I nostri libri

Pochi giorni fa mi sono soffermato sulla necessità di scrivere in maniera chiara sì che tutti possano capire; chiarito questo concetto per me fondamentale, vi presento la nostra rubrica dedicata ai libri, sei volumi che sicuramente non “lo fanno strano”.
Buona lettura.

Serena Berneschi – “La pittrice di suoni – Vita e musica di Carmen McRae” – Pgg.362 – € 15,00

Atto d’amore verso una grande interprete: credo che questa definizione si attagli benissimo al volume in oggetto, rielaborazione della tesi di laurea in Canto jazz, conseguita dalla Berneschi nel 2018, che esamina la vita e la carriera di una delle più grandi vocalist del jazz, troppo spesso sottovalutata. L’autrice è anch’essa una musicista: cantante, compositrice, arrangiatrice, autrice di testi e attrice di musical e teatro, oltre che insegnante di musica e canto, vanta già una buona esperienza professionale. Insomma ha tutte le carte in regola per scrivere un lavoro che cattura l’attenzione del lettore, non necessariamente appassionato di jazz.
In effetti la Berneschi traccia un quadro esaustivo della personalità di Carmen McRae (Harlem, 8 aprile 1920 – Beverly Hills, 10 novembre 1994), vista non solo come musicista ma anche come donna. Di qui tutta una serie di suggestioni che inquadrano perfettamente la figura dell’artista e ci fanno capire perché sia a ben ragione considerata una delle figure fondamentali della musica jazz, capace di lasciare un’impronta indelebile nella storia della musica americana…e non solo.
Il volume è suddiviso in quattro parti: La vita – La musica – Woman Talk – La discografia, tutte molto ben curate. In particolare la biografia è dettagliata, e la vita artistica della McRae ricostruita in modo tale da far risaltare le capacità dell’artista particolarmente rilevanti nell’interpretazione dei testi, suo vero e proprio cavallo di battaglia. Nella seconda parte la Berneschi si addentra in un’analisi dello stile interpretativo della McRae che prendendo le mosse dalla grande Billie Holiday se ne distaccò per esprimersi secondo stilemi assolutamente personali. La terza sezione del libro, contiene estratti di varie interviste, cui fa seguito, nella quarta sezione una discografia, suddivisa per decenni, dagli anni Cinquanta ai Novanta. Il volume è corredato da un glossario dei termini musicali e jazzistici più ricorrenti e dei brevi cenni sulla storia del jazz. Ecco francamente di questi “brevi cenni” non si sentiva assolutamente la necessità dato che sono troppo brevi per risultare interessanti a chi nulla sa di jazz, e di converso assolutamente inutili per chi questa musica segue e apprezza.

Flavio Caprera – “Franco D’Andrea un ritratto” – EDT – Pgg. 209 – € 20,00

Franco D’Andrea si è oramai ritagliato un posto tutto suo nella storia del jazz, non solo italiano. Artista poliedrico, sempre alla ricerca di qualcosa che potesse meglio esprimere il proprio io, D’Andrea coniuga la sua straordinaria arte musicale con una personalità umana davvero straordinaria. Lo conosco oramai da tanti anni e non c’è stata una sola volta, e sottolineo una sola volta, in cui D’Andrea non abbia risposto alle mie sollecitazioni, di persona o per telefono, con la massima cortesia e disponibilità, mai dando per certezze le sue opinioni, aprendosi così ad un confronto serrato ma costruttivo,
E’ quindi con gioia che vi segnalo questo volume scritto da Flavio Caprera per i tipi della EDT, una casa editrice che si va sempre più caratterizzando per la produzione di volumi interessanti.
Devo confessare che quando leggo una biografia così accurata, in cui le varie tappe artistiche vengono seguite con precisione come se l’autore fosse stato sempre accanto al musicista, avverto un po’ d’invidia. Questo perché sono oramai tre anni che cerco di scrivere una biografia di Gonzalo Rubalcaba e non ci riesco perché sono troppi i tasselli che mancano alla costruzione del disegno complessivo.
Ma torniamo al volume di Caprera che, come avrete capito, è in grado di seguire passo dopo passo la vita artistica di D’Andrea da quando giovane si innamora di Louis Armstrong e degli strumenti a fiato, fino al 2019 quando incide “New Things”.
Sorretto da un periodare semplice ma non banale, l’autore ci accompagna quindi alla scoperta di una carriera davvero formidabile mettendo sempre in primo piano le motivazioni artistiche che hanno portato D’Andrea a scegliere alcune strade piuttosto che altre. E lo fa ricorrendo sovente a dichiarazioni dello stesso musicista, riportate in virgolettato; il tutto corredato da valutazioni sui dischi più significativi della carriera artistica del pianista. Il volume è corredato da una preziosa prefazione di Enrico Rava, da una discografia ragionata, da un’accurata bibliografia e da un sempre utilissimo indice dei nomi.
Insomma un volume che si raccomanda alla lettura di quanti ascoltano la buona musica. Personalmente, pur avendo apprezzato in toto il libro (come si evince facilmente da quanto sin qui scritto), mi sarebbe piaciuto avere qualche notizia in più sull’uomo D’Andrea, sulle sue sensazioni, emozioni anche al di fuori della musica.

Amedeo Furfaro – “Il giro del jazz in 80 dischi (‘20)” – Pgg.121 €10,00

Dopo i primi volumi su cui ci siamo già soffermati, eccoci alla quinta tappa della serie “Il giro del jazz in 80 dischi” con sottotitolo “’20” riferita cioè al ventennio appena chiuso e delimitato dall’ assalto alle Torri Gemelle e dalla pandemia. Per il jazz italiano, il ciclo, nonostante le gravi evenienze che hanno interessato il globo nella sua interezza, è stato comunque prodigo di novità discografiche da cui l’Autore ha potuto decifrare lo stato di salute di questo genere di musica nel nostro paese. Stato di salute che tutto sommato potremmo definire buono, frutto di contaminazioni ma comunque ricco di contrasti come nell’arte e nella moda contemporanee che vivono per altro verso una fase di assenza di idee forti ed indicazioni dominanti.
Anche in questo lavoro gli album rappresentano la traccia seguita per individuare come solisti e gruppi, label e operatori del mondo jazz, abbiano continuato anche in pieno lockdown a muoversi in un ambito, in particolare quello dello spettacolo dal vivo, che è stato fra i più penalizzati dalle recenti restrizioni. Nello specifico Furfaro ha recensito nuove proposte e maestri acclarati e riconosciuti dando luogo ad una sorta di inchiesta in cinque puntate, di cui questa rappresenta l’ultima, in cui ha analizzato spesso con vis critica quello che i nostri jazzisti sono andati esprimendo in questo inizio millennio.
Ecco, quindi, comparire accanto a musicisti celebrati quali Stefano Bollani, Stefano Battaglia, Ermanno Maria Signorelli, Maurizio Brunod, Dino Piana, Maurizio Giammarco (tanto per fare qualche esempio), i nomi di artisti che devono ancora farsi conoscere come Emanuele Primavera, Bruno Aloise, Valentina Nicoletta…e molti, molti altri.
Il libro si chiude con l’indicazione di 10 dischi da incorniciare (particolarmente condivisibile la scelta di “Ciak” firmato da Renzo Ruggieri e Mauro De Federicis), l’indice dei musicisti, quello delle label e gli indici di tutti gli album citati nelle quattro precedenti “puntate” di questo “giro del jazzz”
In buona sostanza, quindi, non un repertorio o un dizionario in 5 tomi bensì una fotografia per molti versi indicativa e realistica di cosa va succedendo in Italia a livello jazzistico attraverso la messa a confronto di tutta una serie di dischi. La risultante è un panorama di indubbia vitalità ed effervescenza in cui il ricambio generazionale funziona a pieno ritmo.
Un motivo in più per rafforzare ed incoraggiare questo “giacimento artistico” di cui l’Italia può andare ben fiera.

Valerio Marchi – “John Coltrane – Un amore supremo – Musica fra terra e cielo” – Kappa Vu – Pgg.80 – € 11,00

Un volumetto snello, agile, solo ottanta pagine, ma quanta devozione, quanto amore trasudano da questo scritto verso uno dei musicisti in assoluto più, importante del secolo scorso. L’autore è personaggio ben noto specie in Friuli: storico, scrittore e giornalista, ha pubblicato una decina di libri e numerosi saggi e articoli di argomento storico, collabora con le pagine culturali del Messaggero Veneto e da qualche anno scrive testi teatrali e organizza spettacoli, salendo anche sul palco. Ultimamente ha curato due racconti sceneggiati per Radio Rai del Fvg. In effetti la storia di Coltrane, così come sintetizzata da Marchi, ha costituito l’ossatura di uno spettacolo andato in onda di recente al Teatro Pasolini di Cervignano, nel cartellone della stagione musicale del Teatro, a cura di Euritmica e in replica a Udine, al Teatro Palamostre, nel programma di Udin&Jazz Winter. La drammaturgia è firmata, quindi, da Valerio Marchi e lo spettacolo ha preso forma grazie alla volontà di Euritmica e all’apporto di jazzisti straordinari quali il sassofonista Francesco Bearzatti, il batterista Luca Colussi e il pianista Gianpaolo Rinaldi. Le voci recitanti sono state quelle dello stesso Marchi e dell’attrice Nicoletta Oscuro. Marchi e Oscuro, accompagnati dalla musica del Bearzatti-Colussi-Rinaldi Trio, hanno messo in scena una performance multimediale per narrare la complessa parabola umana ed artistica del grande sassofonista del North Carolina, che giunto alla fine dei suoi giorni, è forse riuscito a trovare quel ponte ideale che lega la musica a Dio, un cammino ancora non del tutto esplorato e su cui Coltrane ha praticamente speso tutta la sua vita di ricerca. Questo particolare aspetto della poetica di Coltrane traspare chiaramente dal libro in oggetto non solo nella parte biografica ma soprattutto nella seconda parte in cui l’autore immagina di intervistare Coltrane traendo le sue riposte da interviste e dichiarazioni effettivamente rilasciate dal sassofonista. Il libro è completato da una serie di interessanti suggerimenti bibliografici.

Massarutto, Squaz – “Mingus” – Coconino Press Fandango – Pgg.154 – € 20,00

Bella accoppiata, questa, tra il giornalista Flavio Massarutto e il disegnatore Squaz. Argomento della loro indagine la vita e la musica di Charles Mingus; contrabbassista e pianista, compositore e band leader, Charles Mingus è a ben ragione considerato uno dei più grandi musicisti della storia del jazz, un talento naturale straordinario in un uomo dal carattere ribelle che spese la sua vita in una instancabile lotta contro la società americana così fortemente caratterizzata da un razzismo ancora oggi ben presente. Mingus nacque il 22 aprile del 1922 e quindi in vista del centenario della sua nascita, Massarutto e Squaz presentano una biografia a fumetti che tratta la vita dell’artista. Come sottolinea, però, lo stesso Massarutto nella postfazione “un fumetto non è un saggio. Un fumetto è un’opera narrativa Questo libro perciò non è il racconto illustrato della vita di Mingus. Qui ci sono frammenti di una esistenza raccontati pescando da sue interviste e scritti, da testimonianze, da fatti storici. E rielaborati in forma visionaria”.
La strada scelta è infatti quella di procedere per episodi impaginati come una successione di brani che vanno a formare una suite musicale: dagli esordi nella Los Angeles degli anni Quaranta fino alla scomparsa in Messico. Si parte così con “Eclipse” registrato da Mingus al Plaza Sound Studios, NYC, il 25 maggio 1960 e si chiude con “Sophisticated Lady” con esplicito riferimento all’episodio avvenuto a Yale nell’ottobre del 1972; era stato organizzato un concerto in onore di Duke Ellington e al concerto che faceva parte del programma Mingus era sul palco quando nel bel mezzo della musica un capitano della polizia arrivò nel retropalco per avvisare che era stata annunciata la presenza di una bomba. Tutti uscirono dalla sala a parte Mingus che continuò a suonare il suo contrabbasso da solo sul palco. Quando la polizia cercò di convincerlo a uscire come tutti gli altri lui rispose: «Io resto qui! Un giorno o l’altro devo morire, e non c’è un momento migliore di questo. Il razzismo ha messo la bomba, ma i razzisti non sono abbastanza forti da uccidere questa musica. Se devo morire sono pronto, ma me ne andrò suonando “Sophisticated Lady””. E così continuò a suonare da solo per venti minuti finché non fu annunciato il cessato allarme e il concerto riprese.
Insomma un libro che farà felice non solo quanti amano il jazz e i fumetti.

Marco Restucci – “Temporale Jazz” – arcana – Pgg.213 – € 16,50

Può un filosofo scrivere adeguatamente di jazz? E, viceversa, può un musicista jazz essere contemporaneamente un filosofo? La risposta ce la fornisce proprio Marco Restucci; laureato in filosofia, pubblicista e musicista si è occupato per anni di critica musicale,  mentre in ambito filosofico si occupa soprattutto di estetica, in particolare della dimensione sonora del pensiero. In questo libro affronta uno dei temi più affascinanti e controversi che da sempre animano il dibattitto sulla musica jazz: l’improvvisazione. Cos’è l’improvvisazione, come nasce, come si sviluppa, attraverso quali passaggi? Sono questi gli interrogativi, certo non semplici, cui Restucci fornisce risposte. Esaurienti? Onestamente credo proprio di sì in quanto l’Autore non si perde dietro inutili e fumose congetture, ma traccia un preciso percorso al cui interno possiamo davvero seguire nota dopo nota, passo dopo passo come il musicista improvvisa, come si rapporta con l’ascoltatore, come riesce a smuovere in chi ascolta sentimenti profondi, vivi, spesso in netto contrasto tra loro. Come si nota è materia davvero affascinante cui credo ognuno di noi avrà cercato, almeno una volta, di rivolgere la propria attenzione alla ricerca di risposte agli interrogativi di cui sopra. Per svelare l’arcano, l’Autore insiste prevalentemente sul concetto di “tempo”, con tutte le sue sfumature, quale componente essenziale della musica e della vita: il “tempo” viene declinato in esempi concreti, calato nella quotidianità: “percezione e tempo sono, infatti, i luoghi dell’improvvisazione – dimensioni estetiche in cui si muovono contemporaneamente musicista e spettatore – ma sono anche dimensioni dell’essere, forme di ciò che siamo, modi del nostro stare al mondo”. In effetti, scrive Restucci, “L’avventura sonora nel jazz deve sempre ancora accadere. Nessun jazzista verrà mai a raccontarci qualcosa di cui conosce già l’esistenza, qualcosa che esiste prima di esistere. E noi saremo lì, in quel tempo misterioso mentre accadrà, ne saremo parte, e qualora i suoni non dovessero riuscire completamente nel compito a loro più congeniale, quello di suonare risuonando dentro di noi, qualora non dovessimo sentirci protagonisti al pari dei musicisti, vivremmo l’avventura quantomeno da testimoni reali, presenti sulla scena del tempo, durante, mentre si spalanca davanti ai nostri occhi, mentre si forma dentro i nostri timpani”. Ecco questo è solo un piccolo assaggio di ciò che si può trovare all’interno di un libro che va letto, assaporato pagina dopo pagina anche da chi non si intende particolarmente di jazz. Anzi forse questi ultimi cominceranno ad apprezzare questa musica proprio per i contenuti veicolati da Restucci.

Riccardo Crimi: il fotografo AFIJ del mese di marzo – la gallery e l’intervista

Riparte, dopo una piccola pausa, la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz, che inizia il nuovo anno con un efficace restyling del sito web e l’inserimento dei soci Paolo Piga, Gabriele Lugli, Giuseppe Cardoni, Marco Floris, Luciano Rossetti e Riccardo Crimi tra i 30 finalisti del prestigioso Jazz World Photo, edizione 2021.
Ed è proprio quest’ultimo, Riccardo Crimi, il fotografo che abbiamo intervistato questo mese e al quale è dedicata la nuova gallery.

Riccardo Crimi

Crimi nasce in Sicilia nel 1956, ma risiede a Formia in provincia di Latina dal 1975. Si occupa di fotografia di spettacolo e di musica jazz in particolare. Collabora con diversi magazine di settore tra cui Jazzit, Musica Jazz, oltre ad alcuni web magazine. Le sue foto sono state utilizzate per diverse copertine di cd, tra cui quelle per il doppio di Paolo Fresu per EMI, Gaetano Partipilo & Urban Society, Michael Blake, Pietropaoli. Da diversi anni si occupa di corsi di fotografia, sia di gruppo sia individuali, oltre a tenere diversi workshop di fotografia musicale. Accreditato nei più importanti festival di musica jazz come Umbria Jazz nelle due date, estiva e invernale, Young Jazz e Auditorium Parco della Musica. Socio fondatore dell’AFIJ. (Marina Tuni)

Scorrendo le tue note biografiche e curiosando sul web sono rimasta davvero impressionata di quanto tu, a differenza di altri fotografi, abbia dedicato la tua intera carriera professionale quasi unicamente alla fotografia di spettacolo, al jazz in particolare. Vorresti spiegarci da che cosa scaturisce la tua scelta, partendo magari dal raccontarci come ti sei avvicinato all’arte fotografica?
«Come molti mi sono avvicinato alla fotografia da piccolo, ricordo che agli inizi fotografavo di tutto, formiche, sassi… tutto quello che stuzzicava la mia fantasia! Crescendo ho iniziato a “selezionare” i soggetti, torturando amici e parenti. Nei primi degli anni ottanta entro in una agenzia fotografica e nell’82 vengo accreditato ai concerti dei Rolling Stones e di Frank Zappa, quindi il mio primo Umbria Jazz nel 1985; lì nasce la passione pura di fotografare la musica e gli artisti che ami… che volere di più dalla vita? Poi, come spesso succede, diventa difficile conciliare lavoro e famiglia e decido di abbandonare per poi riprendere nei primi anni del 2000. Da allora non mi sono più fermato».

Osservando i tuoi scatti ho potuto cogliere aspetti peculiari della personalità di alcuni artisti, che solo ascoltando la loro musica non ero riuscita a scoprire; evidentemente riesci a creare con l’artista che stai fotografando un’interazione naturale che va oltre la superficie. Non credo basti soltanto saperli mettere a loro agio… Come entri nel mondo dei musicisti che ritrai, tirando fuori il meglio di essi – o anche il peggio, a volte?
«Penso che sia una questione di “rispetto”. Il musicista capisce che lo rispetto prima come persona poi come musicista e forse per questo nasce quella giusta alchimia che mi permette di entrare nel suo mondo intimo di “personamusicista“, dove la prima non annulla la seconda e viceversa, e come in tutti gli esseri umani convive il meglio e il peggio ed è giusto conoscere e rispettare le due facce».

-Tempo fa lessi un romanzo di Thomas Bernhard, “Estinzione”, e rimasi colpita da questa frase: «Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra». Beh, è notorio che Bernhard è un maestro dell’arte dell’esagerazione… tuttavia, queste parole sono uno spunto per dire che nell’epoca in cui tutti fotografano tutto, non è così scontato che la logica meritocratica, in qualsiasi ambito professionistico, sia sempre riconosciuta. Qual è il tuo pensiero a questo proposito?
«La fotografia, come l’arte in genere, è lo specchio della società in cui viviamo ed è giusto che sia così… poi, va anche detto che viviamo in una società che di meritocratico non ha nulla…».

Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Sicuramente si, anche se per un fotografo è diverso, ovvero non deve analizzare e riportare come un musicista ha  suonato ma quello che ha profuso sul palco: passione, amore, sofferenza e, soprattutto, se tutto questo è arrivato al pubblico».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni.. anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Più che la musica che suona, per me influisce molto quanto il musicista sul palco sia “personamusicista” – come dicevo prima – cioè quanto si da al pubblico».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Quella che ancora non ho scattato e sta li ad aspettarmi.
In effetti la foto di cui vado più orgoglioso non è stata fatta da me, ma a me da Art Blakey  ad UJ nell’85!»

Marina Tuni

Giuseppe Cardoni: il fotografo AFIJ del mese di ottobre – la gallery e l’intervista

Continua la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz (qui il link alle gallery della rubrica) e il mese di ottobre ci porta in Umbria a conoscere Giuseppe Cardoni.

Giuseppe Cardoni

Ingegnere, dirigente d’azienda, negli anni Settanta si avvicina alla fotografia che, da quel che vedo, è per lui un processo che fa affiorare l’essenza della “cosa sensibile”, l’eidos dell’essere umano; le sue immagini, infatti, non perseguono criteri puramente estetici ma sprigionano emozioni profonde, che rimangono fissate nella mente di chi le guarda.
Cardoni di generi ne percorre molti: dal ritratto alla fotografia sportiva, dalla fotografia di musica e spettacolo al reportage, con una spiccata predilezione per il B/N. Ha fatto parte del Gruppo Fotografico Leica e frequentato Maestri della fotografia italiana quali Gianni Berengo Gardin – che, parlando dell’iconicità della Leica ha detto: “che c’entri qualcosa il mito è indubbio, ma è un amore di gioventù ed è rimasto tale” – Piergiorgio Branzi, Mario Lasalandra. È coautore, con il giornalista RAI, Luca Cardinalini, del libro fotografico “STTL La terra di sia lieve” (Ed. DeriveApprodi,Roma, 2006); insieme a Luigi Loretoni  nel 2008 ha pubblicato il fotolibro “Miserere”,  nel 2011 “Gubbio, I Ceri” e nel 2014 “Kovilj” (tutti Ed. L’Arte Grafica). Sempre nel 2014 ha pubblicato “Boxing Notes” (Edizionibam) reportage sul mondo della boxe. Si è dedicato per alcuni anni alla fotografia di eventi musicali, è coautore del libro “I colori del Jazz”(Federico Motta Editore, 2010) e nel 2019  ha pubblicato il libro fotografico “Jazz Notes” (BAM Stampa Fine Art by A. Manta). Nel 2020 ha pubblicato “Vita e Morte – Rapsodia Messicana”. Ha esposto i propri lavori in numerose mostre sia personali che collettive in Italia e all’estero e ha vinto (o è arrivato in finale) numerosi concorsi nazionali e internazionali; negli ultimi quattro anni ha conseguito questi importanti risultati in più di settanta contest. (MT)

Un paio d’anni fa, leggendo il libro di Helena Janeczek “La ragazza con la Leica” (premio Strega 2018), mi sono appassionata alla storia di Gerda Taro, tra le prime donne-reporter di guerra, morta a 26 anni sotto i cingoli di un carro armato durante la guerra civile spagnola. Sono rimasta affascinata dalla sua personalità rivoluzionaria ma anche dal fatto che, insieme al suo compagno Endre Friedmann, “costruì” la figura del leggendario fotografo Robert Capa. Le foto più belle di quell’epoca, e non solo di quella… erano scattate con l’altrettanto leggendaria Leica, che anche tu usi. Ci racconti com’è iniziato il tuo amore per questa particolare macchina fotografica?
«La scelta e poi la completa adozione è dipesa direttamente dal genere di fotografia che mi interessa maggiormente cioè il reportage, o meglio, raccontare delle storie. Quando ancora utilizzavo una reflex (a pellicola, il digitale non era ancora arrivato) fotografando insieme ad un amico che utilizzava Leica M (telemetro) mi sono reso conto dei vantaggi di discrezione e prontezza dovute alla silenziosità dell’otturatore, alle piccole dimensioni e alla visione “in diretta” grazie al mirino a telemetro che evita l’attimo cieco del movimento di sollevamento dello specchio. L’elevata qualità delle ottiche contribuì a rafforzare la scelta. Nel mio caso, la scelta dello “strumento” fu essenzialmente tecnica e indipendente da fascinazioni mitiche. Essendo interessato “all’istantanea” e meno alla fotografia “in posa” questo mezzo mi consentiva maggiormente di essere meno notato e di non “perturbare la scena”(credo che queste siano le motivazioni che hanno spinto negli anni tantissimi grandi fotografi interessati alla fotografia umanistica a fare questa scelta). Di fondo comunque sono convinto che come per uno scrittore non importa se scrive con una matita, una penna, una macchina da scrivere o un computer così anche per un fotografo, essendo la fotografia un linguaggio, quello che conta sono i contenuti, ciò che si ha da dire e come si dice, piuttosto che lo strumento utilizzato».

Altra cosa che mi ha incuriosito molto, approfondendo le tue note biografiche, sono i tuoi splendidi reportage (divenuti in seguito libri) in Italia e in Messico, rigorosamente in B/N, una sorta di viaggio iconografico nell’Ars Moriendi.
“Ars Moriendi” è anche il titolo di alcuni testi, scritti a seguito della pandemia di peste nera che si abbatté sull’Europa dal 1347al 1353, che portò non solo sofferenza e morte ma anche rivolte popolari. Al di là delle impressionanti analogie con il periodo che stiamo vivendo a causa del Coronavirus, ti devo confessare un’altra consonanza: nel mio peregrinare per il mondo non c’è stato viaggio in cui io non abbia visitato i cimiteri più importanti, da New Orleans a Parigi, da Roma al Tennessee, ma anche quelli minuscoli, nelle Pievi della mia amata Carnia. Lo diceva Foscolo, ma ci credo anch’io, che la civiltà dei popoli si misura attraverso il culto dei morti. Hai piacere di raccontarci che cosa ti spinge ad interrogarti, soprattutto mediante le immagini che catturi, su una questione imprescindibile come la morte, materia culturale e antropologica?
«Mi hai fatto una domanda da niente…! Sarei tentato di cavarmela rispondendoti sinteticamente: perché mi sento vivo e amo la vita! Oppure…”perché come ci insegna proprio la cultura Messicana il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano fino a coincidere”.
Tentando di argomentare, facendomi aiutare da Freud,  credo che la contrapposizione e l’interazione tra Eros e Thanatos  (eros come pulsione energetica e vitale piuttosto che come libido) ci riguardi tutti. Tutti desideriamo la felicità, ma i limiti imposti dalla natura e dalla società spesso ci rendono difficile raggiungere la meta. Ritengo che questa lotta continua (tra gli istinti di vita e la consapevolezza della morte) insieme alle situazioni in cui viviamo contribuisca a determinare i nostri stati d’animo e i nostri sentimenti. Ed è proprio questo, nei pochi casi in cui mi riesce, che con il linguaggio fotografico mi interessa raccontare: emozioni, sentimenti».

-Tu sei anche un bravissimo fotografo di jazz, ho letto di te una magnifica definizione: “la sua Leica si muove improvvisando come uno strumento musicale”. Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Non sento una responsabilità istantanea, specifica “nel momento dello scatto”. Sento una grandissima responsabilità “di fondo” nel mio approccio alla fotografia nel rispetto delle persone che incontro e magari fotografo e nell’onestà del non mistificare o travisare le realtà che viviamo o che osserviamo diventandone interpreti o testimoni. Ma credo che questo si possa estendere per ogni nostra attività».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Sono interessato a realizzare fotografie con una forte connotazione personale, che correlino la mia interiorità con la realtà che ho di fronte o sto vivendo. Quindi la musica può essere importante, come possono essere anche importanti altri “segnali” quali un atteggiamento, uno sguardo, una luce particolare, un espressione, un gesto, in altri termini, ciò che riesce a provocarmi un emozione o un interesse».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Sono orgoglioso soprattutto del mio impegno per questa disciplina che pur non essendo la mia professione mi ha aiutato e mi aiuta a vivere più intensamente.
Premettendo che di scatti veramente “buoni” non ne ho fatti molti, nei lavori o tematiche trattate ho qualche fotografia che preferisco rispetto alle altre o magari ricordo con piacere quelle che hanno vinto importanti premi internazionali ma la mia vera scommessa è di riuscire a realizzare fotografie o meglio ancora racconti fotografici che mi sopravvivano in modo da segnare un futuribile punto a favore nella dialettica esistenziale di cui abbiamo parlato precedentemente».

Marina Tuni

Il Jazz Italiano in Epoca Covid di Gerlando Gatto: la recensione di Fabio Ciminiera Jazz Convention

Ancora una recensione per il nuovo libro del nostro direttore Gerlando Gatto “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” (clicca sul titolo per acquistarlo online).
A scriverne è il giornalista e critico musicale Fabio Ciminiera, sul suo portale Jazz Convention.
Un sentito grazie per le belle parole:
“Un instant book a cuore aperto per un momento storico stralunato, in generale, e molto sofferto da parte delle persone che vivono e lavorano di musica nel mondo. Gerlando Gatto ha pubblicato una serie di interviste su A Proposito di Jazz durante i mesi più feroci della pandemia, quelli caratterizzati dal lockdown della scorsa primavera. Una vera e propria fotografia istantanea di una scena alle prese con problemi nuovi, problemi che si vanno ad aggiungere a quelli atavici della scena jazz analizzati tante volte. Allo stesso tempo, ribaltando l’ordine dei fattori, le tante interviste ai jazzisti offrono una prospettiva particolare di una questione che tocca – e in modo profondo – tutto il pianeta e le diverse categorie di persone.”

MT / Redazione

I NOSTRI LIBRI

Alberto Treccani Chinelli – “Le lontane origini del blues e del jazz” – arcana – pgg.128 – € 14,00
Alberto Treccani Chinelli, ex dirigente d’azienda, appassionato di filosofia, storia delle religioni, cinema e musica jazz, ci presenta un volumetto agile, scritto in maniera semplice ma che affronta un argomento quanto mai serio e meritevole di ulteriori approfondimenti: come nascono il blues e il jazz? Quali le loro lontane origini?
L’autore parte da lontano risalendo fino al XV secolo, quando si verificarono eventi straordinari che apportarono enormi trasformazioni negli equilibri mondiali. Ci si intende riferire soprattutto all’epopea della grandi esplorazioni geografiche che indussero inevitabili conflitti tra le grandi potenze marinare europee: Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Inghilterra. Nel corso di questi anni cadono antichissime civiltà, sorgono nuovi imperi e entrano in contatto popolazioni che mai si erano conosciute; si arriva così a quella sorta di paradosso per cui nei primissimi anni del XVII secolo mentre milioni di disperati lasciano l’Europa alla ricerca di una vita migliore nel Nuovo Continente, masse di africani vi sono deportati proditoriamente come schiavi. Ecco, secondo l’autore è proprio dal contatto tra gli schiavi provenienti dall’Africa, gli immigrati europei e i nativi del Nord America si ritrovano le lontane origini del blues e del jazz. Di qui un’analisi dapprima del blues – rurale, urbano e jazzistico – con brevi biografie degli artisti più rappresentativi, quindi del jazz delle origini. L’opera, presentata con un’inedita fotografia d’epoca (risalente al 1956), si conclude con una breve discografia consigliata e una sempre utile bibliografia. Intendiamoci: nulla di particolarmente nuovo per cui la lettura del libro è consigliata soprattutto a chi si avvicina al mondo del jazz conoscendone poco o nulla. Insomma un primo passo, importante, verso un mondo che più si scopre e più affascina.

Amedeo Furfaro – “Aria d’opera” – “The Writer” – pgg.152 – €12,00
Con “Aria d’opera” Amedeo Furfaro si occupa di una tematica come il teatro musicale che in questa fase è particolarmente danneggiato dalla riduzione delle attività artistiche dovuta all’emergenza sanitaria in atto. Il lavoro si presenta come un viaggio a tappe fra opera, operetta e commedia musicale in cui si ricostruisce un ideale palcoscenico dove si alternano operisti come Vinci, Verdi, Bizet, Leoncavallo, Puccini, cantanti come il Farinelli, Enrico Caruso, Maria Callas, si narrano aneddoti e chicche storiografiche. Originale appare l’impianto del capitolo sulla Black Opera in cui viene stilato un “repertorio” di diritto penale setacciando gli illeciti ed i reati che si ritrovano in tanti contesti melodrammatici “noir”. Quello della lirica è un mondo a sé stante in cui le azioni penalmente rilevanti avvengono a prescindere dalle sanzioni e dal sistema punitivo previsto dalla legge positiva. Singolare, nel saggio in questione, la classificazione delle opere trattate utilizzando categorie dei codici penali, fino a sconfinare nei casi di mass murderer, serial killer e in genere pluriomicidari. Un melodramma come antenato del moderno thriller è quindi la tesi che trapela da queste pagine in cui la musica e il diritto penale si ritrovano quanto vicini. A livello biografico nel volume viene riscoperta la figura di Alberto Bimboni, l’operista autore in U.S.A, di Winona, prima “all indian opera” nel novecento. Ed è pure una prospettiva inedita quella che offre il successivo capitolo interamente dedicato ai rapporti fra lirica e jazz. Alcuni sono già apparsi su questo spazio. Nell’insieme tale parte del libro, che è quella che al nostro lettore si presume interessi di più, fornisce una chiave di lettura e di approfondimento dei reali legami che fra i due generi musicali sono sempre esistiti, da quando Al Jolson e Vincent Rose “prelevarono” dalla “Tosca” di Puccini subendo una coda giudiziaria, Glenn Miller si rifece a “Il Trovatore” di Verdi, Barney Kessell alla “Carmen” di Bizet e via dicendo. Una casistica estremamente varia in cui è il jazz ad ispirarsi all’opera e non il contrario e che arriva fino ai giorni nostri, ai tanti jazzisti, molti dei quali italiani, che hanno rielaborato arie operistiche travestitesi in standards.

Amedeo Furfaro – “Il giro del jazz in 80 dischi (Maps of Italy)” -The Writer, pgg.132 €10,00
Che sta succedendo nel jazz italiano in questo primo ventennio del nuovo secolo?
Se l’è chiesto Amedeo Furfaro in una quaterna di volumi dal titolo “Il giro del jazz in 80 dischi” con il dichiarato scopo di setacciare, attraverso alcuni album editati in questi quattro lustri, lo stato di salute della musica jazz di casa nostra e nel contempo inquadrarne le maggiori tendenze stilistiche, sia ortodosse che innovatrici che da “terza via”, la persistenza di grandi maestri accanto a nuovi talenti, la situazione del mercato discografico con un occhio anche al panorama del jazz nazionale a livello di concerti, didattica, critica musicale, rapporti con le altre discipline artistiche. Il quarto volume della serie, dal sottotitolo “Maps of Italy”, sottopone all’attenzione del lettore ancora 80 dischi scelti fra quelli usciti in questi ultimi tre anni. Tale raccolta di recensioni e segnalazioni discografiche tuttavia, a differenza delle precedenti in cui la preoccupazione era di riempire una sorta di “Arca di Noè” jazzistica popolata da album “da salvare” da un ascolto “mordi e fuggi” e da un consumo slegato dal contesto, assume più il sapore di un’inchiesta fra il giornalistico-divulgativo e il socio-statistico tant’è che si avvale anche di grafici per rappresentare graficamente la situazione presa ad esame. Alcuni, come “La piramide della musica” – in cui appaiono, accanto ai grandi autori classici, anche i vari Gaslini, Gershwin, Ellington, Davis, Armstrong, Sousa, Joplin …. – hanno più che altro lo scopo di reinquadrare storicamente la storia della musica inserendo a pieno titolo i grandi jazzisti. Anche “L’albero del jazz italiano nel 900” esprime il fine di delineare visivamente le radici della musica afroamericana nel nostro paese quale implicito invito a non metter da parte il passato nel guardare al presente per meglio scrutare il futuro.
Il centro del volume sta, comunque, nei “consigli per l’ascolto” di solisti, gruppi, ensembles “tracciati” su cd che, in tale visione d’assieme, danno un’idea di un jazz quanto mai vivo e vegeto, sicuramente vario nell’offerta artistica e produttiva.
Quest’ultimo punto, quello delle label, viene messo in luce in più occasioni dall’Autore che ha inteso sottolineare il lato manageriale di un prodotto discografico che resta “approdo sicuro per gli appassionati”. Il compact, rispetto ad internet, crea meno “distanziamento”, sempre secondo Furfaro che confessa feticisticamente: “toccarlo con mano è importante, lo è guardare la grafica interna ed esterna, leggere le note di presentazione quando ci sono o le parole del musicista qualora lo stesso le abbia scritte. Ed ascoltarlo, naturalmente.”

Guido Michelone – “Il jazz e le idee” – arcana – pgg.297 – €22,00
Oramai da anni lo studioso vercellese, sta dedicando al jazz un’intensa attività di ricerca, didattica, divulgazione, continuando a narrare gli innumerevoli rapporti che questa musica intreccia con il sapere umano: dopo Il jazz e i film e Il jazz e le arti, ora Il jazz e le idee. Ma qual è l’assunto da cui muove l’autore per questo nuovo libro? Dal fatto che il jazz va visto e analizzato dai più diversi punti di vista, sotto differenti sfaccettature, tra idee e riflessioni, scovando il jazz negli anfratti delle scienze umane. Insomma il jazz come insieme di esperienze, informazioni, letture, immaginazioni e soprattutto come enciclopedia, biblioteca, inventario di oggetti, campionario di stili da rimescolare e riordinare in continuazione. Ma in che modo compiere questa analisi? Secondo Michelone individuando alcune linee guida che vengono esplicitate nella premessa al volume: la musica, la divulgazione, le altre arti, la politica, la fede, le scienze sociali, gli affetti, il tempio libero, la sua stessa vita. I primi capitoli sono quindi dedicati ai supporti musicali, partendo dal 33 giri per arrivare al 78 giri, dopo di che si parla dell’”Amore”. Le 30 “idee” – o se preferite “riflessioni” – sono poi trattate seguendo un ordine alfabetico cosicché dopo “Amore” troviamo “Antropologia”, “Arti liberali” … fino a chiudere con “Vercelli, Italia”. Il libro si completa con tre capitoli dedicati rispettivamente a “Discografia selezionata”, ”Bibliografia italiana”, “Videografia internazionale”. Evidentemente un volume del genere rispecchia appieno le concezioni dell’autore per cui una qualsivoglia critica che si appunti sulle convinzioni di chi queste concezioni ha esposto non avrebbe senso alcuno. In buona sostanza il libro va letto tenendo presente che l’obiettività in quanto tale non esiste e che ognuno, quando scrive, è il portato delle proprie esperienze di vita, di studi, di appartenenze politiche. Non a caso, come viene ricordato nella quarta di copertina, Italo Calvino sostiene nelle celeberrime Lezioni americane “Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.

Michele Bordoni: fotografo AFIJ del mese di settembre – la gallery e l’intervista

Michele Bordoni

Dopo la pausa agostana, riprende la nostra serie di interviste, con pubblicazione delle relative gallery, ai fotografi dell’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ.
Il mese di Settembre ci porta in Lombardia, nella splendida Valtellina, in questo periodo in cui il foliage, con le sue intense e calde sfumature autunnali, si tinge di verde cinabro, ocra, marrone tennè, vermiglio, regalandoci uno scenario naturale di rara bellezza, nelle sue incantevoli foreste che sembrano uscite da una fiaba.
Qui, in un paesello di neppure cinquemila abitanti che domina la valle dell’Adda, vive il giovane fotografo Michele Bordoni, appassionato di jazz e di sport ma anche innamorato della sua terra. Ognuna di queste passioni entra prepotentemente nei suoi scatti, che catturano bellezza e restituiscono emozioni…
Michele, affascinato dalla fotografia sin da piccolo, grazie alle diapositive di montagna del padre, si avvicina all’arte fotografica solo nel 2009, anno in cui acquista la sua prima reflex.
Oltre alla musica, allo sport e al territorio, affronta nel tempo anche temi diversi quali la lotta alla violenza sulle donne e la valorizzazione del patrimonio culturale e dell’artigianato tipico, sfociati in mostre apprezzate.
Si avvicina al locale festival Ambria Jazz collaborando anche come fotografo, quindi inizia a seguire altri festival e luoghi concentrando le proprie energie nello sviluppo di progetti nell’ambito della musica jazz.
Espone in diverse località prevalentemente valtellinesi, più recentemente anche presso il Jazz Club Ferrara, che frequenta ora abitualmente.
Partecipa nel 2015 a Il jazz italiano per L’Aquila e alle due successive edizioni dedicate ad Amatrice e alle terre del sisma, contribuendo con le proprie immagini alla realizzazione delle omonime pubblicazioni. (Marina Tuni)

– Leggo sulle tue note biografiche che devi a tuo padre e alle sue diapositive di montagna l’inizio del tuo percorso di fotografo, a ventiquattro anni, nel 2009. Quali sentimenti, emozioni, slanci, propositi hanno suscitato in te, giovane uomo, quelle immagini?
«La cosa è forse un po’ strana perché vedere le diapositive su questo grande telo era sempre molto piacevole, ritrovarsi a guardarle e ascoltare quello che rappresentavano suscitava in me grande interesse, soprattutto per quello che trasmettevano.
Poi, non so per quale motivo, ma non avevo mai concretizzato questo interesse prendendo in mano lo strumento in prima persona, forse perché anche mio papà, in quel momento, non scattava più, ma questo non si potrà mai sapere…
Un altro elemento curioso è che nel mio paese si svolgeva molti anni fa un bel festival Jazz, che seguivo talvolta da spettatore, e vedere il fotografo che si muoveva tra pubblico e sotto palco mi ha sempre incuriosito molto. Quindi, oltre ai musicisti, seguivo lui con lo sguardo.
Dopo qualche anno tutto questo è divenuto una realtà con i primi concerti Rock di band locali e poi con il Jazz e la storia continua…».

– Nell’epoca della tecnologia usa e getta e della digital transformation, dove tutto è elaborato, artefatto, ricostruito, filtrato… fa quasi impressione, sicuramente stupisce, sapere che la tua principale preoccupazione non è quella di implementare continuamente la tua attrezzatura e che la tua forma di comunicazione visiva è improntata a trasmettere emozioni dirette e genuine, poco o per nulla edulcorate dai potenti strumenti della post-produzione. Ci spieghi questo tuo modo di proporti?

«L’idea di partenza è quella di riuscire a raccontare in maniera più realistica possibile gli avvenimenti, come avveniva per i fotoreporter di un tempo, quando questa professione è nata, da qui si sviluppa il lavoro.
Negli ultimi anni sicuramente ho anche investito nella dotazione tecnica, è fondamentale riuscire a tenersi aggiornati con le nuove tecnologie; tuttavia, cerco sempre di mantenere l’equilibrio tra realtà e “immaginazione”.
Negli ultimi anni trovo sempre più fotografi con grandi competenze informatiche e questo ha portato nuovi e positivi sviluppi ma a volte si spinge troppo su questo aspetto e poco su quello che è la fedeltà delle immagini e sulla capacità di un fotografo di raccontare un evento; per quella che è la mia esperienza, non è sufficiente fare dei buoni scatti ma la grande sfida e quella di riuscire a concatenarli per raccontare una storia».

– Sei un grande appassionato di jazz ma anche di sport, con le tue foto sviluppi tematiche sociali, come la lotta alla violenza di genere e, soprattutto, guardando le tue foto e le mostre che hai tenuto, appare evidente l’amore che provi per l’ambiente e la terra, la tua Valtellina in primis, e per il suo patrimonio culturale, paesaggistico e artigianale… è così? Cosa ti lega alla tua terra?

«Amo molto la mia terra ed è stato naturale una volta avuta la mia prima vera macchina fotografica raccontare i luoghi della mia vita e molto spesso sono proprio a un passo da casa, come è stato per un mulino su cui avevo “lavorato” quando ero studente e che ho voluto in seguito raccontare con la macchina fotografica; un altro esempio è la latteria dove fino a qualche anno prima la mia famiglia conferiva il latte.
Negli ultimi anni l’impegno con la musica Jazz non mi ha lasciato molto tempo per questi racconti ma vivendo la mia terra per altre mie passioni le idee sono molte e, anche se con meno frequenza, sviluppo con l’obiettivo di approfondire in futuro.
Cerco di unire le mie varie esperienze per creare un racconto personale del Jazz per come lo vivo».

– Da più parti si sostiene che la fotografia è un elemento oggettivo. A mio avviso è esattamente l’opposto dal momento che è il fotografo a scegliere i vari parametri dello scatto. Qual è la tua opinione a riguardo?
«Condivido il pensiero, la fotografia come ogni forma espressiva è soggettiva per molteplici motivi. A partire dagli strumenti che utilizziamo, ma soprattutto da dove arriviamo, il percorso che compiamo ci porta a leggere le situazioni in modi molto diversi.
Quello che fotografiamo è frutto della nostra visione delle cose, con gli occhi vediamo e con il cuore la trasformiamo in qualcosa di tangibile.
Tutto questo è un processo in continua evoluzione, via via che il tempo passa anche le nostre immagini evolvono con noi».

– Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
È una costante del mio lavoro, anche per questo cerco a ogni concerto diverse prospettive per raccontare la musica e i musicisti in maniera globale, per far sì che quello che uscirà attraverso le immagini sia il più reale possibile e che racconti quello che è realmente successo, sia dal punto di vista dello spettatore in prima fila sia da quello che siede  nell’ultima.
Lo spettatore in prima fila, ad esempio, coglie di più le varie espressione sul volto dei protagonisti mentre quello in ultima potrebbe catturare meglio di la “danza” delle braccia del batterista che colpisce i piatti.
Anche per questo non amo raccontare un evento con una singola o con poche immagini, che magari mettono in luce solo il leader della formazione, il mio racconto vuole essere il più rispettoso possibile verso tutti i musicisti, che sul palco hanno la stessa dignità e importanza».

– La musica, si sa, è una fenomenale attivatrice di emozioni… anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Durante gli scatti la mente è condizionata inevitabilmente da molti elementi. Sicuramente uno dei più importanti è il flusso della musica che crea delle onde che noi seguiamo.
Quando si riesce a stabilire un legame umano, che viene poi alimentato dal suono, l’energia che si crea tra il palco e noi che stiamo dietro un mirino è incredibile.
Un altro elemento molto importante è il luogo che ospita il concerto. Noi in Italia siamo molto fortunati, forse i più fortunati, sempre più luoghi magnifici ospitano concerti, l’architettura la storia di quei luoghi condiziona in maniera positiva gli scatti e noi che seguiamo il Jazz siamo sicuramente privilegiati da questo punto di vista».

– Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
«Sicuramente ci sono degli scatti ai cui sono più legato di altri e questo, come già detto, dipende dall’aspetto emozionale.
Sono molti i musicisti con i quali si crea un atmosfera particolare, se devo sceglierne uno cito Hamid Drake, uno dei musicisti che a livello umano, musicale e fotografico mi ha dato fino ad oggi più. Il suo suono è il riflesso dell’amore per la musica… è la vita che mette in ogni sua esibizione. Per questo, forse, l’immagine a cui sono più legato è la sua, l’unica che ho scelto in bianco e nero per questa presentazione.
È arrivata in un momento molto importante sia della mia vita a livello personale sia nella mia attività fotografica ed è stata una spinta incredibile per il prosieguo del mio lavoro».