My Favorite Things, le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia – part 2

Flaviano Bosco – My Favorite Things, le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia – part 2 Udin&Jazz Winter 2

L’Associazione culturale Euritmica, che da tre decenni e oltre organizza la manifestazione jazzistica udinese, si è sempre distinta per il proprio impegno sociale e politico. In tutti questi anni di successi, che l’hanno vista estendere le proprie programmazioni e rassegne a tutto il circuito regionale e ben oltre, non ha mai dimenticato le proprie origini militanti. Fare musica, soprattutto jazz, non può e non deve essere solo puro intrattenimento.
Quella musica è nata per dare voce agli ultimi della terra e deve continuare a farlo, porta con se un’energia, una voglia di giustizia e di riscatto che sono insopprimibili, far finta di non sentire le voci e le grida di dolore che si porta dietro anche nelle melodie più delicate significa impedirsi di capirne l’importanza e le prospettive. Se dopo più di cento anni di evoluzioni e di stili possiamo ancora goderne, è perché il Jazz ha saputo farsi portavoce di tutte le diversità culturali e sociali del mondo, la sua forma malleabile, flessibile e ora anche liquida, la sua anti-convenzionalità ne hanno fatto lo strumento ideale per esprimere e trasmettere le sofferenze e la gioia di chi non ha altro modo per farsi sentire; ancor di più attraverso il jazz si è potuto trovare un linguaggio musicale universale in grado di parlare contemporaneamente a tutti i cuori e a tutti i cervelli contemporaneamente in tutto il mondo.
Proprio dalla profonda consapevolezza di questa dimensione globale e militante della musica d’ispirazione afro-americana vengono modulate le proposte di Euritmica, che certo non trascurano la parte di divertimento e di svago che la musica porta con se ma non fine a se stessa. Nell’edizione invernale di Udin&Jazz, tenutasi dal 6 all’8 dicembre 2021 al teatro Palamostre di Udine, il focus è stato centrato sulle rotte dei migranti, sia quella balcanica che ha la regione FVG come punto d’arrivo sia quelle Mediterranee che, più in generale, toccano le coste del nostro paese tutto intero.

Esprimere e sottolineare con la musica quell’esodo non è solo un dovere ma un imperativo morale inderogabile. Solo chi chiude occhi, orecchie e cuore può ritenerla una fastidiosa questione di ordine pubblico. Al contrario, quei fatti atroci che ogni giorno avvengono a pochi passi delle nostre case chiedono la nostra attenzione, invocano il nostro aiuto in qualunque modo. La musica, come potentissimo mezzo di comunicazione, deve servire da megafono per denunciare ogni insipienza e ogni indifferenza.
La seconda edizione di Udin&Jazz Winter segue in realtà di pochi mesi la prima, che fu spostata in avanti fino alla primavera per i ben noti problemi con l’epidemia. Tre intense giornate di grande musica hanno confermato sia il gradimento del pubblico per l’estemporanea collocazione della rassegna, sia la grande versatilità degli organizzatori in grado di costruire cartelloni sempre interessanti e perfino insoliti, in tempi che definire complicati è un eufemismo, potendo contare su una lunga teoria di collaborazioni e contatti con i musicisti più importanti della scena nazionale e oltre.
Particolare attenzione come sempre è stata rivolta verso le produzioni regionali che sanno distinguersi sempre per la qualità altissima delle proposte validate anche dall’interesse delle più blasonate riviste di settore e dei mezzi d’informazione. Il jazz friulano conferma da almeno 50 anni la sua presenza significativa nel nostro paese e Udin&Jazz ne è sempre stato un ottimo testimone coniugando tradizione e innovazione senza mai smentirsi, anzi rilanciando continuamente il proprio impegno in questo senso con un’attenzione alle produzioni artistiche locali di grande respiro d’orizzonte.
“Jazz Noir – Indagine sulla misteriosa morte del leggendario Chet” (My Foolish Heart) di Rolf van Ejik (2018): la rassegna si è aperta con un omaggio a Chet Baker attraverso la proiezione di un film biografico che però non rende giustizia allo sfortunato trombettista. Il lungometraggio gioca sui soliti stereotipi dell’artista maledetto per raccontare una storia del tutto inconsistente a sfondo vagamente psicoanalitico. È vero che il trombettista alla fine della propria vita era ridotto davvero male, il ritratto che se ne ha da parte di conoscenti e amici è davvero squallido; è vero anche che dal punto di vista strettamente tecnico e creativo la consistenza è sempre stata poca se lo paragoniamo ai suoi coetanei (ad es. Miles Davis) ma da qui a farne un mascherone senza arte né parte ce ne corre. Il film di Rolf van Ejik, al suo esordio, costruito come un noir investigativo, si rivela davvero fiacco soprattutto quando cerca di parlare di musica. Non una sola nota della colonna sonora è di Chet in una reinterpretazione che con il suo stile ha davvero poco a che fare.
Tony Momrelle “Best is yet to come”: quello del cantante degli Incognito è stato di certo uno dei concerti più sorprendenti dell’intera rassegna. Lo spettatore medio si aspettava acid-jazz, suadente, ballabile e facile-facile, si è invece trovato davanti ad un raffinatissimo soul contemporaneo cantato con voce morbida e setosa piena di romanticismo, intima e dolce. In alcuni momenti il pensiero andava alle composizioni più riuscite di Stevie Wonder ed è tutto dire. Momrelle tiene insieme la tradizione del soul più classico con le visioni di un futuro che la sua musica è capace di farci immaginare, gioioso e felice. Non è poco di questi tempi.
Angelo Comisso Trio “Numen”: Angelo Comisso, pianoforte; Alessandro Turchet, Contrabbasso; Luca Colussi, Batteria. A proposito di “risorse locali” o di “jazz a chilometri zero” questo trio tutto friulano è una splendida realtà di livello internazionale. Sono davvero talenti brillanti e preclari con una lunga serie di collaborazioni attive in varie formazioni. Il progetto musicale presentato, frutto della creatività dell’ottimo pianista Comisso, ha visto la luce del laser in un’incisione a cura di Artesuono di Stefano Amerio, altra gloria locale conosciuta ovunque per la sua infinita qualità. Il termine “Numen” per gli antichi significava la potenza e la presenza della manifestazione divina, la sua epifania nel mondo fisico; è proprio questa presenza, che in modo del tutto laico, s’avverte durante l’esibizione del Trio. È la musica che si manifesta nel virtuosismo misurato e intimo degli interpreti e nel loro suono per immagini, quasi cinematografiche, che evocano paesaggi e strutture aeree nell’aria calda di un pomeriggio assolato.

Art Trio: Andrea Centazzo, Percussioni; Roberto Ottaviano, sax soprano; Franco Feruglio, Contrabbasso. Questa formazione rappresenta l’antica sorgente del nuovo jazz regionale, anzi udinese, in un certo senso sono quelli che hanno permesso al trio di Comisso di cui parlavamo più sopra di esistere. Il suo leader è, infatti, uno dei decani della musica sperimentale italiana tra i più innovatori, creativi e ancora attivi. Centazzo, che ormai è cittadino di Los Angeles, non dimentica le sue origini friulane. In modo molto ironico, presentandosi, ha voluto ricordare i molti concerti tenuti sul medesimo palcoscenico del Palamostre dal 1972, dimostrando di essere non solo memoria viva ma un musicista in grado di attraversare le epoche e gli stili in un continuo rinnovamento e progettualità. Non sono stati da meno i suoi compagni di viaggio, vecchi amici che lo accompagnano da quasi cinquant’anni. Nessuna nostalgia nel ricordare l’amico Steve Lacy.
Nicoletta Taricani “In un mare di voci” con Fabrizio Gatti. Un progetto davvero ambizioso, dallo slancio sociale e ideologico encomiabile per la sua esortazione alla fratellanza e alla riflessione sui temi della solidarietà e sulla tragedia dei migranti. Purtroppo il risultato non è stato calibrato allo sforzo e all’eticità del progetto. Quello che è mancato, soprattutto, è un senso registico del coordinamento drammaturgico tra la parte recitata e letta dallo stesso Gatti e la parte musicale che prevedeva un doppio quartetto jazz e d’archi, alcune vocalist e un’ulteriore lettrice. L’effetto finale è stato caotico e tutto è sembrato sovradimensionato, sopra le righe, ridondante, in una parola, eccessivo.

Andrea Motis Trio: Andrea Motis, Tromba, sax soprano, voce; Josep Traver Llado, chitarra; Giuseppe Campisi,  Contrabbasso. Una voce d’angelo con un’eleganza innata che ricorda la migliore Audrey Hepburn di “Colazione da Tiffany”, Andrea Motis è un miracolo, un’apparizione da lasciare senza parole. Il suo repertorio spazia dai brani originali, agli standard più classici, un po’ di  saudade brasileira, fino al pop catalano contemporaneo e tanta anima latina. Tutto filtrato dalla  grazia straordinaria di un canto sussurrato da incantatrice di serpenti anche quando soffia dentro la sua tromba o nel sax sopranino.

Muudpodcast@ud&jazz winter. Novità di questa seconda edizione invernale della rassegna gli incontri a tarda sera, dopo gli spettacoli, nella “cripta” del Teatro Palamostre di Udine. Esattamente sotto il palcoscenico principale, intitolato a “Pier Paolo Pasolini” è stata ricavata una piccola ma accogliente sala sotterranea che, giustamente, è stata dedicata a Carmelo Bene suprema “macchina attoriale”. Il format è stato quello attualissimo del podcast di un piccolo spettacolo dal vivo tra talk show con gli artisti che si erano appena esibiti, tante chiacchiere e piccole, interessanti, preziose jam session con il meglio dei musicisti regionali. Il tutto, naturalmente, in diretta live sui principali social e piattaforme on line, dove le serate sono ancora disponibili a futura memoria.
Tanta è stata la musica che si è potuta ascoltare in Friuli Venezia Giulia in questo “beato anno del castigo” epidemico, ma siamo sicuri che “tutto il meglio deve ancora venire” come ha cantato Momrelle.

Flaviano Bosco

È tempo di Udin&Jazz Winter – seconda edizione!

È tempo di Udin&Jazz Winter 2!
Dal 6 all’8 dicembre, tre giorni di grande jazz da vivere in presenza, sul palco e in sala, al Teatro Palamostre di Udine. Jazz di qualità anche per questa seconda edizione che propone artisti internazionali, italiani e il meglio della produzione regionale.

Torna a Udine uno degli appuntamenti più attesi dagli amanti della musica jazz, la seconda edizione di Udin&Jazz Winter – finalmente nella sua collocazione invernale – porterà a Udine i grandi protagonisti del jazz internazionale. Tre giornate di concerti, incontri, conversazioni, proiezioni, approfondimenti, per raccontare il poliedrico universo artistico che si muove nel mondo del jazz, cercando di restituire alcune delle sue innumerevoli declinazioni.
Il festival si presenta (dopo la prima edizione dello scorso maggio) con la convinzione che musica dal vivo e cultura possano aiutarci nell’affrontare le sfide del nostro vivere quotidiano.
Udin&Jazz Winter è organizzato dall’Associazione Culturale Euritmica e gode del sostegno di: Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Fondazione Friuli, Banca di Udine, Reale Mutua Assicurazioni Udine Franz&Dilena e si svolgerà al Teatro Palamostre dal 6 all’8 dicembre 2021.
Si parte lunedì 6 dicembre alle 18.00 con una speciale proiezione – realizzata in collaborazione con il CEC – Centro Espressioni Cinematografiche – il Visionario ospiterà Jazz Noir, il film sulla morte di Chet Baker. Il film, firmato dal regista olandese Rolf van Eijk, si apre sulla morte improvvisa dell’icona del jazz e ripercorre i suoi ultimi giorni di vita. Una scomparsa prematura avvolta tutt’ora nel mistero.
La pellicola ricostruisce attentamente studi di registrazione degli anni ‘80 e recupera tracce originali dalle ultime incisioni di Chet Baker. Un racconto dalle atmosfere noir che indaga il genio e la sregolatezza del grande jazzista, trombettista e cantante, tormentato dalla tossicodipendenza.
Alle 20.45 ci spostiamo al Teatro Palamostre, cuore pulsante della seconda edizione; il debutto è affidato a uno dei musicisti più interessanti e significativi della scena britannica moderna: Tony Momrelle, cantante soul e jazz, songwriter, lead vocalist degli Incognito che i critici musicali John Rockwell (New York Times) e Paul Morley (BBC) hanno definito come «il legittimo erede di Stevie Wonder» per la somiglianza vocale e per il feeling unico della sua voce.
In una carriera musicale iniziata oltre 20 anni fa, si è esibito con alcuni dei più grandi artisti al mondo: Gloria Estefan, Celine Dion, Janet Jackson, Whitney Houston, Chaka Khan, Sade, Gary Barlow, Andrea Bocelli, Gwen Stefani, Robert Palmer e molti altri.
Doppio appuntamento anche per martedì 7 dicembre; alle 18.00 Angelo Comisso presenta il progetto Numen: nella nuova formazione in trio, lo affiancano Alessandro Turchet al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, due partner sensibili e affidabili che lo seguono arricchendo il suo virtuosismo e la sua abilità compositiva.
Alle 20.45, secondo appuntamento della serata, un grande ritorno per il festival e per Udine: Andrea Centazzo torna nella sua città dopo anni di successi mondiali e di prestigiosa attività, soprattutto negli Stati Uniti. E per l’occasione celebra Steve Lacy, a quindici anni dalla morte, un musicista che non solo fu il più grande interprete del sax soprano, ma anche un compositore fecondo di melodie straordinarie. Il progetto Art Trio propone la musica di Lacy nella formula a lui cara: il duo soprano e percussioni (con il magistrale sax di Roberto Ottaviano e le percussioni di Centazzo), arricchito in questo caso dal raffinato contrabbasso di Franco Feruglio.
Il festival si chiude mercoledì 8 dicembre con una proposta tutta al femminile: alle 18.00 Nicoletta Taricani presenta “In un mare di voci” un progetto culturale di integrazione sociale, che utilizza la musica e la narrazione (l’ensemble è composto da quattordici musicisti ed un’attrice) per raccontare il viaggio migrante nel Mediterraneo verso l’Europa. Nato dalla voce delle persone, Nicoletta Taricani per comporre le musiche e i testi ha intervistato i veri protagonisti del viaggio e durante l’intensa ricerca, il libro “BILAL”, del giornalista d’inchiesta Fabrizio Gatti (premio Terzani 2008), è stata un’ulteriore fonte di informazioni per la stesura del progetto. Tra Nicoletta e Fabrizio è nata una stretta collaborazione che vede il giornalista come parte integrante dello spettacolo. Il loro sodalizio sarà oggetto dell’incontro “Da Bilal a Un mare di voci” in programma alle 17.00, nella Sala Carmelo Bene.
Alle 20.45, un’altra straordinaria protagonista calcherà il palco del Palamostre: Andrea Motis – catalana di Barcellona – allieva di Joan Chamorro, è una cantante e trombettista che, pur giovanissima, ha conquistato la critica internazionale (che la paragona a Norah Jones) con il suo album di debutto ‘Emotional dance’ inciso per la storica etichetta Impulse! Il suo più recente e ambizioso lavoro discografico “Do outro lado do azul” esprime la crescente maturità dell’artista catalana che, continuando a frequentare gli ambiti meno battuti della tradizione jazz, con marcati richiami mediterranei e brasiliani, sarà oggetto del suo attesissimo concerto udinese.
Alla fine di ogni serata (dalle 22.00 circa), nella sala Carmelo Bene del Palamostre ospiteremo il progetto MUUD PODCAST che proporrà musica live di giovani formazioni emergenti ed ascolti guidati, consentendo approfondimenti su quanto proposto dal festival e aperture verso le espressioni più contemporanee della musica jazz e non solo. Il tutto potrà essere seguito in presenza ma anche on-line attraverso il collegamento in streaming.
MUUD (acronimo di “musica a Udine”) è un ibrido tra un format televisivo e un podcast: tutti i lunedì per un’ora circa, trasmette in diretta su varie piattaforme social (Instagram, YouTube, Facebook e Twitch). Ogni puntata va in onda da un luogo diverso e ospita un progetto proposto da musicisti rigorosamente under 35 che lungo il corso della serata eseguono alcuni brani dal vivo. Le puntate danno spazio anche a progetti editoriali, teatrali, di riqualificazione urbana, e più in generale all’arte e alla cultura locale, affinché i diversi percorsi artistici possano essere condivisi.
Biglietti e abbonamenti sono disponibili presso la biglietteria del Teatro Palamostre (da lunedì a sabato, dalle 17.30 alle 19.30; t. 0432506925) e sul circuito Vivaticket.
Il programma completo è disponibile all’indirizzo www.euritmica.it

(Redazione)

È stato un sogno fortissimo! Grado Jazz 2021 (seconda parte)

di Flaviano Bosco – 

Grado ha un fascino molto particolare e peculiare, a volte appare sonnacchiosa e quasi spenta poi, basta una folata di vento per vederla trasformare in un meraviglioso foulard pieno di colori tra terra, cielo e mare. È davvero meteoropatica, ammesso che si possa dire di una città. Forse proprio per questo una scrittrice noir austriaca ha ambientato le inchieste della propria detective nell’isola d’oro intitolandole: Grado nella nebbia, nella pioggia, nella tempesta. Un sole splendido e serate stellate hanno incorniciato tutte le giornate di GradoJazz e davvero nessuno ha avuto certo da lamentarsene. La musica, come una gentile brezza marina, ha trasformato ogni cosa in emozione pulsante e viva e il palcoscenico del Parco delle Rose con i suoi teloni di quinta, in riva al mare sembrava un veliero pronto a solcare il mare verso luoghi d’incanto e d’avventura.

Ensemble del conservatorio “G.Tartini” di Trieste. Allievi del contrabbassista di chiara fama Giovanni Maier, i ragazzi del Conservatorio si sono esibiti in una serie di piacevolissimi standard con un ottimo groove. Puliti e attenti nelle linee melodiche si avvalgono della presenza dell’ottimo pianista Stilian Penev, che fa risaltare ancor di più le attitudini e la compattezza dell’intero ensemble. Ne hanno di strada da fare ma hanno l’atteggiamento giusto e sembrano far tesoro di ogni esperienza. Fanno parte di una nuova generazione di musicisti jazz cresciuti e formati completamente nelle scuole e nei conservatori che possono, ragionevolmente, confidare di fare del loro talento musicale una professione anche nel nostro paese, spesso avaro e distratto. Sembrano ovvietà ma non lo sono per niente; se non ci fossero le associazioni come Euritmica che permettono alle nuove leve di calcare anche palcoscenici importanti come quello di Grado, la strada per i giovani musicisti sarebbe ancora più in salita.

Michelangelo Scandroglio “In The Eyes of the Whale”. Dal vivo, l’osannato contrabbassista con la sua band ha dimostrato di aver bisogno ancora di molto rodaggio prima di raggiungere gli ottimi livelli di creatività e performance dimostrati in sala d’incisione. Nell’esecuzione piuttosto convenzionale e pedissequa dei brani composti dal leader, sempre in secondo piano con il suo strumento, si è distinto solamente il trombettista Hermon Mehari,  capace di dare profondità al proprio suono. Musica senza spessore e con poco da dire, i musicisti sono tutti sicuramente forniti di doti tecniche adeguate ma il leader forse non ha ben compreso ancora la differenza tra l’atteggiamento e la sostanza durante un’esecuzione. Essere minimal non vuol dire semplicemente suonare poco e in modo ripetitivo ma dare al proprio suono una grande intensità capace di riempire e far vibrare il tempo e lo spazio, scolpendolo dai rumori come una scheggia di granito, in una sequenza di frammenti che sono tutti opere d’arte. Comunque, niente paura Scandroglio ha tutte le qualità e il talento per costruire il proprio luminoso futuro di successo, lo vedremo ancora per molto tempo sui palcoscenici e ne potremo apprezzare i progressi.

Paolo Fresu “Heroes” Homage to David Bowie. Intelligente rilettura dei brani di Bowie, completamente destrutturati e usati solo come vago riferimento per composizioni del tutto personali che richiamano alla memoria i migliori lavori del periodo elettrico di Miles Davis. Fresu non si lascia imprigionare dalle secche della nostalgia e del revival; con l’aiuto dei suoi eccezionali musicisti, il batterista Christian Meyer su tutti, costruisce un percorso nelle canzoni di Bowie anche le meno scontate. L’opera d’arte epocale Warszawa, dall’album Low, diventa tra le labbra di Fresu ancora un altro capolavoro di musica tellurica e spaesante dal minimalismo elettronico al free jazz. Sempre sopra le righe la vocalist Petra Magoni impegnata in un’esibizione ginnico atletica di stampo circense tutta commedia dell’arte arlecchinesca, voce in falsetto, in un inglese spesso maccheronico, con una conoscenza piuttosto approssimativa dei testi; il grande pubblico, naturalmente, ha gradito moltissimo divertendosi ad ogni nuova capriola o impressionante vocalizzo, a volte è questo che conta. A Bowie piacevano molto le maschere, la preferita era però quella di un elegante Pierrot in turchese.

Huun-Huur-tu: Il canto armonico (difonico xöömej) di questi musicisti siberiano-mongoli (Repubblica di Tuva) evoca negli ascoltatori sensazioni ancestrali. Come hanno spiegato durante l’esibizione, il loro canto è spesso ad imitazione del mondo naturale e animale in particolare. Proprio per questo quei vocalizzi gutturali diplofonici o triplofonici suscitano in noi ricordi lontanissimi della nostra vita pre-urbana; nell’ascoltarli, l’animale antico che siamo, freme. Quei suoni sono finestre sul remoto passato dal quale veniamo e al contempo ci mostrano la lontanissima luce di ciò che ci sta davanti. La cultura di quelle steppe è profondamente influenzata dal rapporto simbiotico che quei popoli hanno con le loro cavalcature. Gli equini sono a fondamento della vita nomade sia perché permettono gli spostamenti sia perché la loro natura corrisponde al sentimento di libertà che costituisce la fierezza delle genti mongole. Naturalmente, anche la musica corrisponde a questo modo di vivere e perfino gli strumenti che utilizzano sono un omaggio allo spirito libero dei cavalli. Il più caratteristico è l’Igil, liuto tuvano a due corde realizzate con crine di cavallo, che si suona con un archetto la cui corda è realizzata nello stesso materiale naturale. Il manico del liuto è sormontato da una suggestiva testa di equino intagliata nel legno. La loro musica è quindi perfettamente sciamanica, si fa voce della natura e degli elementi. In alcuni momenti, quando intonavano le canzoni dei mandriani soli nella steppa, sotto il firmamento immenso e con tanta nostalgia di casa o al galoppo negli spazi sconfinati, si sentiva qualche lontana affinità, almeno nelle intenzioni, con l’epopea dei cow-boys nelle praterie americane. Uomini, in fondo, dai destini comuni.

Tigran Hamasyan trio “The Call Within”. Che cos’è il jazz oggi nessuno lo sa di preciso, su cosa sarà nell’immediato futuro il pianista armeno ha già qualche idea e le sue non sono promesse, vaticini o previsioni, sono molto di più, sono sogni lucidi. Con Hamasyan si tratta di cambiare radicalmente prospettiva sulla musica e sul modo di pensarla, oppure di rifiutare, non ci sono alternative. L’unica dimensione plausibile in senso assoluto è quella onirica, tutto il resto è una necessaria illusione che chiamiamo convenzionalmente realtà. È un concetto antico ma anche tremendamente attuale o come avrebbe detto Nietzsche “inattuale”. Ciò che normalmente riteniamo logico, razionale, consequenziale, si rivela brutale, caotico e crudele. Viviamo costantemente sull’orlo dell’abisso e per capirlo non serve chiamare in causa la recente epidemia, basta sfogliare le pagine di cronaca di un qualunque quotidiano. Il mondo dei sogni non è però un rifugio, una via di fuga ma è un luogo nel quale creare la bellezza dell’opera d’arte che può essere la nostra vita, se abbiamo il coraggio di spezzare le catene della passione e della cupidigia di questo mondo, che ci condannano al peso della materia. Se lo facciamo possono spalancarsi le porte dell’impermanenza. Di questo parla la complessa, ieratica musica di Hamasyan che, con grinta e grande potenza sonora, esorta a squarciare la volta del cielo di carta del teatrino sotto il quale si svolge la nostra vita di burattini, almeno per prendere consapevolezza della nostra condizione. Il Jazz rock prog del pianista, a tratti molto robusto e persino violento nella ritmica, ci può svegliare ad un sentimento più alto, ad un “gusto superiore”. La sua è autentica, dichiarata ricerca mistica e spirituale in musica e a noi non resta che chinare il capo e continuare ad ascoltarlo.

Paolo Conte “50 Years of Azzurro”. Sold-out da mesi è stata la star più fiammeggiante del festival. Come Federico Fellini, il Maestro Conte si è creato negli anni un proprio mondo di meraviglie musicali, poetiche e di eterne caricature. In punta di penna e con i polpastrelli sui tasti del pianoforte, dipinge da più di mezzo secolo un mondo sospeso al quale tutti vorremmo appartenere. Ognuno di noi vorrebbe possedere la classe infinita che si nasconde dietro quei baffi che ci guardano dal pianoforte; ci riconosciamo nelle esitazioni stupende descritte dalle sue ellissi in musica, nella sua orchestra che ondeggia, canzoni che dicono e non dicono che crediamo di capire e che invece ci stordiscono con il loro mistero. Vola sempre alto Paolo Conte, un po’ vitellone, un po’ vecchio guitto del varietà, ha raggiunto da tempo lo scaffale dei classici della cultura italiana, è in buona compagnia. Ascoltare ancora una volta un suo concerto significa ricapitolare gli ultimi dieci lustri del meglio della storia del nostro paese. Conte è tra i pochissimi artisti che può giocare con la nostalgia senza mai sembrare retorico o paternalistico, con i suoi versi, i suoi colori, le sue note è il padrone assoluto dei nostri sogni più belli.

Marisa, svegliati! Abbracciami! È stato un sogno fortissimo!

Flaviano Bosco

A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Luca A. d’Agostino Phocus Agency AFIJ, Angelo Salvin AFIJ, Gianni Carlo Peressotti e l’ufficio stampa Euritmica/GradoJazz

È stato un sogno fortissimo! Grado Jazz 2021 (prima parte)

di Flaviano Bosco –

Concepire, progettare e realizzare una rassegna musicale nei mesi passati poteva sembrare una follia assoluta, un azzardo, un vero colpo di dadi. Qualche volta però anche la pazzia è necessaria ed è proprio vero quello che dicevano gli antichi: “La fortuna aiuta gli audaci” o un po’ più volgarmente: “Chi non risica non rosica”; non sempre è vero ma questa volta si! E non è stato solo il favore della dea bendata.

In lingua friulana si dicono bonariamente “Cjastrons” i testardi irriducibili, quelli che contro tutto e contro tutti continuano dritti per la loro strada, a qualunque costo, anche se sembra che non abbiano alcuna possibilità di riuscire. Preferiscono continuare a sbattere la testa contro gli ostacoli pur di non cedere ai compromessi e soprattutto osano perdere e piuttosto di genuflettersi si spezzano.
“Cjastrons” di successo, in questo senso, sono sicuramente Giancarlo Velliscig e i suoi collaboratori di Euritmica che da 31 anni organizzano Udin&Jazz, la manifestazione che da tre anni ha partorito Grado Jazz che si aggiunge ad altre stagioni musicali e teatrali (Onde Mediterranee, Borghi Swing, Teatro Pasolini di Cervignano, Note Nuove, MusiCarnia ecc.)
In tutti questi anni gli è di certo capitato di sbattere il capo ma la scommessa è stata davvero vincente e i numeri e la qualità di quest’ultima edizione di Grado Jazz lo dimostrano. In accordo con la lungimirante amministrazione comunale dell’Isola d’oro è stato approntato e portato a termine un programma davvero succulento che ha fatto divertire, commuovere, emozionare, rilassare, eccitare gli spettatori spesso tutto nello stesso momento.
Ecco di seguito una mia selezione dei momenti più significativi, tra i tanti del festival,  che ho seguito dalla seconda serata alla fine.

Claudio Cojaniz “Black Water Music”. Quella dei concerti all’alba è diventata ormai una piacevole consuetudine di festival e rassegne, è un modo per riappropriarsi o per esplorare in musica momenti della giornata che normalmente non consideriamo. Accompagnare l’alba con le note del pianoforte di fronte all’orizzonte marino con il sole che sorge direttamente dalla laguna nel silenzio di una città che ancora dorme è un’esperienza quasi religiosa, un rito pagano. Se poi a suscitare le note sono le dita di un pianista come Cojaniz capace di un grande lirismo e sconfinati orizzonti non si può sbagliare. Provare per credere!

Bandakadabra: all’insegna del divertimento stradaiolo più verace e disimpegnato i “ragazzi” di Torino sanno davvero come far sorridere la gente e non c’è niente di più divertente che il vedere una band scatenata in mezzo alla folla che la segue in processione per tutta la città al ritmo del tamburo. Frizzanti, scoppiettanti, leggeri, clowneschi, saltimbanchi del jazz, una street marching band senza troppe pretese se non l’allegria propria e del pubblico. Momenti come questo contribuiscono a fare della rassegna una festa per tutta la città e non solo un evento elitario per i tanti appassionati. Bene hanno fatto gli organizzatori a voler disseminare in giro per la città balneare alcune iniziative, il grande favore riscontrato dal pubblico significa che la strada è quella giusta.

Dee Dee Bridgewater. Una vera Lady con la voce intatta nonostante non sia più una fanciulla in fiore. Con un gruppo di giovani musicisti italiani tra i quali spiccavano la contrabbassista Rosa Brunello e la batterista Evita Polidoro. La cantante ha proposto dal suo sconfinato song book soprattutto brani del periodo con Stanley Clarke e Chick Corea; alla memoria di quest’ultimo era dedicato l’intero concerto. Visibilmente divertita, la Bridgewater ha “giocato” con la propria voce e con i musicisti, ridendo, ballando, raccontando gustosi aneddoti sulla sua lunga carriera fatta di incontri straordinari ma soprattutto incantando il pubblico con le sue doti canore strabilianti in grado di passare in un battito di ciglia dai toni più gravi, sporchi e bluesy fino ai più verticali acuti con estrema naturalezza e senza artifici accademici.

Daniele D’Agaro con i suoi sax e i suoi clarinetti ha saputo intrattenere i passanti proprio nel cuore della città lagunare in un luogo dalle architetture straordinarie e dalle antichissime testimonianze: il sagrato comune tra due basiliche paleocristiane, una a fianco dell’altra (Santa Eufemia e Santa Maria delle Grazie). Le sue ance sembravano riempire il balzo temporale tra quell’estrema antichità e il “presente fatto di attimi e settimane enigmistiche” come dice il poeta. D’Agaro sa essere evocativo e immaginifico sulle sue chiavi ma spesso risulta meditativo e distante, per un sassofonista non sono certo difetti. La sua performance solitaria è stata affascinante ma anche piacevolmente ermetica e astratta.

Brad Mehldau trio. Molti musicisti tra gli spettatori, il gotha dei jazzisti locali e di oltre confine con l’aggiunta di moltissimi appassionati, critici e giornalisti che aspettavano l’apparizione di quello che ormai è considerato un gigante della musica contemporanea senza definizioni di genere. L’attesa non è stata vana, Mehldau ha presentato il suo ultimo lavoro con un’esibizione convincente e maiuscola nonostante una piccola ferita al pollice che si era procurato tagliando un limone a poche ore dal concerto. Romantico e lirico, lontano dalle iper-virtuosistiche prestazioni di inizio carriera, mantiene una certa predisposizione ad un pop colto e “pettinato” che gli permette gli usuali sconfinamenti e crossover musicali appropriandosi, come in questo caso, di canzoni del tutto eterodosse come “Friends” dei Beach Boys. Ottimo l’interplay con i propri musicisti Grenadier al contrabbasso e Ballard alla batteria.

Mirko Cisilino: Tromba, trombone, Tuba in fa e una moltitudine di sordine, con queste armi si è presentato il trombettista in una delle vie centrali dello “struscio” serale di Grado. La sua esibizione ha colpito e affascinato molti ma ha ugualmente reso perplessi e forse anche indifferenti altri. Non è facile improvvisare davanti ad un pubblico a passeggio. Di recente anche Paolo Fresu travestito da barbone è stato completamente ignorato in un concerto improvvisato in piazza Navona a Roma, era successo alcuni anni fa anche a Joshua Bell, genio del violino, in una stazione della metropolitana a New York. Spesso siamo troppo distratti e non poniamo sufficientemente attenzione a ciò che ci circonda, a volte ci impediamo di scoprire autentici tesori come quelli che Cisilino soffiava nei propri labiofoni, da improvvisazioni su melodie classiche a quelle free form e rumoristiche. Tra gli spettatori più attenti, due bambini che leccavano il loro gelatone guardavano divertiti e perplessi qualcosa che forse non capivano del tutto ma che destava la loro curiosità. E’ proprio quello l’atteggiamento che tutti dovremmo sforzarci di avere. La vera musica è sempre Bellezza e Mistero.

Danilo Rea&Luciano Biondini: intrattenimento elegante fatto di classici della canzone italiana rivisitati in jazz in un’atmosfera da piano bar; c’è da chiedersi se abbia ancora senso un progetto del genere dopo che il revival jazzato sulle canzoni “leggerissime” della tradizione anni ‘60 si fa da decenni in tutte le salse e dopo che l’ottimo pianista Bollani ci ha costruito sopra una carriera trentennale. Anche il progetto che i due da anni portano in scena (Cosa sono le nuvole) che rivisita i brani più famosi della canzone italiana comincia ad essere una replica di se stesso, nostalgia di nostalgia. Certo entrambi sono ottimi musicisti, al pubblico continuano a piacere moltissimo, lo si è visto al Parco delle Rose e non si può certo rimproverare nessuno, il jazz cinquant’anni fa era fatto anche di questo.

Jazz Portraits. Fotografo ufficiale del festival e di tante altre avventure, Luca A. D’Agostino con i propri collaboratori segue il festival da trentun’anni. Una splendida esposizione, da egli stesso curata, con significativi scatti suoi e di altri eccellenti fotografi AFIJ (Associazione Fotografi Italiani di Jazz) per ciascuna edizione faceva bella mostra di sé nel centro della cittadina balneare durante la rassegna. Tra le tante meravigliose immagini, tutte in un rigoroso, evocativo bianco e nero di veri e propri giganti della musica ospitati dalla manifestazione (Elvin Jones, Ornette Coleman, B.B King ecc.) ne spiccava uno del presente che è già proiettato nell’immediato futuro. Shabaka Hutchings, il geniale tenor sassofonista, che fu a Udine nel 2017 con i suoi The Ancestors, è immortalato in chiaroscuro nella cornice di una porta proprio mentre si sta accingendo a entrare in palcoscenico, imbracciando il proprio strumento. E’ un attimo sospeso in perfetto equilibrio tra quello che non c’è ancora e quello che sarà che da l’idea di che cosa sia oggi la musica dentro e intorno il jazz.

A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Luca A. d’Agostino Phocus Agency, Alessandra Freguja, Angelo Salvin (AFIJ) e l’ufficio stampa di GradoJazz/Euritmica

Cos’è che luccica sul grande mare? È GradoJazz 2021 – dal 17 al 24 luglio a Grado (Go)

di Flaviano Bosco –

Lasciandoci alle spalle mesi davvero difficili e  guardando al prossimo futuro, la prima cosa che ci meritiamo è una bella vacanza “sole e mare” che ci faccia dimenticare le brutture della galera del lockdown: i locali chiusi, gli schermi dei computer, la claustrofobia nelle nostre case e il continuo bombardamento a tappeto di brutte notizie. Ora basta! L’unico obbligo per almeno quindici giorni deve essere quello di non dimenticare a casa l’olio solare, cappellino e occhiali da sole.
Dopo le giornate sul bagnasciuga per ritemprarci, servirebbe una sostanziosa, quotidiana dose di musica, il farmaco migliore per cancellare le nostre passate ubbie.
Sembra un’utopia, un luogo da sogno, una cosa del tutto irreale, ma un posto così esiste davvero: è l’isola che c’è.
Grado, la perla dell’Adriatico, da tre anni ospita quello che, per qualità e bellezze artistiche, può essere considerato uno dei più importanti festival Jazz dell’estate italiana.
Dobbiamo solo lasciarci affascinare dalle sue suggestioni, abbandonandoci ai suoni, alla brezza, alla risacca e al paesaggio ineguagliabile tra la luminosa laguna e il cielo che l’isola d’oro ci regala.
Non sono certo parole da ufficio di promozione turistica, Grado non ne ha quasi bisogno grazie alle sue bellezze e alla sua storia millenaria; poche altre spiagge possono annoverare antiche vestigia romane e basiliche paleocristiane con magnifici mosaici a pochi metri dalla sabbia dorata. Grado Jazz con la sua magia si inserisce perfettamente in questo contesto e anche qui non serve sforzarsi troppo in persuasioni occulte o trovate di marketing, basta dare un occhiata ai nomi degli artisti sul cartellone.
Cominciamo dal calibro più rilevante che ci permette attraverso la sua arte immortale e le parole delle sue canzoni di introdurci alla rassegna. Nemmeno Paolo Conte avrebbe bisogno di tante presentazioni, in realtà, ma non ci si stanca mai di dire che senza di lui in Italia il jazz non esisterebbe nemmeno. Sono state le sue canzoni a contrabbandare nella musica cosiddetta leggera e leggerissima gli accordi e i ritmi dello swing che la tradizione musicale italiana aveva contribuito a creare già nell’epoca dei pionieri della musica degenerata (Nick La Rocca, cornettista di origine siciliana, con la sua Original Dixiland Jazz Band fu il primo ad utilizzare il termine che dal 1918 definisce il genere). Certi capivano il Jazz, l’argenteria spariva, ladri di stelle di Jazz, così eravamo noi, così eravamo noi.
Con la sua orchestra di 11 elementi, l’avvocato di Asti dietro i suoi baffi e con le dita sulla tastiera, celebra ancora i 50 anni della sua Azzurro emblema della canzone italiana propriamente detta e universalmente conosciuta. Il programma di Grado Jazz sembra costruito a partire dai gusti di Conte: dal main stream del songbook classico afroamericano, alla musica brasiliana fino alle suggestioni della musica orientale e ancora dal pianismo più classico e sognante fino alle trombe levigate.
Si esibirà il 24 luglio in un luogo il cui nome da solo evoca le atmosfere e l’alchimia della sua poetica in musica: Parco delle Rose. Sembra fatto apposta per lui e le sue canzoni: sulla riva del mare, alla luce lunare, al ritmo delle onde che si infrangono placide sulla sabbia, non mancherà di certo nemmeno un gelato al limon… mentre un’altra estate passerà. Libertà e perline colorate. Ecco quello che io ti darò…
Dee Dee Bridgewater. È proprio tra le rose che sarà accolta anche una delle più splendide signore del Jazz, dalla grazia e dalla dolcezza impareggiabili unite ad una potenza vocale e ad una presenza scenica davvero sbalorditive. Sul palco delle Rose, il 18  luglio, presenterà, in esclusiva, il suo nuovo progetto musicale accompagnata da giovani talenti e dalla sua solita verve: Ma cos’è la luce piena di vertigine, sguardo di donna che ti fulmina, Come-di, come-di.

Brad Meldhau. Prodigio del pianoforte, ha smesso già da un po’ di essere quell’eterno enfant prodige della tastiera che riempiva le pagine dei rotocalchi. Meldhau si è lasciato alle spalle quell’immagine pubblica di ragazzotto americano evolvendosi in un musicista raffinatissimo, dalle doti interpretative rare e dal prezioso virtuosismo. Si presenta il 19 luglio con il suo leggendario trio che fece furori in tutto il mondo negli anni novanta e che ancora oggi non ha perso la voglia di sperimentare tra post rock, jazz fino alle allucinate visioni bibliche espresse dal leader nel misticheggiante album Finding Gabriel: Io sono qui, sono venuto a suonare, sono venuto ad amare e di nascosto a danzare…

È dedicata alla musica brasiliana una delle serate più attese della rassegna (17 luglio) che da anni presenta le novità più interessanti e la tradizione classica di quell’universo di suoni. A far da guida al pubblico un vecchio amico del festival Max De Tomassi di Radio 1 Rai (media partner ufficiale di GradoJazz, assieme a Radio 3 Rai e Rai FVG), conduttore di Stereo Notte e  già autore della trasmissione Brasil, oggi in Stereo Notte, che ha fatto conoscere al nostro paese le bellezze della musica Carioca.
Potremo ascoltare così la suadente voce di Mafalda Minnozzi Ambasciatrice della canzone italiana in Brasile e il contrario, nelle sue interpretazioni degli standard della Bossa Nova riletti attraverso il Jazz contemporaneo di New York che hanno trovato la sintesi nell’acclamato album Sensorial (2019).

Altro grosso calibro del festival in salsa piccante brasiliana è Ivan Lins che ha messo il proprio sigillo da decenni sul jazz mainstream contemporaneo del paese sudamericano. La sua vena romantica e morbida gli ha permesso di collaborare sia con gli scatenati cubani Irakere sia con il crooner confidenziale Michael Bublè portando nuovamente la musica brasiliana sul palcoscenico internazionale.
Il 21 luglio è la volta di Enrico Rava & Danilo Rea, un duo di autentici colossi della musica italiana. A ottant’anni suonati, è proprio il caso di dirlo, il trombettista triestino-piemontese può considerarsi il padre nobile dell’attuale scena musicale italiana per quanto riguarda gli artisti più ricercati. Se si guardano i componenti dei gruppi che nei suoi sessant’anni di carriera ha incrociato e lanciato si può affermare tranquillamente che li ha disegnati tutti lui soffiando nella sua tromba. Non da meno Danilo Rea che ha attraversato la storia della musica d’arte italiana dal progressive fusion più raffinato dei New Perigeo nei primi anni ‘80, passando per i favolosi Doctor 3, fino alle numerosissime collaborazioni con la creme della musica pop italiana da Mina a Celentano, da Domenico Modugno a Renato Zero e Claudio Baglioni.
David Bowie sarà omaggiato dal progetto musicale di un altro gigante del jazz di casa nostra. Paolo Fresu, con la sua straordinaria band che si avvale dell’incantevole voce di Petra Mangoni, rileggerà le meraviglie del Duca Bianco il 22 luglio. Forse non molti sanno che il battesimo musicale di Bowie avvenne nei Jazz club di Londra nei quali si faceva felicemente trascinare dal fratello. Fu questo che lo spinse a prendere lezione di Sassofono contralto, come dichiarò: Quello strumento divenne per me un emblema, un simbolo di libertà. Da allora non ne fece più a meno fino all’ultimo capolavoro Blackstar che al di là dei generi può essere considerato un’opera d’avanguardia. Fresu rilegge quella straordinaria avventura musicale attraverso la propria arte promettendo fuochi artificiali e che We can be heroes, Just for one day, We can be all us Just for one day.
Saltando ancora dall’altra parte del mondo, Grado Jazz offre ai suoi spettatori una serata interamente dedicata ai tesori musicali dell’Asia che in modo trasversale incontrano i suoni di derivazione afroamenricana. Ad aprire le danze, anzi i canti, il 23 luglio, le voci diplofoniche e triplofoniche degli Huun Huur Tu, maestri del canto laringeo degli sciamani della tundra siberiana e delle steppe mongole. Chi avesse familiarità con le spericolate arditezze della vertiginosa vocalità del compianto Demetrio Stratos può farsi una lontana idea delle meraviglie che proporranno questi musicisti che si accompagnano con gli antichi strumenti della loro tradizione.
All’Asia anteriore appartiene il mondo cui si ispira il giovane ma già acclamato pianista Tigran Hamasyan. Di origine armena ha un’idea totalmente mistica della musica come ricerca di spiritualità assoluta e trascendenza che possiamo associare liberamente al lavoro di ricerca interiore e di riflessione religiosa intrapreso da Brad Meldhau di cui dicevamo. L’arte dell’armeno è stata paragonata alla psicomagia di Alejandro Jodorowsky, quindi il Parco delle Rose deve prepararsi a qualcosa di inaudito dalla bellezza cristallina e straniante.
I manicaretti offerti da Grado Jazz non finiscono certo qui. Gli appassionati si troveranno come bambini in gelateria davanti a tutte quelle vaschette che promettono talmente tanta delizia da non saper quasi scegliere.
Al variegato all’amarena nel nostro giochino infantile potremmo associare la fantastica mostra del fotografo Luca A. d’Agostino e dell’AFIJ sui trent’anni di Udin&Jazz, matrice della rassegna gradese con immagini che restituiscono le emozioni di decenni di concerti (dal 17 al 24 luglio all’ex Cinema Cristallo).

Al gelato al caffè corrisponde il Black Water Music concerto all’alba davanti al mare di Claudio Cojaniz da assaporare nella luce del mattino (18 luglio).
Al sapore tutti frutti sarà decisamente la fanfara urbana Bandakadabra, che per le strade di Grado farà sentire i propri ottoni così come nella tradizione più autentica del Jazz.

Allo stesso modo, al fresco sapore di agrumi saranno le granite in musica distribuite negli angoli più suggestivi della città dal sassofono di Daniele D’Agaro o dalla tromba di Mirko Cisilino.
Necessariamente un gelato al limone servirà alla fine dell’escursione sulla Jazz Boat (20 luglio) attraverso la laguna accompagnati dalla migliore musica dal vivo e dalla degustazione di prodotti tipici di mare e dalle bollicine delle vigne friulane.
Black come il cioccolato più fragrante e goloso sarà il tributo alla fantastica voce soul di Aretha Franklin: Respect! Di Elena Vinci, Joy Jenkins & Michela Grilli (20 luglio).
Aristocratica zuppa inglese e malaga per i classici Standard interpretati dall’Ensemble Jazz del Conservatorio Tartini di Giovanni Maier (21 luglio, prima di Rava/rea).
Sapori sperimentali e d’avanguardia per la band di Michelangelo Scandroglio, giovane e intraprendente contrabbassista toscano tutto Pan di stelle e cacao al peperoncino (22 luglio prima di Fresu).
Un tripudio di creme colorate per i Laboratori musicali per bambini di PraticaMenteMusica e allora via libera a dolci scorpacciate in musica per i più piccoli al sapore di Puffo, gianduia, amarena, liquirizia e pistacchio. Tutte proposte che non sono per niente solo eventi collaterali ma deliziosi dessert che rendono le giornate di Grado Jazz ancora più sfiziose e colorate.
Ormai l’abbiamo capito, a Grado Jazz sarà un’estate torrida e affascinante con duemila enigmi nel jazz, ah non si capisce il motivo, nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche, Arrivederci all’Isola d’oro sotto la luna del Jazz.
Il programma dettagliato lo trovate nella web-gelateria www.euritmica.it !

Flaviano Bosco

Trent’anni di Amori Supremi a Udin&Jazz Winter – il racconto di 4 giorni di concerti da tutto esaurito a Udine

di Flaviano Bosco

Desiderata e sospirata per mesi durante tutto il periodo dei vari esasperanti lockdown, si è finalmente svolta a Udine la settimana celebrativa del trentennale di Udin&Jazz con la prima edizione della sua versione invernale, scambiando maggio per dicembre a causa delle restrizioni e di una continua posticipazione dovute alle norme di prevenzioni anti Covid che, facendo slittare in avanti i concerti, ha fatto sì che ci si ritrovasse con un anno perso in più dietro le spalle, perciò 30+1 non fuori tempo ma in perfetto sincopato jazz.

La manifestazione udinese, nel corso degli anni, ha saputo guadagnarsi il prestigio di punto di riferimento italiano ed europeo per la musica d’ispirazione afro-americana. “Jazz Portraits”, una preziosa mostra fotografica a cura del Maestro della Luce Luca A. d’Agostino e dell’Associazione Fotografi Italiani di Jazz (AFIJ) ne ha illustrato in trenta scatti memorabili il percorso. Ma non è stato certo possibile rinchiudere in quelle immagini un percorso lungo centinaia di concerti, migliaia di spettatori e intense emozioni che valgono una vita. Udin&Jazz, infatti, ha da tempo superato lo status di semplice rassegna musicale, è un autentico presidio culturale che, a partire dall’esplorazione dei suoni, ha sempre voluto coniugare impegno civile e morale in tempi nei quali la musica è spesso solo ornamentale e biecamente di consumo.
A voler proprio cercare un filo rosso (è proprio il colore giusto) che lega la prima edizione del 1991 all’ultima della rinascita post epidemica possiamo sicuramente parlare della musica e dell’opera dell’immenso John Coltrane.

Trent’anni fa, infatti, in un auditorium di un istituto scolastico fece la sua esibizione il batterista Elvin Jones, qualche anno dopo, in un cinema a luci rosse requisito per l’occasione mostrò al cielo i propri miracoli McCoy Tyner e poi ancora Pharoah Sanders e poi tanti della cosiddetta Davis Diaspora che, usciti dall’esperienza formativa con lo sciamano elettrico, hanno aperto nuovi sentieri della musica.

Il concerto di apertura di questa edizione di Udin&Jazz Winter ha riassunto la decennale avventura con lo spettacolo: John Coltrane – Un Amore Supremo. Una musica tra cielo e terra. Produzione di Euritmica che da sempre organizza il festival. La rappresentazione è tratta dall’interessante studio di Valerio Marchi sul sassofonista raccontato dal punto di vista delle donne della sua vita.

Una straordinaria trovata drammaturgica che permette di vedere l’uomo dietro alla leggenda della musica in prospettive talora inedite e quantomeno insolite. Lo stesso autore con l’aiuto dell’attrice Nicoletta Oscuro ha intrattenuto il pubblico del Palamostre di Udine con aneddoti e un racconto tutto al femminile dietro alle famose “cortine di suono” (Sheets of Sound). Ma la meraviglia non si è limitata alla pur intensa recitazione. I racconti sulla vita di Coltrane erano intercalati da lirici interventi dal trio del tenor sassofonista Francesco Bearzatti (Gianpaolo Rinaldi, pianoforte; Luca Colussi, Batteria), brevi momenti di pura estasi sonora durante i quali l’ancia del musicista friulano ha interpretato senza alcuna inibizione o plagio alcune opere d’arte per fiati e anima di Coltrane. La grandezza di Bearzatti sta proprio nella precisa volontà di non voler imitare quelle intangibili altezze, suggerendo e sussurrando la propria devozione al genio senza alcun sussiego o presunzione.

Lo ha dimostrato ancor di più nella seconda serata che lo ha visto di nuovo sul palcoscenico del Palamostre insieme al quintetto di eccezionali promesse del jazz internazionali che accompagna il tour di Enrico Rava. Il fantastico trombettista è un altro grande amico del festival fin dalle prime edizioni. Per di più Rava ha sempre riservato un’attenzione speciale al Friuli Venezia Giulia, sua terra di nascita. Indimenticabile il suo quintetto elettrico che si nutriva delle suggestioni e delle energie di questo territorio in album e concerti che hanno fatto la storia del jazz italiano contemporaneo (Electric Five, Carmen, Noir, Certi angoli segreti ecc.).

Il concerto, oltre alla ben conosciuta raffinatezza della tromba e del flicorno di Rava che dopo sessant’anni di carriera non smette di “mirare al cuore” come il Ramon di “Per un pugno di dollari” di Leone, ha dimostrato ancora una volta l’eccezionale caratura del fedele pianista Giovanni Guidi, romantico e incisivo e a volte rapito in alto a seguire le spirali delle sue note leggere e scintillanti.

Passata la boa di metà regata con un’ovazione trionfale a Rava, ragazzo di ottant’anni più in forma che mai, si è immediatamente veleggiato verso la serata successiva anch’essa ricchissima di malie.

Ha aperto le danze un duo di vecchie conoscenze per il pubblico friulano affezionato e partecipe alla Blue Question delle corde del pianoforte di Claudio Coianiz e di quelle del contrabbasso di Franco Feruglio. Artisticamente maturi, i musicisti del duo hanno dimostrato una profonda dolcezza di suono da non confondersi con le solite melensaggini zuccherose che contaminano una certa idea commerciale del jazz. La nostalgia di Cojaniz e Feruglio fa sognare e sorridere qualche volta tra le lacrime di tristezza è vero ma la vita non è fatta solo di tasti perlacei, ci vogliono anche quelli neri che ci permettono di esprimere i semitoni delle Blue Emotions.

Dal nostalgico, incantato blues del duo è stato un attimo passare ai fasti del rock prog d’annata più infuocati quando è salita sul palco la band di Roberto Gatto che in una serie di concerti riprende il suo progetto musicale del 2009: “Progressivamente” dedicato alle meraviglie del rock sinfonico degli anni ‘70. Proprio in quegli anni adolescenti si è formato il suo immaginario musicale, sotto lo sguardo alieno dell’Osservatore dei cieli (Watcher of the skies/Genesis), sempre più vicino al limite (Close to the Edge/Yes) vicino al mare con “la pelle che splende dolcemente al chiaro di luna” (Sea song/Wyatt), giusto per giocare con i testi di alcuni standard di quel genere che non è per niente tramontato ma le cui energie germogliano nuovamente ogni volta che interpreti intelligenti e appassionati come Roberto Gatto e i suoi musicisti vi si accostano con un pizzico forse di nostalgia ma senza rimpianti. Quelli del prog ormai sono diventati degli standard e sono ormai patrimonio di tutti coloro che intendono la musica come ricerca inesausta e, per l’appunto, progressiva. A riprova di ciò, parte integrante dell’esibizione è stata la performance vocale di Jon Di Leo, che contemporaneamente si è rivelato ancora una volta outsider assoluto con il vigore e la potenza della sua gola, i vertiginosi salti di tonalità, l’estensione e perfino la brutalità dei suoni che riusciva ad intonare è risultato, a tratti, perfino magnificamente insostenibile.

L’ultima serata si è chiusa con un altro doppio concerto che resterà a lungo nella memoria dei fortunati spettatori che hanno regalato oltre agli entusiastici applausi un continuo sold out ai concerti. A dare il La alla serata l’Udin&Jazz Ensemble in un altro concerto-spettacolo prodotto da Euritmica dal titolo Anima, lettura scenica di poesie in lingua friulana (Benedetti e Tavan) e componimenti originali in italiano della poetessa Giorgia D’Artizio.

L’ensemble orchestrale di undici elementi è composto da molti dei migliori giovani musicisti e compositori che sono sbocciati dai semi che il festival in tutti questi anni ha saputo coltivare. Udin&Jazz da sempre programmaticamente ha permesso alle nuove leve del jazz italiano e internazionale non solo di incontrare passivamente i grandi maestri del jazz ma di formarsi accanto a loro, garantendo occasioni e spazi alla loro fresca creatività. Per questo almeno due generazioni di musicisti e altrettanti spettatori sono grati al festival per aver permesso questa mutua crescita fatta di suoni, di ascolti e di buone pratiche.

Nell’esibizione hanno primeggiato i virtuosismi di Mirko Cisilino alla tromba, Max Ravanello al trombone, Mattia romano alla chitarra ed Emanuele Filippi al pianoforte, tutti e quattro anche compositori delle musiche. Incantevole l’attrice Laura Giavon che ha riempito di vita pulsante il cuore dei versi, su tutti quelli della siderale Nâf Spâzial di Federico Tavan vertice della poesia friulana contemporanea.

Il sigillo fiammeggiante al festival del trentennale lo ha messo il Dario Carnovale Lift Him Up che ha il proprio baricentro espressivo nella funambolica tromba di Fabrizio Bosso. Un’esibizione che ha spinto sull’acceleratore di un Hard bop sparato a velocità straordinaria che, pur non lesinando su forsennati tecnicismi, ha saputo trasmettere calore ed emozioni vivissime. A garantire la piacevole sensazione d’ebrezza continua di questa velocità sono stati il pianoforte liquido e trasparente di Carnovale, leader pari tra pari, le geometrie del contrabbasso di Simone Serafini, le fantasmagorie della batteria di Klemens Marktl e la straordinaria eleganza di Bosso. Perfetti, veloci, splendenti come una fuoriserie di quelle che piacevano a Miles Davis e piacciono tanto anche a noi.

Lo storico patron della manifestazione Giancarlo Velliscig ha più volte ricordato con grande emozione i traguardi raggiunti dalla manifestazione nel corso degli anni e i tanti amici che hanno incrociato le loro strade in questo luogo sotto le stelle del Jazz. Lo ha fatto con il giustificato orgoglio di chi ha sempre tenuto la schiena dritta davanti alle tante avversità del tempo. Lo sguardo dritto avanti e le vele piene di futuro. L’ultima serata del festival si è svolta nella prima giornata di zona bianca del Friuli Venezia Giulia. Possiamo dire con un pizzico di azzardo ben augurante che la musica di Udine&Jazz Winter ha dato l’ultima spallata al maledetto virus regalandoci una nuova primavera di note dispari dopo tanto inverno.

Possiamo tranquillamente dire che il festival nato sotto il segno di John Coltrane dopo tre intensi decenni continua ancora sotto la sua egida e le sue parole:

“Non so esattamente ciò che sto cercando, qualcosa che non è stato ancora suonato. Non so che cosa è. So che lo sentirò nel momento in cui me ne impossesserò, ma anche allora continuerò a cercare.”

Flaviano Bosco

A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Luca A. d’Agostino Phocus Agency / Angelo Salvin, Gianni Carlo Peressotti,  Barbara Domenis e l’ufficio stampa di Udin&Jazz