I NOSTRI CD. Il jazz italiano omaggia Morricone

Cari amici, prima di andare in vacanza, “A proposito di jazz” vi propone una serie di album, italiani e stranieri, che vale la pena ascoltare. E si comincia con tre eccellenti CD dedicati al cinema.

Stefano Di Battista – “Morricone stories” – Warner

Questo del sassofonista Stefano Di Battista è il primo dei tre album dedicati al cinema che viene ospitato nella nostra abituale rassegna discografica. L’album è particolare in quanto Di Battista, ben coadiuvato da Fred Nardin al pianoforte, Daniele Sorrentino al contrabbasso e il fantastico André Ceccarelli alla batteria, dedica questa sua ultima impresa discografica a Ennio Morricone, uno dei più grandi musicisti italiani degli ultimi tempi, al quale era legato da profonda e sincera amicizia. E lo fa nel modo migliore, vale a dire tralasciando i brani più noti, quelli che tutti conosciamo, per far ricorso ad alcune vere e proprie perle del Maestro che purtroppo non sempre godono di grande popolarità. Così l’unico brano universalmente conosciuto è “Metti una sera a cena” dall’omonimo film del 1969 diretto da Giuseppe Patroni Griffi, con Lino Capolicchio e Florinda Bolkan magnifici interpreti. Di Battista ce lo ripropone in una versione swingante in cui il sassofonista si produce in uno degli assolo più riusciti dell’intero album, che nulla toglie all’originaria bellezza del pezzo. Toccante, così come l’originale, “Tema di Deborah” da “C’era una volta in America” mentre in “Gabriel’s Oboe” da “Mission” Di Battista sostituisce il suo sax soprano all’originario oboe, con risultati straordinari nel mantenere sempre e comunque l’originaria bellezza della scrittura ‘morriconiana’. E questa sorta di devozione si avverte anche nel modo in cui la musica viene eseguita: niente muscolose esibizioni di bravura, niente arrangiamenti particolarmente sofisticati, insomma nessun escamotage per stupire l’ascoltatore, ma solo il piacere di suonare una musica evidentemente amata e profondamente vissuta. Splendida, e come poteva essere diversamente, anche l’interpretazione di “Flora” un pezzo che Morricone scrisse appositamente per Di Battista. Il disco è stato preceduto dai tre singoli “Peur sur la ville” (uscito il 29 gennaio), “Cosa avete fatto a Solange?” (uscito il 26 febbraio) e “Gabriel’s Oboe” (uscito il 19 marzo).

Marco Fumo – “Il mio Morricone” – Oradek

Ecco il secondo album dedicato a Morricone, firmato da Marco Fumo che more solito si esprime in solitudine. Anche questa volta la scelta dei brani è ben meditata: per la successione dei brani è stato scelto l’ordine cronologico mentre per i contenuti è lo stesso Fumo a venirci incontro nelle note che accompagnano l’album. Così i quattro preludi (“Cane bianco”, “Star System”, “Metti una sera a cena”, “Indagine”) e le quattro canzoni (“Il deserto dei tartari”, “Le due stagioni della vita”, “Got mit Uns” “Il potere degli angeli”) più “Nuovo cinema Paradiso” sono stati scelti in quanto da sempre fanno parte del repertorio di Fumo così come “scelta obbligata” è stata anche quella di “Rag in frantumi”, scritto da Morricone nel lontano febbraio 1986 ed espressamente dedicato proprio a Marco Fumo. Interessante sottolineare come Fumo mai abbia inciso le musiche di Morricone avendole, invece, eseguite spesso dal vivo (eccezion fatta per il già citato “Rag in frantumi” presente in vari album del pianista). Insomma un CD profondamente sentito, a dimostrazione di come Morricone fosse amato anche dai suoi colleghi e di quanto profondo, in particolare, fosse il legame che intercorreva tra Morricone e Fumo. “Questo – conclude le sue note Marco Fumo – è quello che sento e posso fare, dal cuore”. Dal punto di vista prettamente musicale, lo stile di Fumo è oramai riconoscibile: una assoluta conoscenza della letteratura pianistica – in particolar modo jazzistica – un sound fresco ma incisivo frutto di una solida preparazione di base, doti interpretative non comuni. Così, sotto le sue sapienti mani, i brani di Morricone rivivono letteralmente imponendosi all’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto.

Renzo Ruggieri, Mauro De Federicis – “Ciak” – Vap

Il terzo album in qualche modo dedicato al cinema è questo “Ciak” che vede impegnati Renzo Ruggieri alla fisarmonica e Marino De Federicis alla chitarra. Si tratta di un duo ampiamente collaudato che ha già inciso un album, “Terre” (2008), e che si è esibito con successo in Finlandia e Austria, oltre che in diversi festival italiani. Adesso tornano a presentarsi al pubblico del jazz con questo nuovo album composto da cinque brani per un totale di circa ventisette minuti di musica comunque di eccellente qualità. Il fatto è che Renzo Ruggieri si è oramai imposto all’attenzione del pubblico internazionale come uno dei migliori fisarmonicisti non solo italiani e può vantare una certa parsimonia nell’entrare in sala di registrazione: tutti i suoi album conservano uno standard qualitativo molto elevato grazie al fatto che Renzo decide di incidere un disco solo se ha qualcosa da dire. Dal canto suo Mauro De Federicis può esibire una preparazione di base di assoluto rispetto e una continua frequentazione con l’olimpo del jazz testimoniato dalle collaborazioni con nomi prestigiosi quali Dee Dee Bridgewater, Paolo Fresu, Bob Mintzer, tanto per fare qualche esempio. In questo album, dedicato al cinema, i due hanno scelto di eseguire due composizioni originali e tre brani di assoluto spessore come “Il postino” di Luis Bacalov, Riccardo Del Turco e Paolo Margheri, “La gita in barca” di Piero Piccioni e “Speak Softly Love” di Rota tratto da “Il Padrino”. Una scelta coraggiosa non fosse altro che per aver tralasciato quel Morricone cui viceversa sono dedicati i due precedenti album. Particolarmente interessante il modo in cui i due attualizzano le atmosfere proprie di giganti del cinema dedicando loro due brani, “De Niro” (Marino De Federicis) e “Fellini” (Ruggieri). Comunque il pezzo che più mi ha toccato è stato “Il Postino” il cui originario pathos è stato perfettamente riproposto. E devo dire che in questo tipo di riletture Ruggieri è davvero un maestro: basti dire che ogni qualvolta lo ascolto eseguire “Caruso” mi è difficile contenere la commozione.

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Claudio Angeleri – “Music from the Castle of Crossed Destinies” – Dodicilune

Conosco e apprezzo oramai da molti anni Claudio Angeleri e non credo di sbagliare di molto se affermo che questo album è uno dei migliori che il pianista bergamasco abbia prodotto nel corso della sua oramai lunga carriera. A coadiuvarlo in questa ennesima fatica un gruppo di eccellenti musicisti: Giulio Visibelli (sax soprano, flauto), Paola Milzani (voce), Virginia Sutera (violino), Michele Gentilini (chitarra elettrica), Marco Esposito (basso elettrico), Luca Bongiovanni (batteria, percussioni) e, nel brano “Two or three stories”, Gabriele Comeglio (sax alto). Oltre al celebrato “Round about Midnight” di Monk, l’album consta di otto composizioni dello stesso Angeleri liberamente tratti dal breve romanzo fantastico “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino. “L’idea di realizzare un nuovo progetto intorno alla letteratura di Italo Calvino – afferma lo stesso Angeleri – scaturisce da un invito del MIT Jazz Festival di Musica Oggi al Piccolo Teatro di Milano nello scorso novembre 2019. Lo spettacolo è stato poi replicato a gennaio al Blue Note, per essere messo in scena a luglio alla rassegna che ha significato la ripresa dal vivo dopo il lockdown a Bergamo”. E di certo bisogna avere una fervida immaginazione e soprattutto molto coraggio per trasporre in musica la scrittura non facile e mai banale di Italo Calvino. Di qui una musica ricca di colori in cui non sempre è facile distinguere le parti improvvisate da quelle scritte. Una musica in cui i vari strumenti diventano essi stessi voci narranti sì da rappresentare, – spiega ancora Angeleri – “per il loro carattere sonoro specifici personaggi”. Come si evince da queste poche note un compito davvero difficile che solo un musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, in possesso di una solida preparazione non solo come strumentista, poteva pensare di intraprendere e di traghettare alla meta con successo.

Nik Bärtsch – “Entendre” – ECM

Per chi ancora non conoscesse questo straordinario pianista e compositore svizzero, ecco un’ottima occasione per colmare questa lacuna. Nel panorama jazzistico internazionale oggi Bärtsch è personaggio imprescindibile tale e tanta è l’importanza che man mano va assumendo grazie anche ad alcune produzioni discografiche di eccellente livello. E’ questo il caso di “Entendre” declinato attraverso sei originali tutti composti da Nik e tutti eseguiti al piano solo. Lo stile dell’artista è assolutamente personale in quanto risultato da molti anni di continue sperimentazioni in cui Bärtsch ha cercato – e trovato – una soddisfacente sintesi tra jazz, minimalismo, poliritmie. Molti dei brani (quasi tutti intitolati Modul + numero, secondo consuetudine di Bärtsch) sono già stati presentati in altri album ma il pianista li rivisita apportando modifiche non di poco conto. Così ora tralascia precedenti climi jazz-rock per affidarsi unicamente alle sonorità dello strumento, ora si affida al giuoco minimalista alla ricerca con grande personalità di sottili variazioni timbriche. Il tutto completato da straordinarie capacità interpretative che portano l’artista a misurarsi anche sul piano dell’espressività. Si ascolti con attenzione l’apertura di “Modul 5” già proposto in “Llyrìa” (2010): la ricerca spazio-temporale in cui Bärtsch inserisce il suo pianismo è assolutamente straordinaria e mai conosce un attimo di stanca pur articolandosi su poche note che comunque delineano un quadro ben preciso. L’album si chiude con lo splendido “Déjà-vu, Vienna”, il pezzo più breve di “Entendre” (5:15), dal vago sapore impressionistico e dalla riconoscibile linea melodica elemento non certo usuale nelle concezioni di Bärtsch.

Enzo Carniel, Filippo Vignato – “Aria” – Menace

E’ davvero un piacere presentare questi due giovani straordinari musicisti che ancora non sono molto conosciuti dal pubblico italiano, ma la cui collaborazione era forse scritta negli astri dal momento che ambedue sono nati nel 1987. Enzo Carniel è un pianista francese dedito allo studio dello strumento sin da giovanissimo; sale agli onori della cronaca nel 2019 quando incide, con il gruppo House Of Echo, l’album ‘Wallsdown’. Filippo Vignato è a ben ragione considerato l‘astro nascente del trombonismo jazz italiano; anch’egli ha cominciato a studiare musica sin da bambino (a dieci anni) e oggi può vantare uno stile e una tecnica assolutamente personali. Ad onta delle difficoltà notoriamente insite in un duo, soprattutto se due artisti si cimentano per la prima volta in un organico del genere, questo “Aria” evidenzia una profonda empatia, un’intesa che trova la sua ragion d’essere nell’idem sentire dei due musicisti. Così il dialogo si svolge su binari sicuri anche se non banali, mai dando così all’ascoltatore l’impressione del ‘già sentito’ o peggio ancora di moduli predefiniti. Il risultato è un sound del tutto particolare determinato anche dall’uso del Fender Rhodes e dei sintetizzatori, la visione di un universo musicale multicolore, in cui i due artisti improvvisano continuamente essendo perfettamente in grado l’uno di capire le intenzioni dell’altro, in un susseguirsi si input, di stimoli, di processi creativi che si susseguono senza soluzione di continuità. Il tutto impreziosito da una riuscita ricerca sulle linee melodiche che costituiscono l’ossatura stessa dell’intero repertorio, otto brani tra cui spicca per intensità emotiva “Aria” la composizione che apre l’album in acustica per chiuderlo in versione elettronica. L’album, uscito il 16 aprile scorso per l’etichetta franco-giapponese Menace è stato anticipato da due singoli: la title-track Aria uscito il 5 febbraio e Babele uscito il 10 marzo.

Vittorio Cuculo Quartet – “Ensemble” – Wow Records

Lo stato di maturità del jazz italiano è dimostrato, seppur ce ne fosse ancora bisogno, dal proliferare di nuovi talenti. Tra questi c’è senza dubbio alcuno il ventisettenne sassofonista romano (alto e soprano) Vittorio Cuculo al suo secondo album. Il titolo è determinato dal fatto che il quartetto capitanato da Cuculo incontra i sassofoni della Filarmonica Sabina “Foronovana” con risultati eccellenti ma di cui parleremo tra poco. Il quartetto comprende, altre al leader, Danilo Blaiotta al pianoforte, Enrico Mianulli al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e in veste di special guest Lucia Filaci che interpreta con coraggio e bravura la cover di “Brava”, il pezzo di Bruno Canfora portato al successo da Mina. Il resto del repertorio è costituito da sei brani standard appartenenti alla tradizione jazz frutto della verve compositiva di alcuni grandi quali Charlie Parker, Errol Garner, Juan Tizol, Thelonius Monk, Rogers & Hart e due composizioni originali di Roberto Spadoni. Ciò detto vediamo più da vicino la musica proposta. Si tratta di un jazz mainstream che si rifà chiaramente agli stilemi del bop e dell’hard-bop interpretato con efficacia dal gruppo nel suo complesso che ben si amalgama con i fiati della Filarmonica, dando vita ad un sound particolare. Ovviamente sempre in primo piano il leader che data la scelta del repertorio comunica apertamente l’intento di volersi confrontare con un certo tipo di jazz sebbene avvalendosi di nuovi arrangiamenti, firmati da Riccardo Nebbiosi, Mario Corvini, Roberto Spadoni e Massimo Valentini. Ora che un giovane musicista scelga di suonare bop, ci sta tutto…ci mancherebbe altro. Solo che ci piacerebbe ascoltare Cuculo anche in contesti diversi in cui magari le eccelse capacità tecniche non sono poi così fondamentali.

Joe Debono Quintet – “Acquapazza” – Anaglyphos

Dino Rubino alla tromba e al flicorno, Rino Cirinnà al sax tenore, Joe Debono al pianoforte, Nello Toscano al contrabbasso e Paolo Vicari alla batteria sono i componenti del Joe Debono Quintet. Prodotto dall’etichetta discografica Anaglyphos Records e supportato da Malta Arts Fund – Arts Council Malta, la tracklist del CD è formata da otto composizioni originali del pianista, e da “Innu Lil San Guzepp”, un inno di San Giuseppe composto dal compositore maltese Carlo Diacono all’inizio del ventesimo secolo. In un momento come l’attuale, in cui il jazz si sta praticamente frammentando in moltissimi rivoli, in cui non sempre è facile trovare tracce di un passato anche se non remoto, questo album ci riporta in piena atmosfera jazz, senza equivoci di sorta. Il linguaggio di tutti è perfettamente in linea con le migliori tradizioni della musica afro-americana senza per ciò peccare di pedissequa imitazione. Ottima la ricerca sul sound come dimostra l’impasto sonoro determinato dalle parti suonate all’unisono da sassofono e tromba, sempre ben sostenute da una eccellente sezione ritmica. E al riguardo non si può non sottolineare da un canto la conferma a livelli straordinari di un musicista come Dino Rubino (che forse molti non lo sanno ma suona benissimo anche il pianoforte) e la rapida ascesa di Paolo Vicari batterista giovane ma già in possesso di una buona tecnica. Ovviamente più che positivo l’apporto di Rino Cirinnà sassofonista di vaglia e di Nello Toscano contrabbassista siciliano tra i più validi a livello nazionale. Bisogna comunque dare atto a Joe Debono, pianista e compositore maltese, di aver saputo costituire un quintetto capace di produrre un jazz elegante, raffinato, con un repertorio assolutamente confacente alle caratteristiche dei singoli musicisti. Si ascolti al riguardo “Gigi”, brano dolcissimo introdotto dallo stesso Debono e ben sviluppato dai fiati.

Alessandro Deledda – “La linea del vento” – Le Vele

Undici brani originali declinati attraverso una interpretazione per piano solo. Con questo album Alessandro Deledda, jazzista sardo che abita a Perugia, abbandona la strada tracciata in precedenza sia con l’elettro-jazz di “Conception & Contamination” del 2011 assieme a Simone Alessandrini, sax e Mirko Ferrantini, dj, ritmiche, sia con il CD del 2014, “Morbid Dialogues” in cui era alla guida di un quartetto di chiara impronta jazzistica con Francesco Bearzatti al sassofono, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria. Infatti questa volta si presenta al pubblico nella duplice veste di compositore (il repertorio è tutto da lui scritto) ed esecutore. Il risultato è apprezzabile: le composizioni sono ben strutturate, con una bella linea melodica, e inserite in un ambito in cui le sensazioni più intimiste sembrano prevalere sul resto. Non a caso alcuni titoli – “Ginevra”, “Sulla strada di casa tua”, “L’Aquilone”, “Gino e l’ulivo” – sembrano riferirsi ad esperienze direttamente vissute dal musicista. Così ad esempio “Madreterra” è un esplicito omaggio alla terra natia mentre “Ginevra”, afferma Deledda, “è la storia di una cagnolina, chiamata Ginevra che ritrova nella sua nuova famiglia il suo sorriso, abbandonato nel bosco con le sue fragilità, per andare a vivere fedele una nuova melodia”. Dal punto di vista esecutivo lo stile pianistico di Deledda rifugge sia da qualsivoglia sperimentazione sia da passaggi particolarmente complessi e arditi per frequentare terreni più aperti alla comprensione, in cui i riferimenti al jazz si mescolano con quelli alla popular music.

Massimo Donà – “Magister Puck” – Caligola

A solo un anno da “Iperboliche distanze”, ecco tornare sulle scene discografiche il filosofo–trombettista Massimo Donà (nell’occasione anche chitarrista e rapper), alla testa di un ampio organico in cui spiccano i nomi del sassofonista Michele Polga e del batterista Davide Ragazzoni, quest’ultimo unico musicista presente, insieme al leader, in ogni traccia del Cd; in un solo brano (“E chi no”) è possibile ascoltare anche Francesco Bearzatti. Questo nuovo album, “Magister Puck”, si sostanzia, quindi, di colori, atmosfere assai diversificate pur mantenendo una sua coerenza di fondo. Ecco, quindi, in apertura “Topi in terrazza” di chiara impronta funky così come “Tagology” che non a caso presenta quasi lo stesso organico del pezzo di apertura con, oltre al leader, Michele Polga al sax tenore, Maurizio Trionfo alla chitarra, Stefano Olivato basso e clavinet, Davide Ragazzoni batteria, assente, quindi, Bebo Baldan al sintetizzatore. Più influenzato dal pop, seppure di classe, “I’m in Love” impreziosito dalla voce di Paola Donà e con un bell’assolo, vagamente davisiano, del leader. Anche “Magister Puck’s Theory” sembra seguire le orme del precedente “I’m in Love” prima di trasformarsi in un incalzante rap dal testo significativamente ironico. Nel brano decisamente più lungo dell’intero album, “E chi no”, si rinnova la collaborazione tra Massimo Donà e David Riondino che frutti succosi aveva già dato nel precedente album dello stesso trombettista, “Iperboliche distanze”, dedicato alla figura del grande filosofo veneto Andrea Emo. Il disco si chiude con una registrazione del 1989, “Irrisoluzione cromatica”, ad opera di un sestetto di chiara derivazione davisiana post ’69.

Cettina Donato, Ninni Bruschetta – “I siciliani – Vero succo di poesia” – Alfa Music

Pochi anni fa ero stato fin troppo facile profeta nel prevedere che Cettina Donato sarebbe divenuta una delle punte di diamante del jazz mady in Italy. Ciò perché sin dall’inizio l’artista messinese mostrava una completezza straordinaria essendo allo stesso tempo, pianista preparata, compositrice assai feconda, capace direttrice anche di grosse formazioni. Il tutto è ben compendiato in questo ultimo album in cui si fortifica quella stretta collaborazione che oramai va avanti da qualche tempo tra Cettina e l’attore, regista anch’egli siciliano, Ninni Bruschetta. I due sono reduci dai successi teatrali de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, i quali, dopo aver interpretato un testo di impegno civile servendosi solo di voce e pianoforte presentano adesso il volto poetico e letterario dell’isola. Di qui l’album “I siciliani”: otto pezzi originali scritti dalla Donato con testi dello scrittore siciliano Antonio Caldarella scomparso nel 2008, interpretati da un gruppo con Dario Cecchini (clarinetto basso, sax soprano e baritono), Dario Rosciglione (contrabbasso e basso elettrico), Mimmo Campanale (batteria e percussioni) con l’aggiunta degli archi della B.I.M. Orchestra e dell’attrice e cantante Celeste Gugliandolo (che interpreta “Le siciliane”). Tutti gli altri brani sono affidati alla voce spesso roca e graffiante di Bruschetta che si amalgama in maniera straordinaria con il pianismo della Donato e più in generale con il sound dell’ensemble. Come sottolineato in apertura, la Donato trova quindi terreno fertile per evidenziare tutte le sue capacità, di strumentista, di compositrice, di arrangiatrice e di direttrice d’orchestra, in un alternarsi di atmosfere che forse solo un siciliano doc può capire sino in fondo. Una musica che sottolinea alcune peculiarità di una terra tanto straordinaria quanto ancora oggi ben difficile da vivere.

Ganelin, Kruglov, Yudanov – “Access Point” –Losen Records

Ecco un trio di assoluto livello internazionale composto da Slava Ganelin al pianoforte, tastiere, live electronics e percussioni, Alexey Kruglov sax alto e soprano, Oleg Yudanov batteria e percussioni, vale a dire tre dei migliori esponenti del free jazz russo. Quindi un organico non usuale caratterizzato dalla mancanza del contrabbasso, impegnato in un repertorio di sei brani interamente scritto dai tre. Registrato il 13 novembre del 2017, l’album rappresenta uno dei migliori esempi di free jazz realizzato in Europa in quest’ultimo decennio. La cosa non stupisce più di tanto ove si consideri la statura artistica del russo Ganelin già noto al pubblico del jazz per il suo fantastico trio con Tarasov e Chekasin. Questa volta a completare il trio sono due altri jazzisti ma il risultato finale non cambia granché. Nato nel 2012 il trio frequenta il terreno della libera improvvisazione in cui non esistono strutture predefinite che viceversa si creano nel momento stesso in cui si suona, quindi in quello strettissimo lasso di tempo che passa dall’idea musicale all’esecuzione. Quasi inutile sottolineare come la musica sia caratterizzata da una forte energia creativa che trova in Ornette Coleman il suo nume tutelare e che mai conosce un attimo di stanca con i tre musicisti che riescono a ritagliarsi spazi appropriati alle loro grandi possibilità. Il clima generale dell’album è perfettamente disegnato sin dal primo brano, quando dopo una sorta di introduzione a tempo lento il sassofonista prende in mano le redini del gruppo e si lancia in una trascinante improvvisazione, seguito a ruota da Ganelin mentre Yudanov sorregge il tutto con precisione; a circa 2:40 Ganelin si sostituisce a Kruglov mantenendo un clima incandescente che non muta quando a circa tre quarti dell’esecuzione Kruglov passa al sax soprano. E sarà poi questa l’atmosfera che si respirerà durante tutto l’arco dell’album.

Vijay Iyer – “Uneasy” – ECM

Nato ad Albany da genitori indiani di etnia dravidica Tamil, Vijay a cinquant’anni viene giustamente considerato uno dei migliori pianisti jazz oggi in esercizio. Considerazione conquistata grazie ad un talento cristallino e ad una personalità molto forte che è riuscita a coniugare un profondo sapere extra-musicale (è laureato in matematica e fisica alla Yale, insegnante ad Harvard, esperto in psicologia cognitiva con specifico riferimento alla capacità psico-fisica di relazionarsi ai vari linguaggi musicali) con una straordinaria dedizione alla musica essendo giunto al ventiquattresimo disco da leader, senza considerare le moltissime composizioni eseguite anche da formazioni non jazzistiche. In questo “Uneasy” Vijay suona in trio con Linda May Han Oh, contrabbassista di origine malese ma cresciuta in Australia e poi negli States e Tyshawn Sorey alla batteria, personaggio ben apprezzato sia nella musica classica sia nel jazz. In repertorio dieci composizioni tutte scritte dal pianista eccezion fatta per “Night and Day” di Cole Porter e “Drummer’s Song” di Gery Allen. Il clima nel cui ambito si muove Iyer è quello bop e post-bop, quindi un jazz sanguigno che si rifà alle radici più autentiche della musica afro-americana e che proprio per questo necessita di una profonda conoscenza della materia. Conoscenza che sicuramente non manca nel bagaglio dell’artista, il cui pianismo si svolge solido per tutta la durata dell’album validamente supportato da batteria e contrabbasso precisi e propositivi nella loro costante azione. Non si esagera affermando che tutti i brani meritano un attento ascolto anche se lo standard “Night and Day” si fa particolarmente apprezzare per come l’artista riesce a personalizzare il brano senza alcunché perdere né dell’originaria riconoscibilità né tanto meno della sua splendida linea melodica. Particolarmente interessante anche “Entrustment, brano di profonda suggestione, intimista, a chiudere nel modo migliore un album assolutamente consigliato.

Sinikka Langeland – “Wolf Rune” – ECM

Il Kantele è lo strumento tipico della musica folkloristica finlandese e Sinikka Langeland è specialista di questo strumento nonché cantante folk di Finnskogen, la « foresta finlandese » norvegese. In questo sesto album targato ECM, Sinikka, diversamente da altri album, si appalesa in splendida solitudine utilizzando ben tre tipi di kantele, a cinque, a quindici e a trentanove corde, facendoci così apprezzare le innumerevoli sfaccettature dello strumento. Nella maggior parte dei brani Sinikka si esprime anche vocalmente, il tutto ad elaborare un’espressività che questa volta nulla ha da spartire con il linguaggio jazzistico, restando, comunque, sulla scorta di un’estetica che nella ECM ha trovato la sua più completa estrinsecazione. Insomma una musica tutta giocata su melodie ampie, ariose, spesso evocative, alle volte venate da quella sorta di dolce malinconia che attraversa le atmosfere nordiche. Una profondità d’ispirazione che caratterizza oramai le realizzazioni della Langeland, ispirazione che specie se, come chi scrive, conosci quei luoghi, non può non toccarti nel profondo. Dal punto di vista testuale, Sinikka ha tratto ispirazione da molte fonti: ecco quindi il drammaturgo Jon Fosse accanto al filosofo e mistico del tredicesimo secolo Meister Eckhart… e ancora il poeta norvegese Olav H. Hauge. In tale contesto suggerire un brano in particolare è impresa quanto mai ardua anche se la title track appare degna di particolare attenzione: brano molto delicato ed intimista racconta l’inverno, ovvero quello stato della natura in cui tutto pare fermarsi prima del risveglio primaverile. Per raccontarci tutto ciò l’artista alterna l’archetto al pizzichio delle dita sullo strumento e chiude il brano con la sua voce che si alza stentorea sull’accompagnamento strumentale.

Giovanni Maier, Massimo De Mattia – “Tilt – Improvised Concerto for Flute and Chamber Orchestra” – Artesuono

Ecco una preziosa realizzazione della Artesuono concepita per festeggiare la sua duecentesima produzione discografica: un cofanetto in edizione limitata di 300 copie, numerate a mano, contenente un CD audio, le tavole con le partiture pittoriche realizzate da Giovanni Maier, e le foto delle registrazioni scattate da Luca D’Agostino.
L’album è stato registrato dal vivo al teatro Revoltella di Trieste il 19 e 20 giugno 2019 durante il festival “Le Nuove Rotte del Jazz 2019”. Ora, al di là della bellissima confezione, la musica che viene proposta è di altissimo livello essendo stata concepita ed eseguita da due dei nostri migliori improvvisatori quali il flautista Massimo De Mattia e Giovanni Maier quest’ultimo nelle vesti anche di conduttore dell’organico comprendente musicisti e allievi del Conservatorio ‘G. Tartini’ di Trieste: Angelica Groppi, Rachele Castellano e Giovanni Dalle Aste (Viola), Simone Lanzi (Contrabbasso), Iva Bobanović (Chitarra classica), Piercarlo Favro (Chitarra), Anna Talbot (Arpa), Luigi Vitale (Vibrafono, Percussioni). Qui siamo nel campo della totale improvvisazione: la prassi esecutiva è quella della “conduction” per cui Maier fornisce agli esecutori una serie di comandi che fanno evolvere il flusso musicale in un senso piuttosto che in un altro. Certo questa tecnica produrrebbe frutti amari se non ci fossero artisti in grado di ben interpretarla: ecco Massimo De Mattia credo che sia in senso assoluto uno dei migliori del nostro Paese; improvvisatore dotato di una eccezionale musicalità è in grado di assorbire nella propria musica (e gliel’ho sentito fare personalmente) l’inaspettato cinguettio di un uccello così come il risuonare delle campane. Notevole anche il ruolo del vibrafonista Luigi Vitale che alterna un ruolo da solista a quello di rinforzo dell’orchestra. Partendo da queste premesse è facile capire come l’album, per chi sa ascoltare con orecchie e mente ben aperte, è da gustare nella sua interezza.

Michael Mantler – Coda, Orchestra Suite – ECM

Album davvero particolare questo di Michael Mantler, che si inserisce nel solco tracciato dal precedente album “Jazz Composer’s Orchestra Update” osannato dalla critica internazionale. Questa volta Mantler compie un’operazione ancora più audace; sceglie, nell’ambito della sua larga produzione, alcuni brani che considera particolarmente significativi e li riarrangia in forma di suite per farli eseguire da un’orchestra comprendente musicisti jazz e classici. Così i brani che ascoltiamo provengono dai seguenti album: “13 and ¾”, “Cerco un paese innocente”, “Alien”, “Folly Seeing All This”, “For Two” e “Hide And Seek”. Il risultato è semplicemente spettacolare grazie anche ai solisti di vaglia presenti in orchestra: Maximilian Kanzler acclamato come uno dei migliori giovani percussionisti e vibrafonisti del momento; il chitarrista Bjarne Roupé, membro fondamentale della Mantler’s Chamber Music and Songs Ensemble; il pianista austriaco David Helbock che a soli 37 anni è già un’icona della scena jazz europea… per non parlare dello stesso leader che si fa apprezzare, more solito, come eccellente trombettista. A tutto ciò si aggiunga la preziosa opera dell’Orchestra nel suo insieme (ben 26 elementi) e si avrà un quadro più preciso del perché si è definito spettacolare l’esecuzione di questa compagine. Tra i membri dell’orchestra da segnalare la presenza della croata violoncellista Asja Valcic che aveva già collaborato con Mantler nell’incisione dell’album “Jazz Composer’s Orchestra Update”. Coda è stato registrato al “Vienna’s Porgy & Bess Studio” nel settembre del 2019, e missato presso gli studi La Buissonne in Francia.

Mike Melillo – “In Free Association” – Notami

Il pianista americano Mike Melillo pubblica il suo nuovo album “In Free Association”, tratto da un radio-concerto effettuato nella primavera del 1974 in quartetto con Roy Cumming (contrabbasso), Glenn Davis (batteria) e Harry Leahey (chitarra). Essendo oggi impossibile ammirare ancora questo gruppo data la dipartita di Harry Leahey, l’ascolto di queste registrazioni, finora inedite, risulta ancora più interessante. La genesi del combo viene riassunta brevemente dallo stesso Melillo nelle note che accompagnano l’album. Apprendiamo, così, che inizialmente si trattava di un trio (senza Leahey) per cui Melillo componeva pezzi orchestrali e da camera sperimentali, Nel ’71, con l’arrivo di Leahey, il trio è diventato un quartetto che ha avuto un buon successo grazie alla qualità della musica proposta e che ritroviamo in questo album. In repertorio sei brani di cui tre scritti dal leader e gli altri tre vere e proprie perle del jazz come “Criss Cross” di Thelonious Monk, “Mimi” di Rodgers e Hart e “What’ll I Do” di Irving Berlin. Il tutto a costituire un insieme omogeneo e di grande livello. In effetti quello proposto dal gruppo è un Jazz senza se e senza ma, un jazz che si rifà agli stilemi del bop e dell’hard-bop con un Melillo che mette in evidenza le sue doti migliori. Un pianismo sorretto da una formidabile tecnica di base, che affronta con eguale bravura sia temi particolarmente complessi e sorretti da un ritmo veloce come “Criss Cross” e “See Hunt and Liddy” in cui si fa apprezzare anche la chitarra di Harry Leahey, sia brani più melodici come “A Little Piece” dello stesso Melillo e “What’ll I Do”. Impeccabile la sezione ritmica. Infine una notazione di carattere tecnico: nonostante si tratti di una ripresa da trasmissione radiofonica, la resa complessiva è più che accettabile.

Stephan Micus – “Winter’s End” – ECM

Ascoltare la musica del tedesco Stephan Micus (classe 1953) è come addentrarsi in una foresta incantata, impreziosita da episodi di rara bellezza. Episodi determinati dalle sorprese che in ogni sua avventura questo personaggio ci propone. In qualunque contesto si abbia la fortuna di incontrare l’arte di Micus, la mente vaga ben al di là del contingente, alla ricerca di un approdo che mai risulta facile trovare, e ciò indipendentemente dalla preparazione musicale di ciascuno. Siamo trasportati in un mondo “altro” in cui le certezze vacillano alla ricerca di un qualche appiglio sonoro che ci restituisca punti fermi, conoscenze a cui rifarsi. In effetti la musica di Micus non ammette di essere incasellata in un genere ben preciso per cui si mantiene ben lontana da qualsivoglia proposta commercialmente allettante. Più sopra si accennava alle sorprese che ogni volta il musicista ci riserva: questa volta la novità consiste nell’utilizzo di due strumenti presentati da Micus per la prima volta: il chikulo e il tongue drum. Il primo, come spiega lo stesso Micus nelle note di copertina, è uno xilofono basso del Mozambico utilizzato in gruppi che solitamente comprendono una dozzina di xilofoni, mentre il tongue drum è una scatola di legno originaria dell’Africa che può essere suonata con le mani o con le bacchette. Ora detta così non ci sarebbe alcunché di strano … salvo il fatto che Micus non è solo un compositore e un sorprendente polistrumentista ma un etnomusicologo costantemente in evoluzione e in viaggio, soprattutto in Asia e in Africa, con l’intento di scovare e studiare strumenti desueti, talvolta addirittura dimenticati. Una volta trovati, li modifica con nuove accordature prima di adoperarli, con risultati strabilianti. È impressionante il numero di strumenti che padroneggia, strumenti che si ascoltano nelle musiche originali di tutti i continenti. Ciò detto risulta facile immaginare la musica di quest’ultimo album in cui Micus, come al solito in assoluta solitudine, ci racconta a modo suo il fluire della vita attraverso il succedersi delle stagioni. Un album sicuramente impegnativo ma altrettanto certamente di sicuro interesse.

Mirabassi – Di Modugno – Balducci – “Tabacco e caffè” – Dodicilune

Così come nello sport non basta assemblare ottimi giocatori per fare una buona squadra, così nella musica non è detto che tre pur bravi musicisti riescano a produrre qualcosa di buono. Certo che se poi i tre musicisti rispondono ai nomi di Gabriele Mirabassi al clarinetto, Nando Di Modugno alla chitarra e Pierluigi Balducci alla chitarra basso le probabilità di ascoltare dell’ottima musica aumentano… e di tanto. Ed in effetti ottima musica è quella che si ascolta in questo “Tabacco e caffè” registrato sei anni dopo “Amori sospesi” che vedeva impegnato lo stesso trio. La linea ispirativa rimane sostanzialmente la stessa: una sorta di viaggio sulla rotta Mediterraneo, America del Sud attraverso un linguaggio originale in cui coesistono jazz, folk, tradizione classica. E non è certo un caso che in repertorio figurino nove brani di cui quattro composizioni originali rispettivamente di Mirabassi (“Espinha de truta”), Di Modugno (“Salgado”) e Balducci (“Tobaco y cafè” e “La ballata dei giorni piovosi”) e cinque riletture di brani più o meno celebri di Toninho Horta (“Party in Olinda”), Henry Mancini (“Two for the road”), Egberto Gismonti (“Frevo”), Guinga (“Ellingtoniana”) e della conclusiva “Choro bandido” firmata da Edu Lobo e Chico Buarque. Indipendentemente dal pezzo affrontato, l’interpretazione rimane calda, oseremmo dire intimista, con i tre che dialogano piacevolmente, in piena rilassatezza senza un solo momento in cui il trio sembra spinto verso lidi che non siano comuni ai tre. Interessanti le note di copertina di Gabriele Mirabassi in cui il clarinettista illustra l’importanza del tabacco e del caffè considerati vizi ma che in realtà “più di tutto sono modi di stare insieme. In Italia poi, veri fondamenti della cultura nazionale”.

Dino Plasmati, Antonio Tosques, Guitar Quartet – “On Air” – Caligola

Dino Plasmati chitarra, Antonio Tosques chitarra, Bruno Montrone organo e Marcello Nisi batteria sono i protagonisti di questa nuova produzione firmata Caligola. Particolarmente impegnativo il programma dal momento che comprende una serie di brani ‘storici’ con un solo pezzo originale scritto da Plasmati, “Boundless Energy”. Come recita il nome del gruppo, a indirizzare il tutto sono le due chitarre di Plasmati e Tosques suonate con tecnica tradizionale, senza cioè l’ausilio dell’elettronica, e questa “guida” si avverte ben certa per tutta la durata dell’album anche se non mancano, ovviamente, momenti in cui in primo piano sale l’Organo Hammond nelle sapienti mani di Bruno Montone; è il caso dell’original cui si faceva riferimento. Per il resto i due leader guidano il gruppo con mano sicura per nell’affrontare temi che sulla carta mal si prestano ad interpretazioni chitarristiche: è il caso ad esempio del brano d’apertura, “Airegin”, scritto da Sonny Rollins. Ma da questo punto di vista le sorprese non mancano: ecco quindi la convincente disinvoltura con cui eseguono “Your own Sweet Way” di Dave Brubeck o la delicatezza con cui cesellano “I’ve Accustomed to Her Face” di Loewe Lerner complice anche il bel lavoro di Montrone all’Hammond. O ancora la pertinenza di linguaggio con i ritmi sudamericani di “When Sunny Gets Blue” di Fisher-Segal, in cui si apprezza anche l’eccellente supporto di Nisi alla batteria. A chiudere una convincente interpretazione del colemaniano “Turnaround” eseguito dai due chitarristi senza sezione ritmica.

Emanuele Sartoris, Daniele Di Bonaventura – “Notturni” – Caligola

Ancora un duo e ancora bella musica. Protagonisti Emanuele Sartoris al pianoforte e Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Vista la struttura dell’organico, si poteva temere una certa staticità dell’album a discapito del possibile interesse dell’ascoltatore. Pericolo assolutamente evitato dai due artisti che invece sfoggiano una verve fantastica dando vita a otto composizioni originali scritte dai due singolarmente o in cooperazione, che tengono desta l’attenzione dalla prima all’ultima nota. Merito da un canto della bellezza dei temi tutti caratterizzati da un’accurata ricerca melodica, dall’altro dalla perizia strumentale dei due che pur non sfoggiando alcuna particolare ricercatezza tecnica, suonano comunque con grande partecipazione e intensità. Doti che non si affievoliscono – anzi – quando decidono di reinterpretare due notturni di Chopin vale a dire il Notturno op.9 n.1 e il Notturno op.9 n.2, che non a caso aprono e chiudono l’album. Insomma un disco più che interessante scaturito dall’incontro tra il pianoforte di Emanuele Sartoris, musicista che ben conosce anche la musica classica, e il bandoneon di Daniele di Bonaventura, uno dei maggiori interpreti internazionali dello strumento. Un disco che sembra quasi invitarci ad una sorta di viaggio interiore alla scoperta di ciò che è veramente importante. E ci piace chiudere questa breve presentazione citando le parole con cui il violoncellista di fama internazionale Mario Brunello conclude le sue preziose note di copertina: “Un viaggio slow, un cammino nel vissuto della musica, a cui si aggiungono le improvvisazioni e l’ispirazione di due formidabili e coraggiosi musicisti che hanno il talento sincero per avvicinarsi ed addentrarsi nella magica atmosfera dei Notturni”.

Thomas Strønen, Ayumi Tanaka, Marthe Lea – “Bayou” – ECM

Album d’esordio per questo trio composto dal batterista Thomas Strønen, dalla pianista Ayumi Tanaka e dalla clarinettista, vocalist, percussionista Marthe Lea. L’album si inserisce in quella corrente che a partire dagli anni ’70 ha portato il jazz norvegese ai massimi livelli delle scene jazzistiche internazionali. Vale a dire una musica che si rifà al patrimonio folkloristico delle popolazioni nordiche (in particolare norvegesi) declinata attraverso un linguaggio che incorpora elementi tratti dal jazz, dalla musica classica e ovviamente dal folk. Non a caso in programma ci sono dieci brani tutti scritti dai tre musicisti ma tutti basati sul folk norvegese. Quindi una musica delicata, intimista, che affronta spazi aperti quali sono quelli che si aprono alla nostra mente quando pensiamo ai paesaggi nordici. Ascoltare l’intero album è un’esperienza singolare tanto che ad un certo punto è come se il concetto spazio-temporale si perda per assorbici totalmente nell’atmosfera creata dai tre musicisti che denotano, improvvisando costantemente, un affiatamento non comune. D’altro canto la genesi del gruppo spiega la ragione di tale empatia: dapprima si trattava di un duo composto da pianista e batterista cui in un secondo tempo si è aggiunta Marthe Lea. I tre si sono, quindi, trovati assieme alla “Oslo’s Royal Academy of Music” dove per ben due anni hanno provato assieme ogni settimana alla ricerca di un quid che permettesse loro di suonare musica improvvisata. Evidentemente questo quid l’hanno trovato e così è nato questo “Bayou” frutto come afferma lo stesso Strønen di quelle esperienze: “Noi suonavamo sempre liberamente – afferma – mescolando elementi di musica classica contemporanea, folk, jazz, a seconda di come ciascuno di noi era ispirato al momento. Alle volte la musica era molto calma, delicata e minimalista: suonando assieme si sono generate alcune speciali esperienze”: Quelle stesse esperienze che si avvertono ascoltando l’album.

Trøen, Arbesen Quartet – “Tread Lightly” – Losen

La sassofonista norvegese Elisabeth Lid Trøen (eccellente anche al flauto) si presenta alla testa di un quartetto con Dag Arnesen al piano, Ole Marius Sandberg al basso e Sigurd Steinkopf alla batteria. Il repertorio è costituito da dieci brani di cui otto scritti dalla leader e due dal pianista. Due le linee direttrici dell’album: da un canto la ricerca della linea melodica, dall’altro la capacità di improvvisare sulla stessa. Per rendersi conto, ad esempio, della capacità dei quattro di tener fede a quanto sopra detto basta ascoltare “Just Thinking”: il brano si apre su tempo lento con una linea perfettamente riconoscibile ma dopo l’esposizione del tema con la Trøen al flauto ecco un assolo di pianoforte che si avventura nelle pieghe del brano per scoprirne e lumeggiarne ogni più nascosto anfratto mentre sul finale si riascolta il flauto della leader. “Sarah’s Bounce” si apre a tempo di marcia sospinta dalla batteria di Steinkopf il quale, nello scorrere del brano, dimostra di poter avere anche un approccio melodico allo strumento. In ogni caso il pallino resta nelle mani di sassofonista e pianista che dimostrano di essere complementari nel loro linguaggio dato che le sortite solistiche dell’una vengono riprese ed rilanciate a tutto tondo dall’altro. Altro brano particolarmente interessante “Partysvensken” che si distacca piuttosto nettamente dalle atmosfere degli altri brani data la sua vicinanza, in alcuni momenti, agli stilemi del free jazz. L’album si chiude con “Denne” il pezzo che maggiormente richiama le atmosfere nordiche grazie soprattutto ad un meditativo assolo del pianista; di rilievo anche l’assolo del bassista Ole Marius Sandberg. Ma a proposito di atmosfere nordiche, l’ascoltatore più attento non potrà non rilevare qua e là, spiccate influenze della musica popolare norvegese che tanta importanza ha avuto sulla musica di quel Paese grazie ad artisti quali Jan Garbarek e Terje Rypdal.

Blues Connection – “Italian Way to Feel Blues” – Notami

E’ con vero piacere che vi segnalo questo “Italian Way to Feel Blues” non solo per la validità del progetto ma anche perché è presente un musicista a cui sono legato da particolari legami affettivi, un organista che ho conosciuto quando ancora abitavo in Sicilia (quindi primissimi anni ’70) e che ancora a mio avviso non ha ottenuto i riconoscimenti che merita. Sto parlando di Pippo Guarnera nell’occasione non solo all’organo Hammond ma anche al pianoforte. Oltre a lui e ovviamente al leader Vince Vallicelli alle percussioni, troviamo Nahuel Schiumarini alla chitarra elettrica, Andrea Valeri alla chitarra acustica, Roberto Luti al dobro e Felice Del Gaudio al basso. Come si può facilmente intuire da quanto sin qui detto, la musica è trascinante con tutti gli artisti in grado di ritagliarsi importanti spazi di improvvisazione. Ecco quindi Pippo Guarnera primeggiare all’organo in “Art” di Vallicelli, per lasciare successivamente spazio alle chitarre di Schiumarini e Valeri nonché al dobro di Roberto Luti, il tutto sorretto da una metronomica sezione ritmica con batteria e basso che non sbagliano un colpo. Insomma musica che fa battere il classico piedino sia che si affrontino temi originali (ben sette sui nove proposti dall’album) sia che si rileggano pagine importanti come “After Hours” di Avery Parrish standard jazz tra i più eseguiti che venne registrato per la prima volta dal suo stesso autore con la Erskine Hawkins Orchestra, il 10 giugno 1940 o “Windy e Warm” di John D. Loudermilk considerato a ben ragione un classico del fingerstyle, ripreso da artisti di assoluto livello quali Chet Atkins, Doc Watson e Tommy Emmanuel.

Doppio concerto al Festival MetJazz con il trio di Filippo Vignato e il pianista Andrea Goretti

Lunedì 31 maggio il Festival MetJazz torna sul palco Teatro Metastasio di Prato con un doppio concerto!
In linea con il tema della XXVI edizione del Festival, “Il futuro del jazz italiano”, la serata si aprirà alle 20 con il live in piano solo del talentuoso Andrea Goretti. Le sue radici affondano nelle sperimentazioni del XX secolo: in particolare, con il pianista Fabrizio Ottaviucci, approfondisce lo studio del pianoforte preparato di John Cage e la musica di altri compositori del Novecento, tra cui Giacinto Scelsi e Morton Feldman. Studiando in Polonia, Goretti scopre il jazz e l’improvvisazione, che ormai attraversa stili e linguaggi diversi della musica d’oggi. Parola, immagini, musica per il cinema e per il teatro sono presenti o evocati nella sua musica. Come nel suo primo disco “A light in the darkness” (Dodicilune), che contiene una poesia del pianista Umberto Petrin.
A seguire, il concerto del trombonista, compositore e improvvisatore Filippo Vignato, una sicurezza della scena europea, con un gruppo esplosivo. Suono morbido, padronanza di stili diversi, esperienze di respiro internazionale, Filippo Vignato è cresciuto in una dimensione pienamente europea di collaborazioni ed esperienze di scambio. Non a caso il suo trio è nato a Parigi, collezionando premi e successi. Lo presentiamo al Teatro Metastasio col pianista e tastierista francese Enzo Carniel ed il batterista ungherese Attila Gyárfás. Non c’è da stupirsi dell’entusiasmo che suscita questo progetto, tra groove funky, spregiudicatezza fonica (con molta elettronica), libertà improvvisativa. Considerato come uno dei più interessanti musicisti italiani della sua generazione, Vignato ha vinto il premio della critica Top Jazz come Miglior Nuovo Talento nel 2016 per il suo debutto da leader nell’album Plastic Breath (Auand). Svolge un’intensa attività concertistica in Italia ed Europa e collabora con il mondo della danza contemporanea e dello storytelling.

Biglietti da €10 a €16 acquistabili sul sito del Teatro Metastasio al link http://bit.ly/ticket31maggioMETJAZZ. Info sul concerto: https://bit.ly/METJAZZ31maggio

CONTATTI
www.metastasio.it
Info Teatro Metastasio: tel. 0574.608501
Ufficio Stampa Teatro Metastasio: Cristina Roncucci tel. 0574.24782 (interno 2) – 347.1122817
Comunicazione MetJazz: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

“Il futuro del jazz italiano”: al via il festival MetJazz del Teatro Metastasio di Prato

La pandemia ha fermato il mondo. E il mondo ora si rimette in moto. La 26a edizione del Festival MetJazz, prodotta dal Teatro Metastasio di Prato, vedrà finalmente la luce dall’8 maggio al 14 giugno con la direzione artistica di Stefano Zenni, consolidando il progetto emerso nei giorni peggiori della crisi: un’edizione totalmente dedicata al jazz italiano.
“La necessità di gestire gli spazi a disposizione, il desiderio di rimodulare la geografia del festival e la volontà di immettere nuove energie in circolo impongono un gesto di coraggio e apertura – dichiara Stefano Zenni – Quest’anno abbiamo deciso senza esitazioni di far conoscere al pubblico un cartellone ricco di nomi affermati, di alto profilo e di fresca creatività, anche se meno altisonanti.”

Il tema del 2021 “Il futuro del jazz italiano” vuole rendere omaggio a quei talenti che non sempre godono dell’opportunità di presentare la loro musica nelle migliori condizioni: il programma, consultabile al link https://www.metastasio.it/it/eventi/met-jazz/momento-teatrale-20-21 si apre lunedì 10 maggio sul palco del Teatro Metastasio con il progetto “No Land’s” del contrabbassista Matteo Bortone, uno dei migliori dischi degli ultimi tempi; presente nel cartellone anche il trio di Filippo Vignato, applaudito trombonista che qui si presenta con un pulsante trio dagli umori molto eclettici; e infine il trio MAT, con tre punte di diamante della nuova scena italiana che concluderanno, in bellezza, il cartellone degli eventi. Alcuni di questi gruppi coinvolgono anche musicisti stranieri, poiché ormai i giovani musicisti si muovono in una dimensione di compiuto scambio europeo.

La clarinettista Zoe Pia, con il suo policromo progetto sulla musica sarda, e il dinamico sassofonista Giovanni Benvenuti, anche originale compositore, rappresentano proprio quei talenti su cui MetJazz vuole gettare nuova luce, come pure l’emergente pianista Andrea Goretti, che si muove sul filo tra improvvisazione classica e jazz. Protagonisti anche i Lapsus Lumine, un singolare gruppo vocale/strumentale che si muove gioiosamente all’intersezione tra canzone, jazz, sperimentazione, musica e letteratura e che vedrà ospite nell’organico il rumorista e fantasista Vincenzo Vasi.

Non meno importanti sono le occasioni della programmazione di MetJazz Off: dalla voce di Elisa Mini, una delle protagoniste di una scena vocale toscana già molto brillante, al sorprendente trio di Nazareno Caputo, intriso di umori contemporanei. Non mancheranno gli appuntamenti con i libri, con autori e curatori di vite e storie musicali uniche: da quella di Dexter Gordon presentata da Francesco Martinelli a quella di Bruno Tommaso, la cui vicenda artistica e di insegnante è per noi il vero simbolo di questa ripartenza con i giovani talenti.

Il festival ha sempre lavorato di concerto con partner dentro e fuori la città. La crisi ha rafforzato una politica in atto da tempo: alla Scuola di Musica Verdi, alla Biblioteca Lazzerini e a Musicus Concentus di Firenze (che ora collabora anche con l’Off) si aggiunge Siena Jazz, con cui abbiamo coprodotto il cd del compianto Alessandro Giachero, dal concerto che tenne a MetJazz nel 2020. E’ a lui, al suo lascito musicale e alla sua eredità didattica che è dedicata l’intera rassegna.

Il programma completo è consultabile sul sito del Teatro Metastasio al link https://www.metastasio.it/it/eventi/met-jazz/momento-teatrale-20-21.
Tutti gli eventi sono fruibili nel rispetto del regolamento emergenza Covid-19:
https://www.metastasio.it/it/eventi/cartellone/esserci-di-nuovo/regolamento-emergenza-covid-19.

Biglietti sezione Official: intero €16, under 25 €11, over 65/soci Coop €12, abbonati 2020 €10.
Acquistabili online al link https://ticka.metastasio.it/ oppure presso la Biglietteria del Teatro Metastasio: via B. Cairoli 59, Prato tel. 0574/608501 – biglietteria@metastasio.it. Orari: dal lunedì al sabato 11.00/13.00 e 17.00/19.00 (il giovedì 11.00/15.00 e 17.00/19.00).

Biglietti MetJazz OFF:
Sabato 8 maggio – Scuola di musica Verdi: ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a biglietteria@metastasio.it
Sabato 15 maggio – Biblioteca Lazzerini:
ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a iscrizionilazzerini@comune.prato.it
Sabato 22 maggio – Scuola di musica Verdi: biglietto unico €5 acquistabile on line su ticka.metastasio.it
Sabato 29 maggio – Scuola di musica Verdi: biglietto unico €5 acquistabile on line su ticka.metastasio.it
Sabato 12 giugno – Scuola di musica Verdi: ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a biglietteria@metastasio.it

CONTATTI
Info Teatro Metastasio: tel. 0574.608501
Ufficio Stampa Teatro Metastasio: Cristina Roncucci tel. 0574.24782 (interno 2) – 347.1122817
Comunicazione MetJazz: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

 

I nostri CD

Cari Amici,
archiviato questo Natale piuttosto atipico, per usare un eufemismo, ci accingiamo ad affrontare il nuovo anno con molte speranze e pochissime certezze. Ma, dal momento che dovremo trascorrere ancora molto tempo tra le mura di casa, vi propongo una serie di album che vale la pena ascoltare.
Buona Musica e Buon Anno.

AB Quartet – “I bemolli sono blu” – TRJ records
L’AB Quartet è un gruppo costituito da Antonio Bonazzo (pianoforte), Francesco Chiapperini (clarinetto e clarinetto basso), Cristiano Da Ros (contrabbasso), Fabrizio Carriero (batteria e percussioni). L’album prende le mosse da un obiettivo esplicitamente dichiarato da Bonazzo: elaborare, in occasione del centenario dalla morte di Claude Debussy nel 2018, un progetto basato su arrangiamenti di musica di questo compositore francese.
E il titolo viene proprio da una frase di Debussy che in una lettera parla della sua visione della musica legata principalmente ad aspetti extramusicali come il colore. Di qui un repertorio di sette brani originali. Come al solito quando un album dichiara un intento si pone la classica domanda: obiettivo raggiunto? Onestamente mi risulta difficile fornire una risposta. Comunque è innegabile che i temi scelti si facciano ascoltare con attenzione così come è innegabile che in alcuni passaggi risulti evidente l’influenza di Debussy. Pertinente è anche il linguaggio adoperato dal gruppo il che non stupisce ove si tenga conto che il gruppo affonda le proprie radici nella tradizione classica. Proprio per questo i brani sono prevalentemente scritti anche se non mancano ampi spazi per le improvvisazioni singole e collettive. Un esempio di quanto sin qui detto lo si trova già nel primo brano, “Moon”; il riferimento è al “Clair de Lune” vagamente richiamato nella linea melodica per lasciare subito il posto ad una reinterpretazione cesellata dal pianoforte di Bonazzo, mentre i clarinetti di Chiapperini creano un impasto strumentale dalle timbriche originali, con batteria e contrabbasso a intessere un impianto ritmico molto più sostenuto rispetto all’originale.

Tiziana Bacchetta – “Driving Home for Christmas” – G.T.
Un’indispensabile premessa: io non amo particolarmente gli “album di Natale” per cui mi sono accinto ad ascoltare questo album con una buona dose di scetticismo. Ma poi, nota dopo nota, minuto dopo minuto, ho cambiato radicalmente idea tanto da poter affermare che questo è un CD di sicuro livello. E ciò per una serie di motivi che cercherò di elencare non in ordine di importanza. La scelta del repertorio: la vocalist romana, ad eccezione dei ben noti “Have Yourself a Merry Little Christmas” di Martin -Blane e “White Christmas” di Irving Berlin, ha preferito presentare brani, tutti musicalmente validi e raffinati ma assai meno battuti. Ovviamente ciò non sarebbe stato sufficiente; ecco quindi arrangiamenti sapidi, ben studiati e curati in ogni minimo aspetto con un gruppo affiatato in cui spicca l’individualità di Giacomo Tantillo, trombettista e flicornista siciliano di Palermo che passo dopo passo si avvia a diventare una certezza del panorama jazzistico nazionale. A questo punto sarebbe ingiusto non citare gli altri componenti il gruppo, vale a dire Raffaele Cervasio chitarra, Arturo Valente piano e Rhodes, Carlo Bordini batteria e Guerino Rondolone basso. Ma, com’è fin troppo ovvio, il merito principale dell’ottima riuscita dell’album è della leader, Tiziana Bacchetta. Giunta al suo terzo album, l’artista dà prova di grande maturità sfoggiando notevoli capacità interpretative supportate da un voce ben educata che riesce a transitare senza sforzo alcuno attraverso atmosfere assai differenziate. Ecco quindi il bruciante blues “Christmas Tears” portato al successo da Freddy King uno dei più talentuosi chitarristi del blues elettrico contemporaneo e interpretato dalla Bacchetta con trasporto e una voce ruvida il giusto, ecco la “Title Track” un brano bellissimo di Chris Rea, fino alla conclusione con l’evergreen “White Christmas” di Irving Berlin. Insomma una bella musica che ci accompagna verso le prossime festività, una sorta di raggio di luce in un panorama piuttosto plumbeo.

Michel Benita – “Looking at Sounds” – ECM
L’etichetta Ecm dedica meritoriamente due album alla scena francese, questo di Michel Benita e un altro di Matthieu Bordenave di cui ci occupiamo qui di seguito. In “Looking at Sounds” il contrabbassista franco-algerino Michel Benita si presenta in quartetto con il connazionale Philippe Garcia alla batteria, lo svizzero Matthieu Michel al flicorno e il belga Jozef Dumoulin, specialista del piano elettrico. L’album è giocato su due elementi: una raffinata ricerca timbrica e melodica, e la prevalenza del sound collettivo rispetto all’assolo. Il repertorio si compone di undici pezzi scritti in massima parte dallo stesso Benita da solo o in collaborazione con altri, cui si aggiungono due brani famosi, “Inutil Paisegem” di Antonio Carlos Jobim e Louis Olivera, e “Never Never Land” di Styne, Comden, Green. L’intro affidata al leader è una sorta di manifesto dell’intera poetica dell’album: la linea melodica, suggestiva e cantabile, disegnata dal flicorno di Matthieu Michel, viene costantemente supportata dal basso e dalla batteria di Garcia, in questo caso con mirabile gioco di spazzole, mentre Demoulin si limita a sottolineare alcuni passaggi contribuendo, però, in maniera determinante a creare quella particolare timbrica che costituisce una caratteristica dell’album. E il clima intimista, di rara suggestione si avverte per tutta la durata dell’album anche se non mancano episodi particolari come “Cloud To Cloud” declinato sul filo di una improvvisazione collettiva e il conclusivo “Never Never Land” in cui il leader, in splendida solitudine, si produce in uno dei più centrati assolo dell’album. Gustosa, infine, l’interpretazione di “Inútil Paisagem”.

Roberto Bindoni Unquiet Quartet – “Mediterranean Cowboy” – Alfa Music
E’ uscito di recente l’album d’esordio dell’Unquiet Quartet di Roberto Bindoni; il chitarrista (eccellente anche al pianoforte, strumento che però in questa occasione non usa) è accompagnato da Matteo Cuzzolin al tenore, Marco Stagni al contrabbasso e Filip Milenkovic alla batteria. Si tratta di una prova particolarmente impegnativa per Bidoni il quale si presenta anche come autore dell’intero repertorio, nove brani che riescono a ben catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore. La linea stilistica oscilla tra il jazz modale e quelle atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare nel corso degli ultimi decenni grazie ad artisti quali Jan Garbarek o Jan Balke tanto per fare qualche nome. Le atmosfere sono quindi in linea di massima pacate, con una riconoscibile linea melodica e un ritmo sostanzialmente lento, ragionato, il tutto impreziosito da arrangiamenti ben scritti sia che riguardino le parti completamente scritte sia che facciano un passo indietro per lasciare spazio all’improvvisazione, terreno su cui si muove particolarmente bene il sax tenore di Cuzzolin (lo si ascolti in “Unquiet Place” e nel già citato “Kamikaze”). Particolarmente suggestivo “Encanto” con il leader in bella evidenza. Certo, come si accennava si tratta di un disco d’esordio per cui i margini di miglioramento ci sono, ma già a questo punto è un bel sentire.

Matthieu Bordenave – “La traversée” – ECM

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Ecco il primo album da leader del sassofonista francese Matthieu Bordenave in trio con il tedesco Florian Weber al pianoforte e lo svizzero Patrice Moret al contrabbasso. In programma nove brani tutti composti dallo stesso sassofonista. Come espressamente dichiarato dallo stesso leader, l’idea musicale che ha ispirato l’album è quella del trio formato da Jimmy Giuffre, Paul Bley e Steve Swallow circa sessanta anni addietro ma ancora oggi attualissima. Di qui una musica allo stesso tempo moderna nel sound e nella ricerca di un linguaggio vicino alla musica contemporanea ma allo stesso tempo fortemente ancorata al passato. E la cosa si spiega assai bene ove si tenga conto che Bordenave può vantare una preparazione anche classica. L’album oscilla, quindi, tra questi due poli in una sorta di camerismo particolarmente attento allo spazio e alle sfumature che evidenzia al meglio le potenzialità dei tre artisti. Così se il sax del leader rimane costantemente in primo piano, con un sound non particolarmente robusto ma personale, pianoforte e contrabbasso non si limitano ad una funzione di supporto fornendo un contributo importante anche nella costruzione della linea portante; si ascolti al riguardo il sontuoso assolo di Patrice Moret in “Ventoux” o quello di Weber nel successivo “Incendie blanc”. Insomma nonostante la mancanza di una qualsivoglia percussione, la ‘traversata’ del trio solca mari non sempre placidi, alla costante scoperta di nuovi orizzonti.

Yilian Canizares – “Erzulie” – Planeta Y
Questo è uno dei pochi album che vi consiglierei di ascoltare più e più volte tale e tanta è la ricchezza di contenuti in esso racchiusa. La violinista, cantante e compositrice cubana Yilian Canizares si conferma una delle artiste più originali apparsa sulla scena musicale degli ultimi anni grazie ad una concezione musicale che le consente di accorpare una formazione di base classica e i ritmi, le melodie, le danze della sua madre patria. E tutto ciò si appalesa con grande semplicità nell’album in oggetto, registrato a New Orleans ma che in realtà prende vita da un viaggio nel 2017 ad Haiti. Quì Yilian ha avuto modo di confrontarsi con i Boukman Eksperyans, band storica che prende il nome da Dutty Boukman, un sacerdote vodou che condusse una cerimonia religiosa nel 1791, considerata l’inizio della rivoluzione haitiana. Non a caso l‘album è dedicato a “Erzulie”, divinità del pantheon vudu che personifica l’essenza della femminilità e la sensualità. In effetto l’intento della Canizares è più ampio: “raccontare la storia dell’Africa attraverso i suoi figli creoli: Haiti, Cuba e New Orleans […] musica che deriva quindi da un legame che non è morto malgrado tutto ciò che è successo storicamente”. Accanto all’artista cubana troviamo un quartetto di musicisti di nazionalità e culture musicali diverse, The Maroons, altro riferimento alla storia libertaria caraibica, che allineano Paul Beaubrun (chitarrista e vocalist haitiano), Childo Tomas (basso, cori e kalimba dal Mozambico), Charlie “BKVK” Burchell (batteria e tastiere, statunitense di New Orleans) e Inor Sotolongo (percussionsta cubano). A questi si aggiungono svariati ospiti a tromba, contrabbasso, organo, tastiere, percussioni, violoncello e flauto, a costituire una formazione straordinaria. L’album si apre con la romanticamente coinvolgente “Habanera” e si chiude con “Yeyé” cantata in dialetto yoruba (o lucumi), così come “Yemayá” mentre nella title track e in “Noyé” l’artista utilizza il creolo haitiano. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: nel brano “Libertad” sono inserite le voci campionate di tre donne di epoche diverse particolarmente significative in merito alle tematiche trattate: Simone de Beauvoir, Malala e Nina Simone.

Donatello D’Attoma – “Oneness” – Dodicilune
Donatello D’Attoma è uno dei pianisti più interessanti che si pone nella linea stilistica tracciata da alcuni grandi della tastiera, Thelonius Monk in primis e, andando più indietro nel tempo, Bill Evans. In questo album il pianista si presenta in trio con il siciliano Alberto Fidone al contrabbasso e il romano Enrico Morello alla batteria. In programma otto brani di cui ben sette dovuti alla penna del leader che quindi si dimostra anche prolifico e valente autore. La chiusura è invece affidata ad una composizione, guarda caso, di Thelonious Monk, “Coming On Thwe Hudson”. Il trio è affiatato, ben guidato e ricco di interventi solistici che impreziosiscono ogni esecuzione. Intendiamoci: nessuna dimostrazione muscolare o interventi tesi a stupire l’ascoltatore, ma grande attenzione all’espressività e quindi alla volontà di trasmettere la tensione emotiva che i tre avvertono, in un costante equilibrio tra pagina scritta e istintiva improvvisazione. In particolare D’Attoma evidenzia una solida tecnica di base cementata sia dagli studi classici sia dalla profonda conoscenza della letteratura jazzistica; di qui un rigoroso controllo di ogni elemento dell’esecuzione con un pianismo solido, raffinato, essenziale ben supportato dai compagni d’avventura che, seguendo la lezione di Evans, ricoprono un ruolo tutt’altro che marginale. E ciò appare evidente sin dal primo brano, “Fluorescent Light”, in cui i tre si muovono empaticamente, caratteristica che viene conservata per tutta la durata dell’album. I brani sono tutti godibili e ben articolati come in una sorta di percorso che mai perde d’intensità.

Elina Duni, Rob Luft – “Lost Ships” – ECM
Registrato nello studio La Buissonne nel sud della Francia nel febbraio del 2020, questo album, in quattro lingue – albanese, francese, inglese, salentino- vede la cantante svizzero albanese Elina Duni ed il chitarrista britannico Rob Luft (la cui collaborazione risale al 2017) coadiuvati da Matthieu Michel al flugelhorn (lo si ascolti particolarmente in “Brighton”) e Fred Thomas piano e batteria. A scanso di equivoci, in questo caso il jazz appare marginale ma l’album è notevole e vale quindi la pena segnalarlo. Il programma, pur essendo assai variegato, presenta come temi centrali quelli dell’emigrazione e della difesa della natura declinati attraverso brani tradizionali, composizioni originali e due canzoni rese famose rispettivamente da Frank Sinatra e Charles Aznavour. In un cartellone siffatto appare evidente come molteplici debbano essere stati gli input ed è la stessa Duni a confermarlo: «Ci sono canzoni – afferma – che hanno influenze del passato, con il suono dell’Albania ed il folclore mediterraneo sempre presenti, ma volevamo esplorare anche altre radici musicali: ballate jazz senza tempo, canzoni francesi, canzoni popolari americane…. ». Comunque l’album, come si accennava, è di assoluto livello grazie soprattutto alla maestria di vocalist e chitarrista, l’una sempre più convincente nell’interpretazione di tematiche assai delicate, l’altro in grado di sottolineare ogni passaggio con rara discrezione e altrettanta pertinenza. Così la musica acquista attimo dopo attimo sempre più consistenza, sorretta da un’intesa non comune come evidenziato nel brano in inglese, “The Wayfaring Stranger”. Il controllo delle dinamiche è assoluto così come la capacità di ricondurre ad un unicum le quattro voci melodiche. Infine una perla di raffinatezza la chiusura con “Hier Encore” di Aznavour presentata in duo, chitarra e voce.

Erodoto Project – “Mythos Metamorphosis” – Cultural bridge
Bob Salmieri sax tenore e soprano, ney, turkish klarinet, Alessandro de Angelis grand piano, Rhodes piano, Maurizio Perrone contrabbasso, Giampaolo Scatozza batteria e Carlo Colombo percussioni sono i responsabili dell’“Erodoto Project” giunto alla sua terza tappa attraverso i miti e le leggende del Mediterraneo. Dopo “Stories: Lands, Men And Gods” (2016) e “Molòn Labè” (2017) arriva “Mythos Metamorphosis” in cui il gruppo è affiancato dal Mirò String Trio, al secolo Fabiola Gaudio violino, Lorenzo Rundo viola e Marco Simonacci violoncello. In repertorio undici originali composti da Salmieri e De Angelis declinati attraverso l’avventura di Ulisse che affronta e resiste alle lusinghe delle sirene. Ecco quindi richiamate le leggende di Aci e Galatea, di Ifi e Iante, della Sibilla Cumana…via via fino al brano di chiusura dedicato a “Leucosya”, una delle tre sirene che, secondo la mitologia greca, viveva sugli scogli della baia di Salerno assieme a Partenope e Ligea. Essendo questo il quadro di riferimento, è chiaro che la musica prodotta dovesse in qualche modo riferirsi alle varie culture che dal Mediterraneo traggono linfa vitale. E così è stato. Ancora una volta Salmieri e compagni tengono fede alle premesse e ci regalano una musica di grande intensità caratterizzata da suadenti linee melodiche, armonizzazioni semplici ma non per questo banali e una tavolozza timbrica impreziosita, nell’occasione, dal trio d’archi i cui arrangiamenti sono stati curati da Alessandro de Angelis. Insomma un jazz senza etichette, non ascrivibile ad uno stile piuttosto che ad un altro, ma una musica libera che prende per mano l’ascoltatore e lo trasporta in un altrove impossibile da etichettare.

Marco Fumo – “Reflections” – Odradek Records
Merco Fumo è personaggio ben noto ed apprezzato nell’ambiente jazzistico. La sua padronanza strumentale e la sua profonda conoscenza del lessico jazzistico ne fanno personaggio di assoluto rilievo. E questo album ne è l’ennesima conferma in quanto riesce ad evidenziare, come meglio non si potrebbe, i numerosi legami – ora palesi ora più nascosti – tra l’universo euro-colto e la musica afroamericana. In un flusso rapido e spesso trascinante scorrono quindi alcuni degli autori che hanno fatto la storia della musica tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sulle due sponde dell’Oceano Atlantico. Da Scarlatti a Joplin, da Stravinsky a Nazareth, da Debussy a Ellington tanto per fare qualche nome. Ovvero dal ragtime, dal choro, dal tango, dal blues, dallo stride piano…al jazz e alla musica classica europea in un confronto tutt’altro che banale, alla scoperta di consonanze spesso inaspettate. E’ quanto si nota, come si legge nelle note che accompagnano l’album, ascoltando il “Tango” di Stravinsky risalente al 1940 e il “Café de Barracas” di Eduardo Arolas del 1920: la concezione delle masse sonore presenta molti punti di contatto nel pensiero dei due compositori. Più evidente, è ovvio, il rapporto tra il ragtime di Scott Joplin e lo stride piano di James P. Johnson. E di questi esempi se ne possono fare molti altri costituendo per l’appunto questo il punto focale della ricerca di Marco Fumo il quale ama sottolineare come nella sua vita abbia “frequentato sempre tutta la musica, indistintamente” non facendosi mai limitare “da barriere o pregiudizi”.

Danilo Gallo, Dark Dry Tears – “Hide, Show Yourself!” – PMR
Dopo lo splendido album “Thinking Beats Where Mind Dies” del 2016, il quartetto “Dark Dry Tears” si ripresenta al pubblico del jazz con un organico leggermente diverso in quanto al posto di Francesco Bearzatti figura Massimiliano Milesi (sax tenore e soprano e clarinetto) mentre rimangono al loro posto Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto), Jim Black (batteria) e ovviamente Danilo Gallo al basso elettrico. In programma tredici brani tutti composti da Gallo. Ciò detto rimane sostanzialmente identica la cifra stilistica del gruppo che evidenzia ancora una volta i suoi punti di forza nell’intenso dialogo tra i due fiati, nell’incessante straordinario supporto ritmico di Jim Black (a mio avviso uno dei migliori batteristi oggi in circolazione) e nella sapiente direzione di Gallo che si fa valere non solo per l’apporto ritmico ma anche per la spinta propulsiva forniti dal suo strumento. Quanto al ruolo dei fiati, lo stesso appare evidente sin dal primo brano per proseguire, senza soluzione di continuità, fino al pezzo di chiusura. Interessante notare come l’uso del sax soprano da parte di Milesi conferisca un sapore nuovo alla tavolozza timbrica del gruppo che presenta una compattezza, una omogeneità tutt’altro cha facili da raggiungere. I quattro si muovono in perfetta simbiosi, senza un attimo di incertezza ad interpretare le sapienti composizioni di Gallo la cui raffinatezza è soprattutto evidente nelle introduzioni e nelle chiusure dei singoli brani. Si ascolti al riguardo come il basso elettrico introduca l’intero album nel brano “Demolition” caratterizzato in seguito da un trascinante crescendo.

Keith Jarrett – “Budapest Concert” – 2 CD – ECM
Di recente su questi stessi spazi il nostro Massimo Giuseppe Bianchi si è occupato di Keith Jarrett esaminandone due aspetti: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico. Venuti a conoscenza del fatto che il pianista non potrà più suonare in pubblico, ogni suo album, per quanto registrato anni addietro, assume una particolare valenza. E’ il caso di questo “Budapest Concert” inciso il 3 luglio del 2016 alla Béla Bartok Concert Hall e declinato attraverso due CD, nel primo una serie di improvvisazioni di durata medio lunga, nel secondo ancora improvvisazioni questa volta di durata inferiore e due standard “It’s A Lonesome Old Town” di Tobias e Kisco e “Answer Me, My Love” di Winkler e Rauch. Come spesso gli capitava durante le sue performances, Jarrett preferisce mettere subito in chiaro le sue intenzioni. Ecco quindi la “Part I” sicuramente la più complessa e meno melodica dell’intero programma, in cui l’artista si lancia nelle sue ardite improvvisazioni. E tutto il primo CD, corrispondente alla prima parte del concerto, ripercorre un identico canovaccio vale a dire un pianismo allo stesso tempo lucido e imperscrutabile, vorticoso e meditativo, che comunque si lascia attrarre da quell’area culturale vicina alla musica accademica in special modo del Vecchio Continente. Il discorso cambia nel secondo disco caratterizzato sin dall’inizio da una atmosfera più raccolta, intimista e da una più avvertibile cantabilità. Fino alla degna chiusura con due standard rappresentati con dolce partecipazione. E’ sicuramente questo il Jarrett che il pubblico ama di più, quell’artista che raccoglie in sé il portato di ogni stile pianistico e che, se in stato di grazia, è capace di inanellare una serie infinita di spunti melodici come nessun altro. Ed un esempio probante si ha proprio in questo secondo CD in cui ogni singola esibizione è sugellata da una caldo applauso del pubblico senza che la tensione cali per un solo attimo: lo spettatore è definitivamente conquistato così come noi che ascoltiamo l’album comodamente accovacciati in poltrona.

Anja Lechner, François Couturier – “Lontano” – ECM
Dopo il felice debutto nel 2014 con “Moderato cantabile” sempre firmato ECM, la violoncellista tedesca e il pianista francese tornano in sala di incisione per dar vita a questo “Lontano” articolato su sedici brani sia originali sia dovuti ad autori di aree ed epoche diverse, da Ariel Ramirez a Giya Kancheli, da Anouar Brahem a Henri Dutilleux. Come si può facilmente desumere dall’organico, si tratta di una musica dall’impianto cameristico. Quel che fa la differenza rispetto ad altre registrazioni del genere è da un canto la statura artistica dei due artisti, dall’altro la scelta del repertorio. Ascoltando l’album sin dalle primissime note si ha netta la sensazione di ascoltare musicisti in grado di coniugare una preparazione classica con il linguaggio improvvisativo proprio del jazz. Di qui un suono, una timbrica, un gioco di colori molto vicini alla tradizione cameristica europea. D’altro canto non mancano pagine in cui la capacità di improvvisare prende il sopravvento sulla pagina scritta. Funzionale a tutto ciò la scelta di un repertorio che tende quasi ad annullare qualsiasi distanza temporale tra i vari brani nell’intento – del tutto riuscito – di evidenziare come la buona musica non conosca limiti di tempo. Così, dopo i primi tre brani di impronta “colta”, il ben noto e struggente “Alfonsina y el mar” di Ariel Ramirez. E questa particolare capacità di attualizzare alcune partiture appare altresì evidente, come chiarito nel libretto che accompagna l’album, in almeno altri quattro brani: in “Memory of a Melody” ci si richiama all’aria dalla Cantata BWV 105 di Bach, in “Hymne” si avverte l’influenza di Gurdjieff, in “Postludium” fa capolino l’arte del pianista e compositore ucrainoValentin Silvestrov mentre nella title track si omaggia Federico Mompou esplicitamente ricordato nel già citato “Moderato cantabile”.

Gianni Lenoci – “Wild Geese” – Dodicilune
Quando Gianni Lenoci ci lasciò improvvisamente, su questi stessi spazi ebbi modo di sottolineare come la sua dipartita lasciasse un vuoto difficilmente colmabile. E questo album, postumo, registrato nel 2017, ne è l’ennesima conferma. Lenoci era artista di indubbio talento che trovava i suoi punti di forza da un canto in una grande capacità improvvisativa declinata attraverso composizioni originali sempre indirizzate verso una sperimentazione mai fine a sé stessa, dall’altro nell’estremo rispetto degli altri, dei suoi colleghi che lo portava ad eseguire le composizioni altrui senza alcunché perdere dell’originario fascino. In questa sua ultima fatica discografica, Lenoci è in trio con Pasquale Gadaleta al basso e Ra-Kalam Bob Moses alla batteria. In repertorio nove composizioni scritte da alcuni grandi del jazz: quattro a testa da Carla Bley e Ornette Coleman, una da Gary Peacock. L’album produce una duplice sensazione: il piacere di ascoltare alcuni standard che restano nella storia della musica e allo stesso tempo l’ammirazione per come Lenoci e compagni siano capaci di riavvolgere il nastro, scomporre i nove brani e ripresentarli secondo una logica nuova, personale, che lascia intravedere, quasi in filigrana, la profonda conoscenza della musica interpretata. E a mio avviso due sono i brani che meglio illustrano quanto sin qui detto, “Latin Genetics” e il conclusivo “Ida Lupino”, senza alcunché togliere alla maestria con cui il trio affronta tutti i brani in programma, a partire dal sontuoso “And now the queen” cui fa seguito “Job Mob“ impreziosito da un Gadaleta in grande spolvero e con un Lenoci quasi a richiamare atmosfere proprie del free. Pezzi che ci introducono alla parte centrale dell’album costituita da tre brani tutti di lunghezza superiore ai dieci minuti. Insomma un album straordinario che merita di essere ascoltato anche da chi non si professa particolarmente amante del jazz: sono sicuro che piacerà anche a costoro.

Ivano Nardi – “Homage to Kandinsky” –
Il batterista Ivano Nardi può a ben ragione essere considerato personaggio storico del jazz italiano e romano in particolare. Sulla scena oramai da parecchi anni, ha collaborato con alcuni bei nomi del panorama internazionale (Massimo Urbani fra tutti e poi Mario Schiano, Marco Colonna, Steve Lacy, Evan Parker, Don Cherry e Lester Bowie) sviluppando uno stile percussivo affatto personale che oscilla tra free jazz e improvvisazione totale. In questa ultima fatica discografica si presenta in quartetto con Eugenio Colombo (sax e flauti), Roberto Bellatalla (contrabbasso) e Giancarlo Schiaffini (trombone). L’Album, come evidenziato dallo stesso titolo, trae ispirazione dai quadri del pittore russo nell’intento di rievocare, attraverso le note, i tratti caratteristici di Kandinsky, dalle armonie dei colori alla vividezza del tocco; di qui le improvvisazioni che assumono titoli quali Giallo indiano, Rosso, Giallo 1, Giallo 2, Grigio scuro, Blu ecc. In buona sostanza la materia indagata a fondo dall’artista russo viene trasformata in materia sonora ora attraverso i solo del leader ora con le improvvisazioni collettive del gruppo che ci riportano ad atmosfere proprie degli anni ’70. Il tutto viene esplicitato ulteriormente da una frase dello stesso Nardi laddove afferma, cito testualmente, che “continuo a leggere e ad approfondire cose che riguardano l’arte tutta: so che non basta una vita a raccogliere tutti questi stimoli!”.

Novotono – “Wood (Wind) at Work” – Autrecords
Sotto l’insegna dei “Novotono” incontriamo il progetto dei fratelli Adalberto ed Andrea Ferrari con il nuovo album uscito qualche mese fa. Per chi non conosca ancora questi due artisti sottolineiamo che si tratta di improvvisatori di alto livello specialisti di tutta una serie di strumenti a fiato: clarinetto basso, alto sax e baritone sax Andrea, Eb tubax, clarinetto basso, clarinetto, alto sax, soprano sax, contrabbasso clarinetto Adalberto. Già la struttura stessa dell’organico fa capire come ci si trovi dinnanzi ad una musica particolare, spesso giocata sull’aspetto timbrico ma che non trascura il lato melodico né quello ritmico. I due musicisti, fidando su capacità improvvisative non comuni, affrontano terreni spesso disagevoli inerpicandosi su chine pericolose da cui comunque escono sempre bene. Così ad esempio è davvero esemplare il modo in cui i due riescono a rendere vivo il dialogo tra gli strumenti in “Melodie Per Un Burattino Di Legno”, dialogo che sembra non risentire della mancanza di parole per rendersi esplicito nella sua natura più profonda, mentre in “Gegheghè” si abbandona questa atmosfera intima per tuffarsi in un clima rockeggiante. Ma, come si accennava, non si trascura gli spetti ritmici e melodici: ecco, quindi, “Old Durmast” caratterizzato da un andamento ritmico inusuale, a tratti sghembo ma affascinante e “Contratuba Seguoia” con una bella linea melodica ben individuabile, interrotta quasi a metà del brano da un lacerto sonoro assolutamente straniante, dopo di che il pezzo si avvia a conclusione riprendendo l’originario schema. Bella la chiusura con “Wooden Toys” scritto con piacevole ironia. Insomma un album di non facile ascolto ma di sicuro interesse da cui si ricava una importante lezione: l’improvvisazione è stato, è e sarà un elemento imprescindibile della musica jazz.

Enrico Pieranunzi – “Time’s Passage” – abeat
Enrico Pieranunzi è uno di quei non molti musicisti che mai sbaglia un colpo. Ogni qualvolta decide di entrare in sala di incisione è perché ha qualcosa da dire e solitamente si tratta di qualcosa di interessante. Anche questo album registrato nel maggio del 2019, non sfugge alla regola. Il pianista-compositore romano si presenta, questa volta, alla testa di un quintetto con il grande batterista francese Dedè Ceccarelli, il compagno di tante avventure Luca Bulgarelli al contrabbasso e basso elettrico, e due ospiti di lusso quali Andrea Dulbecco al vibrafono e Simona Severini alla voce; in programma nove brani di cui sei scritti dallo stesso leader, in epoche assai diverse e due standard dovuti alle penne di David Mann e Bob Hillard l’uno, e di Arthur Hamilton e Johnny Mandel l’altro. Già dalle prime note della title track si intuisce quale sarà l’andamento dell’album: una musica oscillante tra il jazz da camera e lo swing canonico. Ecco così la delicata “Time’s Passage” impreziosita dai delicati volteggi di un Dulbecco particolarmente brillante cui fa seguito il “Valzer” espressamente dedicato ad Apollinaire con testo in francese. Con “Biff” le atmosfere virano decisamente verso uno swing più accentuato impreziosito dalle improvvisazioni dei quattro musicisti (esclusa la Severini che non figura in questo brano). E così fino all’ultimo brano, “Vacation from The Blues”. Una curiosità: nel disco c’è una doppia versione del brano “In the wee small hours of the morning” portata al successo da Frank Sinatra, una con l’ensemble e una piano e voce. Questa scelta piuttosto anomala, come spiega lo stesso Pieranunzi, è dovuta al fatto che la Severini “ha cantato così bene in entrambe le versioni di questo delicato standard americano, ha espresso il mood della canzone con tanto feeling e fascino narrativo che non me la sono sentita di togliere una delle due versioni. Meritano assolutamente di essere ascoltate entrambe”. E come dargli torto?

Dino Rubino – “Time of Silence” – Tuk Music
Dino Rubino è senza dubbio alcuno uno dei più fulgidi talenti emersi negli ultimi due decenni. Il trombettista, flicornista, pianista, compositore siciliano si è costruito una solida reputazione passo dopo passo, mai bruciando i tempi e mai accontentandosi dei traguardi raggiunti. Da un po’ di tempo incide per la Tuk Music e con l’etichetta di Paolo Fresu sta sfornando degli album davvero eccellenti. Quest’ultimo lo vede alla testa di un quartetto con Emanuele Cisi al sassofono tenore, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. In programma dieci brani tutti originali di Rubino che si esprime al pianoforte imbracciando il flicorno solo in un brano, “Settembre”, a chiusura del programma. Spesso ci si interroga circa la pertinenza del titolo dell’album con la musica proposta. Ebbene, in questo caso, il nesso c’è ed è evidente. In un momento in cui chi strepita più forte sembra avere la meglio (e non solo in musica) Rubino sceglie una strada diversa, una strada che privilegia la melodia che non deve essere gridata, basta sussurrarla. E’ una sorta di afflato poetico quello che scaturisce dalle note del siciliano, una musica raffinata, elegante ma tutt’altro che leziosa o banale. Prendendo spunto proprio dal silenzio quale dimensione non secondaria, Rubino guida il gruppo con un pianismo che si fonde senza alcuna forzatura con il resto del gruppo a conferma di una intesa completa. Si ascolti, ad esempio, in “Claire” il modo in cui, dopo un bell’assolo del leader, Cisi raccoglie il testimone per dialogare con il pianoforte in una sorta di botta e risposta affascinante. Così come in “Karol”, i due trovano modo di integrarsi alla perfezione evidenziando le rispettive potenzialità. Potenzialità che nel caso di Rubino sono particolarmente evidenziate in “Owl in the Moon” impreziosito da un assolo pianistico coinvolgente nella sua semplicità. Infine come non segnalare l’ultimo brano, il malinconico “Settembre”, in cui Rubino si esprime magnificamente al flicorno. Al di là della musica, bella la cover dovuta all’artista svizzero Stephan Schmitz.

Terje Rypdal – “Conspiracy” – ECM
Conosco personalmente Rypdal da più di 40 anni e fin dall’inizio l’ho considerato uno dei veri, pochi in novatori che hanno illuminato la scena jazzistica internazionale negli ultimi decenni. A mio avviso una delle caratteristiche che fanno davvero grande un musicista è la riconoscibilità: tu ascolti poche note di sassofono e riconosci Charlie Parker così come ti basta qualche accenno pianistico per individuare Keith Jarrett; egualmente sono sufficienti poche note di chitarra amplificate in un certo modo per individuare tutto un mondo: quello per l’appunto di Terje Rypdal. Registrato a Oslo nel febbraio dello scorso anno in quartetto con Ståle Storløkken keyboards, Endre Hareide Hallre basso elettrico e Pål Thowsen batteria, l’album si articola in sei composizioni del leader che attraversano un po’ tutto il suo spettro compositivo. L’aggancio a quel jazz-rock degli anni ‘70 e ’80 appare evidente ma il tutto viene reinterpretato alla luce di una modernità che si respira evidente mai dando l’impressione del deja-vu. Così se il brano d’apertura “As if the Ghost… was Me?” (“Come se fossi io, il fantasma?”) velato da sottile ironia ripercorre situazioni care al Rypdal che tutti conosciamo, ecco che già in “What was I thinking” ascoltiamo un chitarrista più pensoso, più intimista a dialogare con il basso. Più legata a stilemi rockeggianti la title-track (con evidente richiamo alla Mahavishnu Orchestra) mentre tutta la seconda parte del breve album (appena una trentina di minuti) presenta una musica più evocativa, descrittiva, melodica, oserei dire malinconica a dimostrazione di come, contrariamente a quanto asserito da qualche pur illustre collega, non si tratti di un album quasi routinario ma di una realizzazione fortemente pensata e voluta da una artista che non ha perso un’oncia della sua creatività. Per concludere si ascolti con attenzione la splendida ballad “By His Lonesome”.

Dino Saluzzi – “Albores” – ECM
Tutte le volte che ho ascoltato Dino Saluzzi dal vivo ne ho sempre ricavato una forte iniezione di energia, una carica di vitalità che non sembra risentire del trascorrere del tempo. Ad onta dei suoi ottantacinque anni Saluzzi è sempre in piena attività, tanto che da poco è uscito questo suo nuovo disco. Album tra l’altro assai particolare in quanto dopo più di trent’anni il maestro argentino torna ad incidere in totale solitudine, con nove sue composizioni. Ed è ancora una volta un piccolo capolavoro. Saluzzi prosegue lungo il suo cammino, con la sua musica che è allo stesso tempo astrazione allo stato puro e narrazione di una memoria che si perde nel tempo. Di qui i riferimenti a persone a lui care e a paesaggi e scorci di natura che fanno parte del suo essere. Il tutto eseguito con uno strumento, il bandoneon, che egli ha portato a livelli di espressività mai raggiunti fino ad oggi. Certo c’è sempre Astor Piazzolla ma il linguaggio adoperato dai due è completamente diverso sì da renderne impossibile un qualsivoglia raffronto. Ma torniamo ad “Albores” che si apre con un omaggio al compositore georgiano Giya Kancheli (“Adios Maestro Kancheli”) la cui musica ha già inciso insieme al celebre violinista lettone Gidon Kremer. Immancabili i riferimenti alla musica andina che viene trasposta in un universo sonoro senza tempo (“La cruz del Sur”) così come inevitabile, lo struggente ricordo del padre (“Don Caye – Variaciones sobre obra de Cayetano Saluzzi”). Senza trascurare i rimandi ad una Buenos Aires d’altri tempi: si ascolti “Segun me cuenta la vida” una milonga ma nello stile di Saluzzi e il successivo “Intimo”. L’album si conclude con “Ofrenda – Toccata”, un brano di rara suggestione in cui misticismo e devozione coesistono a conclusione di un viaggio intriso di nostalgia, bellezza, corporeità e spiritualità a cui tutti noi siamo invitati.

The Auanders – “Text (us)” – Auand
Era il 2011 quando su un palco a New York, per festeggiare i dieci anni della Auand, prese forma l’idea di formare una sorta di all-star costituita da artisti dell’etichetta pugliese. Nel corso degli anni il progetto è stato presentato in molte città con organici differenti mentre dal punto di vista discografico siamo adesso al secondo capitolo. Questa volta il lavoro è frutto di una residenza di una settimana ad Arezzo presso il Cicaleto, con un programma di 8 brani originali commissionati ad hoc ad alcuni dei musicisti più attivi che collaborano con la Auand. Ecco quindi un tentetto base – Mirko Cisilino tromba e corno francese), Michele Tino (sax alto e flauto), Francesco Panconesi (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono e clarinetto basso), Filippo Vignato (trombone), Glauco Benedetti (tuba), Francesco Diodati (chitarra), Enrico Zanisi (pianoforte, rhodes, synth e glockenspiel), Francesco Ponticelli (basso e basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria, percussioni e voce) cui si affiancano in veste di ospiti Sara Battaglini (voce), Francesco Bearzatti (clarinetto), Stefano Calderano (chitarra), Simone Graziano (rhodes) ed Evita Polidoro (voce). Il titolo – Text(Us)(“Scrivici un messaggio”) – contiene di per sé una della carte vincenti dell’etichetta di Bisceglie, vale a dire la voglia di entrare in contatto e in empatia con l’ascoltatore . Dal punto di vista prettamente musicale l’album risulta interessante soprattutto per le modalità di esecuzione: il gruppo, pur essendo numeroso, si muove con grande scioltezza evidenziando una notevole intesa sia nelle parti d’assieme sia nei momenti in cui vengono lasciati spazi ai molti solisti. Il tutto reso possibile da centrati arrangiamenti attraverso cui gli artisti trovano, per l’appunto, modo di esprimere le proprie potenzialità. Notevoli, da questo punto di vista, le sortite, tanto per citare qualche nome, di Francesco Bearzatti in “Song to the Unborn”, Filippo Vignato in “One Week”, oltre alle splendide voci di Sara Battaglini e Evita Polidoro.

Tingvall Trio – “Dance” – Skip Records
Martin Tingvall (pianoforte), Omar Rodriguez Calvo (basso) e Jürgen Spiegel (batteria) sono i protagonisti di questo convincente album registrato per la “Skip Records”. La formazione ha oramai acquisito una solida reputazione confermata da quest’ultima fatica discografica. Tingvall e compagni prendono per mano l’ascoltatore e lo conducono in un immaginario viaggio attorno al mondo a ritmo dei vari stili di danza. Il tutto interpretato sempre con pertinenza e alla luce di un’empatia che il trio ha evidenziato in tutti gli album fin qui incisi. Quest’ultimo “Dance” è declinato attraverso tredici brani tutti scritti dal leader e arrangiati collegialmente dal trio in modo davvero assai curato come si evidenzia sia dalle intro sia dalle chiusure dei vari brani. Si parte con un esplicito richiamo al Giappone cui fa seguito la title track caratterizzata da una suadente linea melodica ben disegnata dal leader con i tamburi a sottolineare un clima arcaico, senza tempo. In “Spanish Swing”, “Cuban SMS” e “Bolero” è l’anima latina a prevalere grazie ad una caratterizzazione ritmica particolarmente centrata in “Bolero” mentre in “Arabic Slow Dance” si avvertono i profumi dell’Oriente con una significativa introduzione di Calvo impegnato poi in un fitto dialogo con il leader per tutta la durata del brano. “Ya Man” tratteggia un’atmosfera diversa dal resto dell’album in quanto siamo in pieno clima reggae con una forte tappeto ritmico intessuto da Calvo e Spiegel nel cui ambito si inserisce il pianismo di Tingvall. Se questi sono i brani in cui maggiormente si avverte il sapore della “danza” non mancano mezzi più meditativi e introspettivi come il conclusivo “In memory…”.
Oltre al CD e all’uscita digitale, sarà presto disponibile anche una stampa vinile da 180 gr.

Dominik Wania – “Lonely Shadows” – ECM
Dopo i successi ottenuti con il Maciej Obara Quartet (“Unloved”, “Three crowns”, ambedue targati ECM)), il pianista polacco Dominik Wania si misura con un ‘piano solo’ registrato nel novembre del 2019 a Lugano, ma che comincia a prendere forma già alcuni anni addietro dopo le registrazioni del citato “Unloved”. Per quanti seguono il jazz con buona attenzione non sarà sfuggito il valore di questo pianista che coniuga un background di tipo classico con capacità improvvisative proprie del jazz-man. Forte di queste caratteristiche Wania affronta la prova più difficile e importante della sua carriera e ne esce a fronte alta. In undici brani tutti di sua composizione e tutti affidati all’improvvisazione del momento, il pianista ci offre una sorta di summa delle sue capacità compositive e interpretative. La sua musica, tutt’altro che di facile ascolto, presenta evidenti richiami a Satie, Ravel e Messiaen; il tocco è leggero, fluido; grande l’attenzione per il dettaglio acustico; solida la concezione architettonica delle composizioni nonostante sia praticamente impossibile individuare chiare linee melodiche o qualsivoglia pattern ritmico. Insomma, come già accennato, siamo nel campo dell’improvvisazione totale che l’artista maneggia con disinvoltura e con originalità mai proponendo qualcosa di banale. Tra i vari brani da segnalare “AG76” un omaggio all’artista polacco Zdzisław Beksiński (1929-2005) le cui distopiche e surreali immagini hanno fortemente influenzato Wania il quale per eseguire il brano ha ricercato una timbrica delicata e nebbiosa, mentre “Indifferent Attitude” si differenzia dagli altri pezzi per essere molto vicino ad atmsfere tipiche del free jazz storico.

Marcin Wasilewski Trio, Joe Lovano – “Arctic Riff” – ECM
Incontro al vertice tra uno dei più grandi sassofonisti degli ultimi decenni e un trio polacco di tutto rispetto guidato dal pianista Marcin Wasilewski e completato da Slawomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michail Miskiewicz alla batteria. Quasi inutile sottolineare la grande versatilità di Lovano che riesce a mantenere intatta la propria individualità indipendentemente dal contesto in cui si trova ad operare. Dal canto suo il trio polacco conferma quanto di buono aveva già evidenziato anche nelle collaborazioni con il trombettista anch’egli polacco Tomasz Stanko. In repertorio composizioni dei due leader, un brano di Carla Bley e uno di Joe Lovano cui si aggiungono alcune improvvisazioni collettive. Il quartetto si muove, quindi, su coordinate piuttosto differenziate. Così, ad esempio, nella doppia versione di “Vashkar” di Carla Bley mentre nella prima dopo una breve introduzione di Lovano, Wasilewski si impossessa del tema per svilupparlo alla sua maniera dopo di che interviene ancora Lovano il tutto mantenendosi nei limiti di una visitazione piuttosto letterale, nella seconda prevale un maggior spirito improvvisativo. Ben strutturate le melodie del pianista che si avvalgono di un Lovano in gran spolvero specie in “Fading Sorrow” mentre in “L’Amour Fou” è il batterista a mettersi in particolare luce; splendido il brano finale, “Old Hat”, una suggestiva ballad impreziosita dagli assolo dei due leader che si iscrive di diritto nelle grandi tradizioni del jazz. Nelle improvvisazioni collettive è tutto il quartetto a marciare all’unisono grazie soprattutto al sassofonista che, come si accennava, è riuscito ad inserirsi perfettamente nel già rodato meccanismo del trio polacco.

Il Jazz in Friuli Venezia Giulia passa da GradoJazz: un piacevole contagio in musica che oltrepassa le mascherine!

di Alessandro Fadalti –

Dopo tutte le paure, il senso di impotenza e sfiducia che il lungo periodo di quarantena ha imposto a tutti noi, finalmente una boccata d’aria fresca portata dalla musica! Una reazione necessaria, dopo mesi di esibizioni solitarie nelle stantie cantine domestiche o le alternative esibizioni in live streaming sulla rete le quali, seppur innovative, sono state soluzioni raffazzonate per un settore in crisi ancor prima della pandemia globale. L’assenza di calore umano, una mancanza di fisicità, emotività e annullamento dell’esperienza sociale che il palco offre a tutti gli amanti della musica: queste sono le ferite aperte che hanno a malapena cominciato a cicatrizzarsi.

Con l’estate, però, vien dal mare un’allietante brezza che dissolve l’aria stagnante, sicché il festival di cui vi parleremo, con la sua grande affluenza e i tre sold-out, è la concreta dimostrazione della voglia di ripartire, pur nel pieno rispetto delle regole e norme contro il Covid-19. In effetti, gli usi e le modalità di fruizione degli spettacoli che si adattano ai tempi sono l’elemento vincente per combattere quella che in  primavera si prospettava come una stagione di immobilismo culturale.

La seconda edizione di GradoJazz 2020, la trentesima per lo storico festival Udin&Jazz, organizzata dall’associazione culturale Euritmica di Udine, è un simbolo in tal senso. Come ogni anno il festival presenta un cartellone con artisti jazz di grande caratura, di livello nazionale e internazionale, e anche questa edizione, con i suoi otto concerti, dal 28 luglio al 1 agosto nello spazioso e rinnovato Parco delle Rose di Grado, ha rispettato i pronostici. Quasi ironicamente il tema forte ma sottinteso  di quest’anno è stata la contaminazione, che poi è sinonimo di contagio! Tuttavia, mettendo da parte l’ironia, in arte essa assurge a un altro significato e il Friuli è una terra dove la contaminazione culturale fa da padrona e si dirama in ogni dove.

L’apertura non poteva che essere affidata a un gruppo le cui contaminazioni musicali costituiscono il manifesto artistico: i Quintorigo, band romagnola dalle sonorità rock-barocco con incursioni jazzistiche grazie a un organico inusuale (Alessio Velliscig, voce; Andrea Costa, violino; Gionata Costa, violoncello; Stefano Ricci contrabbasso; Valentino Bianchi, sassofoni e Simone Cavia, batteria) uniscono molteplici mondi della musica, reinterpretandoli nel loro stile. Parlando della formazione: Alessio Velliscig, cantante friulano, ha una voce in grado di sopraffare l’orecchio dell’ascoltatore grazie a un registro canoro ampio e a un mirato controllo dinamico. Alessio, dimostra grande tecnica e teatralità, senza scadere in eccessi di poco gusto. Tra i brani più apprezzati ci sono stati alcuni arrangiamenti tra cui “Alabama Song” di Kurt Weill e Bertolt Brecht, che fu anche un successo dei Doors, un duplice tributo a Charles Mingus con “Moanin’” e “Fables of Faubus” infine “Space Oddity” di David Bowie. In essi, la caratteristica che colpisce è quella di saper sorprendere con rimaneggiamenti invasivi, senza che le canzoni perdano la loro unicità. Infatti, a seguito della più classica struttura strofa-ritornello, seguono dei terzi temi aggiunti al brano e delle improvvisazioni al sax dal suono aggressivo rhythm’n’blues o gli archi con il distorsore, districando il gomitolo dei variopinti generi della musica popular. È in conclusione dell’esibizione che il gruppo riserva due pezzi da novanta che sono la matrice di un’idea di fare musica che si avvicina all’estetica del gruppo, ovvero Frank Zappa. Con gli arrangiamenti di “Cosmik Debris” e “Zomby Woof”, tutte le caratteristiche singolari del gruppo sono evidenziate e la sobrietà teatrale del frontman diventa un’esplosione di gesti e movimenti più dinamici e coinvolgenti, accompagnati da svariati salti di registro, spingendosi in acuti lontani dalle corde di un tenore, che vengono sottolineati da espedienti rumoristici degli strumentisti. Quintorigo è la dimostrazione di come “jazz” sia da anni non solo un genere, ma un multiforme modo di concepire l’approccio alla musica.

Il set successivo è stato quello del duo Bill Laurance (pianoforte) e Michael League (basso). Il progetto è una riproposizione di vari loro brani scritti ed eseguiti per altre formazioni, tra cui gli stessi Snarky Puppy. Stiamo parlando di due amici che nella musica ritrovano un’alchimia, che è sensibile dal primo ascolto. Non è un progetto artistico preciso e definito: il repertorio è costituito da brani con continui incastri ritmici tematizzati a cui seguono degli stacchi omofonici e omoritmici in stile funk, che prosegue in improvvisazioni prima dell’uno, poi dell’altro e si conclude riprendendo il tema. A questo, si aggiunge il tocco risolutivo di Laurance che, quasi scherzando, finge una cadenza finale che lascia il pubblico con l’applauso mozzato, un approccio sicuramente non convenzionale. Il duo respira in un ciclo di opposizioni: se il bassista è molto selvaggio, intuitivo ed espansivo con il suo strumento, Laurance è intellettuale, introverso e colto… una sintesi tra il nietzschiano spirito Apollineo e Dionisiaco. Se i vari brani in stile più classico, tra cui “December in New York” e “Denmark Hill” di Laurance, sono quelli in cui l’anima e il flusso del pianista vengono meglio espressi, in contrapposizione vi è l’estro di League, che scaturisce in brani dal sapore funk come “Semente” degli Snarky Puppy o “Spanish Joint” di D’Angelo. La sintesi è comunque altrove, s’insinua in brani come “Two Birds in A Stone”, un inedito scritto da League dove il bassista prende in mano l’Oud, strumento di cui è promettente novizio.
Nonostante l’esibizione sia stata prossima alla perfezione, nel destreggiarsi acrobatico dei brani c’era una schematicità ripetitiva. Laurance si adagiava spesso sulle ottave medie del pianoforte mentre League non sembrava ascoltare sempre il compagno, nei decrescendo dinamici o nei rallentando pareva inseguirlo più che accompagnarlo, asincronia che non è tuttavia pesata su tutto il concerto. Va detto, in conclusione, che la chiave di lettura dello spettacolo è forse quella di due amici che essenzialmente non ne potevano più di starsene chiusi in casa e lontani dai palchi. Si sono ritrovati e hanno mostrato il loro spirito giocoso, fatto di sguardi e sorrisi di complicità. Una gioia per gli occhi e per le orecchie.

Il giorno seguente è Alex Britti ad occupare un palco già molto caldo dal giorno precedente. Sullo schermo sul fondo sovrasta la scritta “jazz” a caratteri cubitali, ma solo alcuni brani hanno forti influssi blues e jazz. “Mi Piaci”, “Bene Così”, “Buona Fortuna” e “Immaturi” sono canzoni fortemente pop con alcune contaminazioni funk, blues e southern rock, mantenendo però uno stile rigoroso alla canzone italiana tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90. Britti sfrutta intelligentemente la sua vena profondamente blues, ma quei brevi call and response, sotto forma di stacchi con la chitarra, tra i versi e i soli pentatonici corti e in struttura sono abbastanza per parlare di blues e influenze? A mio parere no! Ma ecco il colpo di scena. La similitudine più forte per spiegare la sensazione è attraverso una partita di calcio. Un primo tempo stanco con poche palle gol e molte azioni a centro campo a cui segue un secondo tempo dove la squadra si trasforma. Dopo i primi 45′ di gioco scende in campo il trombettista Flavio Boltro. Entra nel vivo del brano, sul concludersi di “Le cose che ci uniscono”, esibendo un solo che mostra le sue indubbie qualità. Il trombettista torinese è rapido nei fraseggi, il linguaggio è molto modale, è un invito a dialogare rivolto al chitarrista, mettendo in mostra la sua anima più virtuosistica. Cambia profondamente anche lo schema dei brani: dopo un’esposizione della canzone in stile pop seguono delle lunghe sessioni di improvvisazione tra i due, tornando al ritornello come finale. Il brano “Jazz” è un fast che fa da modello a quanto illustrato, un vero e proprio rilascio delle qualità artistiche e tecniche di Britti. Il resto della band (Davide Savarese, batteria; Matteo Pezzolet, basso; Benjamin Ventura, tastiere; Cassandra De Rosa e Oumy N’Diaye, cori) è impeccabile, riescono a salire d’intensità con un accompagnamento perfetto durante i solo. Purtroppo ci sono delle note dolenti; nessuno di loro ha avuto un momento per splendere (eccezion fatta per il solo di batteria di Savarese) e, complice un pessimo mastering, le tastiere e il basso erano poco udibili. Infine, lo spazio quasi nullo dato alle coriste. La seconda parte è stata la più interessante, il picco massimo di spettacolarità è un medley acrobatico tra “Oggi Sono Io” e “7.000 Caffè”; dove tra le due canzoni possiamo sentire una versione completa del tema di “Round Midnight” e “Gasoline Blues” che fungono da ponte. La distensione musicale a chiusura si compone di tre hit per far cantare il pubblico. “La Vasca”, “Solo una volta” e “Baciami” hanno fatto alzare il pubblico dalle sedie, personalmente sarebbe stato molto più di classe concludere con il medley, ma è il pubblico a smentirmi.

La terza giornata è stata una pennellata di voci rosa. Doppio set per due cantanti molto interessanti, l’una all’opposto dell’altra per certi versi. Il primo è il duo Musica Nuda di Ferruccio Spinetti (contrabbasso) e Petra Magoni (voce). Il concerto si apre con un arrangiamento di “Eleanor Rigby” dei Beatles. La loro musica funziona molto bene, la cantante si cimenta in acrobazie vocali, salti di registro importanti, cambi di stile, dal bel canto agli espedienti rumoristici che ricordano Cathy Berberian e molto altro. Il contrabbassista ha una sensibilità compositiva raffinatissima, i brani hanno una struttura solida con tocchi fantasiosi che permettono alla Magoni di trovare spazio in slanci vocali. L’impressione generale è che insieme funzionino in maniera assoluta. La diversità di background musicale tra loro è palpabile e crea ricchezza. Spinetti, nei suoi arrangiamenti, fa percepire un’osmosi tra contaminazioni di musica classica, jazz e contemporanea. Petra, d’altro canto, ha un’esperienza come cantante e interprete vicina agli ambienti alternative pop. La qualità attoriale è quel quid che rende i loro brani diversi, unici.
Ne è un esempio “Paint it Black” dei Rolling Stones, su cui incidono un tono oscuro, amplificando i tratti del dolore intrinseco che permea tutta la canzone; oppure il finale con “Somewhere Over The Rainbow” in cui la sensazione di malinconia e speranza viene accentuata con lunghi sospiri e respiri. Nei brani originali come “Qui tra poco pioverà” e “Come si Canta una Domanda” emerge quanto l’uno debba all’altro, Spinetti offre composizioni e arrangiamenti artistici interessanti, mentre Magoni dona la sua imponente abilità ed estro.
La seconda grande voce femminile, nel set successivo, è molto composta e senza sospiri in coda alle note, con una prorompente carica di emotività. Chiara Civello a Grado è accompagnata da Marco Decimo al violoncello e dall’eclettica Rita Marcotulli al pianoforte. Il trio è inedito e fa percepire la sua estetica dal primo brano con un arrangiamento di “Lucy In The Sky With Diamond” dei Beatles. Ricchezza di riverberi e delay, accompagnati da alcuni solerti colpi di Pandero della cantante, violoncello percosso sulla cassa armonica, alternato a lunghi glissando dal registro medio all’acuto con l’archetto. Il risultato è un’atmosfera onirica e trascendentale, superiore all’originale. Si tratta tuttavia di un unicum, in quanto nei brani successivi lo stile vocale della Civello resta fedele a un’ispirazione brasiliana, in una sorta di “Saudade nostrano”; la voce è dolce e malinconica, risaltata da una scaletta fatta di ballad eleganti come “Estate” di Bruno Martino, “Travessia” di Milton Nascimento e “Anima” di Pino Daniele. Il pianismo della Marcotulli è l’altro grande protagonista del concerto: sfrutta tutte le ottave del piano in una libertà assoluta, ondeggia tra i registri in maniera ipnotica, passa dal pizzicare le corde, all’inserire oggetti metallici nella cordiera (pianoforte preparato), per poi toglierli e percuotere le corde bloccandone la risonanza con le dita. Non sta ferma sul seggiolino e a livello espressivo suscita una sensazione di moto perpetuo; oltretutto inserisce note dissonanti a commento della voce e dell’atmosfera dei brani. In sintesi, ricopre all’interno di questo trio un ruolo timbrico, ritmico, melodico, dinamico, rumoristico ed espressivo. Quello che personalmente definisco “pianismo totale”. Ciò che meglio emerge da questo trio è una forte capacità di espressione attraverso una scaletta fatta da brani lenti, eseguiti con un trasporto e sentimento unico. Punctum dolens di questo concerto, per me, la versione poco gradevole di “Bocca di Rosa” di De André, dai toni molto dark e tragici che cozza con il testo del cantautore genovese, nonostante abbia trovato coraggioso l’arrangiamento. Nel finale, tutti gli artisti dei due set sul palco, per un’esplosione di bellezza!

 

Una delle poche giornate di vaga frescura nella bella isola di Grado ci ha regalato l’esibizione del trombettista Paolo Fresu e del suo quintetto (Tino Tracanna, Sax; Roberto Cipelli, Piano; Attilio Zanchi, Contrabbasso; Ettore Fioravanti, Batteria). Ad arricchire l’ensemble, il trombone di Filippo Vignato. Il progetto riprende lo storico album del 1985, rinominato Re-Wanderlust in occasione della performance dal vivo: un fiore all’occhiello per la rassegna! Un jazz dai tratti un po’ desueti, che non sa di aceto, ma è un vino pregiato. Dal primo brano “Geremeas” si capisce la cifra stilistica, il repertorio è in continuo equilibrio tra fast e slow, come “Touch Her Soft Lips and Part” di William Walton. La sonorità è un riferimento che va dal Bebop al Modal, con accenni di Free. Le strutture sono quelle classiche del jazz ma risalta un’instancabile energia dei musicisti, che con grande vigoria aggrediscono ogni solo, esprimendo libertà. Il sestetto può essere diviso in due sezioni per ruolo, quella del trio: piano, basso, batteria e quello dei tre fiati. Questo scisma emerge soprattutto durante le improvvisazioni collettive, dove ogni fiato emette una voce ostinata e sovrappone frasi sopra altre frasi, per nulla scontate e non omoritmiche, concedendosi di oscillare sul tempo. Il risultato è piacevolmente caotico e non ti permette di concentrarti su un’unica fonte sonora, tutti gli strumenti raggiungono una loro vocalità estemporanea, a tratti indipendente a tratti contagiandosi, divenendo isole in un arcipelago, distanti ma interconnesse. La sezione trio fornisce magistralmente un tappeto solido ai fiati, impedendogli di prendere il volo e di perdersi nel loro stesso processo creativo. Molte sono le eccezionalità e finezze da mettere in luce. In “Trunca e Peltunta” il tema ricalca l’estetica melodica monkiana dell’album “Underground”. In brani soffusi come “Ballade”, si riesce a sentire la colonna d’aria uscire dai fiati e in “Favole” si percepisce molto bene come mai Fresu ami il calore del suono del flicorno, unendolo al suono del Rhodes. Con il finale,“Only Women Bleed”, queste caratteristiche del sestetto raggiungono la loro summa, la contaminazione è anche nell’approccio, specie in quei solo collettivi.

Ultima giornata con il concerto del sassofonista Francesco Cafiso e il suo quintetto “Confirmation”, (Alessandro Presti, Tromba; Andrea Pozza, Piano; Aldo Zunino, Basso; Luca Caruso, Batteria), una dedica al Bebop in tributo ai 100 anni dalla nascita del suo massimo esponente: Charlie Parker. Il primo brano è “Tricotism” di Oscar Pettiford, un inizio differente da quello che ci si poteva aspettare. Quelli che dovrebbero essere dei fast sono più lenti del previsto e gran parte del repertorio, fatta eccezione per “Repetition” e “Little Willie Leaps” di Bird, sono brani di artisti coevi dell’era bebop come “Budo” di Miles Davis e alcuni post bebop come “Little Niles” di Randy Weston. La qualità del lirismo e del fraseggio di Cafiso, assieme alla tromba con sordina di Presti, sono i due elementi più significativi. Il duo, sul fronte del palco, trasmetteva le stesse sensazioni della coppia della 52esima strada: Parker e Gillespie. Non è manierismo bebop come potrebbe sembrare, ed infatti nei solo cercano di far dialogare il linguaggio del passato con alcuni espedienti tecnici del jazz non esclusivamente bebop, come il linguaggio modale, i poliritmi e la rinuncia all’approccio armonico in favore di molteplici variazioni sul tema.
Colpisce la qualità espressa da Cafiso, le frasi dove la punteggiatura si avvicina al parlato, con idee fraseologiche articolate anche in otto battute, trovando respiro soltanto a posteriori.
Dal lato ottoni, i solo di Presti erano ricchi di ritmo e staccato a cui contrapponeva una grande ariosità del suono. Quello che è venuto a mancare da parte di tutto l’organico è l’enfasi scoppiettante tipica dei quintetti di inizio anni ’50. La risultante sonora è rattenuta, dando il sentore di una jam session in concerto, dove il classico rhythm change senza alcuna variazione è lo stilema. Fattore che emerge soprattutto da un batterismo che nell’accompagnamento e nei solo dimostra tecnica e tocco pulito, a cui si oppone una non perfetta connessione con il gruppo e un linguaggio accademico da manuale. La conclusione è una buona ma contenuta esibizione, dove a risplendere sono Cafiso e Presti.

Nel gran finale di GradoJazz by Udin&Jazz sale sul palcoscenico Stefano Bollani, che porta un progetto unico, il musical di Lloyd Webber e Rice: Jesus Christ Superstar del 1971, in variazioni per piano solo. Il primo pensiero che ho avuto è stato quello della paura del flop. Il musical è ricco di tanti stili e generi che trovo complessi da racchiudere in un piano solo annullando la varietà timbrica. Non avevo fatto i conti con l’oste, Bollani è riuscito, grazie alle sue spiccate qualità interpretative, a restituire tutti i sentimenti e le caratteristiche dei personaggi del dramma all’interno delle corde roventi dello Steinway. L’arduo compito è stato rispettato in toto. Udiamo delle variazioni sui temi di alcuni pezzi più importanti della rock opera come: “What’s the Buzz”, il trio tra il personaggio di Maria Maddalena, Gesù e Giuda, dove i pensieri di ogni protagonista hanno un’unità melodica che è stata rispettata, mentre la variazione sta nell’improvvisazione sopra di essi, che amplifica al meglio gli aspetti drammaturgici legati al personaggio. Stesso discorso vale per la romantica e triste aria di Maria Maddalena che si questiona su come manifestare il suo amore per il messia in “I don’t Know How To Love Him”. Così come il dissidio interiore di Giuda in “Damned For All Time”, quando vende Gesù ai Farisei, oppure la reazione sconcertata e confusa degli Apostoli in “The Last Supper”. Altrettanto forte, a livello immaginifico, è il turbinio di semicluster nel brano “The Temple”, che corrisponde alla scena in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio e il monologo di Ponzio Pilato in “Pilate’s Dream”. Sono molti gli espedienti musicali che ricalcano in maniera geniale le immagini del film del ’73. Oltre alle già note abilità pianistiche di Bollani è interessante notare come abbia caratterizzato al meglio i personaggi attraverso la musica. Finale da superstar tra ironia e musica, in un serrato dialogo tra il palco e la platea, chiamata a scegliere dieci brani che il pianista unisce a formare un medley.
Metaforicamente parlando, veder finire questa cinque giorni di concerti jazz è stato come entrare nel finale del film Jesus Christ Superstar: tutti gli spettatori salgono in macchina e abbandonano il Parco delle Rose di Grado, così come nel film i fedeli abbandonano l’ultimo grande spettacolo, ovvero la crocifissione, salendo sul pullman da cui sono arrivati!
Commento finale: un elogio ai fonici e al service in primis che per quanto abbiano potuto risentire del periodo di lockdown hanno tutti lavorato con serietà e professionalità, dimostrando quanto il loro compito sia il motore e l’ornamento che permette agli spettacoli dal vivo di essere “vivi”. L’esperienza globale è stata estremamente gratificante. I migliori auguri per l’edizione invernale di Udin&Jazz, annunciata sul palco dal presentatore Max De Tomassi di Radio 1 Rai (partner ufficiale del Festival) e dal direttore artistico Giancarlo Velliscig, che porterà, senz’ombra di dubbio, quel clima jazz che fa respirare a pieni polmoni nell’ecosistema della musica dal vivo.

Alessandro Fadalti

Si ringrazia l’ufficio stampa di GradoJazz by Udin&Jazz e i fotografi: Angelo Salvin, GC Peressotti e Dario Tronchin

 

“Grado Jazz by Udin&Jazz”: un festival all’insegna dell’ottimismo!

Come preannunciato nelle scorse settimane “Grado Jazz by Udin&Jazz” sarà uno dei pochi festival jazz che avranno luogo nel corso di questa travagliata estate 2020. L’occasione è particolare in quanto si festeggia il trentennale di una manifestazione che ha saputo conquistarsi un posto di rilievo nel pur variegato panorama delle manifestazioni jazzistiche grazie alla costante ricerca di una precisa identità declinata attraverso due precise direttive: musica di alta qualità e grande spazio alle eccellenze locali.

Il festival si terrà dal 28 luglio al primo agosto, nel massimo rispetto delle norme anti-Covid, in compagnia di alcune stelle italiane e un’incursione internazionale d’avanguardia con Michael League & Bill Laurance (Snarky Puppy).

Con questa iniziativa “Euritmica”, che organizza il Festival, vuole rispondere alla necessità, da più parti sollecitata, di considerare la cultura per quello che realmente è, vale a dire un bene necessario e vitale. Già con l’iniziativa JazzAid, Euritmica ha voluto dare un importante segnale di vicinanza agli artisti, per rinnovare anche la consapevolezza che… #JazzWillSaveUs. “Grado Jazz” si inserisce in questa logica fornendo una tangibile speranza dato che i concerti si faranno dal vivo in presenza e in sicurezza. E non ci vogliono certo molte parole per spiegare quanto tutto ciò sia costato agli organizzatori anche in termini economici (distanze, sanificazioni, provvedimenti anti assembramento).
I concerti si svolgeranno nel Parco delle Rose, allestito con uno spazioso palco e centinaia di poltroncine distanziate, con un angolo food&drinks ove si potranno gustare i prodotti enogastronomici del territorio.

Ed ora un rapido sguardo al programma.

Martedì 28 luglio apertura con due concerti. Alle 20 saranno di scena i Quintorigo, con il progetto “Between the Lines”. La serata continua alle 22 con lo straordinario duo di Michael League & Bill Laurance (contrabbasso e pianoforte), anime degli Snarky Puppy (già ascoltati a Grado nella passata edizione).

Mercoledì 29 luglio tocca ad Alex Britti in quartetto, protagonista della scena musicale italiana da molti anni con successi quali “Solo una volta”, “Settemila caffè”, “Mi piaci”.

Alex Britti

Giovedì 30 luglio il duo Musica Nuda, vale a dire Petra Magoni (voce) e Ferruccio Spinetti (contrabbasso); dopo diciassette anni di attività, 1500 concerti in tutta Europa, 11 cd, i due continuano a incantare le platee più diversificate.
Alle 22 una prima assoluta: due grandi donne del jazz italiano per la prima volta insieme, la pianista Rita Marcotulli e Chiara Civello (voce e chitarra), supportate dal violoncello di Marco Decimo.

Venerdì 31 luglio l’immagine più rappresentativa del jazz italiano e grande amico di Udin&Jazz, Paolo Fresu; il trombettista sardo porta a Grado “Re-wanderlust”, progetto composto da vecchie e nuove composizioni dello storico Quintetto, nato nel 1984 (Paolo Fresu, tromba e flicorno; Tino Tracanna, sax tenore e soprano; Roberto Cipelli, pianoforte e Fender Rhodes electric piano; Attilio Zanchi, contrabbasso; Ettore Fioravanti, batteria) cui nell’occasione si aggiunge il giovane trombonista Filippo Vignato.

Paolo Fresu 5et feat Filippo Vignato

Finale in grande stile, sabato 1 agosto con un doppio concerto: alle 20 il quintetto di Francesco Cafiso (sassofonista tra i più rappresentativi del jazz europeo) rende omaggio al genio di Charlie Parker nel centenario dalla nascita, con il progetto “Confirmation” (Francesco Cafiso, sax; Stefano Bagnoli, batteria; Alessandro Presti, tromba; Andrea Pozza, pianoforte; Aldo Zunino, contrabbasso).
A chiudere GradoJazz è il piano solo di Stefano Bollani (ore 22) con il suo nuovo progetto “Piano Variations on Jesus Christ Superstar”: una versione totalmente inedita e interamente strumentale dell’opera rock di Andrew Lloyd Webber che custodisce, come un tesoro, l’originale e che è stata registrata per ECM.

 

Gerlando Gatto