondo album che ci ha particolarmente colpiti: Locatelli evidenzia non solo una grande padronanza tecnica ma soprattutto una profonda conoscenza della musica di Steve Lacy. Qui non siamo di fronte ad una semplice interpretazione quanto ad un vero e proprio riappropriarsi della musica di Lacy facendola, in qualche modo, parte del proprio io, del proprio modo di sentire la musica. Operazione tutt’altro che semplice data la complessità dell’universo sonoro del musicista statunitense. Così non è certo un caso che nel brano “Absence” di Tom Raworth si ascoltino sullo sfondo le campane delle mucche ed i grilli, pratica non estranea alle concezioni di Lacy, che in alcuni suoi solo ha inserito in sottofondo rumori ‘altri’ come una radio che gracchiava. L’LP è corredato da tre belle foto di Steve Lacy opera di Roberto Masotti.
Ciò detto nulla toglie alla valenza dell’altro album “Prayer”, registrato dal vivo nell’ambito di Pisa Jazz nel novembre 2016. Le nove tracce evidenziano come i “Pipeline 8” siano attualmente una delle formazioni più innovative e interessanti del pur variegato panorama nazionale. Il gruppo si muove su coordinate non convenzionali, alla ricerca costante di una lettura della musica di Lacy che sia allo stesso tempo fedele all’originale ma dotata di vita propria. Di qui l’alternarsi di atmosfere notturne ad improvvisi slanci melodici, il tutto impreziosito dalla bravura dei singoli tra cui in particolare evidenza si pongono Andrea Grossi al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria e percussioni. Anche in questo caso la musica di Lacy viene esaminata, esplorata fin nei più reconditi meandri avendo come riferimento tutto l’arco della produzione di Lacy, comprese quindi le collaborazioni con Thelonius Monk o Charles Mingus, fino agli Area di Demetrio Stratos con cui lavorò negli anni settanta.

Andrea Grossi Blend 3 – “Lubok”
Nato a Monza nel 1992, il contrabbassista Andrea Grossi guida ‘Blend 3’ un trio completato da Manuel Caliumi al sax alto e Michele Bonifati alla chitarra elettrica. L’album nasce dalle sensazioni ricavate dal leader dall’osservazione dei ‘lubok’ ovvero un tipo di stampa popolare russa diffusa nell’Ottocento, caratterizzata da una colorazione a mano con accesi colori che sovrapposta alle scene creavano una sorta di sovra-struttura astratta. Ciò per indicare come Grossi intenda riferirsi, con la sua musica, al tutte le tradizioni musicali del ‘900 alla ricerca di uno stile comunque personale. Ed in effetti i tre dimostrano di volersi addentrare su un terreno impervio avendo scelto di suonare senza batteria: quindi da un lato la mancanza di un più preciso e puntuale sostegno ritmico, dall’altro, però, la possibilità di svariare senza limite alcuno, agendo a fondo sulle dinamiche ed esplorando le sonorità del trio in un equilibrio ricercato e trovato tra pagina scritta e improvvisazione. Non a caso nelle note che accompagnano l’album viene esplicitamente detto che “Blend3 non sa quanti brani suonerà o quanto improvviserà, conosce soltanto il suo bisogno primario: prendere nuovamente vita ricercando un costante senso di unicità “. Obiettivo raggiunto? In questo album sì ma attendiamo il trio ad altre prove, ancora più impegnative. Ultima notazione tutt’altro che secondaria: molto curato e raffinato il confezionamento degli LP.