Udin&Jazz 2022 ovvero Play Jazz Not War

Di recente abbiamo fornito alcune anticipazioni su Udin&Jazz 2022 sottolineando, come fattori di grande positività, il fatto che la manifestazione rientrasse a Udine, sua sede naturale.
Adesso il programma è stato presentato nella sua interezza, e si tratta di un programma di sicuro spessore in quanto, more solito, riesce a coniugare l’esigenza di valorizzare le risorse locali con l’opportunità di offrire al pubblico alcune vere e proprie eccellenze del jazz di oggi.
Il Festival, giunto alla 32esima edizione e da sempre organizzato da Euritmica, per la direzione artistica di Giancarlo Velliscig, si svolgerà dall’11 al 16 luglio. Una settimana, quindi, densa di concerti, di eventi, di laboratori, di mostre, a valorizzare i molteplici aspetti di questa straordinaria musica, che in queste zone ha trovato sempre terreno fertile come dimostrano i numerosi talenti che provengono dal Friuli-Venezia Giulia.
Il clima culturale che, anche grazie alla musica, in questi anni si è sviluppato a Udine «ci inorgoglisce – ha dichiarato Velliscig nel corso della conferenza stampa di presentazione del Festival – e ci dà energia e slancio per continuare, in un non facile futuro in cui i rapporti umani e culturali dovranno essere fondamentali per la ricostruzione di tessuti sociali devastati da anni di pandemia e di inasprimenti bellici ed economici; confidiamo pertanto che il progetto di Udin&Jazz, che da qualche tempo si sviluppa anche in versione invernale, venga valutato e vissuto in senso positivo anche da parte della comunità regionale e locale, così come fino ad oggi è accaduto. Anche per questo il nostro motto di quest’anno sarà Play Jazz, not War!».
Udin&Jazz 2022 si apre l’11 luglio con la proiezione, introdotta dal critico musicale Andrea Ioime, del film “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” al Giardino Loris Fortuna in Piazza Primo Maggio (in collaborazione con il C.E.C.); dal 12 al 16 luglio poi, Udin&Jazz ospiterà due concerti a sera al Teatro Palamostre (alle 20 e alle 22) e contestualmente, in fasce orarie diverse, altri concerti, incontri e presentazioni.
Apertura il 12 luglio, nella sala Carmelo Bene del Teatro Palamostre (ore 18.30) con il vernissage della Mostra “I Colori del Jazz”, dell’artista udinese, Ivana Burello; la serata proseguirà, nella sala Pasolini, sempre al Palamostre, con due concerti: dapprima il pianista udinese, che risiede a Parigi, Emanuele Filippi, definito da Enrico Rava “uno dei migliori pianisti della nuova generazione”, presenta il suo nuovo progetto, “Heart Chant”, esibendosi con il giovane sassofonista olandese Ben van Gelder, uno dei musicisti più interessanti della nuova scena jazz Europea; successivamente, alle 22, il quartetto del celebre trombettista Fabrizio Bosso, completato da Julian Oliver Mazzariello, piano, Jacopo Ferrazza, double bass / e Nicola Angelucci, batteria presenterà  il suo ultimo lavoro “WE4”.
Il 13 luglio, il Palamostre ospiterà la presentazione del libro a fumetti “Mingus”, di Flavio Massarutto e Squaz, alla presenza dell’autore. A seguire, i concerti del quartetto internazionale della contrabbassista Rosa Brunello, con il suo nuovissimo “Sounds Like Freedom” e l’omaggio all’infinito universo dei Beatles di uno dei più grandi chitarristi del nostro tempo, Al Di Meola, che presenta “Across the Universe” alla testa del suo trio acustico con Peo Alfonsi alla chitarra e Sergio Martinez alle percussioni.

Il 14 luglio, ancora due concerti: s’inizia con la musica di “Scenario”, nuovo progetto dei C’Mon Tigre, collettivo che coinvolge diversi musicisti nazionali e internazionali (tra cui il friulano Mirko Cisilino), e si prosegue con il trio del pianista Vijay Iyer, uno dei grandi protagonisti del nuovo pianismo jazz, che presenta, tra l’altro, la straordinaria bassista Linda May Han Oh e il batterista Tyshawn Sorey a costituire un ensemble, che prescindendo dal valore del leader, viene oggi considerato uno dei migliori gruppi jazz in esercizio.
Il Brasile sarà il protagonista della penultima giornata del festival, il 15 luglio. Alle 18.30, il Palamostre ospiterà un incontro dal titolo “La Musica brasiliana ieri e oggi” in cui il conduttore di Radio 1 Rai, Max De Tomassi illustrerà le dinamiche musicali del grande Paese sudamericano. Alle 20 l’esibizione di Mel Freire, cantante e compositrice di Belo Horizonte che rende omaggio alla grande Elis Regina, cui segue il concerto di Ivan Lins, autentica star e maestro della Musica Popular Brasileira sicuramente uno degli eventi clou dell’intero Festival; Ivan sarà accompagnato da André Sarbib piano, Léo Espinosa basso, Claudio Ribeiro chitarra e Chris Wells batteria.
Chiusura il 16 luglio, con la musica travolgente degli Snarky Puppy, collettivo statunitense guidato dal geniaccio Michael League che conta circa 25 musicisti in rotazione, band tra le più acclamate della scena jazz contemporanea, band che avevamo già avuto modo di apprezzare nelle scorse edizioni di Udin&Jazz. Per sottolineare l’importanza di questo gruppo, basti ricordare che League, Laurance e compagni, hanno di recente vinto l’ennesimo Grammy Award come miglior album strumentale.
Nella mattinata del 16 luglio, Udin&Jazz propone un concerto/laboratorio interattivo interamente dedicato ai bambini e alle loro famiglie: U&j 4 Kids.
Tra gli eventi in cartellone, per Aspettando Udin&Jazz, è in corso una serie di 5 concerti che si alternano tra lo storico Jazz Caffè Caucigh ed il Giangio Garden al Parco Brun: il 25-06 il trio di Bruno Cesselli, il 30-6 Giampaolo Rinaldi Trio, il 2-7 Luca Dal Sacco Trio, il 5-7 Matteo Sgobino & Luna Troublante, e il 9-7 l’Armando Battiston duo; gli aperitivi del Jazz Corner, alle 18,30 alla Ghiacciaia, saranno animati il 12-7 da Laura Clemente/Gaetano Valli Duo e il 14-7 dal duo di Michele Pirona e Stefano Andreutti.
Sempre alla Ghiacciaia il 14 luglio – alle 12 – il sottoscritto presenterà il suo ultimo libro di interviste “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”, dialogando con Andrea Ioime.
Le notti di Udin&Jazz Festival saranno animate dalle dirette del MUUD Podcast, alla Tana del Luppolo, accanto al Palamostre, con approfondimenti di quanto proposto dal festival attraverso interviste, incontri ed esibizioni di giovani musicisti, flash di jazz contemporaneo e non solo. In presenza oppure in streaming.
Udin&Jazz gode del patrocinio e del sostegno di: Ministero della Cultura, Regione Autonoma Friuli Venezia-Giulia – Assessorato alla Cultura, Fondazione Friuli, PromoTurismoFvg, Cciaa di Udine e della sponsorship di Reale Mutua Assicurazioni Franz e Di Lena, Udine e della Banca di Udine.

Gerlando Gatto

È stato un sogno fortissimo! Grado Jazz 2021 (seconda parte)

di Flaviano Bosco – 

Grado ha un fascino molto particolare e peculiare, a volte appare sonnacchiosa e quasi spenta poi, basta una folata di vento per vederla trasformare in un meraviglioso foulard pieno di colori tra terra, cielo e mare. È davvero meteoropatica, ammesso che si possa dire di una città. Forse proprio per questo una scrittrice noir austriaca ha ambientato le inchieste della propria detective nell’isola d’oro intitolandole: Grado nella nebbia, nella pioggia, nella tempesta. Un sole splendido e serate stellate hanno incorniciato tutte le giornate di GradoJazz e davvero nessuno ha avuto certo da lamentarsene. La musica, come una gentile brezza marina, ha trasformato ogni cosa in emozione pulsante e viva e il palcoscenico del Parco delle Rose con i suoi teloni di quinta, in riva al mare sembrava un veliero pronto a solcare il mare verso luoghi d’incanto e d’avventura.

Ensemble del conservatorio “G.Tartini” di Trieste. Allievi del contrabbassista di chiara fama Giovanni Maier, i ragazzi del Conservatorio si sono esibiti in una serie di piacevolissimi standard con un ottimo groove. Puliti e attenti nelle linee melodiche si avvalgono della presenza dell’ottimo pianista Stilian Penev, che fa risaltare ancor di più le attitudini e la compattezza dell’intero ensemble. Ne hanno di strada da fare ma hanno l’atteggiamento giusto e sembrano far tesoro di ogni esperienza. Fanno parte di una nuova generazione di musicisti jazz cresciuti e formati completamente nelle scuole e nei conservatori che possono, ragionevolmente, confidare di fare del loro talento musicale una professione anche nel nostro paese, spesso avaro e distratto. Sembrano ovvietà ma non lo sono per niente; se non ci fossero le associazioni come Euritmica che permettono alle nuove leve di calcare anche palcoscenici importanti come quello di Grado, la strada per i giovani musicisti sarebbe ancora più in salita.

Michelangelo Scandroglio “In The Eyes of the Whale”. Dal vivo, l’osannato contrabbassista con la sua band ha dimostrato di aver bisogno ancora di molto rodaggio prima di raggiungere gli ottimi livelli di creatività e performance dimostrati in sala d’incisione. Nell’esecuzione piuttosto convenzionale e pedissequa dei brani composti dal leader, sempre in secondo piano con il suo strumento, si è distinto solamente il trombettista Hermon Mehari,  capace di dare profondità al proprio suono. Musica senza spessore e con poco da dire, i musicisti sono tutti sicuramente forniti di doti tecniche adeguate ma il leader forse non ha ben compreso ancora la differenza tra l’atteggiamento e la sostanza durante un’esecuzione. Essere minimal non vuol dire semplicemente suonare poco e in modo ripetitivo ma dare al proprio suono una grande intensità capace di riempire e far vibrare il tempo e lo spazio, scolpendolo dai rumori come una scheggia di granito, in una sequenza di frammenti che sono tutti opere d’arte. Comunque, niente paura Scandroglio ha tutte le qualità e il talento per costruire il proprio luminoso futuro di successo, lo vedremo ancora per molto tempo sui palcoscenici e ne potremo apprezzare i progressi.

Paolo Fresu “Heroes” Homage to David Bowie. Intelligente rilettura dei brani di Bowie, completamente destrutturati e usati solo come vago riferimento per composizioni del tutto personali che richiamano alla memoria i migliori lavori del periodo elettrico di Miles Davis. Fresu non si lascia imprigionare dalle secche della nostalgia e del revival; con l’aiuto dei suoi eccezionali musicisti, il batterista Christian Meyer su tutti, costruisce un percorso nelle canzoni di Bowie anche le meno scontate. L’opera d’arte epocale Warszawa, dall’album Low, diventa tra le labbra di Fresu ancora un altro capolavoro di musica tellurica e spaesante dal minimalismo elettronico al free jazz. Sempre sopra le righe la vocalist Petra Magoni impegnata in un’esibizione ginnico atletica di stampo circense tutta commedia dell’arte arlecchinesca, voce in falsetto, in un inglese spesso maccheronico, con una conoscenza piuttosto approssimativa dei testi; il grande pubblico, naturalmente, ha gradito moltissimo divertendosi ad ogni nuova capriola o impressionante vocalizzo, a volte è questo che conta. A Bowie piacevano molto le maschere, la preferita era però quella di un elegante Pierrot in turchese.

Huun-Huur-tu: Il canto armonico (difonico xöömej) di questi musicisti siberiano-mongoli (Repubblica di Tuva) evoca negli ascoltatori sensazioni ancestrali. Come hanno spiegato durante l’esibizione, il loro canto è spesso ad imitazione del mondo naturale e animale in particolare. Proprio per questo quei vocalizzi gutturali diplofonici o triplofonici suscitano in noi ricordi lontanissimi della nostra vita pre-urbana; nell’ascoltarli, l’animale antico che siamo, freme. Quei suoni sono finestre sul remoto passato dal quale veniamo e al contempo ci mostrano la lontanissima luce di ciò che ci sta davanti. La cultura di quelle steppe è profondamente influenzata dal rapporto simbiotico che quei popoli hanno con le loro cavalcature. Gli equini sono a fondamento della vita nomade sia perché permettono gli spostamenti sia perché la loro natura corrisponde al sentimento di libertà che costituisce la fierezza delle genti mongole. Naturalmente, anche la musica corrisponde a questo modo di vivere e perfino gli strumenti che utilizzano sono un omaggio allo spirito libero dei cavalli. Il più caratteristico è l’Igil, liuto tuvano a due corde realizzate con crine di cavallo, che si suona con un archetto la cui corda è realizzata nello stesso materiale naturale. Il manico del liuto è sormontato da una suggestiva testa di equino intagliata nel legno. La loro musica è quindi perfettamente sciamanica, si fa voce della natura e degli elementi. In alcuni momenti, quando intonavano le canzoni dei mandriani soli nella steppa, sotto il firmamento immenso e con tanta nostalgia di casa o al galoppo negli spazi sconfinati, si sentiva qualche lontana affinità, almeno nelle intenzioni, con l’epopea dei cow-boys nelle praterie americane. Uomini, in fondo, dai destini comuni.

Tigran Hamasyan trio “The Call Within”. Che cos’è il jazz oggi nessuno lo sa di preciso, su cosa sarà nell’immediato futuro il pianista armeno ha già qualche idea e le sue non sono promesse, vaticini o previsioni, sono molto di più, sono sogni lucidi. Con Hamasyan si tratta di cambiare radicalmente prospettiva sulla musica e sul modo di pensarla, oppure di rifiutare, non ci sono alternative. L’unica dimensione plausibile in senso assoluto è quella onirica, tutto il resto è una necessaria illusione che chiamiamo convenzionalmente realtà. È un concetto antico ma anche tremendamente attuale o come avrebbe detto Nietzsche “inattuale”. Ciò che normalmente riteniamo logico, razionale, consequenziale, si rivela brutale, caotico e crudele. Viviamo costantemente sull’orlo dell’abisso e per capirlo non serve chiamare in causa la recente epidemia, basta sfogliare le pagine di cronaca di un qualunque quotidiano. Il mondo dei sogni non è però un rifugio, una via di fuga ma è un luogo nel quale creare la bellezza dell’opera d’arte che può essere la nostra vita, se abbiamo il coraggio di spezzare le catene della passione e della cupidigia di questo mondo, che ci condannano al peso della materia. Se lo facciamo possono spalancarsi le porte dell’impermanenza. Di questo parla la complessa, ieratica musica di Hamasyan che, con grinta e grande potenza sonora, esorta a squarciare la volta del cielo di carta del teatrino sotto il quale si svolge la nostra vita di burattini, almeno per prendere consapevolezza della nostra condizione. Il Jazz rock prog del pianista, a tratti molto robusto e persino violento nella ritmica, ci può svegliare ad un sentimento più alto, ad un “gusto superiore”. La sua è autentica, dichiarata ricerca mistica e spirituale in musica e a noi non resta che chinare il capo e continuare ad ascoltarlo.

Paolo Conte “50 Years of Azzurro”. Sold-out da mesi è stata la star più fiammeggiante del festival. Come Federico Fellini, il Maestro Conte si è creato negli anni un proprio mondo di meraviglie musicali, poetiche e di eterne caricature. In punta di penna e con i polpastrelli sui tasti del pianoforte, dipinge da più di mezzo secolo un mondo sospeso al quale tutti vorremmo appartenere. Ognuno di noi vorrebbe possedere la classe infinita che si nasconde dietro quei baffi che ci guardano dal pianoforte; ci riconosciamo nelle esitazioni stupende descritte dalle sue ellissi in musica, nella sua orchestra che ondeggia, canzoni che dicono e non dicono che crediamo di capire e che invece ci stordiscono con il loro mistero. Vola sempre alto Paolo Conte, un po’ vitellone, un po’ vecchio guitto del varietà, ha raggiunto da tempo lo scaffale dei classici della cultura italiana, è in buona compagnia. Ascoltare ancora una volta un suo concerto significa ricapitolare gli ultimi dieci lustri del meglio della storia del nostro paese. Conte è tra i pochissimi artisti che può giocare con la nostalgia senza mai sembrare retorico o paternalistico, con i suoi versi, i suoi colori, le sue note è il padrone assoluto dei nostri sogni più belli.

Marisa, svegliati! Abbracciami! È stato un sogno fortissimo!

Flaviano Bosco

A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Luca A. d’Agostino Phocus Agency AFIJ, Angelo Salvin AFIJ, Gianni Carlo Peressotti e l’ufficio stampa Euritmica/GradoJazz

È stato un sogno fortissimo! Grado Jazz 2021 (prima parte)

di Flaviano Bosco –

Concepire, progettare e realizzare una rassegna musicale nei mesi passati poteva sembrare una follia assoluta, un azzardo, un vero colpo di dadi. Qualche volta però anche la pazzia è necessaria ed è proprio vero quello che dicevano gli antichi: “La fortuna aiuta gli audaci” o un po’ più volgarmente: “Chi non risica non rosica”; non sempre è vero ma questa volta si! E non è stato solo il favore della dea bendata.

In lingua friulana si dicono bonariamente “Cjastrons” i testardi irriducibili, quelli che contro tutto e contro tutti continuano dritti per la loro strada, a qualunque costo, anche se sembra che non abbiano alcuna possibilità di riuscire. Preferiscono continuare a sbattere la testa contro gli ostacoli pur di non cedere ai compromessi e soprattutto osano perdere e piuttosto di genuflettersi si spezzano.
“Cjastrons” di successo, in questo senso, sono sicuramente Giancarlo Velliscig e i suoi collaboratori di Euritmica che da 31 anni organizzano Udin&Jazz, la manifestazione che da tre anni ha partorito Grado Jazz che si aggiunge ad altre stagioni musicali e teatrali (Onde Mediterranee, Borghi Swing, Teatro Pasolini di Cervignano, Note Nuove, MusiCarnia ecc.)
In tutti questi anni gli è di certo capitato di sbattere il capo ma la scommessa è stata davvero vincente e i numeri e la qualità di quest’ultima edizione di Grado Jazz lo dimostrano. In accordo con la lungimirante amministrazione comunale dell’Isola d’oro è stato approntato e portato a termine un programma davvero succulento che ha fatto divertire, commuovere, emozionare, rilassare, eccitare gli spettatori spesso tutto nello stesso momento.
Ecco di seguito una mia selezione dei momenti più significativi, tra i tanti del festival,  che ho seguito dalla seconda serata alla fine.

Claudio Cojaniz “Black Water Music”. Quella dei concerti all’alba è diventata ormai una piacevole consuetudine di festival e rassegne, è un modo per riappropriarsi o per esplorare in musica momenti della giornata che normalmente non consideriamo. Accompagnare l’alba con le note del pianoforte di fronte all’orizzonte marino con il sole che sorge direttamente dalla laguna nel silenzio di una città che ancora dorme è un’esperienza quasi religiosa, un rito pagano. Se poi a suscitare le note sono le dita di un pianista come Cojaniz capace di un grande lirismo e sconfinati orizzonti non si può sbagliare. Provare per credere!

Bandakadabra: all’insegna del divertimento stradaiolo più verace e disimpegnato i “ragazzi” di Torino sanno davvero come far sorridere la gente e non c’è niente di più divertente che il vedere una band scatenata in mezzo alla folla che la segue in processione per tutta la città al ritmo del tamburo. Frizzanti, scoppiettanti, leggeri, clowneschi, saltimbanchi del jazz, una street marching band senza troppe pretese se non l’allegria propria e del pubblico. Momenti come questo contribuiscono a fare della rassegna una festa per tutta la città e non solo un evento elitario per i tanti appassionati. Bene hanno fatto gli organizzatori a voler disseminare in giro per la città balneare alcune iniziative, il grande favore riscontrato dal pubblico significa che la strada è quella giusta.

Dee Dee Bridgewater. Una vera Lady con la voce intatta nonostante non sia più una fanciulla in fiore. Con un gruppo di giovani musicisti italiani tra i quali spiccavano la contrabbassista Rosa Brunello e la batterista Evita Polidoro. La cantante ha proposto dal suo sconfinato song book soprattutto brani del periodo con Stanley Clarke e Chick Corea; alla memoria di quest’ultimo era dedicato l’intero concerto. Visibilmente divertita, la Bridgewater ha “giocato” con la propria voce e con i musicisti, ridendo, ballando, raccontando gustosi aneddoti sulla sua lunga carriera fatta di incontri straordinari ma soprattutto incantando il pubblico con le sue doti canore strabilianti in grado di passare in un battito di ciglia dai toni più gravi, sporchi e bluesy fino ai più verticali acuti con estrema naturalezza e senza artifici accademici.

Daniele D’Agaro con i suoi sax e i suoi clarinetti ha saputo intrattenere i passanti proprio nel cuore della città lagunare in un luogo dalle architetture straordinarie e dalle antichissime testimonianze: il sagrato comune tra due basiliche paleocristiane, una a fianco dell’altra (Santa Eufemia e Santa Maria delle Grazie). Le sue ance sembravano riempire il balzo temporale tra quell’estrema antichità e il “presente fatto di attimi e settimane enigmistiche” come dice il poeta. D’Agaro sa essere evocativo e immaginifico sulle sue chiavi ma spesso risulta meditativo e distante, per un sassofonista non sono certo difetti. La sua performance solitaria è stata affascinante ma anche piacevolmente ermetica e astratta.

Brad Mehldau trio. Molti musicisti tra gli spettatori, il gotha dei jazzisti locali e di oltre confine con l’aggiunta di moltissimi appassionati, critici e giornalisti che aspettavano l’apparizione di quello che ormai è considerato un gigante della musica contemporanea senza definizioni di genere. L’attesa non è stata vana, Mehldau ha presentato il suo ultimo lavoro con un’esibizione convincente e maiuscola nonostante una piccola ferita al pollice che si era procurato tagliando un limone a poche ore dal concerto. Romantico e lirico, lontano dalle iper-virtuosistiche prestazioni di inizio carriera, mantiene una certa predisposizione ad un pop colto e “pettinato” che gli permette gli usuali sconfinamenti e crossover musicali appropriandosi, come in questo caso, di canzoni del tutto eterodosse come “Friends” dei Beach Boys. Ottimo l’interplay con i propri musicisti Grenadier al contrabbasso e Ballard alla batteria.

Mirko Cisilino: Tromba, trombone, Tuba in fa e una moltitudine di sordine, con queste armi si è presentato il trombettista in una delle vie centrali dello “struscio” serale di Grado. La sua esibizione ha colpito e affascinato molti ma ha ugualmente reso perplessi e forse anche indifferenti altri. Non è facile improvvisare davanti ad un pubblico a passeggio. Di recente anche Paolo Fresu travestito da barbone è stato completamente ignorato in un concerto improvvisato in piazza Navona a Roma, era successo alcuni anni fa anche a Joshua Bell, genio del violino, in una stazione della metropolitana a New York. Spesso siamo troppo distratti e non poniamo sufficientemente attenzione a ciò che ci circonda, a volte ci impediamo di scoprire autentici tesori come quelli che Cisilino soffiava nei propri labiofoni, da improvvisazioni su melodie classiche a quelle free form e rumoristiche. Tra gli spettatori più attenti, due bambini che leccavano il loro gelatone guardavano divertiti e perplessi qualcosa che forse non capivano del tutto ma che destava la loro curiosità. E’ proprio quello l’atteggiamento che tutti dovremmo sforzarci di avere. La vera musica è sempre Bellezza e Mistero.

Danilo Rea&Luciano Biondini: intrattenimento elegante fatto di classici della canzone italiana rivisitati in jazz in un’atmosfera da piano bar; c’è da chiedersi se abbia ancora senso un progetto del genere dopo che il revival jazzato sulle canzoni “leggerissime” della tradizione anni ‘60 si fa da decenni in tutte le salse e dopo che l’ottimo pianista Bollani ci ha costruito sopra una carriera trentennale. Anche il progetto che i due da anni portano in scena (Cosa sono le nuvole) che rivisita i brani più famosi della canzone italiana comincia ad essere una replica di se stesso, nostalgia di nostalgia. Certo entrambi sono ottimi musicisti, al pubblico continuano a piacere moltissimo, lo si è visto al Parco delle Rose e non si può certo rimproverare nessuno, il jazz cinquant’anni fa era fatto anche di questo.

Jazz Portraits. Fotografo ufficiale del festival e di tante altre avventure, Luca A. D’Agostino con i propri collaboratori segue il festival da trentun’anni. Una splendida esposizione, da egli stesso curata, con significativi scatti suoi e di altri eccellenti fotografi AFIJ (Associazione Fotografi Italiani di Jazz) per ciascuna edizione faceva bella mostra di sé nel centro della cittadina balneare durante la rassegna. Tra le tante meravigliose immagini, tutte in un rigoroso, evocativo bianco e nero di veri e propri giganti della musica ospitati dalla manifestazione (Elvin Jones, Ornette Coleman, B.B King ecc.) ne spiccava uno del presente che è già proiettato nell’immediato futuro. Shabaka Hutchings, il geniale tenor sassofonista, che fu a Udine nel 2017 con i suoi The Ancestors, è immortalato in chiaroscuro nella cornice di una porta proprio mentre si sta accingendo a entrare in palcoscenico, imbracciando il proprio strumento. E’ un attimo sospeso in perfetto equilibrio tra quello che non c’è ancora e quello che sarà che da l’idea di che cosa sia oggi la musica dentro e intorno il jazz.

A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Luca A. d’Agostino Phocus Agency, Alessandra Freguja, Angelo Salvin (AFIJ) e l’ufficio stampa di GradoJazz/Euritmica

Presentato Udin&Jazz Winter: finalmente torna la musica dal vivo

Si svolgerà dal 28 al 31 maggio al Teatro Palamostre di Udine la prima edizione di “Udin&Jazz Winter”, organizzata dall’Associazione Culturale Euritmica, con il sostegno di: Regione FVG, Fondazione Friuli, Banca di Udine e Reale Mutua Assicurazioni Udine Franz&Dilena.
Ma il nome della manifestazione non tragga in inganno: si tratta, in effetti, della sezione invernale, che diventerà un appuntamento annuale, della storica “Udin&Jazz” che nel 2020 ha compiuto 30 anni. L’emergenza sanitaria ha impedito di celebrarne la ricorrenza in dicembre, obbligando Euritmica a rinviarla più volte. E ora, in primavera avanzata, è arrivato il momento: le recenti disposizioni che consentono la riapertura dei teatri, seppur con una capienza ridotta e con orari inusuali, permetteranno alla grande musica jazz di ritornare a Udine, città che ha sempre amato il jazz come evidenziato dal calore con cui il pubblico ha sempre seguito questo Festival.
Festival che nell’ambito nazionale rappresenta una sorta di unicum in quanto, a scapito di qualche biglietto venduto in più, ha sempre attuato una politica culturale tesa a valorizzare gli artisti locali, ivi compresi i talenti emergenti.
E come si nota dal programma su cui ci soffermeremo più avanti, anche questa volta l’aurea regola è stata pienamente rispettata.

Giancarlo Velliscig

La manifestazione è stata presentata online nel corso di una conferenza stampa con la partecipazione di giornalisti ed esperti del settore. A condurla il vulcanico presidente di Euritmica e direttore artistico di Udin&Jazz, Giancarlo Velliscig, il quale ha tenuto a sottolineare come «Udin&Jazz è nato qui, trent’anni fa, e questa è sempre stata la sua casa. Siamo orgogliosi di riportare il “nostro” jazz nel capoluogo friulano, da dove non se ne sarebbe mai voluto andare. Lo facciamo forti della nostra indipendenza e con l’orgoglio di riportare la grande musica jazz a Udine». «Il jazz – ha aggiunto Velliscig – è un genere musicale, certo. Ma è anche l’espressione di un percorso culturale e sociale; negli anni, il nostro festival ha fatto entrare Udine nei circuiti musicali internazionali divenendo meta ambita e conosciuta per grandi artisti provenienti da tutto il mondo».

Dal canto suo il presidente della Fondazione Friuli, Giuseppe Morandini, ha salutato così l’iniziativa: «Dobbiamo tutti essere grati a Euritmica per avere avuto negli anni la sensibilità di avvicinare tante persone alla musica e al jazz in particolare. Da questa parte della curva il tifo è sempre per voi».
La valenza del Festival è stata altresì sottolineata dal conduttore radiofonico di Radio 1 Rai, media partner ufficiale del festival, Max De Tomassi che l’ha definito “un’iniziativa epocale”; «ho pensato – queste le sue parole – a una crasi per descrivere la coraggiosa scelta di Euritmica; una crasi tra “winter”, la stagione in cui questo festival si sarebbe dovuto svolgere e “spring”, la stagione che stiamo vivendo. Nasce quindi “wings”, ali pronte a spiccare il volo, ben rappresentate nel logo scelto per questo festival».
E se in passato Euritmica ha abituato il Friuli ai grandi nomi della musica internazionale, per questa grande ripartenza – Udin&Jazz Winter sarà il primo festival ad andare in scena in regione dopo l’annuncio della riapertura dei teatri – l’associazione culturale udinese presenterà un palinsesto delle grandi occasioni, proponendo i big del jazz italiano accanto a nuove e storiche realtà del jazz regionale e friulano, che come sempre intende promuovere e valorizzare.
Il programma sarà dunque un alternarsi tra produzioni nazionali e di respiro internazionale e produzioni locali.
Il debutto sarà, infatti, affidato ad una produzione di Euritmica: venerdì 28 maggio, dopo l’inaugurazione del Festival nella sala Carmelo Bene del Teatro Palamostre, andrà in scena in prima assoluta lo spettacolo “John Coltrane – Un amore supremo: una Musica tra Terra e Cielo”. I testi dello storico e drammaturgo Valerio Marchi, narrati sul palco dallo stesso Marchi e dalla splendida voce di Claudia Grimaz, si alterneranno ai brani più noti del repertorio coltraniano riproposti dal trio Bearzatti-Colussi-Rinaldi, ripercorrendo la complessa parabola umana e artistica del mitico musicista attraverso lo sguardo delle donne della sua vita.
Sabato 29 sarà la grande serata di Enrico Rava, amico di vecchia data di Euritmica e musicista intenso e raffinato che ha suonato in tutto il mondo e che, per una sera, porterà tutto il suo mondo a Udine. Un regalo che in tempi di restrizioni permetterà al pubblico friulano di aprirsi ad un indimenticabile viaggio nelle sonorità essenziali di un musicista che ha fatto e sta facendo la storia del jazz italiano. Rava si esibirà a Udine in “Special Edition”, un regalo nel regalo per il pubblico di Udin&Jazz, visto che questa formazione è nata il 20 agosto del 2019 in occasione del suo 80esimo compleanno, raggruppando i musicisti che più gli sono stati vicino negli ultimi anni, per rivisitare i brani più significativi della sua carriera secondo un mood assolutamente attuale.  Ad accompagnarlo sul palco ci saranno dunque il friulano Francesco Bearzatti al sax tenore, Francesco Diodati alla chitarra, Giovanni Guidi al pianoforte, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria.
Doppio appuntamento domenica 30 maggio: alle 18.30, sul palco del Palamostre, saliranno Claudio Cojaniz e Franco Feruglio, rispettivamente al pianoforte e al contrabbasso, due tra i massimi esponenti della scena jazz e blues regionale. Alle 20, secondo appuntamento della serata: l’eclettico batterista Roberto Gatto guiderà la sua band spingendosi a rileggere in chiave jazz il mondo ammaliante ed affascinante del ‘progressive’.
Lunedì 31 maggio, giornata conclusiva, ancora un doppio appuntamento. Anche in questo caso, salirà sul palco una formazione totalmente friulana: sarà l’Udin&Jazz Ensemble (formazione di 12 elementi, emanazione della omonima resident Big Band del Festival, nata qualche anno fa) a scaldare il pubblico a partire dalle 18.30 con una produzione originale e un repertorio composto per l’occasione dai musicisti Mirko Cisilino, Emanuele Filippi e Max Ravanello. Questo nuovo progetto trasforma l’organico iniziale, incorporando strumenti di tradizione classica come corno, tuba e ance di varia natura. Il repertorio originale è un tributo al patrimonio culturale della regione friulana, ispirandosi ai nostri luoghi così come alle produzioni letterarie e poetiche di importanti voci del territorio.
Alle 20 un altro straordinario protagonista del jazz italiano: torna a Udin&Jazz Fabrizio Bosso, sul palco con il Dario Carnovale LIFT HIM UP 4et”, progetto firmato dal pianista siciliano ma udinese d’adozione. Un gran finale con un repertorio che spazierà dalla rielaborazione di standard a brani autografi del pianista Dario Carnovale e dello stesso Bosso, coadiuvati dal contrabbassista Simone Serafini e dal batterista Klemens Marktl.
Durante il festival sarà visitabile, sempre al Teatro Palamostre di Udine, la mostra che ripercorre i 30 anni di Udin&Jazz attraverso i ritratti delle star del jazz mondiale che qui si sono esibite, immortalate dai fotografi dell’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani di Jazz e curata da Luca d’Agostino. E a proposito di star internazionali, si sarà notato come questa volta manchino del tutto ma anche ciò è dovuto alla pandemia che se a stento consente di organizzare qualcosa a livello nazionale figuriamoci a livello internazionale. Comunque siamo certi che già a partire dal prossimo anno, le grandi vedettes del jazz mondiale torneranno a Udine per la gioia di tutti noi appassionati.
Gerlando Gatto

Il Jazz in Friuli Venezia Giulia passa da GradoJazz: un piacevole contagio in musica che oltrepassa le mascherine!

di Alessandro Fadalti –

Dopo tutte le paure, il senso di impotenza e sfiducia che il lungo periodo di quarantena ha imposto a tutti noi, finalmente una boccata d’aria fresca portata dalla musica! Una reazione necessaria, dopo mesi di esibizioni solitarie nelle stantie cantine domestiche o le alternative esibizioni in live streaming sulla rete le quali, seppur innovative, sono state soluzioni raffazzonate per un settore in crisi ancor prima della pandemia globale. L’assenza di calore umano, una mancanza di fisicità, emotività e annullamento dell’esperienza sociale che il palco offre a tutti gli amanti della musica: queste sono le ferite aperte che hanno a malapena cominciato a cicatrizzarsi.

Con l’estate, però, vien dal mare un’allietante brezza che dissolve l’aria stagnante, sicché il festival di cui vi parleremo, con la sua grande affluenza e i tre sold-out, è la concreta dimostrazione della voglia di ripartire, pur nel pieno rispetto delle regole e norme contro il Covid-19. In effetti, gli usi e le modalità di fruizione degli spettacoli che si adattano ai tempi sono l’elemento vincente per combattere quella che in  primavera si prospettava come una stagione di immobilismo culturale.

La seconda edizione di GradoJazz 2020, la trentesima per lo storico festival Udin&Jazz, organizzata dall’associazione culturale Euritmica di Udine, è un simbolo in tal senso. Come ogni anno il festival presenta un cartellone con artisti jazz di grande caratura, di livello nazionale e internazionale, e anche questa edizione, con i suoi otto concerti, dal 28 luglio al 1 agosto nello spazioso e rinnovato Parco delle Rose di Grado, ha rispettato i pronostici. Quasi ironicamente il tema forte ma sottinteso  di quest’anno è stata la contaminazione, che poi è sinonimo di contagio! Tuttavia, mettendo da parte l’ironia, in arte essa assurge a un altro significato e il Friuli è una terra dove la contaminazione culturale fa da padrona e si dirama in ogni dove.

L’apertura non poteva che essere affidata a un gruppo le cui contaminazioni musicali costituiscono il manifesto artistico: i Quintorigo, band romagnola dalle sonorità rock-barocco con incursioni jazzistiche grazie a un organico inusuale (Alessio Velliscig, voce; Andrea Costa, violino; Gionata Costa, violoncello; Stefano Ricci contrabbasso; Valentino Bianchi, sassofoni e Simone Cavia, batteria) uniscono molteplici mondi della musica, reinterpretandoli nel loro stile. Parlando della formazione: Alessio Velliscig, cantante friulano, ha una voce in grado di sopraffare l’orecchio dell’ascoltatore grazie a un registro canoro ampio e a un mirato controllo dinamico. Alessio, dimostra grande tecnica e teatralità, senza scadere in eccessi di poco gusto. Tra i brani più apprezzati ci sono stati alcuni arrangiamenti tra cui “Alabama Song” di Kurt Weill e Bertolt Brecht, che fu anche un successo dei Doors, un duplice tributo a Charles Mingus con “Moanin’” e “Fables of Faubus” infine “Space Oddity” di David Bowie. In essi, la caratteristica che colpisce è quella di saper sorprendere con rimaneggiamenti invasivi, senza che le canzoni perdano la loro unicità. Infatti, a seguito della più classica struttura strofa-ritornello, seguono dei terzi temi aggiunti al brano e delle improvvisazioni al sax dal suono aggressivo rhythm’n’blues o gli archi con il distorsore, districando il gomitolo dei variopinti generi della musica popular. È in conclusione dell’esibizione che il gruppo riserva due pezzi da novanta che sono la matrice di un’idea di fare musica che si avvicina all’estetica del gruppo, ovvero Frank Zappa. Con gli arrangiamenti di “Cosmik Debris” e “Zomby Woof”, tutte le caratteristiche singolari del gruppo sono evidenziate e la sobrietà teatrale del frontman diventa un’esplosione di gesti e movimenti più dinamici e coinvolgenti, accompagnati da svariati salti di registro, spingendosi in acuti lontani dalle corde di un tenore, che vengono sottolineati da espedienti rumoristici degli strumentisti. Quintorigo è la dimostrazione di come “jazz” sia da anni non solo un genere, ma un multiforme modo di concepire l’approccio alla musica.

Il set successivo è stato quello del duo Bill Laurance (pianoforte) e Michael League (basso). Il progetto è una riproposizione di vari loro brani scritti ed eseguiti per altre formazioni, tra cui gli stessi Snarky Puppy. Stiamo parlando di due amici che nella musica ritrovano un’alchimia, che è sensibile dal primo ascolto. Non è un progetto artistico preciso e definito: il repertorio è costituito da brani con continui incastri ritmici tematizzati a cui seguono degli stacchi omofonici e omoritmici in stile funk, che prosegue in improvvisazioni prima dell’uno, poi dell’altro e si conclude riprendendo il tema. A questo, si aggiunge il tocco risolutivo di Laurance che, quasi scherzando, finge una cadenza finale che lascia il pubblico con l’applauso mozzato, un approccio sicuramente non convenzionale. Il duo respira in un ciclo di opposizioni: se il bassista è molto selvaggio, intuitivo ed espansivo con il suo strumento, Laurance è intellettuale, introverso e colto… una sintesi tra il nietzschiano spirito Apollineo e Dionisiaco. Se i vari brani in stile più classico, tra cui “December in New York” e “Denmark Hill” di Laurance, sono quelli in cui l’anima e il flusso del pianista vengono meglio espressi, in contrapposizione vi è l’estro di League, che scaturisce in brani dal sapore funk come “Semente” degli Snarky Puppy o “Spanish Joint” di D’Angelo. La sintesi è comunque altrove, s’insinua in brani come “Two Birds in A Stone”, un inedito scritto da League dove il bassista prende in mano l’Oud, strumento di cui è promettente novizio.
Nonostante l’esibizione sia stata prossima alla perfezione, nel destreggiarsi acrobatico dei brani c’era una schematicità ripetitiva. Laurance si adagiava spesso sulle ottave medie del pianoforte mentre League non sembrava ascoltare sempre il compagno, nei decrescendo dinamici o nei rallentando pareva inseguirlo più che accompagnarlo, asincronia che non è tuttavia pesata su tutto il concerto. Va detto, in conclusione, che la chiave di lettura dello spettacolo è forse quella di due amici che essenzialmente non ne potevano più di starsene chiusi in casa e lontani dai palchi. Si sono ritrovati e hanno mostrato il loro spirito giocoso, fatto di sguardi e sorrisi di complicità. Una gioia per gli occhi e per le orecchie.

Il giorno seguente è Alex Britti ad occupare un palco già molto caldo dal giorno precedente. Sullo schermo sul fondo sovrasta la scritta “jazz” a caratteri cubitali, ma solo alcuni brani hanno forti influssi blues e jazz. “Mi Piaci”, “Bene Così”, “Buona Fortuna” e “Immaturi” sono canzoni fortemente pop con alcune contaminazioni funk, blues e southern rock, mantenendo però uno stile rigoroso alla canzone italiana tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90. Britti sfrutta intelligentemente la sua vena profondamente blues, ma quei brevi call and response, sotto forma di stacchi con la chitarra, tra i versi e i soli pentatonici corti e in struttura sono abbastanza per parlare di blues e influenze? A mio parere no! Ma ecco il colpo di scena. La similitudine più forte per spiegare la sensazione è attraverso una partita di calcio. Un primo tempo stanco con poche palle gol e molte azioni a centro campo a cui segue un secondo tempo dove la squadra si trasforma. Dopo i primi 45′ di gioco scende in campo il trombettista Flavio Boltro. Entra nel vivo del brano, sul concludersi di “Le cose che ci uniscono”, esibendo un solo che mostra le sue indubbie qualità. Il trombettista torinese è rapido nei fraseggi, il linguaggio è molto modale, è un invito a dialogare rivolto al chitarrista, mettendo in mostra la sua anima più virtuosistica. Cambia profondamente anche lo schema dei brani: dopo un’esposizione della canzone in stile pop seguono delle lunghe sessioni di improvvisazione tra i due, tornando al ritornello come finale. Il brano “Jazz” è un fast che fa da modello a quanto illustrato, un vero e proprio rilascio delle qualità artistiche e tecniche di Britti. Il resto della band (Davide Savarese, batteria; Matteo Pezzolet, basso; Benjamin Ventura, tastiere; Cassandra De Rosa e Oumy N’Diaye, cori) è impeccabile, riescono a salire d’intensità con un accompagnamento perfetto durante i solo. Purtroppo ci sono delle note dolenti; nessuno di loro ha avuto un momento per splendere (eccezion fatta per il solo di batteria di Savarese) e, complice un pessimo mastering, le tastiere e il basso erano poco udibili. Infine, lo spazio quasi nullo dato alle coriste. La seconda parte è stata la più interessante, il picco massimo di spettacolarità è un medley acrobatico tra “Oggi Sono Io” e “7.000 Caffè”; dove tra le due canzoni possiamo sentire una versione completa del tema di “Round Midnight” e “Gasoline Blues” che fungono da ponte. La distensione musicale a chiusura si compone di tre hit per far cantare il pubblico. “La Vasca”, “Solo una volta” e “Baciami” hanno fatto alzare il pubblico dalle sedie, personalmente sarebbe stato molto più di classe concludere con il medley, ma è il pubblico a smentirmi.

La terza giornata è stata una pennellata di voci rosa. Doppio set per due cantanti molto interessanti, l’una all’opposto dell’altra per certi versi. Il primo è il duo Musica Nuda di Ferruccio Spinetti (contrabbasso) e Petra Magoni (voce). Il concerto si apre con un arrangiamento di “Eleanor Rigby” dei Beatles. La loro musica funziona molto bene, la cantante si cimenta in acrobazie vocali, salti di registro importanti, cambi di stile, dal bel canto agli espedienti rumoristici che ricordano Cathy Berberian e molto altro. Il contrabbassista ha una sensibilità compositiva raffinatissima, i brani hanno una struttura solida con tocchi fantasiosi che permettono alla Magoni di trovare spazio in slanci vocali. L’impressione generale è che insieme funzionino in maniera assoluta. La diversità di background musicale tra loro è palpabile e crea ricchezza. Spinetti, nei suoi arrangiamenti, fa percepire un’osmosi tra contaminazioni di musica classica, jazz e contemporanea. Petra, d’altro canto, ha un’esperienza come cantante e interprete vicina agli ambienti alternative pop. La qualità attoriale è quel quid che rende i loro brani diversi, unici.
Ne è un esempio “Paint it Black” dei Rolling Stones, su cui incidono un tono oscuro, amplificando i tratti del dolore intrinseco che permea tutta la canzone; oppure il finale con “Somewhere Over The Rainbow” in cui la sensazione di malinconia e speranza viene accentuata con lunghi sospiri e respiri. Nei brani originali come “Qui tra poco pioverà” e “Come si Canta una Domanda” emerge quanto l’uno debba all’altro, Spinetti offre composizioni e arrangiamenti artistici interessanti, mentre Magoni dona la sua imponente abilità ed estro.
La seconda grande voce femminile, nel set successivo, è molto composta e senza sospiri in coda alle note, con una prorompente carica di emotività. Chiara Civello a Grado è accompagnata da Marco Decimo al violoncello e dall’eclettica Rita Marcotulli al pianoforte. Il trio è inedito e fa percepire la sua estetica dal primo brano con un arrangiamento di “Lucy In The Sky With Diamond” dei Beatles. Ricchezza di riverberi e delay, accompagnati da alcuni solerti colpi di Pandero della cantante, violoncello percosso sulla cassa armonica, alternato a lunghi glissando dal registro medio all’acuto con l’archetto. Il risultato è un’atmosfera onirica e trascendentale, superiore all’originale. Si tratta tuttavia di un unicum, in quanto nei brani successivi lo stile vocale della Civello resta fedele a un’ispirazione brasiliana, in una sorta di “Saudade nostrano”; la voce è dolce e malinconica, risaltata da una scaletta fatta di ballad eleganti come “Estate” di Bruno Martino, “Travessia” di Milton Nascimento e “Anima” di Pino Daniele. Il pianismo della Marcotulli è l’altro grande protagonista del concerto: sfrutta tutte le ottave del piano in una libertà assoluta, ondeggia tra i registri in maniera ipnotica, passa dal pizzicare le corde, all’inserire oggetti metallici nella cordiera (pianoforte preparato), per poi toglierli e percuotere le corde bloccandone la risonanza con le dita. Non sta ferma sul seggiolino e a livello espressivo suscita una sensazione di moto perpetuo; oltretutto inserisce note dissonanti a commento della voce e dell’atmosfera dei brani. In sintesi, ricopre all’interno di questo trio un ruolo timbrico, ritmico, melodico, dinamico, rumoristico ed espressivo. Quello che personalmente definisco “pianismo totale”. Ciò che meglio emerge da questo trio è una forte capacità di espressione attraverso una scaletta fatta da brani lenti, eseguiti con un trasporto e sentimento unico. Punctum dolens di questo concerto, per me, la versione poco gradevole di “Bocca di Rosa” di De André, dai toni molto dark e tragici che cozza con il testo del cantautore genovese, nonostante abbia trovato coraggioso l’arrangiamento. Nel finale, tutti gli artisti dei due set sul palco, per un’esplosione di bellezza!

 

Una delle poche giornate di vaga frescura nella bella isola di Grado ci ha regalato l’esibizione del trombettista Paolo Fresu e del suo quintetto (Tino Tracanna, Sax; Roberto Cipelli, Piano; Attilio Zanchi, Contrabbasso; Ettore Fioravanti, Batteria). Ad arricchire l’ensemble, il trombone di Filippo Vignato. Il progetto riprende lo storico album del 1985, rinominato Re-Wanderlust in occasione della performance dal vivo: un fiore all’occhiello per la rassegna! Un jazz dai tratti un po’ desueti, che non sa di aceto, ma è un vino pregiato. Dal primo brano “Geremeas” si capisce la cifra stilistica, il repertorio è in continuo equilibrio tra fast e slow, come “Touch Her Soft Lips and Part” di William Walton. La sonorità è un riferimento che va dal Bebop al Modal, con accenni di Free. Le strutture sono quelle classiche del jazz ma risalta un’instancabile energia dei musicisti, che con grande vigoria aggrediscono ogni solo, esprimendo libertà. Il sestetto può essere diviso in due sezioni per ruolo, quella del trio: piano, basso, batteria e quello dei tre fiati. Questo scisma emerge soprattutto durante le improvvisazioni collettive, dove ogni fiato emette una voce ostinata e sovrappone frasi sopra altre frasi, per nulla scontate e non omoritmiche, concedendosi di oscillare sul tempo. Il risultato è piacevolmente caotico e non ti permette di concentrarti su un’unica fonte sonora, tutti gli strumenti raggiungono una loro vocalità estemporanea, a tratti indipendente a tratti contagiandosi, divenendo isole in un arcipelago, distanti ma interconnesse. La sezione trio fornisce magistralmente un tappeto solido ai fiati, impedendogli di prendere il volo e di perdersi nel loro stesso processo creativo. Molte sono le eccezionalità e finezze da mettere in luce. In “Trunca e Peltunta” il tema ricalca l’estetica melodica monkiana dell’album “Underground”. In brani soffusi come “Ballade”, si riesce a sentire la colonna d’aria uscire dai fiati e in “Favole” si percepisce molto bene come mai Fresu ami il calore del suono del flicorno, unendolo al suono del Rhodes. Con il finale,“Only Women Bleed”, queste caratteristiche del sestetto raggiungono la loro summa, la contaminazione è anche nell’approccio, specie in quei solo collettivi.

Ultima giornata con il concerto del sassofonista Francesco Cafiso e il suo quintetto “Confirmation”, (Alessandro Presti, Tromba; Andrea Pozza, Piano; Aldo Zunino, Basso; Luca Caruso, Batteria), una dedica al Bebop in tributo ai 100 anni dalla nascita del suo massimo esponente: Charlie Parker. Il primo brano è “Tricotism” di Oscar Pettiford, un inizio differente da quello che ci si poteva aspettare. Quelli che dovrebbero essere dei fast sono più lenti del previsto e gran parte del repertorio, fatta eccezione per “Repetition” e “Little Willie Leaps” di Bird, sono brani di artisti coevi dell’era bebop come “Budo” di Miles Davis e alcuni post bebop come “Little Niles” di Randy Weston. La qualità del lirismo e del fraseggio di Cafiso, assieme alla tromba con sordina di Presti, sono i due elementi più significativi. Il duo, sul fronte del palco, trasmetteva le stesse sensazioni della coppia della 52esima strada: Parker e Gillespie. Non è manierismo bebop come potrebbe sembrare, ed infatti nei solo cercano di far dialogare il linguaggio del passato con alcuni espedienti tecnici del jazz non esclusivamente bebop, come il linguaggio modale, i poliritmi e la rinuncia all’approccio armonico in favore di molteplici variazioni sul tema.
Colpisce la qualità espressa da Cafiso, le frasi dove la punteggiatura si avvicina al parlato, con idee fraseologiche articolate anche in otto battute, trovando respiro soltanto a posteriori.
Dal lato ottoni, i solo di Presti erano ricchi di ritmo e staccato a cui contrapponeva una grande ariosità del suono. Quello che è venuto a mancare da parte di tutto l’organico è l’enfasi scoppiettante tipica dei quintetti di inizio anni ’50. La risultante sonora è rattenuta, dando il sentore di una jam session in concerto, dove il classico rhythm change senza alcuna variazione è lo stilema. Fattore che emerge soprattutto da un batterismo che nell’accompagnamento e nei solo dimostra tecnica e tocco pulito, a cui si oppone una non perfetta connessione con il gruppo e un linguaggio accademico da manuale. La conclusione è una buona ma contenuta esibizione, dove a risplendere sono Cafiso e Presti.

Nel gran finale di GradoJazz by Udin&Jazz sale sul palcoscenico Stefano Bollani, che porta un progetto unico, il musical di Lloyd Webber e Rice: Jesus Christ Superstar del 1971, in variazioni per piano solo. Il primo pensiero che ho avuto è stato quello della paura del flop. Il musical è ricco di tanti stili e generi che trovo complessi da racchiudere in un piano solo annullando la varietà timbrica. Non avevo fatto i conti con l’oste, Bollani è riuscito, grazie alle sue spiccate qualità interpretative, a restituire tutti i sentimenti e le caratteristiche dei personaggi del dramma all’interno delle corde roventi dello Steinway. L’arduo compito è stato rispettato in toto. Udiamo delle variazioni sui temi di alcuni pezzi più importanti della rock opera come: “What’s the Buzz”, il trio tra il personaggio di Maria Maddalena, Gesù e Giuda, dove i pensieri di ogni protagonista hanno un’unità melodica che è stata rispettata, mentre la variazione sta nell’improvvisazione sopra di essi, che amplifica al meglio gli aspetti drammaturgici legati al personaggio. Stesso discorso vale per la romantica e triste aria di Maria Maddalena che si questiona su come manifestare il suo amore per il messia in “I don’t Know How To Love Him”. Così come il dissidio interiore di Giuda in “Damned For All Time”, quando vende Gesù ai Farisei, oppure la reazione sconcertata e confusa degli Apostoli in “The Last Supper”. Altrettanto forte, a livello immaginifico, è il turbinio di semicluster nel brano “The Temple”, che corrisponde alla scena in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio e il monologo di Ponzio Pilato in “Pilate’s Dream”. Sono molti gli espedienti musicali che ricalcano in maniera geniale le immagini del film del ’73. Oltre alle già note abilità pianistiche di Bollani è interessante notare come abbia caratterizzato al meglio i personaggi attraverso la musica. Finale da superstar tra ironia e musica, in un serrato dialogo tra il palco e la platea, chiamata a scegliere dieci brani che il pianista unisce a formare un medley.
Metaforicamente parlando, veder finire questa cinque giorni di concerti jazz è stato come entrare nel finale del film Jesus Christ Superstar: tutti gli spettatori salgono in macchina e abbandonano il Parco delle Rose di Grado, così come nel film i fedeli abbandonano l’ultimo grande spettacolo, ovvero la crocifissione, salendo sul pullman da cui sono arrivati!
Commento finale: un elogio ai fonici e al service in primis che per quanto abbiano potuto risentire del periodo di lockdown hanno tutti lavorato con serietà e professionalità, dimostrando quanto il loro compito sia il motore e l’ornamento che permette agli spettacoli dal vivo di essere “vivi”. L’esperienza globale è stata estremamente gratificante. I migliori auguri per l’edizione invernale di Udin&Jazz, annunciata sul palco dal presentatore Max De Tomassi di Radio 1 Rai (partner ufficiale del Festival) e dal direttore artistico Giancarlo Velliscig, che porterà, senz’ombra di dubbio, quel clima jazz che fa respirare a pieni polmoni nell’ecosistema della musica dal vivo.

Alessandro Fadalti

Si ringrazia l’ufficio stampa di GradoJazz by Udin&Jazz e i fotografi: Angelo Salvin, GC Peressotti e Dario Tronchin

 

“Grado Jazz by Udin&Jazz”: un festival all’insegna dell’ottimismo!

Come preannunciato nelle scorse settimane “Grado Jazz by Udin&Jazz” sarà uno dei pochi festival jazz che avranno luogo nel corso di questa travagliata estate 2020. L’occasione è particolare in quanto si festeggia il trentennale di una manifestazione che ha saputo conquistarsi un posto di rilievo nel pur variegato panorama delle manifestazioni jazzistiche grazie alla costante ricerca di una precisa identità declinata attraverso due precise direttive: musica di alta qualità e grande spazio alle eccellenze locali.

Il festival si terrà dal 28 luglio al primo agosto, nel massimo rispetto delle norme anti-Covid, in compagnia di alcune stelle italiane e un’incursione internazionale d’avanguardia con Michael League & Bill Laurance (Snarky Puppy).

Con questa iniziativa “Euritmica”, che organizza il Festival, vuole rispondere alla necessità, da più parti sollecitata, di considerare la cultura per quello che realmente è, vale a dire un bene necessario e vitale. Già con l’iniziativa JazzAid, Euritmica ha voluto dare un importante segnale di vicinanza agli artisti, per rinnovare anche la consapevolezza che… #JazzWillSaveUs. “Grado Jazz” si inserisce in questa logica fornendo una tangibile speranza dato che i concerti si faranno dal vivo in presenza e in sicurezza. E non ci vogliono certo molte parole per spiegare quanto tutto ciò sia costato agli organizzatori anche in termini economici (distanze, sanificazioni, provvedimenti anti assembramento).
I concerti si svolgeranno nel Parco delle Rose, allestito con uno spazioso palco e centinaia di poltroncine distanziate, con un angolo food&drinks ove si potranno gustare i prodotti enogastronomici del territorio.

Ed ora un rapido sguardo al programma.

Martedì 28 luglio apertura con due concerti. Alle 20 saranno di scena i Quintorigo, con il progetto “Between the Lines”. La serata continua alle 22 con lo straordinario duo di Michael League & Bill Laurance (contrabbasso e pianoforte), anime degli Snarky Puppy (già ascoltati a Grado nella passata edizione).

Mercoledì 29 luglio tocca ad Alex Britti in quartetto, protagonista della scena musicale italiana da molti anni con successi quali “Solo una volta”, “Settemila caffè”, “Mi piaci”.

Alex Britti

Giovedì 30 luglio il duo Musica Nuda, vale a dire Petra Magoni (voce) e Ferruccio Spinetti (contrabbasso); dopo diciassette anni di attività, 1500 concerti in tutta Europa, 11 cd, i due continuano a incantare le platee più diversificate.
Alle 22 una prima assoluta: due grandi donne del jazz italiano per la prima volta insieme, la pianista Rita Marcotulli e Chiara Civello (voce e chitarra), supportate dal violoncello di Marco Decimo.

Venerdì 31 luglio l’immagine più rappresentativa del jazz italiano e grande amico di Udin&Jazz, Paolo Fresu; il trombettista sardo porta a Grado “Re-wanderlust”, progetto composto da vecchie e nuove composizioni dello storico Quintetto, nato nel 1984 (Paolo Fresu, tromba e flicorno; Tino Tracanna, sax tenore e soprano; Roberto Cipelli, pianoforte e Fender Rhodes electric piano; Attilio Zanchi, contrabbasso; Ettore Fioravanti, batteria) cui nell’occasione si aggiunge il giovane trombonista Filippo Vignato.

Paolo Fresu 5et feat Filippo Vignato

Finale in grande stile, sabato 1 agosto con un doppio concerto: alle 20 il quintetto di Francesco Cafiso (sassofonista tra i più rappresentativi del jazz europeo) rende omaggio al genio di Charlie Parker nel centenario dalla nascita, con il progetto “Confirmation” (Francesco Cafiso, sax; Stefano Bagnoli, batteria; Alessandro Presti, tromba; Andrea Pozza, pianoforte; Aldo Zunino, contrabbasso).
A chiudere GradoJazz è il piano solo di Stefano Bollani (ore 22) con il suo nuovo progetto “Piano Variations on Jesus Christ Superstar”: una versione totalmente inedita e interamente strumentale dell’opera rock di Andrew Lloyd Webber che custodisce, come un tesoro, l’originale e che è stata registrata per ECM.

 

Gerlando Gatto