Mirabassi/Galante/Zanisi al TrentinoInJazz 2019

TRENTINOINJAZZ 2019
e
Società Filarmonica

presentano:

Giovedì 17 ottobre 2019
ore 20.30
Sala Filarmonica
Via Giuseppe Verdi, 30
Trento

TST – Third Stream Trio

Ingresso: euro 5

https://www.filarmonica-trento.it/jazz-2.html

Nuovo appuntamento con Ai Confini e oltre, il nuovo segmento del TrentinoInJazz 2019 dedicato alla “terza corrente”, la Third Stream nata negli anni ’50 negli Stati Uniti allo scopo di creare un terreno di incontro fra musica classica e jazz, evidenziando la valenza del jazz come “musica d’arte” e non solo ‘leggera’ o ‘da ballo’ come era considerato lo swing.
Giovedì 17 ottobre lo splendido trio composto da Gabriele Mirabassi (clarinetto), Emilio Galante (flauto) e Enrico Zanisi (pianoforte) presenterà un programma importante, nel quale figurano alcune riletture, attraverso la pratica improvvisativa, di musiche della tradizione sette-ottocentesca: alcuni Lieder di Schumann, un’opera giovanile di Mozart, il Quartetto KV 158, scritto durante il viaggio in Italia fra Rovereto e Milano, Busoni che rilegge Mozart (il Duettino Concertante nach Mozart), la Siciliana in sol minore di Bach trascritta dalla versione di Bill Evans, che la fa diventare un Valse in 3/4, Charlie’s Prelude (reso noto nelle versioni di Duke Ellington e Don Byron), una sorta di lettura-ragtime del quarto Preludio di Chopin, e, sempre di Chopin rivisitato, il Valse n. 2 op. 34, sorprendentemente in 2/4.

Sia nel caso di Busoni che di Bill Evans o di Chopin, si tratta di riletture, in un percorso che svela uno dei caratteri tipici della nostra cultura, dove l’originalità si appoggia sempre su una sovrapposizione continua di testi del passato. In programma anche due composizioni originali senza riscrittura improvvisativa, il Trio in mi minore di Busoni e il Choro n. 2 di Villa Lobos. La Società Filarmonica ha dedicato nella Stagione 2019 un spazio privilegiato al clarinetto invitando alcuni dei solisti più noti del panorama nazionale. Ne è perfetto complemento la figura di Gabriele Mirabassi, il clarinettista jazz più importante della scena odierna, con una fisionomia musicale molto articolata, che lo ha portato ad eccellere anche nella musica cameristica e nella musica brasiliana, della quale è diventato un interprete ricercatissimo, anche in Brasile.

Musica e storia sull’isola di Ventotene: torna il festival “Rumori nell’Isola” – 18a edizione

Dal 5 al 7 settembre torna sull’isola di Ventotene (arcipelago Pontino) l’appuntamento con il festival di musica jazz “Rumori nell’Isola”. Giunto ormai alla sua 18esima edizione l’evento si conferma come la manifestazione di riferimento all’interno delle attività culturali dell’isola per quanto riguarda la musica e il jazz in particolare.
Durante la kermesse musicale si svolgerà il consueto “Seminario Internazionale Federalista” organizzato dall’istituto di Studi Federalisti “Altiero Spinelli” che ogni anno porta sull’isola giovani provenienti da tutto il mondo per approfondire e rilanciare le tematiche che caratterizzarono la vita politica e culturale di Altiero Spinelli, il grande sostenitore di una comunità europea sopranazionale. Il messaggio universale della musica, veicolo di integrazione e solidarietà tra i popoli continua ad essere il contributo del festival al processo di integrazione europea.

In questa 18esima edizione, un fil rouge dedicato a giovani cantanti e cantautori che, a partire da una comune formazione jazzistica, hanno creato uno stile personale dando vita a progetti discografici di rilievo. Molti di questi artisti sono già conosciuti al pubblico di Ventotene, essendo stati protagonisti delle residenze artistiche offerte da Rumori nell’Isola all’Ensemble Vocale Burnogualà diretto da Maria Pia De Vito e, nel 2016, di una suggestiva performance in acqua divenuta un video virale sui social. Il Burnoguala’ tornerà a tenere nella forma dello small ensemble con 11 componenti, il concerto corale al faro e coadiuverà le due Masterclass in programma al festival: quella di Maria Pia De Vito “Voce, corpo e improvvisazione” e quella del chitarrista Roberto Taufic “La chitarra tra il Brasile, il jazz e la world Music”. Ai partecipanti delle Masterclass, anche l’opportunità di seguire un seminario di Autopromozione tenuto dall’ufficio stampa Fiorenza Gherardi De Candei (per informazioni: infomasterclassventotene@gmail.com).

Il programma nel dettaglio.
La prima serata giovedì 5 settembre si aprirà come sempre con un breve momento dedicato alle memorie e ai ricordi dei due luoghi di esilio: Ventotene e S. Stefano collegate dalle vicende storiche che hanno caratterizzato la storia italiana. Musica e storia invaderanno l’isola con la lettura di una testimonianza tra le tante pervenuteci dai detenuti politici che vi hanno soggiornato sin dalla fine del ‘700.
A seguire, dalle ore 22, i tre concerti di altrettante cantanti e compositrici: Eleonora Bianchini, Laura Lala e Oona Rea.
Bianchini e Lala, che hanno al loro attivo già altre incisioni discografiche, presentano i loro rispettivi progetti cantautorali di grande grazia musicale e profonda sensibilità nei testi, “Surya” e “Coraggio”; hanno già debuttato insieme all’Auditorium Parco della Musica con un concerto speciale dal titolo “La musica che unisce”, specchio di un pensare comunitario che in questo momento storico è quanto mai prezioso. Il terzo live vede protagonista Oona Rea con il suo album “First name Oona” (ed. Jando Music): un notevole progetto multiforme in cui è autrice di testi originali e poetici.
Le tre artiste saranno accompagnate da musicisti di consolidata fama nazionale: il pianista Seby Burgio, il chitarrista Luigi Masciari, il bassista Marco Siniscalco e il batterista Alessandro Marzi.

La seconda serata di venerdì 6 settembre alle 22 sarà aperta dalla cantante e compositrice Valentina Rossi, che presenterà brani del suo disco “Recuerdo” (edito da AlfaMusic e realizzato insieme alla fisarmonicista Valentina Cesarini), dedicato ad una rilettura del tango tra passato e futuro. Dopo di lei, saliranno sul palco Vittoria D’Angelo e Giuseppe Creazzo con il progetto “Sikè”, basato un repertorio che attinge dai canti e “cunti” siciliani e brani originali per una rilettura della tradizione.
Entrambi saranno accompagnati dal grande Roberto Taufic, illustre chitarrista brasiliano che proseguirà il concerto in solo: un’esperienza musicale di grande intensità, virtuosismo e lirismo.

La giornata conclusiva di sabato 7 giugno si apre già alle ore 12 presso la località Il Faro con una performance collettiva di Maria Pia De Vito con il Burnogualà Small Ensemble e gli allievi delle Masterclass accompagnati da Roberto Taufic.
I concerti serali si avvieranno come di consueto alle 22: in apertura Elena Paparusso con brani dal suo “Inner Nature” (ed. LhoboMusic Jazz), disco premiato in cui si mette alla prova sia come compositrice che in riletture di brani di Björk ed autori contemporanei. A seguire Marta Colombo, voce solista dell’Orchestra Operaia e del progetto “Gioca Jazz”, che presenterà il suo “MUd Pie”, progetto presentato con successo quest’anno al Festival Jazz On the Road di Brescia, in cui declina il suo amore per il blues e per le matrici africane del jazz.
Entrambe saranno accompagnate da musicisti pluripremiati ed affermati sulla scena jazzistica nazionale: Enrico Zanisi, Jacopo Ferrazza e Alessandro Marzi.
Il concerto conclusivo vede sul palco Maria Pia De Vito per un live che ripercorre diverse tappe della sua carriera, dedicato ad una ricercata rilettura di autori come Joni Mitchell, Ivano Fossati e di jazz standards, accompagnata dagli stessi musicisti.
Cantante e compositrice dal percorso artistico volto alla ricerca e alla sperimentazione, Maria Pia De Vito è particolarmente legata all’Isola di Ventotene e alla sua vita culturale; la sua carriera è densa di importanti riconoscimenti e collaborazioni internazionali di prestigio; da anni è in testa alle classifiche del Jazzit Award tra le cantanti italiane; attualmente è direttore artistico del festival Bergamo Jazz.

Il festival è realizzato grazie al patrocinio del comune di Ventotene e al contributo degli operatori turistici locali.
Tutti i concerti sono a ingresso gratuito.

CONTATTI
Info e prenotazioni Masterclass: infomasterclassventotene@gmail.com
Infoline festival: 334.7515066 – 340.4830087
Ufficio stampa festival: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 3281743236 info@fiorenzagherardi.com

Innarella, Gallo, Baron e la musica di Albert Ayler


Tutte le foto sono di ADRIANO BELLUCCI

Jazz in Cantina, 22 novembre, ore 21:30

Ayler’s Mood

Pasquale Innarella, sax tenore e soprano
Danilo Gallo, basso semiacustico
Ermanno Baron, batteria

Come molti lettori sanno, a volte mi allontano dal circuito “ufficiale” del Jazz, e vado in posti un po’ defilati, dove si può ascoltare musica live in un contesto inusuale.
Così vengo a sapere da un evento fb che Pasquale Innarella, sassofonista da me molto apprezzato da sempre, annuncia un suo concerto a Jazz in Cantina, zona Quarto Miglio, Roma. Musica improvvisata, ispirata ad Albert Ayler. Al basso Danilo Gallo, alla batteria Ermanno Baron. E’ curioso, non è la prima volta che incontro Danilo Gallo e Ermanno Baron in posti come questi: li avevo ascoltati infatti in un laboratorio di riparazione di pianoforti, zona Pigneto, insieme ad Enrico Zanisi, con il progetto EDE. Una nota a margine su cui (positivamente) riflettere.

Entro in uno scantinato ampio, accogliente, caldo, con le pareti in mattoncini e le foto dei Jazzisti alle pareti, qualche locandina, un piccolo banco bar, un palco con le sedie allineate davanti e improvvisamente mi sembra di essere a New York, non a Roma .
Il proprietario di questa piccola cantina, Roberto Scarabotti, è un appassionato di quelli che traducono la loro passione in tangibilità. Un locale dove ascoltare musica, ingresso libero, offerta libera (che al termine delle performance sei felicissimo di lasciare, per gratitudine ). Al termine del concerto la moglie di Roberto offre un piatto caldo per gli ospiti della serata . Un posto assurdo, a sé stante, uno di quei posti che ti riportano alla musica dal vivo con i musicisti ad un palmo, e che hanno concorso, a suo tempo, a farti innamorare del Jazz.

E il Jazz, inteso come proposizione di musica nuova, estemporanea, improvvisata, è ciò che ho ascoltato a Jazz in cantina.
Albert Ayler è lo spunto. L’ispirazione dicevamo, e lo spiega Innarella parlando di un ascolto alla radio fulminante, da ragazzino, evento quasi fortuito che ha visto nascere l’inizio del suo Jazz come musicista: ma questo geniale sassofonista non viene riproposto in forma di “standard” o “cover”. In realtà Ayler emerge a tratti durante un flusso di musica improvvisata in cui di volta in volta a guidare è il sax, o il basso, o la batteria, o in cui i tre si compattano in un unico suono, cangiante e intenso.
Cosa è accaduto durante questo concerto? Centinaia di cose, di cui alcune provo a dire, basandomi sulle pagine di appunti che ho preso freneticamente, senza fermarmi mai.

Si parte proprio da una intro di Innarella. Il basso di Gallo entra come un pendolo sonoro, la batteria è soffice, Baron sceglie i mallets per percuotere pelli e metallo.
L’armonia che ti immagineresti sottesa al sax viene scardinata implacabilmente dalle note del basso, che a tratti ti illude di rientrare in canoni usuali toccando dominante e tonica: ma sempre per molto poco. E soprattutto è il timbro grave, pastoso, vibrante dello stesso basso a destabilizzare, a creare l’elemento espressivo che determina la direzione del flusso. L’assottigliamento armonico lascia spazio ad un inspessimento timbrico che regala un senso di pienezza: non si rimpiangono, dunque, gli accordi mancanti.

Innarella, Gallo e Baron alternano momenti corali particolarmente intensi ad episodi in cui è uno solo a reggere quel filo di musica che non smette mai: in questi casi il basso può inaspettatamente tramutarsi in chitarra, e dialogare con la batteria, la cui cassa fa le veci di una ulteriore corda nel registro grave. Oppure può capitare che il sax emetta note lunghe, ruvide su un ostinato di basso che fa da sfondo, magari insieme alla batteria che lo doppia (o è il basso che doppia la batteria? )
Si passa da momenti minimali e tenui, ad ondate sonore poderose, e ancora a soste quasi silenziose, quasi come a riprendere fiato dopo una corsa disperata, per poi ritornare al clima evocativo di una melodia malinconica, in cui le note del basso, nel loro avvicendarsi, rimangono tenute a lungo, sovrapponendosi in una infinita e suggestiva serie di armonici. Innarella usa il suo sax come una vera e propria voce, parlando, cantando, urlando, battendo il tempo. Baron usa conchiglie, spazzole, mallets, bacchette e crea effetti di ogni tipo. Gallo usa ogni centimetro del suo basso, compreso il legno, e ottiene qualsiasi tipo di suono occorra a creare un’atmosfera inaspettata.

E se un attimo prima l’aria era colma di armonici, tutto era soffuso e senza spazio e tempo, improvvisamente i singhiozzi del basso, l’incalzare delle bacchette sui ride e le frasi spezzate del sax riportano tutto ad un qui e ora che non permette straniamento, e che è il prologo ad una nuova esplosione di volumi e di suono, che si concretizzano in una Marsigliese polemica, ironica, giunta chissà perché e chissà da dove nel sax di Pasquale Innarella. Parte una rumba giunta chissà perché e chissà da dove negli accordi del basso di Danilo Gallo ( e nella batteria di Ermanno Baron ) , e all’inizio tutto sembra tonalmente regolare, fino a quando quegli accordi non diventano atonali e destrutturanti.

Anche nel secondo set Danilo Gallo comincia con giri armonici noti lasciando gradatamente l’usuale dietro di sé, espandendo, comprimendo le strutture. Anche nel secondo set Pasquale Innarella gioca con citazioni, reminiscenze, contrasti tra registro grave e acuto. Anche nel secondo set Ermanno Baron è cangiante, propositivo, adattabile e assertivo, tutto e il contrario di tutto.
Questo significa che tutto il concerto è un susseguirsi di svolte inaspettate. Ma niente è casuale: improvvisare non significa certo suonare quello che capita.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

I concerti basati quasi interamente sull’improvvisazione libera possono avere su di me effetti molto differenti.
Spesso ho cercato di capire perché a volte io ne rimanga entusiasta mentre altre (senza mezzi termini) mi annoi a morte. Dipende certamente anche da me, dal mio background. Può dipendere dai musicisti, dal loro modo di porsi e di comunicare con il pubblico, o con me in particolare.

Però, andando un po’ a scavare nelle mie sensazioni, posso dire che amo l’improvvisazione quando essa non è dettata dal caso (suoniamo come ci pare a prescindere da tutto) o mera dimostrazione di forza, ma è invece frutto di un istinto molto intenso, guidato da una musicalità altrettanto forte, armonizzati entrambi dalla volontà di comunicare qualcosa di profondo, o sentito, o pensato e reso percettibile con la musica. Il che può avvenire inconsapevolmente: però avviene. E’ un’urgenza espressiva cui il musicista risponde.

Quando mi pare di riconoscere queste caratteristiche? Quando mi accorgo che tutto ciò che accade sul palco è armonioso, equilibrato, pur negli apparenti squilibri di un urlo o di una asprissima dissonanza.
In questo omaggio ad Albert Ayler, artista che trapela nell’energia, nella sistematica ricerca di sprazzi melodici – nonostante essi vengano poco dopo costantemente destrutturati – i musicisti hanno sempre ottenuto un affascinante bilanciamento del flusso sonoro. Il placarsi quasi onirico di un suono travolgente e adrenalinico arriva al momento opportuno, come per una tregua benefica.
Un ostinato di basso appare quando il sax corre freneticamente con fraseggi funambolici, esaltandolo ma non sovrapponendosi ad esso.
Una raffica tribale di battiti della batteria è sottolineata ad arte da una nota lunga del sax e da un vibrare potente del basso.
Tutto questo non è studiato strategicamente a tavolino né buttato lì come viene, ma improvvisato da chi sa fare musica avendo come fine la musica. Non l’esibizione muscolare con l’unico fine di stupire il pubblico, o del contraddire per partito preso qualcosa di già ascoltato e ritenuto dunque aprioristicamente banale.
E’ molto probabile che gli artisti sul palco di Jazz in Cantina mi riterranno un po’ squilibrata leggendo la descrizione che ho fatto della loro musica: loro suonavano estemporaneamente, io ascoltavo con attenzione, cercando un senso a ciò che accadeva. E sono uscita da Jazz in Cantina con la convinzione, ancor più rafforzata  di prima, che bisogna saper improvvisare: per farlo occorre istinto, poi serve lasciarsi andare, ascoltarsi reciprocamente, non ultimo saper suonare (e sì, bisogna essere bravi, le mani devono saper tradurre in suoni gli impulsi, le idee) … bisogna, in una parola, essere Musicisti nel senso più profondo del termine.
Spero in un disco di questo progetto. Anzi, lo caldeggio.

Qui di seguito potete ammirare gli scatti di Adriano Bellucci, che testimoniano l’atmosfera di una serata notevole, in un posto notevole, con un notevole trio sul palco.





 

 

 

 

I NOSTRI CD. Dalle ristampe musica senza tempo. Dalle novità la conferma del made in Italy

Oscar Brown Jr. – “Between Heaven And Hell” plus “Sin & Soul” – Soul Jam 600912
Nel corso degli anni Oscar Brown Jr. è diventato famoso non solo e non tanto per le sue grandi capacità di vocalist quanto per l’aver assunto determinate posizioni politiche che sarebbero divenute patrimonio di tutta la musica nera al di là di ogni distinzione tra jazz, funk, rap, R&B. In effetti considerare Brown solo come jazzista è piuttosto riduttivo dal momento che lo stesso si è affermato anche come poeta e drammaturgo. Questo album ci restituisce, comunque, Oscar Brown Jr. nella sua veste di eccellente jazzista quale lo si ritrova in due LP, “Between Heaven And Hell” del 1962 e “Sin & Soul” del 1960 con l’aggiunta di tre bonus tracks sempre dei primissimi anni sessanta. Si tratta, in buona sostanza, dei primi due LP incisi da Oscar Brown e che anche per questo assumono una precisa rilevanza storica. In “Sin & Soul” Oscar Brown ha scritto parole e musica della maggior parte dei brani in repertorio; da segnalare come in tre pezzi la musica sia opera di altrettanti personaggi all’epoca emergenti ma che in breve sarebbero diventati celebri: “Work Song” di Nat Adderley, “Dat Dere” di Bobby Timmons e “Afro-Blue” di Mongo Santamaria. Ma è proprio nelle composizioni ascrivibili in toto al vocalist che troviamo i motivi di maggiore interesse con brani emblematici quali “Bid’em In” e “Humdrum Blues” che rappresentano in toto la poetica dell’artista così complessa e così calata nella realtà degli afro-americani.
Nell’altro LP – “Between Heaven And Hell” – possiamo ascoltare dodici brani di cui ben dieci scritti totalmente dal vocalist e due in cui Oscar Brown ha composto la musica su testi di poeti quali Gwendolyn Brooks e Paul L. Dunbar. Notevoli in questo caso non solo l’interpretazione del leader ma anche i preziosi arrangiamenti di Ralph Burns e, in due brani “Mr. Kicks” e “Hazel’s Hips”, di Quincy Jones. Altresì notevoli gli apporti dei solisti quali, ad esempio, il trombettista Joe Newman e il pianista Patti Bown.

Miles Davis – “In Person Friday and Saturday Nights at the Blackhawk” – Poll Winners 27373 2 CD
E rimaniamo negli anni ’60 con queste straordinarie registrazioni di Miles Davis. Questo doppio cd ripropone, infatti, lo storico concerto registrato dal trombettista il 21 e 22 aprile del 1961 al Blackhawk di San Francisco, originariamente pubblicato come “Miles Davis in Person at the Blackhawk Vols. 1 & 2” (Columbia CS8469/CS 8470).
Anche in questo caso sono molti i motivi di interesse. Innanzitutto, dal punto di vista storico, si tratta di una delle pochissime registrazioni di Miles Davis con Hank Mobley al sax tenore (le altre due registrazioni di questo quintetto furono “Someday My Prince Will Come” e “Miles Davis at Carnegie Hall”). In secondo luogo si tratta delle prime performances e relative registrazioni che Miles, alla testa di questo gruppo, abbia effettuato in un club. Inoltre è possibile ascoltare una delle migliori sezioni ritmiche che la storia del jazz possa vantare, vale a dire Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria che non a caso hanno suonato e registrato spesso come un trio a sé stante. Dal punto di vista squisitamente musicale non credo siano necessarie molte parole per illustrare la valenza di questa musica e ne era convinto lo tesso Miles che rispondendo ad alcune domande di Ralph J. Gleason, incaricato di scrivere le note di copertina, affermò che non c’era alcunché da scrivere sulla musica dal momento che la stessa parlava da sé. E parlava un linguaggio allo stesso tempo moderno ma legato alle tradizioni, con una front-line in cui Hank Mobley riusciva a dialogare con grande intensità con Miles in uno dei suoi giorni migliori. Il tutto supportato da una sezione ritmica, come si diceva, di assoluta eccellenza. Tutti i brani sono da godere nella loro interezza anche se personalmente ho apprezzato in modo particolare “Walkin’” e “Softly As In A Morning Sunrise”.

Bill Evans – “New Jazz Conceptions” – Poll Winner 27364
Durante questa rassegna di ristampe mi leggerete usare spesso l’aggettivo ‘storico’ ma in taluni casi è davvero indispensabile. Ad esempio come meglio definire questo CD di Bill Evans dal momento che si tratta dell’album d’esordio dell’allora ventisettenne pianista come leader (prodotto da Orrin Keepnews per la Riverside Records RLP-12-223) riprodotto nella sua interezza e comprendente quindi un’alternate take di “No Cover, No Minimum” che chiude la session. Originariamente l’lp, registrato nel settembre del 1956, conteneva undici tracce di cui otto in trio con Teddy Kotick al basso e Paul Motian alla batteria, e tre in piano solo tra cui la prima registrazione del capolavoro di Evans, “Waltz for Debby”. Basterebbero queste poche note per far capire come si tratti di un album che ogni appassionato di jazz dovrebbe possedere e ascoltare con attenzione. Quell’attenzione che evidentemente non prestarono gli ascoltatori dell’epoca dato che il primo anno della sua uscita l’album vendette appena 800 copie. In effetti, anche se Evans stava ancora mettendo a punto il suo stile che avrebbe dato una svolta imprescindibile alla concezione del piano-trio, tuttavia non era certo difficile cogliere le potenzialità di questo straordinario artista. E le possibilità di comparazione erano lì, sotto gli occhi di tutti, dal momento che in questo specifico album Evans poneva il focus della sua ricerca ancora sul grande song book americano proponendo solo poche sue composizioni – “Five” , “Displacement”, oltre ai già citati “No Cover, No Minimum” e “Waltz for Debby”. Quasi inutile sottolineare come a distanza di oltre sessanta anni queste incisioni conservino intatta tutta la loro freschezza, originalità a conferma che la grande musica non conosce confini di spazio o di tempo. Magnifica, in particolare, l’interpretazione di “My Romance” di Rodgers-Hart. L’album è completato da altri sei brani provenienti da due session dello stesso periodo in cui Evans suona con Dick García chitarra, Jerry Bruno basso e Camille Morin batteria nei primi tre, e con Eddie Costa vibrafono, Joe Puma chitarra, Oscar Pettiford basso e Paul Motian batteria negli altri tre. Da leggere, infine, la recensione scritta per Down Beat da Nat Hentoff e fedelmente riportata nel libretto che accompagna l’album unitamente alle note originarie di Orrin Keepnews e ad un ulteriore contributo di Mel Parson redatte per la riedizione del disco.

Maynard Ferguson – “The Birdland Dream Band” – RCA Victor 88985407092
Ancora una ristampa di grande importanza storica e artistica. Siamo a metà degli anni ’50, per la precisione nel 1956, e Maynard Ferguson ha l’opportunità di formare una orchestra stellare significativamente chiamata “Birdland Dream Band” con cui effettua numerose tournée e incide qualche album come quello presentato in questo CD, impreziosito dalla presenza di altri nove alternate tracks non comprese nell’originale LP. Le registrazioni, effettuate alla Webster Hall di New York nel settembre del 1956, evidenziano tutta la potenza interpretativa dell’orchestra. In effetti grazie agli arrangiamenti di personaggi quali Al Cohn, Bob Brookmeyer, Jimmy Giuffre, Ernie Wilkins, Bill Holman, Marty Paich, Willie Maiden, Johnny Mandel, Herb Geller, e a solisti del calibro del trombonista Jimmy Cleveland, dell’altista Herb Geller, del tenorista Al Cohn, del trombettista Nick Travis, del pianista Hank Jones la band raggiunge un successo strepitoso e costituisce di fatto la base di lancio per la prestigiosa carriera da band-leader che avrebbe contrassegnato la vita di Ferguson. Successo, intendiamoci, del tutto meritato come avrete modo di constatare ascoltando l’album. La musica è serrata, lo swing intenso, trascinante, il sound orchestrale compatto, gli interventi solistici perfetti con il leader sovente in primo piano; i brani si susseguono senza un attimo di tregua a declinare un repertorio di assoluto livello in cui figurano, in veste di autori, Al Cohn, Bill Holman, Bobby Brookmeyer, Jimmy Giuffre, Marty Paich, Manny Albam e John Mandel, come a dire una piccola enciclopedia del jazz.

Ella Fitzgerald – “Sings the Cole Porter Song Book” – Poll Winners 27363 – 2 CD
Rimaniamo negli anni cinquanta; Lady Ella è in piena attività, oramai riconosciuta come una delle più importanti vocalist jazz; così si esibisce in tournée attraverso l’Europa e il Nord America, accompagnata dall’orchestra di Duke Ellington e instaura una proficua collaborazione con Louis Armstrong documentata da tre indimenticabili album: “Porgy and Bess”, dedicato all’omonima opera di George Gershwin, e due incisioni di standard jazz, “Ella and Louis” e “Ella and Louis Again”. In questo stesso periodo incide per l’etichetta discografica Verve Records una serie di Songbooks, prodotta da Norman Granz, contenenti le canzoni scritte dai più grandi compositori americani. Questo doppio CD, registrato nel 1956, ci presenta per l’appunto Ella Fitzgerald impegnata nella interpretazioni del song book di Cole Porter. Questa volta l’aggettivo “storico” è quanto mai opportuno: in effetti l’album già nel 2000 entra a far parte del Grammy Hall of Frame e nel 2003 è uno dei 50 dischi scelti dalla Libreria del Congresso per far parte del “National Recording Registry”. In effetti l’album è semplicemente straordinario: Ella è in gran forma, la sua voce è fresca, caratterizzata come al solito da un’ampia estensione e da una perfetta intonazione, sorprendente il suo scat che avrebbe poi costituito parte integrante della sua cifra stilistica, grande la capacità di improvvisazione jazzistica. Assolutamente pertinente l’accompagnamento fornito dalla big band di Buddy Bergman in cui spiccano solisti come i trombettisti Pete Candoli, Harry “Sweets” Edison, Maynard Ferguson, i sassofonisti Herb Geller, Bud Shank, Bob Cooper, il chitarrista Barney Kessel, il contrabbassista Joe Mondragon e il batterista Alvin Stoller. A ciò si aggiunga la bellezza dei temi firmati da Cole Porter: brani come “In The Still Of The Night”, “I Get A Kick Of You”, “Just One of Those Things”, “Begin the Beguine”…tanto per citare qualche titolo, vengono lumeggiati nelle pieghe più remote e riproposte in tutta la loro valenza. Il doppio album contiene come bonus track “Love For Sale” registrato il 29 aprile del 1957 con Don Abney piano, Herb Ellis chitarra, Ray Brown basso e Jo Jones batteria. Ad impreziosire il tutto un ampio libretto con interventi di Alan Guntry, Don Freeman, Norman Granz, Fred Lounsberry.

Oliver Nelson – “The Blues and the Abstract Truth” – The Stereo & Mono Versions – Green Corner 100894 – 2 CD
Oliver Nelson nasce a St.Louis, Missouri, nel 1932 e comincia a suonare il pianoforte all’età di sei anni per passare al sassofono ad undici. Nel 1947 le prime scritture professionali con diverse band nei dintorni di St.Louis, finché nel 1950 entra nella big band di Louis Jordan suonando il sassofono contralto ed occupandosi altresì degli arrangiamenti. Il grande successo arriva nel 1961 quando, dopo sei album come leader, incide per l’appunto “The Blues and the Abstract Truth” (che contiene tra gli altri il famoso “Stolen Moments”, poi diventato uno standard); accanto a lui una serie di musicisti eccezionali quali George Barrow al sax baritono, il trombettista Freddie Hubbard, il sassofonista e flautista Eric Dolphy (alla sua ultima collaborazione con Nelson dopo una serie di registrazioni per la Prestige), Bill Evans al piano (nel suo unico album con Nelson), Paul Chambers e Roy Haynes rispettivamente basso e batteria. L’album ci viene proposto nella duplice versione mono e stereo e la cosa non deve stupire più di tanto ove si consideri che nei primissimi anni sessanta le case discografiche erano solite pubblicare nella duplice versione dato che ancora la stereofonia non era molto diffusa. Dal punto di vista squisitamente musicale, l’album è una vera e propria perla nella discografia di quegli anni; dall’alto della sua perizia di arrangiatore e compositore, Nelson, pur non rispettando la canonica struttura delle 12 battute, si lancia in una profonda esplorazione del blues di cui ci propone una sua particolarissima e brillante visione, in ciò perfettamente assecondato da quei grandiosi musicisti cui prima si faceva riferimento. Il brano più noto e probabilmente il migliore è “Stolen Moments”; dopo una introduzione collettiva è Freddie Hubbard a prendere un convincente assolo, seguito dal flauto di Dolphy e dal sax tenore di Nelson. L’assolo di Bill Evans e la riproposizione corale del tema chiudono il brano. Un’ultima non secondaria notazione: il doppio CD contiene altri due album, “Trane Whistle” (1960), della big band del sassofonista Eddie “Lockjaw” Davis con arrangiamenti di Oliver Nelson e Ernie Wilkins, e “Straight Ahead” (1961) dello stesso Nelson.

Art Pepper – “Smack Up” – Poll Winners 27360
Anche questo album ha una sua precisa caratterizzazione storica: si tratta, infatti, della penultima registrazione effettuata dal sassofonista e clarinettista Art Pepper come leader prima che lo stesso fosse incarcerato a S. Quentino per motivi di droga e tornasse a registrare solo nel 1964. Purtroppo la frequentazione con le droghe fu una costante nella vita di Pepper condizionandolo in maniera decisiva e riducendo in maniera sostanziale le sue possibilità espressive. In altri termini Pepper avrebbe potuto dare molto di più se avesse avuto una vita regolata. Chiaramente influenzato da Charlie Parker all’inizio della carriera, Pepper riuscì a trovare una sua strada nel corso degli anni, specie nel periodo che va dal 1957 al 1960. Ed in effetti questo “Smack Up” venne registrato a Los Angeles nell’ottobre del 1960 in quintetto con il trombettista Jack Sheldon, il pianista Pete Jolly, il bassista Jimmy Bond e il batterista Frank Butler. Nelle note di copertina originarie, scritte da Leonard Feather e riportate nel libretto che accompagna il CD, si può leggere come le doti principali dell’altosassofonista vadano ricercate nella passionale eloquenza anche se chiaramente influenzata da Parker e nell’assoluta originalità del suo sound che lo rendono immediatamente riconoscibile. Molti anni sono trascorsi da quando Feather formulò tali valutazioni ma non si può non essere d’accordo con lui ascoltando questo splendido album in cui Pepper evidenzia appieno la sua complessa personalità, ben coadiuvato da eccellenti compagni d’avventura tra cui in primissimo piano il trombettista Jack Sheldon e il pianista Pete Jolly. Come bonus track l’album contiene l’unico brano della colonna sonora del film The Subterraneans in quintetto co-guidato da Pepper e Sheldon, ed una sessione completa del 1959 in nonetto, con Jack Sheldon e Chet Baker alla tromba, Art Pepper e Herb Geller al sax alto, Stu Williamson al trombone a valve, Harold Land al sax tenore, Paul Moer al pianoforte, Buddy Clark al basso e Mel Lewis alla batteria.

Sonny Stitt, Hank Jones – “Cherokee” – Phono 2 CD
Ecco una ristampa imperdibile per chi ama Sonny Stitt e per chi, più in generale, ama la buona musica. Questo doppio cd riunisce, infatti, quattro sessioni complete nella loro interezza da cui sono scaturiti gli album “Sonny Stitt with The New Yorkers”, “Now!”, e “Salt and Pepper”, così come l’album “Stitt in Orbit” (comprendente altri due brani, non inclusi qui, poiché tratti da una sessione con una formazione diversa) registrati tra il 1957 e il 1963. In tutte queste registrazioni il sassofonista ha al suo fianco il pianista Hank Jones con il quale aveva già collaborato nel 1953 come membri del Buddy Rich Quartet, e, dopo le session qui presentate, non avrebbero registrato insieme fino al 1972 nell’album “Goin’ Down Slow” in quartetto con George Duvivier basso e Idris Muhammad batteria. In tutti i brani qui proposti Sonny Stitt e Hank Jones suonano in quartetto o con Wendell Marshall al basso e Shadow Wilson alla batteria o con Tommy Potter basso e Roy Haynes batteria o ancora con Al Lucas basso e Osie Johnson batteria. Nell’album “Salt and Pepper”, si aggiunge Paul Gonsalves, per la sua unica collaborazione registrata con Stitt mentre la sezione ritmica è affidata a Milt Hinton e Osie Johnson. Dal punto di vista musicale i brani che possiamo ascoltare in queste registrazioni sono un valido esempio del migliore jazz che si suonava in quel periodo. Stitt è in gran forma ed ha già intrapreso la strada che man mano lo porterà a distaccarsi dal suo modello d’ispirazione, Charlie Parker, come dimostrano, tra l’altro, le registrazioni effettuate nel ’60 con Miles Davis. Dal canto suo Hank Jones è nel pieno della maturità espressiva e proprio negli anni sessanta costituisce un suo quartetto, assieme al batterista Osie Johnson, al chitarrista Barry Galbraight e al bassista Milt Hinton che ottiene un clamoroso successo di pubblico e di critica. Come avrete modo di ascoltare il suo pianismo si integra perfettamente con le linee bop tracciate da Stitt per una musica che davvero non conosce l’usura del tempo.

Kai Winding – “Solo + Kai Olé” – Phono 870284
Quella di Kai Winding è stata una sorte piuttosto strana: nonostante nessuno metta in dubbio le sue qualità, tuttavia lo si ricorda soprattutto per le registrazioni effettuate durante gli anni ’50 con Jai Jai Johnson e viene assolutamente trascurata tutta la produzione successiva. Invece questo cd riunisce due album completi degli anni ‘60, che compaiono per la prima volta su CD: “Solo” (Verve V6-8525) e “Kai Olé” (Verve V6-8427). Il primo album, registrato tra gennaio e febbraio del 1963, vede il trombonista alla testa di un combo con Ross Tompkins al piano, Dick Garcia chitarra, Russell George basso, Gus Johnson o Tommy Check batteria. Nel secondo, registrato nel 1961, il trombonista di Aarhus, Danimarca, guida una grande orchestra di dodici elementi arrangiata e condotta da Al Cohn e dal collega trombonista Billy Byers. Nella band spiccano solisti come Phil Woods, Clark Terry, Joe Newman e lo stesso Byers. Dal punto di vista squisitamente musicale, “Solo” si caratterizza per il fatto che Winding, contrariamente a quanto era solito fare in quel periodo, abbandona la formazione con più tromboni e si presenta come unico fiato in quartetto o in quintetto. In tali contesti ha modo di esprimere appieno tutte le proprie potenzialità tanto che ancora oggi l’album viene considerato uno dei migliori registrati da Winding negli anni ’60. Anni in cui Kai incide soprattutto anche album jazz-pop per la Verve Records con il produttore Creed Taylor. Tornando a “Solo”, lo si ascolti particolarmente in “Days Of Wine And Roses”. Diverse le atmosfere ricercate in “Kai Olé” che può essere considerato un album di latin jazz; non a caso in repertorio figurano brani come “Manteca”, “Caribe” e “Besame Mucho”. Winding e compagni esplorano questo linguaggio e trovano piena libertà espressiva servendosi al meglio delle percussioni latine nella mani dell’eccellente Willie Rodriguez. Ma il protagonista è sempre lui, il trombonista danese, che mette in vetrina una sonorità ancora una volta splendida ed un fraseggio sempre fluido e preciso.

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Ajugada Quartet – “Hand Luggage” – Filibusta 1813
Quattro donne per questo Ajugada Quartet al suo debutto discografico: Antonella Vitale voce, Gaia Possenti pianoforte, Giulia Salsone chitarra e Danielle Di Maio sax alto e soprano, con l’aggiunta, in veste di special guest, di Juan Carlos Alberto Zamora armonica, Neney Santos percussioni e Stefano Isola synth. Costituitosi recentemente, il gruppo ha già potuto riscuotere l’interesse del pubblico nei concerti tenutisi alla Casa del Jazz di Roma, al Festival R-Esistenza Jazz presso l’Acrobax a Roma, al Festival del Jazz Teatro di Ostia Lido, Teatro Palladium di Roma Festival delle Compositrici e a “L’Aquila Jazz per le Terre del sisma edizione 2018”. Quindi, se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino non c’è dubbio che sentiremo ancora parlare di questa formazione. Senza alcuna pretesa di sperimentazione né di stupire l’ascoltatore, con molta umiltà e onestà intellettuale (merce oltremodo rara di questi tempi), le quattro artiste si muovono alla ricerca di belle melodie, senza per questo disdegnare la scrittura, con la presenza, quindi, in repertorio di ben sette original. In altre parole il gruppo prende per mano l’ascoltatore e lo conduce in un affascinante viaggio musicale attraverso stili e input differenti: così partendo da un brano di grande jazz come “Kind Folk” di Kenny Wheeler si arriva al Brasile di Egberto Gismonti e a Fito Paez, grande personaggio della scena artistica argentina. L’intesa è notevole: la voce si integra perfettamente in un contesto strumentale in cui piano e chitarra non fanno avvertire la mancanza di una sezione ritmica canonica (basso e batteria) mentre gli interventi degli ospiti appaiono quanto mai centrati e pertinenti. Si ascolti, al riguardo, Juan Carlos Albeto Zamora ne “Il regalo” e in “Livingstone”.

Enrica Bacchia – “E ritorno a casa” – Accordo BGZ/001
Spesso, parlando del mio recente volume “L’altra metà del jazz”, ho detto che una delle interviste che mi aveva maggiormente colpito per la capacità dell’interlocutore di mettersi a nudo era stata quella con Enrica Bacchia. E la capacità di questa straordinaria artista di andare dritta al cuore si manifesta sì con le parole… ma ancor meglio con la musica. Non è certo un caso che la Bacchia sia considerata una delle massime espressioni del canto europeo e se ce ne fosse stato ulteriore bisogno questo album è lì a dimostrarlo. Perfettamente coadiuvata da Massimo Zemolin (chitarra 7 corde), e Stefano Graziani (chitarra) cui si aggiungono in alcuni brani Luigi Sella al sax soprano, Francesco Pollon al pianoforte, David Boato alla tromba e Stefano Panizzo come arrangiatore nel brano di chiusura, la Bacchia affronta un repertorio all’apparenza “leggero” ma proprio per questo difficile da tradurre in qualcosa di completamente diverso dalla pop-routine. Ma la vocalist ci riesce perfettamente aderendo al titolo dell’album. E di un ritorno a casa in effetti si tratta dal momento che dopo aver declinato repertori americani, sudamericani ed europei, questa volta si rivolge a melodie di stampo italico che tutti conosciamo perfettamente. Particolarmente toccante l’apertura affidata a “Se io fossi un angelo” di Lucio Dalla, cantautore in cima alle preferenze del vostro cronista; Enrica affronta il brano con sincera partecipazione e grande trasporto nel raccontare ciò che Dalla voleva dirci con i suoi testi tutt’altro che banali. E l’attenzione ai testi è una costante di tutto il CD sottolineata dal fatto che la vocalist è accompagnata, per quasi tutto l’album, solo dalle corde di chitarra all’interno di un’architettura sonora semplice ma efficace. L’album si chiude con un brano strumentale scritto da Stefano Graziani con il trombettista David Boato in bella evidenza.

Maurizio Brunod – “Nostalgia progressiva” – Caligola 2241
Album di notevole interesse questo firmato da tre fra gli artisti più innovativi del panorama musicale italiano: il chitarrista Maurizio Brunod, il vocalist Boris Savoldelli e il trombettista Giorgio Li Calzi. Più volte ho espresso la mia avversione nei confronti di un uso eccessivo dell’elettronica nella musica; in questo caso, viceversa, siamo di fronte a tre artisti che sanno molto bene come padroneggiare le nuove tecnologie sì da offrire una musica allo stesso tempo moderna ma non slegata dal passato, una musica che suona estremamente attuale ma che allo stesso tempo guarda – con “nostalgia progressiva” – alla stagione d’oro del rock progressivo e della psichedelia. Insomma non un nostalgico ritorno al passato ma una rivisitazione originale di un patrimonio caro a noi tutti. Di qui un repertorio di dieci brani in cui ci sono i King Crimson, i Beatles, Elvis Costello, i Nucleus di Ian Carr… insomma alcuni di quei musicisti che hanno dato vita alla straordinaria stagione che ha caratterizzato l’Inghilterra di fine anni ’60… fino ai Kraftwerk banda tedesca pioniera della musica elettronica e alle italianissime Orme di cui viene riproposto “Gioco di bimba”. I tre si integrano alla perfezione e potendo contare su un tappeto ritmico-percussivo di grande efficacia, affrontano con estrema disinvoltura anche i passaggi più ardui, senza alcuna preoccupazione di andare oltre il limite, di assecondare un facile ascolto lasciandosi andare all’ispirazione del momento. Prova ne sia che l’album, nonostante la sua complessità, è stato realizzato in un solo giorno. Notevole l’equilibrio raggiunto tra le citazioni quasi filologiche di queste immortali melodie e la capacità di improvvisare che riguarda sia il singolo musicista sia il trio nella sua totalità.

Kulu Sé Mama – “Nécessaire de Voyage” – Dodicilune 380
Album gradevole e interessante questo “Nécessaire de Voyage”, primo lavoro discografico del quintetto Kulu Sé Mama. Diretto da Gabriele Rampino (sax tenore e soprano, sound design) e completato da Maurizio Bizzochetti (chitarre), Maurizio Ripa (piano), Maurizio Manca (basso elettrico) e Daniele Bonazzi (batteria). In repertorio 7 brani originali (firmati da Rampino e Ripa) che non difettano certo quanto ad originalità e valenza di scrittura. Ma quel che forse maggiormente colpisce è l’empatia che evidenziano questi musicisti, la facilità con cui si cercano, si trovano e riescono a dialogare su un canovaccio spesso non banale. E la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che il gruppo nasce verso la fine degli anni ’80 ospitando diversi musicisti fino a giungere alla formazione attuale in cui ritroviamo due tra i cofondatori del gruppo vale a dire Gabriele Rampino e Maurizio Bizzochetti. Dal punto di vista musicale, il gruppo si muove lungo direttrici non particolarmente nuove in quanto il suo stile raccoglie input provenienti da diversi generi musicali che oggi vanno per la maggiore, ivi compresi, ovviamente, il jazz. Ma lo fa con originalità e con una certa raffinatezza timbrica. A ciò si aggiunga la buona scrittura e si avrà un quadro completo del perché l’album merita attenzione. Tra i brani vi consigliamo di ascoltare “To the Forgotten” e “Endless Mirror”, ambedue impreziositi dagli assolo di Gabriele Rampino sia al sax tenore sia al sax soprano, mentre nel brano di chiusura – “They Say It’s A Ballad” a mettersi in evidenza è la chitarra di Maurizio Bizzochetti.

Late Sense Quartet – “Meetings” – Improvvisatore Involontario 054
Altro disco d’esordio; a presentarsi al pubblico del jazz è il Late Sense Quartet ovvero Gaetano Santoro al sax, Edoardo Ponzi al vibrafono e marimba, Francesco Marchetti al basso e Mauro Cimarra alla batteria cui si aggiunge in veste di ospite speciale il trombonista Massimo Morganti e un non meglio identificato N2B all’elettronica, probabilmente responsabile della ghost track a chiusura dell’album. Il quartetto si muove lungo direttrici certo non nuove ma percorse con sicurezza cementata da una profonda intesa, dato che il gruppo nasce come trio nel 2015 cui l’anno successivo si aggiunge Gaetano Santoro. Di qui il titolo dell’album che vuole significare la profonda importanza degli incontri e proprio “Meetings fanno notare i musicisti – rappresenta l’incontro fra sensibilità e vite diverse alla ricerca di un minimo comun denominatore che sia il trampolino per creare una musica davvero condivisa”. Ed è proprio grazie a questa intesa che il gruppo riesce a ben districarsi tra atmosfere bop ed un linguaggio che vuole essere più libero, più moderno. Risultato raggiunto appieno soprattutto quando il quartetto diventa quintetto con l’aggiunta di Morganti che si fa ascoltare nella suggestiva “Ballad for my Valentine”, in “Come una rima semplice” (con in bella evidenza anche il vibrafono di Edoardo Ponzi) e nel più movimentato “Broken blue” pezzi firmati i primi due da Marchetti e Ponzi, e il terzo da Gaetano Santoro. Quest’ultimo evidenzia un bel timbro ed una facilità di fraseggio specie quando si trova a dialogare con l’altro fiato. Precisa, mai invadente ma sempre propositiva la sezione ritmica. Insomma un gruppo da cui aspettiamo belle sorprese.

Ugo Moroni – “Pinturas” – Dodicilune 408
Registrato nel giugno del 2017 l’album presenta il chitarrista e compositore campano di adozione bolognese alla testa di una formazione piuttosto ampia (quattordici elementi) ad interpretare cinque brani di cui tre originals cui si affiancano “A Foggy Day” di George Gershwin e “Demon’s Dance” di Jack McLean eseguita in ottetto. Come sottolinea lo stesso Moroni, i titoli dei brani sono ripresi dalle opere di Francisco Goya mentre la copertina è stata realizzata da Korvo appositamente per questo lavoro. Devo confessare che ho dovuto ascoltare diverse volte l’album in oggetto per realizzare un’opinione compiuta. In effetti ai primi ascolti l’album scorreva bene, con la band ottimamente rodata e alcuni brani particolarmente gradevoli… ma c’era qualcosa che non girava a dovere; successivamente ho realizzato che i pezzi in cui a mio avviso la band si esprimeva meglio erano i due standard ben arrangiati e altrettanto ben eseguiti. Ciò significava, quindi, che erano le altre tre composizioni a non convincere pienamente. In altri termini se Moroni evidenzia una certa maturità sia come strumentista sia come band-leader, probabilmente deve ancora approfondire l’elemento compositivo. Certo nessuno si aspetta che i nostri musicisti sfornino capolavori alla Porter o alla Nelson (per citare due autori di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica) ma delle composizioni ben strutturate, equilibrate e in cui parti scritte e improvvisazione si integrino senza sforzo almeno apparente, questo sì. Ecco in alcuni passaggi dei pezzi di Moroni mi è parso di percepire qualche forzatura, qualche sbavatura che sono sicuro saranno superati nei prossimi lavori. Un’ultima considerazione: come ho detto centinaia di volte, queste mie notazioni non hanno la pretesa di essere verità assolute, costituendo un punto di vista assolutamente personale.

NovoTono – “Overlays” – ParmaFrontiere 04
Conoscevo già i NovoTono per l’album “Wanderung” registrato nel 2007 in quartetto dai fratelli Ferrari con Federico Cumar al trombone e Luca Serrapiglio al sax soprano.
Adesso ritroviamo il combo che si identifica, però, solo con il duo costituito dai fratelli Ferrari, Adalberto (clarinetto basso, clarinetto, sax soprano, clarinetto contralto) e Andrea (clarinetto basso). L’album, registrato nell’aprile di questo 2018, contiene dodici tracce di cui ben undici originali firmate ora da uno ora dall’altro fratello, e una breve medley costituita da “Odwalla” e “Lonely Woman” scritti rispettivamente da Roscoe Mitchell e Ornette Coleman. Praticamente nudi dinnanzi alla musica, senza il supporto di strumenti armonici e ritmici, i due fratelli se la cavano egregiamente grazie ad un’empatia che si avverte, prepotente, sin dalle primissime note. Senza alcuno sforzo apparente, clarinetto e sassofono si accarezzano, si scontrano, si inseguono in un perfetto equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione; il dialogo è fitto, complesso, ma sempre coinvolgente e soprattutto mai banale; le personalità dei due musicisti sono diverse ma riescono ad integrarsi nel proporre una musica assolutamente personale. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: splendida la copertina opera di Cristina Crippa, regista e fotografa, che ha immortalato i due artisti in un luogo magico quale la Città Fantasma di Consonno, il borgo che nel 1976 vide naufragare a causa di una frana il tentativo del conte Bagno di costruire in Brianza una Las Vegas nostrana.

Enzo Pietropaoli Wire Trio – “Woodstock Reloaded” – Jando Music Via Veneto 123
E’ il 1969 e dal 15 al 18 agosto si svolge a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, una manifestazione che sarebbe stata ricordata come la “tre giorni di pace e musica rock”: è il festival di Woodstock che richiama circa 400.000 giovani e a cui partecipano trentadue musicisti e gruppi, fra i più noti del tempo. Quanto sia stato importante questo evento lo dimostra il fatto che è rimasto indelebilmente scolpito nella mente e nel cuore di noi tutti che amiamo la musica. Ad ulteriore conferma ecco questo nuovo album del bassista Enzo Pietropaoli in trio con Enrico Zanisi al piano e tastiere e Alessandro Paternesi alla batteria. In programma otto brani tratti da Woodstock 1969 cui si aggiunge, in chiusura, un original dello Stesso Pietropaoli significativamente intitolato “Back Home”. Ecco quindi “Soul Sacrifice” di Carlo Santana, “With A Little Help From My Friends” magnificamente interpretato allora da Joe Cocker, “Seel Me Feel Me” che ci riporta ai Who… e via di questo passo in una sorta di immaginaria galleria in cui incontriamo Janis Joplin, Joan Baez, Creedence Clearwater Revival, Sly And The Family Stone, Jimi Hendrix… Ma, attenzione, non si tratta di una semplice ripresentazione di cover ché Pietropaoli è musicista troppo bravo ed esperto per cadere in simili banalità. Il progetto è completamente diverso e la stessa struttura dell’organico lo dimostra: Enzo vuole rileggere questi celebri brani alla stregua di un linguaggio più moderno che, nel rispetto assoluto delle valenze originarie, abbia comunque assorbito quanto in campo musicale è avvenuto nel corso di questi decenni. E il risultato è perfettamente raggiunto: i tre si muovono con grande disinvoltura ed empatia evidenziando come si possa fare grande jazz anche rifacendosi ad un repertorio che poco o nulla ha a che vedere con la musica afro-americana.

Sonia Spinello – “Café Society” – abeat 182
Una bella voce perfettamente intonata, giocata prevalentemente sul registro medio, eccellenti capacità interpretative, una spiccata personalità nel riproporre un repertorio assai impegnativo come quello scelto per questo album. La Spinello è andata, infatti, a ripescare alcune perle del songbook americano, brani incisi più e più volte da stelle di primaria grandezza con cui è difficile confrontarsi. Ma la vocalist non è certo tipo da impressionarsi come dimostra l’originale rilettura contenuta nel “Billie Holiday project” (abjz 545) e “Wonderland” (abjz 162), in cui va a rivisitare brani di Steve Wonder e Sting. E lo fa con tale originalità da meritare da parte di “critique award magazine” in Giappone il riconoscimento di miglior disco voce femminile dell’anno 2016. E forse ricorderete che anche il sottoscritto era rimasto particolarmente colpito dall’album tanto da aver votato la Spinello come miglior nuovo talento nell’annuale “Top Jazz” Ma torniamo a questo “Café Society” in cui Sonia è inserita in un quintetto completato da Fabio Buonarota alla tromba (con il quale aveva già collaborato in “Wonderland”), Lorenzo Cominoli alla chitarra, Attilio Zanchi al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria, come a dire una delle migliori sezioni ritmiche che sia possibile ascoltare nel nostro Paese. Ben coadiuvata da cotanti compagni d’avventura, la Spinello sfodera una prestazione maiuscola; così proseguendo nella linea stilistica che la contraddistingue, la vocalist ancora una volta ha voluto rispettare le melodie originarie sì da farle vieppiù risaltare. E in questo senso particolarmente apprezzabile le interpretazioni di “Love for Sale” di Cole Porter e “Our Love Is Here to Stay” di George e Ira Gershwin impreziosito da una brillante intro di Attilio Zanchi.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Tanta buona musica da ascoltare in vacanza

Aca Seca Trio – “Trino” – Sud 019

Sotto l’insegna di “Aca Trio” ecco tre straordinari musicisti argentini: Juan Quintero (chitarra, voce), Andrés Beeuwsaert (piano, tastiere, voce) e Mariano Cantero (batteria, percussioni, voce). I tre suonano assieme da quando nel 1998 si incontrarono all’Università de La Plata. Dal 2000 iniziano ad esibirsi in varie località dell’Argentina e del Brasile, ma anche in Cile, Cina, Ecuador, Spagna, Stati Uniti, Francia, Giappone, Italia, Uruguay e Venezuela, dividendo la scena con importanti artisti quali, a mo’ di esempio, Pedro Aznar, Ivan Lins e Javier Malosetti. I loro successi di carattere internazionale si devono, soprattutto, ad alcune caratteristiche ben precise: innanzitutto la valenza di tutti e tre i musicisti, in secondo luogo la felicissima scelta del repertorio. In effetti oggi quando si parla di musica argentina si pensa immediatamente al tango, senza considerare che viceversa nel grande Paese sudamericano ci sono ben altre musiche. Ed è proprio a questo immenso patrimonio che si rivolge il Trio Aca Seca; ma non basta ché la loro musica spazia anche al di fuori dell’Argentina passando attraverso il Brasile e l’Uruguay, ovvero il jazz, la bossa nova, il folklore più autentico Il risultato è un repertorio molto vasto e di grande fascino che è stato sufficientemente declinato nei precedenti album e che trova, in quest’ultimo “Trino”, probabilmente la sua migliore espressione. Dieci brani che confermano appieno l’originale cifra stilistica del trio che evidenzia una perfetta empatia ovvero la capacità di ogni singolo musicista di ascoltare chi gli sta accanto e soprattutto di saper sviluppare qualsivoglia impulso ritmico, melodico, armonico che gli venga fornito. Una musica alle volte dal sapore antico declinata però con modernità grazie, soprattutto, all’incredibile sostegno ritmico di Mariano Cantero, probabilmente la punta di diamante della formazione. Tra i brani, tutti gradevoli, la nostra personalissima preferenza va a “Formas” dell’uruguaiano Hugo Fattoruso, riletto in modo assai personale.

Julian Cannonball Adderley – “Them Dirty Blues” – Jazz Images 24738

Siamo tra gli anni ’50 e ’60 e Julian Cannonball Adderley attraversa uno dei periodi più felici della sua vita artistica: ha appena inciso “Milestones” e lo storico “Kind of Blue” nel super gruppo di Miles Davis regalando alla storia del jazz il memorabile assolo di “So What”; contemporaneamente incrementa la sua attività di band leader costituendo gruppi di assoluta eccellenza. L’album in oggetto testimonia proprio questa attività di leader facendoci riascoltare l’alto sassofonista alla testa di due differenti gruppi: il primo con il fratello Nat alla cornetta, Barry Harris o Bobby Timmons al pianoforte, Sam Jones al contrabbasso e Louis Hayes alla batteria, il secondo con Wynton Kelly al piano, Paul Chambers o Percy Heath al basso, Jimmy Cobb o Albert Heath alla batteria. E già questa semplice elencazione di nomi credo la dica lunga su che tipo di musica si ascolta. Siamo nell’ambito di un jazz che più canonico non si può, impreziosito sia dalla bellezza dei temi sia dalla bravura di ogni singolo musicista, con il leader in testa capace di inanellare una serie di splendidi assolo, uno più convincente dell’altro, sempre sorretti da una estrema fluidità, da un suono allo stesso tempo leggero ed energico, di assoluta originalità che poneva Cannonball su un piano già diverso rispetto ai sassofonisti che avevano dato vita alla rivoluzione del bop. Quanto al repertorio ecco alcune perle oramai considerate classici del jazz: intendo riferirmi soprattutto a “Work Song” di Nat Adderley e “Dat Dere” di Bobby Timmons, pianista che nello stesso periodo stava ottenendo uno strepitoso successo con il brano “Moanin” inciso con i Jazz Messengers di Art Blakey. Ma è tutto l’album che si ascolta con estremo piacere; tra gli altri brani in programma una particolarissima menzione per “Serenata” il suggestivo brano scritto da Leroy Anderson che ebbe l’onore di essere eseguito in prima assoluta il 10 maggio del 1947 dalla Boston Pops Orchestra diretta da Arthur Fiedler.

Chico Buarque – “Caravanas” – Biscoito Fino 248

E siamo a quota quarantotto: tanti sono gli album inciso da Chico Buarque nell’arco di una lunga e prestigiosa carriera che lo ha visto spesso in prima linea anche dal punto di vista sociale e politico. All’età di 73 anni sfodera questo “Caravanas” che si impone immediatamente per la delicatezza con cui il cantautore brasiliano presenta la sua musica anche quando, come suo solito, affronta tematiche non proprio semplici. E’, ad esempio, il caso della title track in cui la “caravana” è costituita dai molti giovani neri che, a bordo di autobus ricolmi, si riversano nelle zone della classe media a Rio de Janeiro; splendida la musica, significativo il testo impreziosito da una frase – “Filha do medo a raiva é mãe da covardia”, “figlia della paura, la rabbia è la madre della codardia” che ci fornisce un’iea abbastanza precisa di quale sia il clima che si respira oggi in Brasile. Ma è tutto l’album intriso di riferimenti al sociale: così nella parte finale di “Dueto”, canzone già registrata nel 1980 da Chico Buarque con Nara Leão, e qui eseguita con la nipote Clara con un nuovo arrangiamento più vicino al jazz, viene inserito un esplicito riferimento alle varie app su cui si costruiscono i nuovi amori, da Tinder a Whatsapp fino a Telegram; ancora in “Jogo de bola” il gioco del calcio, da sempre passione di Chico, viene evocato come metafora per invitare il mondo ad una maggiore concordia mentre in “Blues pra Bia” viene trattato quasi in punta di piedi, con grande delicatezza, l’amore omosessuale. Ma, se tutto questo concerne i testi, ciò non significa che la musica passi in secondo piano. Buarque rimane un grandissimo musicista e la sua voce, in unicum con la chitarra, riesce ad essere sempre moderna, attuale, per non parlare della raffinatezza insita in taluni arrangiamenti come quello di
“A Moça do Sonho”, composto a quattro mani con Edu Lobo, in cui la scena è lasciata a una chitarra classica e a qualche contrappunto di violoncello sì da lasciare campo libero al canto ispirato di Buarque. Ciò detto resta comunque un appunto da muovere all’album: è troppo breve e lascia l’ascoltatore come insoddisfatto, desideroso di qualcos’altro che purtroppo non arriva…. Ma forse è meglio questa brevità che l’insulso sbrodolarsi di chi ha poco o nulla da dire.

Francesco Cafiso Nonet – “We Play For Tips” – EFLAT

Quello del rapporto tra musicisti e case discografiche è un problema che va assumendo toni sempre più preoccupanti: da un canto i jazzisti lamentano il fatto che incidere un disco viene a costare troppo, dall’altro le case discografiche rispondono che oramai i dischi non si vendono. Insomma un bel ginepraio che non escludiamo di approfondire prossimamente. Intanto, tornando all’attualità alcuni musicisti preferiscono creare una propria etichetta indipendente: è il caso del sassofonista siciliano Francesco Cafiso che ha creato una propria etichetta, la “E FLAT”. Questo “We play for tips” (distribuito da Egea Music) ne è la prima realizzazione e se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino allora è facile prevedere per la nuova arrivata un futuro più che roseo.
Cafiso si presenta alla testa della sua nuova formazione, un nonetto completato da Marco Ferri sax tenore, clarinetto; Sebastiano Ragusa sax baritono, clarinetto basso; Francesco Lento e Alessandro Presti tromba, flicorno; Humberto Amésquita trombone; Mauro Schiavone pianoforte; Pietro Ciancaglini contrabbasso; Adam Pache batteria. In programma dieci composizioni dello stesso Cafiso registrate live nel giugno del 2017 durante il Vittoria Jazz Festival di cui Cafiso è direttore artistico. Come afferma lo stesso sassofonista nelle note che accompagnano l’album, questo CD rappresenta un’estensione del precedente album “20 Cents Per Note” (2015) e racconta alcune delle esperienze vissute tra cui un viaggio di un mese a New Orleans. In effetti il titolo del disco fa riferimento alla scritta che i musicisti di strada di New Orleans portavano sul loro cappello per chiedere la mancia. Insomma la musica che si ascolta è fortemente ancorata al jazz nella sua accezione più completa del termine, quindi, swing, blues, arrangiamento, improvvisazione. Non a caso due brani – “Blo-Wyn’” e “Pops’ Character” – sono dedicati rispettivamente a Wynton Marsalis (artista legato a Cafiso da una profonda amicizia) e Louis Armstrong. Insomma una vera manna per chi ama un certo tipo di jazz lontano dagli sperimentalismi ma non per questo banale, tutt’altro! Si ascolti con quanta perizia tutti i musicisti eseguano i loro assolo e si apprezzi la qualità degli arrangiamenti curati da Cafiso e Schiavone che fanno suonare il nonetto come una vera e propria big band memori delle lezioni di alcuni grandi del passato.

Emanuele Cisi – “No Eyes” – Warner Music

Come recita il sottotitolo “Looking at Lester Young” l’album è un omaggio che il sassofonista italiano ha voluto tributare ad uno dei grandi geni del jazz, Lester Young.
Ad accompagnarlo in questa non facile impresa il pianista e trombettista Dino Rubino, il contrabbassista Rosario Bonaccorso, il batterista Greg Hutchinson e la vocalist Roberta Gambarini. Il repertorio si articola su undici brani di cui tre a firma di Cisi e otto tratti dal grande songbook statunitense. Impresa difficile, si diceva, sia perché Lester è stato artista fondamentale per l’evoluzione del jazz sia perché, assieme a Coleman Hawkins, può a ben ragione essere considerato l’inventore del sax tenore nel jazz; suonava, quindi, lo stesso strumento di Cisi per cui il raffronto è ravvicinato e inevitabile. Fermo restando che l’arte di Young risulta ancora oggi ineguagliabile (né credo che Cisi abbia per un solo attimo pensato di eguagliare il maestro) l’album risulta apprezzabile e per più di un motivo. Innanzitutto il sincero trasporto con cui Cisi ha voluto rendere omaggio a “Prez” evidenziato sia nelle modalità esecutive, sia nel far ricorso prevalentemente a brani o scritti e portati al successo dallo stesso Young o a lui dedicati, sia, infine, nella scelta dei testi tratti liberamente da un poema di David Meltzer. In effetti “No Eyes” ha un triplice significato: nel particolare linguaggio adoperato da Lester significava “non mi interessa”, è il titolo di un celebre blues inciso dal sassofonista nel 1946 ed infine, come accennato, è il titolo di un poema scritto da David Meltzer e ispirato all’ultimo anno di vita di Young che morì a soli 50 anni nel 1959. E crediamo non a caso Cisi abbia scelto di aprire l’album con questo brano da lui composto, particolarmente significativo per i motivi suddetti. Di qui il CD si sviluppa lungo le direttrici dettate dal leader che non si risparmia di certo prendendo significativi assolo in ogni brano sempre sorretto dal pianismo discreto ma essenziale di Rubino (che si esprime benissimo anche al flicorno in “Tickle Toe” e soprattutto in “Jumpin’ With Symphony Sid”) e da una sezione ritmica semplicemente magistrale con un Bonaccorso che sa far cantare il suo strumento come pochi e con un Hutchinson in grado di conferire ad ogni brano una precisa ed originale carica ritmica non disgiunta da una timbrica ricercata (lo si ascolti con quanta e quale dovizia dialoga con il sax di Cisi in “Jumpin’ at the Woodside”). Roberta Gambarini si conferma vocalist di squisita sensibilità ben adatta a tradurre in musica le intuizioni di Cisi il quale con questo album crediamo abbia raggiunto uno dei punti più significativi della sua poetica.

Elina Duni – “Partir” – ECM 2587

Conoscevamo Elina Duni per i due precedenti album incisi sempre per la ECM con il suo quartetto, “Matanë Malit” (Beyond the Mountain), un omaggio musicale al suo Paese natale l’Albania del 2012 e “Dallëndyshe” (The Swallow) del 2015. Per questo terzo album – registrato negli Studios La Buissone nel sud della Francia nel luglio 2017 – la vocalist ha cambiato decisamente strada e si presenta da sola accompagnandosi con il pianoforte, la chitarra e le percussioni. Qui il terreno prettamente jazzistico è abbandonato per approdare su sponde più intimistiche, alla riscoperta di un patrimonio musicale che affonda le sue radici nelle tradizioni di diversi Paesi. Ecco, quindi musica tradizionale dell’Albania, del Kosovo, dell’Armenia, della Macedonia, della Svizzera e dell’Andalusia cui si affiancano brani cantautorali quali “Je ne sais pas” di Jacques Brel, “Meu Amor” di Alain Oulman, “Amara Terra Mia” di Domenico Modugno e un originale della stessa Duni. Insomma un repertorio quanto mai variegato e difficile da eseguire mantenendone una certa omogeneità, tanto più che l’artista lo presenta in nove differenti lingue. Ebbene la Duni è riuscita nell’intento grazie ad alcune doti di fondo che in questa occasione è riuscita ad esprimere appieno: innanzitutto una grande sensibilità musicale che le consente di transitare da un brano all’altro, seppur differenti, con estrema naturalezza senza denotare sforzo alcuno; in secondo luogo un’eccellente preparazione tecnica sia vocale sia strumentale per cui l’interpretazione appare sempre ben calibrata, grazie anche agli arrangiamenti essenziali ma funzionali. Scegliere qualche brano da segnalare in modo particolare è piuttosto difficile, tuttavia vi invitiamo ad ascoltare con particolare attenzione il brano di Modugno in quanto sicuramente lo conoscete e potrete quindi meglio apprezzare la valenza interpretativa della Duni.

Duke Ellington – “Due Ellington meets Coleman Hawkins” – Poll Winners Records 27365

Siamo nei primissimi anni ’60, per l’esattezza nel 1962 e Duke Ellington macina musica straordinaria sia alla testa della sua celebre big band sia a capo di piccole formazioni com’è il caso di questo splendido album. Questa volta a coadiuvare il Duca c’è un quintetto di straordinari musicisti quali Aaron Bell contrabbasso, Harry Carney clarinetto basso e sax baritono, Johnny Hodges sax alto, Ray Nance violino e cornetta,
Sam Woodyard batteria. Tutti insieme incontrano un altro grande del jazz quale il tenorsassofonista Coleman Hawkins per dar vita ad uno splendido album che a ben ragione è stato adesso ristampato con l’aggiunta di cinque bonus tracks registrati da diverse band tra il 1955 e il 1962 in cui il sassofonista si misura con alcuni brani di Ellington inclusa “The Star Crossed Lovers” dalla suite Shakesperiana “Such Sweet Thunder” raramente sentita – come spiega Arnold Marcus nelle note di copertina – nell’interpretazione di Coleman Hawkins Inutile negarlo: ascoltando questi brani, a chi come il sottoscritto ha superato gli ‘anta’ (quali fate un po’ voi) un attacco di nostalgia è inevitabile. Ma è solo un momento ché subito dopo ci si riprende e si ascolta il tutto con la solita attenzione. E alla fine dell’album resta impressa la sensazione di aver ascoltato qualcosa di formidabile. Merito di Coleman Hawkins che ha saputo integrarsi magnificamente nelle atmosfere disegnate da Ellington, ma egualmente merito del Duca che ancora una volta riesce a far suonare i “suoi” musicisti al meglio delle loro possibilità: si ascolti il puntuale sostegno ritmico di Sam Woodyard, si ascolti il sofisticato dialogo tra gli altri due sassofoni partecipanti alla registrazione, Johnny Hodges e Harry Carney. Insomma se ancora non possedete questo album, è il caso che corriate a comprarlo.

Claudio Fasoli Samadhi Quintet – “Haiku Time” – abeat 178

Che Claudio Fasoli sia uomo di vasta cultura, al di là del fatto squisitamente musicale, lo dimostra anche la particolare sensibilità che pone nell’intitolare i suoi album. Così per quest’ultimo ha fatto ricorso al termine giapponese “Haiku” – componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo di particolare brevità – ad indicare lo specifico intendimento di presentare undici brani caratterizzati da estrema sobrietà non solo nella dimensione temporale ma anche nella durata degli assolo e negli stessi titoli. Di qui un comunicare emozioni che risulta diretto, senza orpelli, tutto affidato alla valenza della musica e alla bravura dei musicisti. Questi, grazie alla sapiente scrittura del leader, hanno la possibilità di esprimersi pienamente sia in assolo sia negli episodi d’assieme evidenziando un grado d’affiatamento davvero notevole. D’altro canto la formazione è ben rodata: Michael Gassmann tromba e flicorno, Michelangelo Decorato piano, Andrea Lamacchia contrabbasso e Marco Zanoli batteria li avevamo già incontrati nel precedente album di Fasoli “Inner Sounds” del 2016. La musica, quindi, può dipanarsi facilmente transitando dalle semplici enunciazioni dei brani allo sviluppo degli stessi affidato soprattutto ai due fiati con Decorato impegnato a cucire il tutto, portando ad unità i mille dettagli, le mille sfaccettature contenute nella musica di Fasoli. Ed è questa una sensazione che si coglie evidente sin dalle primissime note dell’album, quando il tema di “Fit” viene introdotto dalla tromba di Gassmann e poi sviluppato dal sax del leader. Ma come si accennava c’è spazio davvero per tutti: si ascolti, ad esempio, con quanta musicalità Andrea Lamacchia fa vibrare il suo strumento nell’assolo di “Bag” mentre la batteria di Zanoli si pone in particolare evidenza nell’introdurre il tema di “Dim”. Dal canto suo Fasoli non si risparmia facendosi apprezzare in ogni singolo brano sia come autore sia come interprete. Ma non scopriamo certo l’acqua calda affermando che Claudio oramai da tempo è da considerare uno dei migliori sassofonisti che il jazz internazionale possa vantare.

Maurizio Giammarco Syncotribe – “So To Speak” – 2plet Records

“Syncotribe” è la formazione varata dal sassofonista Maurizio Giammarco con Luca Mannutza all’organo e Enrico Morello alla batteria e live elctronics. La formula del trio sax, organo, batteria non è certo nuova nell’ambito del jazz internazionale e nazionale: così ricordiamo il trio del sassofonista James Carter con Alex White batteria e Gerard Gibbs organo, mentre, per restare nell’ambito dei nostri confini vanno citate le esperienze di Nevio Zaninotto (sax tenore, soprano) con Renato Chicco (organo Hammond) e Andy Watson (batteria) e dell’altro sassofonista Max Ionata con Luca Mannutza all’organo e Adam Pache alla batteria. Ma Giammarco è musicista troppo intelligente, personale ed inventivo per ripercorrere strade già battute. Ecco quindi una scrittura (i brani sono tutti suoi ad eccezione di “Decoy” di R. Irwing III) che declina il trio nell’ambito di un jazz moderno molto, molto lontano dalle classiche sonorità dell’organ trio solitamente vicine al funky e/o al soul. Ecco quindi il sassofono di Giammarco librarsi con la solita levità e sicurezza a disegnare ampie volute sempre caratterizzate da un sound robusto, asciutto, personale mentre i compagni d’avventura
si rendono essi stessi protagonisti del progetto. Si ascolti con quanta maestria la batteria di Morello dialoga con il sax di Giammarco nel già citato “Decoy” mentre Mannutza dimostra di conoscere appieno le potenzialità dello strumento sia che accompagni sia che si produca in assolo: lo si ascolti, ad esempio, in “Nueva vista”… ma si può ben dire che il suo apporto si avverte distintamente in ogni singolo brano. Un’ultima notazione non secondaria: i tre musicisti che si ascoltano nell’album appartengono a tre diverse generazioni eppure riescono a dialogare con la massima libertà ed empatia a dimostrazione di come davvero il jazz sia un linguaggio universale, che non conosce barriera alcuna.

Simone Graziano – “SnailSpace” – Auand 9073

Periodo decisamente positivo per il pianista fiorentino Simone Graziano che nell’aprile del 2017 ha inciso questo album e il 2 maggio del 2018 è stato eletto presidente del MIDJ, l’Associazione dei Musicisti Italiani di Jazz. Ma veniamo a ciò che maggiormente ci interessa in questa sede, vale a dire l’album. Per questa sua quinta fatica discografica, Simone Graziano (pianoforte, synth e fender rhodes) si ripresenta in trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso e sintetizzatore e Tommy Crane alla batteria. E’ lo stesso leader ad illustrare, nelle poche note di presentazione, il significato del titolo “A passo di lumaca”: non una lentezza in quanto tale ma una concezione secondo cui la lentezza non si riferisce tanto ad uno spazio temporale quanto al tempo necessario per capire dove si vuole andare, per scoprire la propria creatività, per coltivarla e condurla a risultati importanti. Ed in questo senso l’album appare perfettamente coerente: il trio si muove lungo coordinate non nuovissime ma di certo non banali. Intendo riferirmi all’uso intelligente e misurato dell’elettronica, alla ricerca di una timbrica particolare, alla raffinatezza della linea melodica, all’attenzione per i dettagli, alle modalità sempre misurate con cui si esprime la sezione ritmica. Tutte queste caratteristiche si evidenziano lungo tutto l’album (nove brani di cui ben otto a firma del leader) ma trovano forse la loro più completa estrinsecazione in “Aleph 3”: il brano si apre in territorio d’ispirazione hip-hop dopo di che entra in gioco l’elettronica per trasportare il pezzo in territori più arditi grazie anche alla batteria di Tommy Crane; dopo qualche minuto le atmosfere si fanno più rarefatte, quasi un jazz da camera, con in evidenza piano e synth che ci conducono verso un epilogo non scontato.

Pino Jodice – “Infinite Space” – Cose Sonore 18024

Pino Jodice è artista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, di assoluto livello sia che si esprima come pianista, come compositore, come arrangiatore, come direttore d’orchestra o come docente di Composizione jazz presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. In questo ‘concept’ album lo ritroviamo nella classica formazione del trio coadiuvato da Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, con l’aggiunta di Andrea Centrella al live electronics. Una formazione, quindi, di eccellenza su cui non c’è bisogno di ulteriori parole. Di parole ne merita, invece, e tante la musica dell’album, nove brani tutti dovuti alla penna del leader. Il titolo del CD richiama, esplicitamente, una certa visione dell’artista che rivolge il suo sguardo verso l’alto come a volersi distaccare dalle miserie, dalle angosce che affliggono l’esistenza umana. Insomma la musica come una sorta di redenzione ma nello stesso tempo di ricerca: non a caso lo stesso Jodice dedica l’album a Stephen Hawking e Margherita Hack il cui approccio e passione per la ricerca e le relative capacità di divulgazione rappresentano per Jodice un modello da seguire nella ricerca musicale, nella composizione e nella divulgazione di questa materia. Ecco, quindi, che Pino ci prende per mano e partendo dal decollo dell’Apollo 1 ci invita a seguirlo in questo fantastico viaggio. Ora, quando un album parte da un enunciato così esplicito, la musica non sempre riesce ad essere coerente con le parole. Bisogna, in questo caso, dare atto a Jodice di aver saputo declinare la sua ansia di “osservare lo straordinario spettacolo del cosmo” (per usare le sue parole) con una musica che effettivamente richiama questi concetti. Una musica, quindi, di ampio respiro che scorre fluida in tutti e nove i brani, tutti composti dal leader, in cui Jodice evidenzia da un lato la sua sapienza compositiva, mai banale e sempre originale, dall’altro le grandi, grandissime capacità esecutive che a mio avviso lo collocano tra i più grandi pianisti jazz non solo italiani. Il tutto impreziosito dal lavoro di Pirozzi e Pietro Iodice a costituire una delle più affiatate formazioni che il jazz italiano possa vantare, e la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che questi tre musicisti suonano assieme oramai da più di vent’anni. Tutt’altro che marginale, infine, il ruolo di Andrea Centrella.

Reis Demuth Wiltgen – “Once In A Blue Moon” – Cam Jazz7926-2

E’ un trio jazz senza se e senza ma quello che ascoltiamo in questa nuova produzione targata Cam Jazz: Michel Reis al pianoforte, Marc Demuth al contrabbasso e Paul Wiltgen alla batteria si misurano su un terreno usato (e fors’anche abusato) qual è quello del trio pianoforte più sezione ritmica. Di qui da un lato l’impossibilità di attendersi qualcosa di trascendentale dati gli illustri precedenti, dall’altro, però, la possibilità di ben valutare l’artista proprio perché i termini di paragone sono innumerevoli. Ebbene, partendo da questa duplice considerazione, occorre sottolineare come questo trio lussemburghese se la cavi più che bene grazie soprattutto alla bravura di ogni singolo musicista. Reis è pianista ben preparato, che si muove con agilità lungo tutta la tastiera evidenziando una spiccata propensione per la linea melodica senza però disdegnare momenti di più forte incisività come in “Push”. Demuth è batterista musicale e raffinato (si ascolti il suo gioco di spazzole in “22 May 15”) che riesce a dialogare sempre con estrema pertinenza con i colleghi di viaggio mentre Wiltgen è bassista poco appariscente ma solido nel sottolineare i momenti fondamentali del disegno armonico. Il tutto condito da una profonda empatia che lega i tre musicisti e che si respira lungo tutto l’arco del CD declinato su 13 brani di cui 12 originali cui si affianca “Both Sides Now” di Joni Mitchell. E proprio il rifacimento di questo brano rappresenta uno dei momenti clou dell’album: introdotto da un centrato assolo del bassista, cui si affianca dopo quaranta secondi la batteria, il brano viene sviluppato da un intenso dialogo tra contrabbasso e pianoforte, quest’ultimo impegnato in un assolo di rara poesia, tutto giocato su note singole a voler evidenziare la bellezza del tema. Altra esecuzione particolarmente riuscita è quella di “Dante” caratterizzata da un originale andamento ritmico,

Antonio Sanchez – “Bad Hombre” – CamJazz 7919-2

“Channels of Energy” – CamJazz 79922-2

Non si può certo dire che il batterista Antonio Sanchez si risparmi: eccolo infatti protagonista di un singolo -“Bad Hombre”- e di un doppio CD -“Channels of Energy”- ambedue pubblicati da CamJazz. I due album sono molto diversi dal momento che mentre nel primo Sanchez è il vero e proprio ‘deus ex machina’ essendo l’unico protagonista (scrive la musica, l’arrangia, la esegue con batteria, tastiere, electronics e voce), nel secondo è inserito in un contesto assai più vasto rappresentato dalla WDR Big Band arrangiata e condotta da Vince Mendoza. Ma procediamo con ordine; dopo la felice esperienza di autore ed esecutore della colonna sonora di “Birdman” film che tutti ricorderanno per la sua particolarità e per la straordinaria interpretazione di Michael Keaton, Sanchez si cimenta con questo “Bad Hombre”, che, come confessato dallo stesso artista, rappresenta “un progetto sperimentale nel senso che si distacca completamente da tutto ciò che ho fatto in precedenza come batterista, compositore, produttore”. Ma non è il solo obiettivo dal momento che Sanchez si prefigge altresì da un canto di rispondere in qualche modo al senso di frustrazione che cresce in lui a causa dell’attuale situazione politica degli States, dall’altro di rappresentare in musica le sue origini messicane. Di qui un pastiche di batteria, strumenti elettronici, fondali creati a posteriori, suoni alterati che volutamente non frequentano i territori della superficiale godibilità addentrandosi piuttosto in quelli ostili, del non facile ascolto che richiedono una particolare attenzione per essere valutati sotto una giusta luce. Completamente diverso il secondo doppio album: smessi i panni del contestatore, Sanchez torna a suonare la batteria come sa fare, al servizio di un disegno complessivo condotto da Vince Mendoza a capo della WDR Big Band. In repertorio otto brani tutti scritti dallo stesso Sanchez. Il risultato è superlativo. Sotto la sapiente regia di Mendoza l’orchestra si muove con compattezza eseguendo alla perfezione i non semplici arrangiamenti. Di qui un sound, che pur mantenendo una propria specificità, richiama comunque alcune grandi orchestre del passato come, ad esempio, quelle di Duke Ellington e di Gil Evans. Il tutto impreziosito da alcuni elementi della band che si pongono in particolare evidenza come, tanto per fare qualche nome, il pianista Omer Klein (lo si ascolti in “Grids and Patterns”), Johan Hörlen (sax) e Shannon Barnett (trombone) particolarmente brillanti nel brano conclusivo che dà il titolo all’album. Superlativa la prova di Sanchez che dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio in qualsivoglia contesto. Nel caso specifico il suo drumming è allo stesso tempo possente ma non invadente sì da sposarsi magnificamente sia con i pieni orchestrali sia con quei momenti in cui il sound si fa più delicato, prezioso.

Bobo Stenson – “Contra la indecisiòn” – ECM 2582

Il pianista Bobo Stenson (classe 1944) è una delle personalità più importanti del jazz scandinavo, uno dei pochissimi in grado di non far rimpiangere quel Esbjorn Svensson di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica. In “Contra la indecision” Stenson si ripresenta con il suo abituale trio completato da Anders Jormin al basso e Jon Fält alla batteria. Il repertorio è piuttosto vario ed esplica appieno le molteplici sfaccettature del leader. Così dello Stenson compositore abbiamo qui due soli esempi, “Alice”, e “Kalimba Impressions” composto da tutti e tre i membri del combo; la maggior parte dei brani sono a firma di Anders Jormin, la title track è opera del cantautore cubano Silvio Rodríguez mentre gli altri tre pezzi – rispettivamente di Béla Bartok, Erik Satie e Frederic Mompou – illustrano l’abilità di Stenson nell’affrontare anche la musica classica. Ferma restando la statura artistica del leader, ogni brano fa quasi storia a sé dal momento che il bilanciamento tra scrittura e improvvisazione dà la stura, di volta in volta, ad interventi solistici di squisita fattura che mai mettono in pericolo l’equilibrio globale del trio. Così, tanto per fare qualche esempio, in “Doubt Thou The Stars” ascoltiamo una splendida improvvisazione di Jormin che adopera anche l’archetto ben sorretto dalla batteria prima dell’entrata in scena del pianoforte che illustra il tema in tutta la sua bellezza; in “Kalimba Impressions” è Jon Fält a salire alla ribalta suonando la marimba in un fitto dialogo con i compagni d’avventura; in “Alice” i tre disegnano un percorso quasi a zig-zag, sghembo, straniante ma di indubbio misterioso fascino; in “Elégie” , come accennato, riscopriamo il coté classico di Stenson che affronta la partitura di Satie con pertinenza, eleganza ed originalità; “Stilla” è un blues, sempre di Jormin, che evidenzia come tutti e tre questi musicisti conoscano bene la storia della musica afro-americana; in “Oktoberhavet” ancora una splendida intro della batteria dopo di che il tema è sviluppato da Jormin all’archetto con il pianoforte di Stenson che si limita a punteggiare prima di prendere in mano le fila del discorso.

John Surman – “Invisible Threads” – ECM 2588

“Invisibili fili” è il titolo, tradotto in italiano, di questa nuova fatica discografica di John Surman ai sax soprano e baritono e al clarinetto basso. Ed in effetti di fili invisibili è fatta la musica di questo album, una ragnatela di straordinaria eleganza che Surman tesse ben coadiuvato dai due compagni d’avventura, il pianista di San Paolo, Nelson Ayres, jazzista ma anche frequentatore di terreni vicini al pop brasiliano e Rob Waring, docente “classico” al conservatorio di Oslo, al vibrafono e alla marimba. Quindi una formazione del tutto inconsueta mancando, contemporaneamente, di contrabbasso e batteria. Ma i tre suppliscono egregiamente con un affiatamento ed un’empatia che si evidenzia in ogni momento: così quando è Surman a disegnare la linea melodica gli altri due fungono da contrappunto e da sostegno ritmico; ma la stessa cosa accade quando il pallino passa nelle sapienti mani di Ayres: Surman lo contrappunta a meraviglia e Waring si assume il difficile compito di organizzare da solo una sezione ritmica. Questo idem sentire si manifesta altresì nelle reciproche influenze che i tre non nascondono: così se è vero che nella poetica di Surman è sempre presente quel riferimento alle vecchie melodie inglesi e più in generale alla musica del Nord Europa, in questo album non mancano specifici richiami alla musica brasiliana come si può apprezzare in “Summer Song” unico brano non scritto da Surman ma per l’appunto da Nelson Ayres, in “Pitanga Pitomba” introdotto da un centrato assolo di Rob Waring e sviluppato da un fitto dialogo tra Surman e Ayres mentre “Autumn Nocturne” e “The Admiral” si fanno apprezzare per la delicatezza della linea melodica; da segnalare in quest’ultimo brano l’introduzione affidata ad un dialogo tra clarinetto basso e marimba, forse uno dei momenti più belli dell’intero album.

Esbjörn Svensson Trio – “E.S.T. live in London” – ACT 9042-2

Sono trascorsi dieci anni dal quel 14 giugno 2008 quando il pianista svedese Esbjörn Svensson scomparve improvvisamente a causa di un incidente subacqueo, proprio quando la sua fama aveva oramai raggiunto appassionati e critici di tutto il mondo. La formazione proposta in questa realizzazione discografica è quella storica che prese le mosse nel 1990 quando il pianista fondò il suo primo gruppo con l’amico di infanzia Magnus Öström alle percussioni; nel 1993 si aggiunse il bassista Dan Berglund a costituire quell’Esbjörn Svensson Trio (o E.S.T. Trio) che nell’arco di pochi anni ottenne un successo planetario. Non a caso sono stati la prima band europea ad apparire nel 2006 sulla copertina di Downbeat e sempre non a caso il doppio cd “Live in Hamburg”, registrato nella città tedesca nel novembre del 2006, è stato definito “L’album jazz del decennio 2000-2010” dal Times. Il perché di tanto successo si capisce facilmente ascoltando questo doppio album registrato live al Barbican Centre di Londra il 20 maggio del 2005. La performance, articolata su dieci brani piuttosto lunghi, testimonia in modo inequivocabile la trascinante forza del gruppo che in quell’anno era in tournée per promuovere l’album “Viaticum” (e ben cinque pezzi eseguiti a Londra facevano parte di quest’album). La musica è superlativa, ricca di forza, energia, caratterizzata da una profonda carica innovativa che coniugava un linguaggio prettamente jazzistico con atmosfere tipiche del rock. Anche da qui la grande influenza che il gruppo ha esercitato specialmente sulle nuove generazioni nel corso dei suoi diciassette anni di esistenza. Un vuoto di cui si avverte ancora la gravità e che non sarà banale colmare.

Gianluigi Trovesi – “Mediterraneamente” – Dodicilune

Titolo quanto mai esplicativo questo “Mediterraneamente” con cui il “nordico” Trovesi ha voluto chiamare questa sua ultima creatura. Conosciamo Gianluigi da molti anni e contrariamente a tanti che hanno sempre visto in lui lo spericolato sperimentatore multistrumentista, capace di mandare in visibilio le platee di tutto il mondo, abbiamo sempre riscontrato nel suo stile, nella sua poetica un coté lirico che in questo album viene prepotentemente alla ribalta. Ben coadiuvato dal suo ‘Quintetto Orobico’ composto da Paolo Manzolini (chitarre), Marco Esposito (basso), Vittorio Marinoni (batteria) e Fulvio Maras (percussioni), Trovesi presenta un repertorio di dodici brani in cui a composizioni originali (“Gargantella”, “Cadenze Orfiche”, “Rina e Virgilio”, “Materiali”, “Siparietto”), si alternano pezzi della tradizione (“Carpinese”), brani del pop italiano (“Le Mille bolle blu”) e della canzone napoletana (“Tu ca nun chiagne”, “Tammurriata Nera”), nonché standard internazionali (“Yesterdays”, “In your Own Sweet Way”) e un pezzo (“La Suave Melodia”) del compositore barocco Andrea Falconieri (1585-1656). Il tutto trattato con grande delicatezza, dolcezza, ad evidenziare sempre la linea melodica della composizione ed è lo stesso Trovesi a sottolineare questo aspetto quando afferma che “per me molti di questi brani sono come delle serenate”. Serenate eseguite con trasporto, senza alcun timore di evidenziare quel coté lirico cui si faceva riferimento in apertura. Ma, ovviamente, non è il solo Trovesi a seguire questa linea: si ascolti, ad esempio, con quanta modernità espressiva la chitarra di Manzolini dialoga con i fiati del leader che in questo album predilige, comunque il sax contralto. Per non parlare della sezione ritmica che asseconda alla perfezione le idee del leader quando affronta, in modo originale, sia grandi classici del jazz sia brani pop ben noti come “Le mille bolle blu”.

Gaetano Valli – “Thirty Years” – artesuono 139

Quello di Chet Baker è davvero un caso unico nel pur variegato panorama del jazz internazionale. Nonostante per buona parte della sua vita artistica Chet sia stato afflitto da numerosi problemi che lo hanno portato, tra l’altro, a doversi reinventare un modo di suonare la tromba, non conosciamo un solo jazzista che non adori Baker, non abbiamo incontrato un solo musicista che non ci abbia parlato in termini entusiastici del trombettista di Yale; di qui una serie di tributi, di omaggi a lui rivolti con sincera partecipazione. In questo clima si inserisce l’album in oggetto che vuole essere un ricordo di Chet a trent’anni dalla sua scomparsa avvenuta il 13 maggio del 1988. Il progetto è del chitarrista Gaetano Valli che ha chiamato accanto a sé il trombettista Fulvio Sigurtà e il contrabbassista Riccardo Fioravanti. Quindi un trio senza batteria, senza cioè quello strumento con cui Baker incontrava spesso problemi di sintonia. Valli è da sempre un profondo estimatore di Baker tanto da dedicargli già nel 1998 un lavoro intitolato “Tre per Chet”, pubblicato dalla Splasc(h) records, con Mario Brioschi alla tromba e ancora Riccardo Fioravanti al contrabbasso. Adesso Valli ritorna sull’argomento con un repertorio che tende in qualche modo a legare il Chet delle origini con il Chet degli ultimi tempi quando il tasso tecnico era inferiore ma quello poetico superiore. Così accanto a “Bea’s Flat” scritto da Russ Freeman all’inizio degli anni’50 e all’inedito dello stesso Valli “Thirty Years” caratterizzati da notevoli difficoltà esecutive, ascoltiamo altri brani in cui la tecnica è ridimensionata a tutto vantaggio dell’espressività quali, tanto per citare qualche titolo, “My Funny Valentine”, “I remember You, “Beatiful Black Eyes”. Ciò detto, occorre sottolineare come l’album sia eccellente: assolutamente pertinenti i brani scritti da Valle per l’occasione che si conferma altresì chitarrista dal tocco morbido, dal linguaggio personale e soprattutto dal gusto delicato; perfetto il modo in cui Sigurtà interpreta questi brani nel segno di Chet; notevole come sempre l’apporto di Fioravanti che si è caricato il peso dell’intera sezione ritmica non disdegnando di uscire in assolo di assoluta compiutezza.

Antonio Zambrini – “Pinocchio e altri racconti” – abeat 183

Se l’intelligenza di un leader si valuta anche sulla base di come sceglie i compagni di viaggio, allora non c’è dubbio sulle qualità non solo artistiche di Antonio Zambrini. Il pianista, per questa sua nuova fatica discografica, ha richiamato accanto a sé due giganti dei rispettivi strumenti, vale a dire i danesi Jesper Bodilsen al basso e Martin Andersen alla batteria con cui collabora già da qualche tempo. A ciò si aggiunge la felice scelta del repertorio: un omaggio a Fiorenzo Carpi il quale è stato uno dei più grandi rappresentanti della scuola melodica italiana unitamente a Ennio Morricone, Piero Piccioni, Nino Rota… tanto per citare qualche nome. Il disco è intitolato a Pinocchio ed in effetti vi si possono ascoltare tre brani tratti dallo sceneggiato televisivo del 1972 diretto da Luigi Comencini, cui si aggiungono altri cinque brani sempre di Carpi e un originale di Zambrini, “Giovedì”, che, come spiega lo stesso leader, appartiene alla sua lunga collaborazione con “Cineteca Italiana di Milano”. Tracciate le linee programmatiche entro cui si inscrive l’album, occorre sottolineare come le interpretazioni del trio siano del tutto coerenti con l’assunto. La musica scorre fluida evidenziando, di volta in volta, le varie caratteristiche che si ritrovano nella produzione di Rota, vale a dire il suono mediterraneo chiaramente riscontrabile, ad esempio, in molti brani di Pinocchio, le influenze di un certo rock inglese… fino a toccare la musica brasiliana in “Notte italiana” in cui lo stesso Zambrini dichiara di aver adottato lo stile “Choro”. Insomma un album in cui la pagina scritta si equilibra assai bene con l’improvvisazione cui si abbandona Zambrini che conferma il suo stile sobrio, elegante con una costante attenzione alla timbrica e alla dinamica, in ciò perfettamente coadiuvato da una sezione ritmica che dimostra di aver ben assorbito la lezione di altre storiche formazioni come lo E.S.T. trio di Esbjörn Svensson di cui ci siamo in precedenza occupati.

Enrico Zanisi – “Blend Pages” – Cam Jazz7928-2

E’ una musica particolare quella che Enrico Zanisi ci propone in questo album, una musica dal sapore «cameristico» che assume comunque connotazioni differenziate. Così, ad esempio, in apertura il pianismo di Zanisi appare crepuscolare, quasi impressionistico in alcuni passaggi, per poi virare, decisamente, sempre nel corso dello stesso primo brano, verso territori più vicini alla musica colta contemporanea. E questa sorta di duplicità si avverte lungo tutto l’album senza che lo stesso perda in omogeneità. D’altro canto la stessa strutturazione dell’organico è del tutto coerente a quanto sin qui esposto: pianoforte, clarinetto (nella collaudate mani di Gabriele Mirabassi), percussioni e live electronics (affidate al ‘poeta’ Michele Rabbia) cui si aggiunge un classico quartetto d’archi francese, “Quatuor IXI”, formato da Régis Huby (violino), Clément Janinet, (violino), Guillaume Roy (viola) e Atsushi Sakaï (violoncello) costituiscono un ensemble ben attrezzato per navigare in acque difficili come quelle che lambiscono la musica moderna. Ora, se la cosa non stupisce con riguardo sia a Mirabassi sia a Rabbia, rappresenta viceversa una piacevole novità per il pianista che, giunto al suo quinto album, dimostra con queste incisioni di aver raggiunto una sua specificità, una ben precisa consapevolezza delle proprie possibilità…insomma di potersi considerare non più una promessa quanto una delle più belle realtà del panorama jazzistico nazionale. In effetti nei nove brani, tutti di sua composizione, Zanisi da un canto conserva sempre una certa struttura di sapore classicheggiante, dall’altro lascia ampi spazi per le improvvisazioni dei compagni d’avventura, spazi come potrete ben immaginare magistralmente occupati sia dallo stesso Zanisi con il suo incedere elegante sia da Mirabassi, superlativo come sempre.

EDE: Zanisi – Gallo – Baron alla Rassegna Da Maggio a Maggio

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La foto è di Marc Maggio

Rassegna “Da Maggio a Maggio
Sabato 26 maggio ore 20:30
Laboratorio Pianoforti Marc Maggio

EDE
Enrico Zanisi, pianoforte e synth modulare
Danilo Gallo, basso elettrico
Ermanno Baron, batteria

Comincio con il dire che qui a Roma ci sono tanti posti dove ascoltare musica. Auditorium, teatri, club più o meno piccoli, bar, spazi all’aria aperta che ora a primavera cominciano ad animarsi, dunque c’è da scegliere.
Ma io stessa non sapevo che esiste un Laboratorio per la riparazione, e anzi, la cura, dei pianoforti, nel cuore del quartiere Pigneto. E’ il laboratorio di Marc Maggio, tecnico accordatore restauratore di pianoforti, ed è sito in via Giovanni De Agostini 19.
Quando entri senti l’odore caratteristico che chiunque abbia varcato la soglia di un negozio di pianoforti conosce benissimo, e ti trovi in un grande spazio, saturo (naturalmente) di pianoforti, a coda, mezza coda, verticali, un verticale è persino nel bagno.
Marc Maggio con il batterista Marco Calderano hanno inventato, in questo spazio fascinoso e inusuale, un piccolo festival del Jazz, “Da Maggio a Maggio” di tre giorni, a maggio, appunto. Il primo concerto venerdì 25 maggio, con Marco Calderano, AntiHero. Il secondo sabato 26 maggio con EDE, Euristic Data Exchange e l’ultimo il 28 maggio con Stefano Calderano Playin’ Rice.

Sono stata al secondo concerto, quello di EDE, ovvero Enrico Zanisi, pianoforte e synth modulare, Danilo Gallo, basso elettrico, Ermanno Baron, batteria.
EDE oltre che acronimo dei nomi dei musicisti è anche acronimo di Euristic Data Exchange:“un processo euristico di ricerca sonora, scambio di dati estemporaneo, istintivo e intuitivo,il suono come obiettivo finale. Le partiture si ottengono in dirittura d’arrivo
La Treccani ci spiega il termine euristico così: “in matematica, procedimento, qualsiasi procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico, ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.”
Resi doverosamente noti gli intenti del gruppo, doverosamente vi dico che raramente, andando ad ascoltare un gruppo che non conosco, mi documento sull’intento dichiarato del gruppo stesso: preferisco ascoltare e documentarmi alla fine, quando cerco le parole per descrivere la musica, vedere cosa di quell’intento mi è arrivato, cosa io ho capito, e SE ho capito, e se non ho capito, perché .

Ho preso posto in quella sala così profumata di legno, corde, feltrini, e dopo una lezione di Marc Maggio sul funzionamento della meccanica del pianoforte, ho ascoltato un’ora di musica completamente improvvisata, dal primo all’ultimo minuto. Come da intento dichiarato, ma io non lo sapevo: una ricerca estemporanea di una strada sonora comune. Chi guida? Non c’è un pilota in particolare: si improvvisa, ma con la sicurezza di chi il mezzo lo conosce così bene da potersi permettere (e godersi) ogni tipo di evoluzione.
Vi descrivo, sperando di essere fedele a ciò che è accaduto, i primi minuti di questo concerto inusuale, sperando di non essere troppo tecnica, o pedante: ma occorre per dare un’idea della musica. E poter poi approdare nel mio amato spazio “L’impatto su chi vi scrive” per poter parlare delle mie personalissime sensazioni a riguardo.

Dal synth di Zanisi parte un suono lungo, persistente, acuto, che fende l’aria. Baron percuote con bacchette di metallo ciotole di metallo, l’effetto è di campanelli, l’atmosfera è rarefatta. Poco dopo il basso di Danilo Gallo introduce un bicordo che risolve in una nota unica, quasi una tonica. Questo schema bicordo/nota unica prosegue, e i suoni si susseguono aumentando in velocità. Le due note del bicordo si slegano e la sequenza diventa un ostinato di tre note. Il synth aumenta gli effetti. La batteria intensifica i battiti, il tessuto sonoro complessivo prima piuttosto dilatato si addensa. Il basso diventa incalzante, e si assesta sul registro grave. Appare il suono del pianoforte: con una cellula melodica reiterata che comincia su una ampiezza di una nona, per poi restringersi ad una sesta. Il basso elettrico lo doppia con lo stesso andamento ritmico. La batteria ne carpisce il groove e decodifica il tutto dal punto di vista ritmico.
Questo andamento dura qualche decina di secondi, fino a quando il basso procede ascendendo cromaticamente con note ribattute: ma queste via via si diradano. Rallentano gli impulsi e si ritorna gradualmente alla rarefazione sonora dell’inizio. Riappare quella nota persistente del synth con cui tutto era cominciato, ma il basso ricomincia cantando una piccola melodia pentatonica…..
Mi fermo. Perché sono accadute mille altre cose, e questi sono soltanto i primi otto nove minuti. E gli stessi musicisti, se leggeranno questa descrizione, penseranno che sono impazzita, perché il loro procedere era completamente istintivo, anche se non casuale: l’istinto non è mai casuale. Dubito, in pratica, che possano ricordare così precisamente cosa hanno suonato.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

In un concerto tutto di musica improvvisata estemporaneamente ciò che conta, a mio parere, è proprio l’impatto su chi ascolta.
Per ascoltare bene un concerto come questo, secondo me è fondamentale abbandonare i propri rassicuranti riferimenti e lasciarsi avvolgere dai suoni. Su di me una performance come quella di EDE può avere un potere evocativo ed immaginifico molto forte, una volta abbandonati i miei riferimenti usuali (centri tonali, strutture, cadenze, il jazz, il free jazz, il jazz modale, la musica tradizionale e così via dicendo).
Ho dovuto solo cercare di sdoppiarmi concentrandomi e scrivendo (vedi sopra) cosa accadeva, ma mi sono ritagliata anche una metà della mia percezione lasciandola libera, perché volevo godermi quell’impatto emotivo. Per tutto il tempo ho assistito alla nascita improvvisa di suoni che erano ognuno causa del successivo, che a suo volta era effetto del precedente, e ancora, causa del successivo, mi si perdoni la spirale: ma è ciò che è accaduto.
Mi sono trovata in giardini fiabeschi, quando Zanisi insisteva reiterando piccoli arpeggi nel registro acuto del pianoforte, sottolineati dal basso, che cantava libero, e da Baron con i suoi suoni di campane. Poi ho assistito ad un sisma sotterraneo, quando Danilo Gallo si è aperto in un suono grave, lavico, profondo, da far vibrare le pelli della batteria, che è diventata a sua volta secca, insistente, potente. E’ stato un tintinnio di ciotole a fermare quel sisma, quasi richiamando all’ordine il basso, e costringendolo a suoni sempre più diradati.
Talvolta i suoni volatili del synth mi sono sembrati aria pulita. Un momento quasi parossistico placatosi gradualmente mi ha evocato il navigare placido in un fiume di suoni, improvvisamente inscritti in un centro tonale, con un susseguirsi di accordi (quasi) comprensibili: ma oramai io i miei rassicuranti riferimenti li avevo abbandonati , e decodificarli non mi è sembrato così importante. Non li ho analizzati e così ancora non ho capito  come sia potuto accadere di trovarmi, alla fine, ad ascoltare El Choclo, sì, El Choclo, il tango. Mi sono affrettata a trascriverne le note nel mio taccuino per poter poi ricordare a me stessa quale titolo avrei dovuto ricercare. Era El Choclo: sono partita da una nota fissa di sintetizzatore e sono approdata ad un tango argentino.

Avvertenza: il prossimo concerto di EDE non sarà di certo uguale a questo.