Il Jazz ai tempi del Coronavirus le nostre interviste: Alessandro Turchet, contrabbassista

Intervista raccolta da Marina Tuni

Alessandro Turchet, contrabbassista

-Come stai vivendo queste giornate?
“Con un’inaspettata integrità spirituale data dalla musica e dallo studio”.

–Come ha influito tutto ciò sul tuo lavoro? Pensi che nel prossimo futuro sarà lo stesso?
“Ritengo, molto umilmente, che il lavoro del musicista non sia legato unicamente alla mera “performance”, ma che occupi un continuo spazio-tempo. Quindi, nel nostro mestiere, lo studio, il confronto con i colleghi, l’analisi delle partiture per i lavori discografici futuri, l’organizzazione del materiale, la ricerca, lo sviluppo di nuove idee e molto altro ancora, ne sono parte integrante. E quindi, nonostante restrizioni e lockdown, posso dire di non aver mai smesso di lavorare in questo periodo, ho continuato, diversamente, a svolgere il mio lavoro. Il nostro è un ruolo sociale, ci siamo, condividendo la meravigliosa arte della musica, grazie alle persone. Anche nei periodi più bui della storia, l’umanità ha cercato e si è riscoperta grazie all’arte ed alla cultura! Sono “abbastanza” speranzoso nel futuro, nella possibilità di esprimerci, condividendo”.

-Come riesci a sbarcare il lunario?
“Ho avuto la fortuna di poter continuare le lezioni con alcuni allievi in via telematica. Ovviamente è una modalità per molti di noi del tutto nuova e che, forse, ci ha colti un po’ troppo di sorpresa ma, superate le prime difficoltà tecniche, è servita sia a me che agli allievi per poter continuare a confrontarci. Mi sento di ringraziare gli studenti per essersi/ci messi in gioco con la volontà di continuare ad imparare reciprocamente”.

-Vivi da solo o con qualcuno? E quanto ciò risulta importante?
“Vivo da solo ma non sono solo… Ho trovato una forza inaspettata nella lettura, mi sono immerso nella poesia ed ho continuato a viaggiare con la musica; nell’esperienza sensibile ho trovato e ritrovato vicinanza con amici nuovi e di un tempo, con i miei familiari e con diversi colleghi, anche d’oltre confine, che mi hanno dimostrato una sincera fratellanza”.

-Pensi che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e professionali sotto una luce diversa?
“Non posso parlare al plurale… per quanto mi riguarda sì. In momenti di crisi profonda come questo penso sia naturale riconsiderare, analizzandoli, sia i rapporti umani che quelli professionali, quindi sarà naturale per me un cambiamento, spero in meglio ovviamente”.

-Credi che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento?

“Sinceramente la musica mi ha portato aiuto e soccorso in tantissimi momenti della mia vita e forse ho scelto di fare il musicista proprio grazie alla musica, che mi ha sempre teso la mano nei momenti più bui. Ho sempre pensato che la musica abbia un enorme potere terapeutico e non a caso, in musicoterapia, viene addirittura impiegata a livello educativo e riabilitativo. Quindi sì, in generale penso che la musica possa aiutarci in questo tragico evento”.

-Se non la musica a che cosa ci si può affidare?
“A tutto quello che può darci forza”.

-Quanto c’è di inutile retorica in questi continui richiami all’unità?
“Gli slogan, soprattutto se pronunciati con vanagloria, non fanno per me”.

-Sei soddisfatto di come si stanno muovendo i vostri organismi di rappresentanza?
“Bella domanda, in effetti vorrei sapere anch’io quali sono questi organismi di rappresentanza nel nostro settore… evitando polemiche, visto la tragicità del momento storico che stiamo vivendo, noto che diverse associazioni si stanno muovendo in modo positivo per portare le problematiche legate al nostro lavoro (in primis quella di considerare la musica un lavoro) alle alte sfere del governo. Spero in un dialogo efficace che porti ad altrettante efficaci normative. Utopia?”.

Se avessi la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederesti?
“Anche ragionando in astratto temo che concretamente non verrei nemmeno ascoltato”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“Mi sono totalmente re-immerso nell’ascolto dell’Esbjorn Svensson Trio, soprattutto nella loro produzione discografica Live. Consiglierei l’ascolto dell’intera discografia…”.

 

Una cervogia tiepida alla tua salute, Ezio…

La prima volta che sentii parlare di Ezio Bosso fu nel 2003. Dopo aver letto il bellissimo romanzo “Io non ho paura” di Niccolò Ammanniti, in cui il tema della solidarietà tra esseri umani è l’essenza, uscì il film omonimo di Gabriele Salvatores.
Mi piacque il film e apprezzai molto la colonna sonora; andai quindi a cercare chi ne fosse l’autore e quali gli esecutori.
Il nome Ezio Bosso non mi disse granché, conoscevo, invece, il Quartetto D’Archi di Torino, che suonò le “14 danze diatoniche per bambini” e le composizioni brevi originali, mentre l“Andante dal concerto in Sib maggiore per violino ed archi” di Vivaldi fu eseguito dall’Orchestra di Madrid (violino solista Giacomo Agazzini del 4etto d’Archi di Torino); entrambi gli ensemble diretti da Bosso.

Ezio Bosso – Villa Manin – Ud – ph Domenico Mimmo Dragotti

Nel 2016, guardando il Festival di Sanremo, abbinai finalmente quel nome ad una faccia e ad un corpo: un Ezio Bosso, visibilmente emozionato, fece un’apparizione che colpì e commosse l’Italia intera, presentando la sua musica al pianoforte e mettendo a nudo le sue fragilità, la sua malattia, senza paura di mostrarsi.
Ebbene, come poche altre volte nella mia vita, ricordo di aver provato una strana sensazione, non proprio positiva, in controtendenza rispetto all’acclamante pensiero “unico” generale… si trattava di un pregiudizio, sebbene in quel momento non l’avessi catalogato come tale.
Me ne vergogno un po’, ora, avendo in seguito conosciuto personalmente Ezio, però so che la mia mente fu attraversata da un pensiero… “ma questo, non sarà mica un altro che sfrutta la sua malattia per fare audience?”. Lo so, è un pensiero orribile, i pregiudizi lo sono tout court… e infatti è strano, perché io so di non essere “quel” tipo di persona, né di avere “quel” tipo di forma mentis…
Accantonai tutto ma qualche giorno dopo, il direttore artistico di Euritmica, associazione culturale per la quale curo l’ufficio stampa, mi chiese se avessi visto Bosso a Sanremo perché lui, molto prima di quel passaggio televisivo, aveva fissato una data in Teatro a Udine, per il 10 maggio 2016.
Ad Aprile, Bosso venne in Friuli Venezia Giulia, al Teatro Rossetti di Trieste; decisi di andarci; ascoltarlo dal vivo mi sarebbe servito per scrivere un articolo e per il mio lavoro di ufficio stampa per la nostra data.
Entrai nel bellissimo Teatro triestino, dal soffitto di cielo, conscia di essere prevenuta nei confronti del musicista piemontese.
Ne uscii completamente trasformata…
Il concerto iniziò con “Following a Bird”, lo stesso brano che avevo ascoltato a Sanremo e, canzone dopo canzone ma soprattutto parola dopo parola, compresi quanto avessi sbagliato nel mio superficiale giudizio su Ezio.
Mi sono letteralmente persa con lui, in una delle sue stanze, ascoltandolo mentre parlava della sua visione del verbo perdere: «ho smesso di soffrire quando ho cominciato a perdere tempo. Diamo sempre un’accezione negativa al verbo “perdere”, ma non è così: sono da perdere più le cose buone che quelle cattive. Perdete più che potete».

Mi sono persa mentre raccontava, a suo modo, la storia d’amore tra lo “sfigato” e malaticcio Chopin e Georges Sand, scrittrice spregiudicata, amata da diversi uomini di cultura della sua epoca (le donne che scrivono – e che sanno amare – sono pericolose…); persa tra i versi della sua (e anche mia) poetessa preferita, Emily Dickinson, che trascorse la sua vita osservando il mondo da una stanza, i cui poemi Ezio declamava faticosamente ma con un’intensità che mai avevo ascoltato prima… irrimediabilmente perduta nel cogitabondo tributo al maestro John Cage con “In a Landscape” e la celeberrima “4’33”, ricordando il suo incontro reale con il maestro che studiò a lungo la stanza anecoica (dove il silenzio si può ascoltare), avvenuto al Consevatorio, a Torino, quand’era poco più che un bambino. Cage lo difese dalle aggressioni verbali – e non solo – di un insegnante: “A me sembra molto bravo. – disse Cage al docente – “Perché grida?”
Poi arrivò il concerto di Udine, al Teatro Nuovo. Non avemmo neppure il tempo di avviare le prevendite: sold-out in 48 ore!
Il 10 maggio 2016, conobbi Ezio di persona, in una stanza del teatro molto cara agli artisti, il camerino. Era attorniato dalle persone del suo staff più stretto, Annamaria, Nepal (non chiedetemi il perché di quel nome…) molto protettive nei suoi confronti, forse il giusto.

Ezio Bosso – Teatro Nuovo Giovanni da Udine – ph Domenico Mimmo Dragotti

Il Friuli è patria di vini eccellenti ma a Ezio la birra piaceva di più.
A parte la Dickinson, trovammo un altro punto in comune. Mio marito ed io le birre le produciamo artigianalmente in casa! Ricordo che fu molto interessato all’argomento.
Il concerto fu magnifico, al solito. Ezio si arrabbiò con una sua fan, diciamo… esuberante… che nonostante il divieto, scattò delle foto durante l’esibizione… con il flash!
Alla fine si andò tutti a cena ed iniziammo a parlare, scoprendo altri suoi aspetti; dell’uomo, più che del musicista. Era appassionato dei Monty Python, ci fu quasi una gara di citazioni! Credo la vinsero il direttore artistico, Giancarlo, e i suoi figli. Poi, parlando ancora di birre, io citai Asterix e la cervogia… calda, dissi. Lui mi corresse subito, ridendo: “No, Marina, era tiepida!”
Già… aveva ragione. Andammo a dormire alle 4 del mattino.

Ezio, Rita ed io – Udine, 10 maggio 2016

Ci furono altri concerti da noi organizzati, si era creata un’amicizia, non sempre accade con gli artisti, anzi quasi mai… c’era una grande sintonia e lui in Friuli ci veniva volentieri.
A giugno dello stesso anno, il 2016, chiuse il Festival Internazionale Udin&Jazz, sempre curato da noi, in uno scenografico Castello di Udine, davanti a migliaia di persone che vidi uscire commosse… lui riusciva a portarti in altre dimensioni…
Altra cena… finita a notte fonda.

Ezio Bosso e Giancarlo Velliscig – Udin&Jazz 2016 – ph Alice BL Durigatto Phocus Agency

Poi, a febbraio del 2017, al Verdi di Pordenone: ci abbracciò ad uno ad uno al suo arrivo…
Un altro tutto esaurito… un’altra delle sue magie, anzi maghezzi, come li chiamo io in forma dialettale! Sul mio profilo Instagram pubblicai una sua foto mentre, seduto di fronte a me, alla Vecia Osteria del Moro, sempre con quel suo dolcissimo sorriso sulle labbra, mangiava con grande appetito, bevendo… birra… ça va sans dire!
Scrissi nel post: “S” di Sanremo. Voi. Noi a Pordenone con Ezio Bosso e le sue “S”: Suonare, Steinway and Sons (il suo fratellone!), Standingovation, Sony, Sorridere, Sfamarsi, Sorseggiare, SauvignonCabernet (noi!), Sbadigliare, Sbaciucchiarsi, Salutare #comesenoncifosseundomani #davidromano #reljalukic #grazie #fvglive #fvg #musica #notenuove #euritmica.

Ezio – Pordenone

Il concerto pordenonese “Music For Weather Elements” non era un piano solo ma un trio, con David Romano, al violino e Relja Lukic, al violoncello, una rivisitazione per pianoforte e archi dei suoi brani, riscritti per questa formazione in occasione della firma di un contratto pluriennale in esclusiva con Sony Classical.
L’ultima volta fu sempre nel 2017, a fine luglio, l’unico recital piano solo che Ezio tenne quell’anno, nella meravigliosa Villa Manin, dimora dogale, di Passariano di Codroipo, c’era Annamaria ed anche i suoi cani, basset hound, mi pare.
“Ti trovo davvero molto bene, migliorato rispetto a Pordenone – gli dissi – “come se la tua malattia ti stesse concedendo una tregua”. Mi abbracciò. I suoi abbracci erano avvolgenti e coinvolgenti…

Ezio Bosso – Villa Manin – Codroipo (UD) – ph Domenico Mimmo Dragotti

Ennesima “nottolata”, sotto una delle barchesse della Villa, dove è ospitato il ristorante.
Ci salutammo quasi all’alba, con la promessa di rivederci per altri concerti.
La mattina dopo, il 1 agosto, lui scrisse e pubblicò sulla sua pagina Facebook queste parole:
“Udine-Codroipo… Ancora una volta, attraversammo ancora stanze, attraverso la stanchezza e il dolore di una tristezza. Attraversati dall’affetto che vibra di dolcezza, affetto sonante, affetto risuonante, in un suono che si allarga e attraversa il tempo. E resta indelebile, come la nostalgia della stanza incontrata, di sorrisi, di gentilezza a cui (ormai) appartieni. Riempi per un attimo ogni pezzo mancante e come ogni attimo… lascialo infinito. Grazie Udine”
Poco dopo lui divenne direttore artistico del Teatro Verdi di Trieste… pian pianino smise di suonare, continuando a comporre e soprattutto a dirigere.

Il “fratellone” Steinway & Sons Gran Coda di Ezio a Villa Manin

Il mio direttore artistico l’aveva sentito qualche settimana fa, voleva portarlo nuovamente in Friuli Venezia Giulia, quest’estate, con la sua Europe Philharmonic Orchestra, qualora le misure di contenimento del virus Covid-19 avessero funzionato e permesso lo svolgimento di concerti…
Ero felice per questo… speravo tanto si potesse.
Invece… “A volte le parole non bastano, ma resta il sorriso, quel respirare insieme, quel sogno ininterrotto in ogni respiro, in un riposo cercato e uno forzato. Quel sogno in ogni nota, quel sogno di vivere ancora perché resta ogni afflato, e ogni affetto trovato. Perché le cose che restano sono quelle che trovi… quelle che cerchi…”
Una cervogia tiepida alla tua salute, maestro…

Marina Tuni

Storie di jazz e d’amore con il Jim Rotondi 5et e la cantina Villa Russiz, nel secondo appuntamento di Jazz&Wine Experience Trieste

Sorprendente per diversi aspetti il secondo concerto della rassegna Jazz&Wine Experience, con il quintetto del trombettista statunitense Jim Rotondi, svoltosi domenica 16 febbraio all’Hotel Double Tree by Hilton di Trieste, città che figura sempre ai primi posti nel mondo tra le tendenze e le preferenze di viaggio, e questa location da sogno sta diventando in brevissimo tempo un punto di riferimento dell’hôtellerie stellata tergestina, con tutte le potenzialità per candidarsi ad essere anche un rilevante hub culturale, grazie all’offerta di proposte, specialmente musicali.

In questo luogo, dall’appeal indiscutibile, Michela Parolin, direttore artistico di Jazz&Wine Experience, ha scelto di portare il trittico di concerti itineranti (le altre location sono l’Hotel Bauer di Venezia e il Camera Jazz Club di Bologna). L’idea vincente sta nell’accostamento di eccellenze, ovvero concerti di musica jazz di alta qualità e  rinomate aziende vinicole, facendo uscire queste ultime dalle rispettive cantine ed innestando il tutto in ambienti di grande pregio, con una visione sistemica di marketing valoriale del territorio.

Non vi nascondo che ho provato una forte emozione, in apertura di concerto, ascoltando le parole di Giulio Gregoretti, direttore generale della fondazione Villa Russiz. Il mio viaggio in un inconsueto cosmo noetico inizia degustando un Sauvignon Cru De La Tour, frutto della vendemmia manuale di vigneti selezionati che dimorano nella parte più alta e rivolta a nord-est di una collina, dove le piante ricevono e assorbono il primo lucore dell’alba; poi, assecondando la rotazione del sole, rimangono a meditare nell’ombra per il resto della giornata. Lo sorseggio piano, reincontrando sul palato ciò che il mio olfatto aveva percepito.

Tuttavia, lo stupore più profondo si manifesta quando Giulio inizia la sua narrazione sull’origine della cantina, generata dalla storia d’amore tra Elvine Ritter de Zahony e il conte Theodor Karl Leopold Anton de la Tour Voivrè, che proviene da un’antica e nobile famiglia francese. Gli sposi ricevono in dote dal padre di Elvine le terre di Russiz, 100 ettari nel Collio Goriziano, un terroir prezioso per la coltivazione dei vigneti.

Siamo nel 1868 e qualche anno dopo il conte, esperto viticoltore, importa in modo rocambolesco le barbatelle dalla Francia. Come? Accuratamente nascoste in grandi bouquet floreali da regalare alla sua amata sposa. I due coniugi riescono a fondere mirabilmente le rispettive competenze e inclinazioni a Villa Russiz: l’uno rivoluzionando le tecniche di coltivazione e contribuendo a fare del Collio la zona di alta eccellenza vinicola che è attualmente e l’altra seguendo la sua vocazione filantropica avviando, a partire dal 1872, un ente assistenziale per l’infanzia abbandonata a Gorizia, un progetto di accoglienza a Trieste e una struttura di assistenza per bambini bisognosi e per anziani alcolizzati a Treffen, In Austria. Un modello d’impresa etica ante litteram.

Purtroppo, la Grande Guerra blocca le encomiabili attività della Contessa e Villa Russiz diviene, per volere del Generale Cadorna, un ospedale militare nel quale presta la sua opera la crocerossina (poi decorata al valore militare) e nobildonna piemontese Adele Cerruti. Nel 1919 Adele, figlia di un Ministro del Regno d’Italia, sfrutta a fin di bene la sua posizione per riportare alla destinazione originale la struttura creata da Elvine, che diventa quindi un istituto per orfane di guerra. Attualmente, l’anima etica di Villa Russiz esprime la sua vocazione all’accoglienza per i minori in difficoltà (in questo momento 12) nella Casa Elvine, spirito guida di questo importante e caritatevole percorso umanitario.

Ma… “Now’s the Time” (cfr Charlie Parker) di parlare di jazz! Jim Rotondi, trombettista americano di fama mondiale, fa dichiaratamente parte della schiera di musicisti “folgorati sulla via del jazz” ascoltando Clifford Brown, gran maestro dell’Hard bop, nonostante sia morto in giovane età.

Il suo percorso artistico l’ha portato ad esibirsi con il gotha del jazz, finanche con il mitico Ray Charles e con Lionel Hampton. E scusate se è poco… Nel mini tour italiano è accompagnato da Andy Watson, batterista newyorchese, componente stabile del Jim Hall Trio, che figura spesso tra i top 10 di varie riviste specializzate di tutto il mondo, e dagli italiani ma dal respiro internazionale Renato Chicco al pianoforte, Aldo Zunino al contrabbasso e Piero Odorici al sax.

Si parte con una composizione originale di Rotondi: “Blues For BC”. Il titolo è una dedica alla provincia canadese della British Columbia. Tromba e sax dialogano a colpi di riff e il raffinato pianismo di Chicco si palesa immediatamente con un bellissimo assolo elegantemente stilizzato da un tocco cristallino e da una notevole varietà nelle coloriture e nella dinamica.

L’esecuzione di “Martha’sPrize”, un classico di Cedar Walton che, ricordiamolo, faceva parte della line-up dei mitici Jazz Messengers, si contraddistingue per gli ottimi svolazzi bebop del sax di Odorici e per un’idea di groove geniale nella sua essenzialità. Il flicorno di Jim ha movenze morbide e un timbro pastoso. Durante l’assolo di sax, colgo un’espressione estatica di Rotondi, appoggiato vicino ad una finestra della sala, mentre si lascia trasportare dalla musica sorridendo…

I cromatismi di Thelonius Monk irrompono come un arcobaleno dopo una pioggia scrosciante: è la romantica “Reflections”, in un arrangiamento che presenta linee aperte nelle quali trovano un giusto bilanciamento le dimensioni improvvisative e di scrittura. Un Monk riletto in chiave light post-bop. Fantasioso e incisivo l’assolo di Chicco, ricco di fraseggi serrati, ritmicamente incalzanti e aperture melodiche; stretto il giuoco delle parti tra sax e tromba. La sezione ritmica Watson-Zunino? Grandissima classe, elasticità e squisito drive.

Parte “You Taught My Heart to Sing” classicone di McCoy Tyner: “hai insegnato al mio cuore a cantare…”, seguo l’esecuzione canticchiando sottovoce… molto sottovoce… non essendo (purtroppo) Diane Reeves, che ricordo inarrivabile nella sua interpretazione di questo brano, accompagnata al piano da Mulgrew Miller. È Piero Odorici, qui, a dettare la linea melodica principale cogliendone ogni sfumatura e riempiendo ogni spazio con delicatezza rara.

Il cuore batte sempre più forte nel riconoscere le “immagini sonore” di George Gershwin, tra i più geniali compositori dell’ “età del jazz”. Il musical “Pardon my English”, che non ebbe certo una vita fortunata, né il successo sperato, continua tuttavia a regalarci diverse perle musicali… tra le quali “Isn’t a Pity”, dove il suono carezzevole e viscerale del flicorno di Rotondi è intriso di lirismo e dove il pianoforte di Renato Chicco sprigiona note che paiono gocce di cristallo lucente.

Un intenso botta e risposta tra la tromba con sordina di Jim e il sax  di Piero e un assolo di batteria al fulmicotone di Andy Watson, sono gli ingredienti principali di “My Shining Hour”, note di pure joy.

Ci si avvia alla conclusione con una dedica al pianista Harold Mabern, figura iconica del bebop recentemente scomparso. La sua “I Remember Britt” (Mabern la scrisse per il trombettista Lee Morgan, ammazzato con un colpo di pistola dalla moglie, a 33 anni soltanto, in un jazz club di New York) inizia in modo spiazzante, con quello che interpreto come un divertissement, ossia con le inconfondibili note della canzoncina “Fra’ Martino Campanaro”, suonate al piano. Non capisco ma mi adeguo. Il resto è uno splendido saggio di jazz, energia cinetica che muove la storia.

Il brillante set si chiude con un richiestissimo bis, la swingheggiante “On a Misty Night” di Tadd Dameron. Ve la ricordate suonata dal pianista di Cleveland con John Coltrane? Si, quella di “Mating Call”, anno 1956. Un richiamo d’amore.

E cos’è, in fondo, il jazz se non un irresistibile e ammaliatore canto, dal quale siamo inesorabilmente sedotti? Chissà se Duke Ellington pensò a questo quando compose “Circe” (una registrazione del 1946 che rimase inedita fino al 1994), dedicandola alla maga che mise in guardia Odisseo sulle insidie del canto delle sirene.

Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose…

Grazie alla musica jazz, al Jim Rotondi 5et, al buon vino, alle storie d’amore e di solidarietà, a Trieste e al suo mare per aver evocato tutto questo…

Marina Tuni

Immagini: courtesy Jazz&Wine Experience / Giorgio Bulgarelli / Fondazione Villa Russiz / M. Tuni

Sarah-Jane Morris e Antonio Forcione a Madame Guitar: una Musica senza compromessi per riscoprirsi comunità…

A Madame Guitar, Festival della chitarra acustica che si svolge a Tricesimo (Ud), c’ero stata nel 2015, per seguire e raccontare i concerti della decima edizione; ci sono ritornata nel 2019 e ho ritrovato gli stessi, incantevoli elementi “scenici”: tanta musica di qualità – 24 concerti in tre giorni – e un borgo dalla storia antica, con un importante patrimonio di chiese, castelli e case contadine dal fascino sempiterno, tracce di un passato che racconta di insediamenti risalenti niente meno che all’epoca preistorica.

In mezzo a tante perle, ho scelto di recensire il concerto che più mi ha coinvolta, dal punto di vista musicale ma anche emotivo e, se vogliamo, sociale.

Sto parlando del duo composto dal chitarrista Antonio Forcione, molisano d’origine che vive a Londra da quasi quarant’anni e che il Guardian inserisce nel gotha dei chitarristi acustici, e da Sarah-Jane Morris, una voce multi-ottave sbalorditiva, in grado di esprimere uno spettro infinito di colori primari, secondari, terziari… e di contrasti policromi che neppure il cerchio cromatico di Johannes Itten riuscirebbe a circoscrivere!

ph: Angelo Salvin ©

Sul palco del Teatro Garzoni, nella giornata di apertura del festival (venerdì 20 settembre) Morris e Forcione sono stati preceduti da un talentuoso duo di chitarristi provenienti dall’Umbria, i Fingerprint Project, ovvero Michele Rosati e Rachele Fogu, che hanno fatto vibrare la platea con virtuosismi, eseguiti sempre in souplesse, così come il fingerstyle, il tapping, gli arpeggi, con ottimi arrangiamenti e, soprattutto, con un’impronta stilistica un po’ fuori dai canoni.

Il secondo set ci ha riservato una sorpresa inaspettata: l’americano Trevor Gordon Hall e il suono trascendente della sua ‘kalimbatar’, uno strumento da lui stesso inventato che riunisce chitarra e kalimba, corde e denti metallici, in un’unica cassa armonica. I suoi pezzi sono vere e proprie sculture sonore che regalano nuove prospettive di ascolto e arcane sensazioni uditive… Non ci credete? Provate a cercare su Youtube la sua versione di “Clair de Lune” di Claude Debussy, arrangiata per kalimbatar…

Il penultimo concerto della lunga serata è stato quello del  maestro sardo Marino De Rosas, che ha da poco pubblicato un album prezioso «Intrinada» (anche perché ne pubblica uno ogni dieci anni!).

Un set dal forte carattere stilistico, intenso: chitarra con accordatura alternativa, scale arabe, stratificazioni sonore, mood che mutano dal malinconico crepuscolare alle solari melodie mediterranee e ibridazioni culturali tra la penisola iberica e la Sardegna. Tutto ciò senza dimenticare che la sua anima, un tempo, era decisamente più orientata verso il rock… da qui lo splendido medley finale con, in sequenza, “Eleanor Rigby”, “Paint it Black” e “Jump”.

Marco Miconi, patron di Madame Guitar, fatica non poco a quietare l’entusiasmo del pubblico che lo reclama per un altro bis, “Cannonau”, dall’album «Meridies».

In questa notte infinita – ma che sta per finire – manca solo l’ultimo set, il più atteso: il palco è tutto per Sarah-Jane Morris e Antonio Forcione.

Sarah-Jane sembra uscita da un quadro preraffaelita di Dante Gabriel Rossetti, la “Ghirlandata”, con i suoi capelli rossi e l’elegante l’abito a fiori dalle sfumature autunnali, verde cinabro, ardesia e borgogna; Antonio con il suo cappellino nero pare un filibustiere, un freeboter, libero predatore di note.

Il primo brano, “Awestruck”, parla di una donna dagli amori compulsivi e ci proietta subito in una dimensione alta, dove ritrovi Billie Holiday, Nina Simone, Sarah Vaughn e Janis Joplin, timbri sabbiati e graffianti, ironia e un raffinato latin sound, con un ritornello immediatamente cantabile anche da chi non conosce la canzone.

Un sottile fraseggio di Antonio apre “Comfort zone”, un ricamo delicato che si contrappone alla drammaticità del testo che è pura poesia, pur parlando di violenza sulle donne, ed è dedicata alle 5 prostitute inglesi di Ipswich che nel 2006 vennero trucidate da un serial killer. Sarah la propone in una sorta di Sprechgesang, una forma di recitazione cantata. Molto toccante.

“All I want is you” è un pezzo, come i primi due, scritto dalla Morrris e da Forcione e tratto dal loro più recente album «Compared to what» (senza il punto interrogativo perché – dicono i due artisti – “non è una domanda, non cerchiamo confronti. È il nostro modo di affermare che noi siamo noi!”). Lo ascolto con pensosa leggerezza, immaginando, senza nulla togliere alla splendida interpretazione di Sarah-Jane, che il brano si attaglierebbe perfettamente alla vocalità dell’indimenticato Al Jarreau, inarrivabile, a volte, come in “Roof Garden”, che sento affine a “All I want is you”. E ne rimango affascinata.

Sul fronte delle cover, una “Superstition” di Stevie Wonder versione stripped down che, spoglia della sezione fiati, poteva anche non funzionare e invece è pazzesca! La quintessenza del funk in una chitarra e in una voce… che qui sprigiona tutta la sua energia e potenza soul mentre Antonio, con la sua chitarra acustica, riempie il suono come se sul palco ci fosse un’intera band. “Message in a bottle”, capolavoro dei Police, viene presentato da Sarah usando un ossimoro: loneliness together, solitudine insieme… e la metafora del naufrago è un messaggio che arriva forte attraverso la voce della vocalist inglese, che riesce ad esprimere pienamente il senso di disagio e di emarginazione dell’essere umano nella società moderna. L’ultima cover (il bis), un’evocativa e ieratica “Blowin’ in the wind” di Bob Dylan, inizia con una intro di Antonio dal languore malinconico… suoni delicati e un graffiare le corde che ricorda, grazie all’effetto delay, il soffiare del vento. La voce di Sarah-Jane, in certi momenti sussurrata, ha la dolcezza di una ninna nanna… e suona meravigliosamente strana, perché da lei ti aspetteresti sempre un approccio più “muscolare”… alla fine lei emette un suono che simula una folata improvvisa e noi ci chiediamo se prima o poi le risposte ai tanti interrogativi delle nostre anime inquiete arriveranno portate da un alito di vento.

In una scaletta che affronta con profondità e partecipazione temi sociali di attualità non poteva mancare l’immane tragedia dei migranti nel mar Mediterraneo, raccontata in “The Sea”, un blues che inizia con un recitativo e una frase ripetuta in loop : “not in my name, not in my name…” che ci fa ricordare come, dopo anni e anni di lotte, ci sia ancora molto da lavorare sul fronte dei diritti civili. Purtroppo…

Nell’ultima parte di questa viscerale performance ascoltiamo anche “All of My Life”, in cui la cantante racconta l’esperienza del divorzio (è stata lungo sposata con David Coulter dei Pogues N.d.R) e “Compared to what”, un brano scritto nel 1966 da Gene McDaniels come denuncia contro la guerra nel Vietnam e reso famoso da Roberta Flack, sebbene per noi jazzofili rimanga memorabile la versione del pianista Les McCann e del sassofonista Eddie Harris al Montreux Jazz Festival del 1969.

Antonio lo ripropone con un incisivo stile slap funk, scelta perfetta per la splendida voce di Sarah-Jane che ti sconquassa l’anima con una tempesta emotiva e passionale.

“Tryin’ to make it real — compared to what?” – recita un efficace ed ossessivo riff –   e alla fine la vocalist sciorina una sequela di personaggi che, ognuno nel proprio campo, per il coraggio e l’unicità delle azioni compiute, che sembravano utopie, hanno reso possibile l’impossibile: Marthin Luther King, Madiba (Nelson Mandela), Stephen Biko, Carl Marx, Leyla Hussein, il Dalai Lama, Indira Gandhi ma anche Oscar Wilde, John Lennon, Woody Guthrie, James Brown, Robert Wyatt e molti altri… tutti mossi dalla stessa enorme passione e dalla voglia di rendere il mondo un posto migliore.

Io esco dal teatro, dopo aver parlato un po’ con Sarah e Antonio, con l’idea che dobbiamo riscoprire una nuova dimensione sociale, un nuovo èthos, un tempo di bellezza, di passione, di impegno, ritrovando il senso della comunità…

Marina Tuni

Si ringrazia Angelo Salvin per le immagini e il direttore artistico, assieme allo staff di Madame Guitar.

 

Grande musica a GradoJazz by Udin&Jazz: in particolare evidenza Gonzalo Rubalcaba e Snarky Puppy

Snarky Puppy Grado 11.7.19 ph: Dario Tronchin ©

Si è conclusa con una standing ovation la 29° edizione di “Udine&Jazz” o se preferite la I° di “GradoJazz”. No, non sto giocando con le parole o con i numeri, sto solo sottolineando come, giunto alla sua 29° edizione, “Udine&Jazz”, per volontà del suo ideatore Giancarlo Velliscig, ha abbandonato il capoluogo friulano per motivazioni di carattere politico già ampiamente illustrate in questa stessa sede. La scelta è caduta su Grado, splendida località tra laguna e mare, storica stazione turistica di tedeschi e austriaci. Ed è stata una scelta pagante: ottima l’accoglienza delle autorità comunali, ottima la risposta del pubblico, splendida la location del Parco delle Rose al cui interno è stata istituita una tenso-struttura capace di ospitare un migliaio di persone con una resa acustica soddisfacente. Unico elemento su cui non si è stati in grado di intervenire la pioggia, che si è fatta vedere a giorni alterni provocando comunque qualche guasto come l’annullamento del concerto di “Maistah Aphrica” un gruppo di otto musicisti molto amati e di cui qui in Friuli si dice un gran bene.

Palmanova, 06/07/2019 – Grado Jazz by Udin&;Jazz – King Crimson Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2019

E proprio la pioggia è stata la grande protagonista del concerto che nella Piazza Grande di Palmanova, il 6 luglio, ha inaugurato la fase finale del Festival, dopo i concerti-anteprima a Tricesimo, Cervignano, San Michele del Carso e della rassegna “Borghi Swing” a Marano Lagunare. Nella storica cittadina in provincia di Udine era in programma l’attesissimo concerto dei King Crimson; durante tutta la serata la pioggia ha flagellato costantemente le migliaia di spettatori giunti per ascoltare la storica band. Alle 22,30 tutto lasciava prevedere che il concerto non si sarebbe potuto svolgere, data l’inclemenza del tempo. Ma gli organizzatori hanno tenuto duro nella speranza che la pioggia si fermasse ed hanno avuto ragione ché verso le 23 finalmente ha smesso di piovere e Fripp e compagni hanno fatto il loro ingresso sul palco suonando per circa due ore. Ed è stato tutto un amarcord: ho visto spettatori più che adulti commossi quasi fino alle lacrime nell’ascoltare la musica che probabilmente aveva accompagnato la loro gioventù. Ed in effetti i King Crimson hanno riproposto un repertorio di brani celebri: da “Epitaph” a “In the Court of The Crimson King”, da “Starless” al bis, arrivato all’una di notte, “21st Century Schizoid Man”. L’esecuzione è stata degna di cotanto nome anche se personalmente non ho particolarmente gradito l’insistenza di Fripp sulle distorsioni: uno, due, tre vanno bene… ma tutto un pezzo suonato in questo modo francamente per me è troppo. Confesso comunque di non essere un giudice imparziale dal momento che i King Crimson non hanno mai fatto parte della mia formazione musicale.

Quinteto Porteño ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Archiviato l’evento, eccoci a Grado per la prima serata del festival vero e proprio (il 7 luglio). Apertura come si dice col botto data la grande levatura dei musicisti, italiani, sul palco. A rompere il ghiaccio è stato il “Quinteto Porteño” e per il vostro cronista è stata forse la sorpresa più bella del festival. Amo incondizionatamente la musica di Piazzolla ma solo molto raramente mi è capitato di ascoltare un gruppo che pur rifacendosi alla musica del grande compositore argentino riesca ad esprimerne adeguatamente lo spirito. Di solito manca la carica drammatica, il pathos. Ebbene il “Quinteto Porteño” nonostante abbia eseguito solo musiche originali, è riuscito perfettamente a ricreare quelle atmosfere, quelle suggestioni care a Piazzolla. Il tutto grazie ad una empatia che costituisce l’asse portante del gruppo: così, mentre la scrittura è equamente divisa tra Nicola Milan (accordion) e Daniele Labelli (pianoforte), il compito di esporre la linea melodica è principalmente sulle spalle dell’eccellente violinista Nicola Mansutti, ben sostenuto da Roberto Colussi alla chitarra; una menzione particolare la merita Alessandro Turchet assolutamente sontuoso al contrabbasso sia in fase di accompagnamento sia negli interventi solistici tutt’altro che sporadici. Come si accennava, quel che affascina in questo quintetto è la compattezza declinata attraverso arrangiamenti sempre ben studiati che trovano terreno fertile nella bellezza dei temi caratterizzati sempre da una suadente linea melodica. Così tutti i musicisti si mettono al servizio del collettivo, senza ansia o volontà di strafare; in questo senso perfetto il contributo del fisarmonicista: di solito, nei gruppi tangheri, la fisarmonica tende e strafare; non così nel “Quinteto Porteño” in cui Nicola Milan è apparso sempre misurato, suonando le note indispensabili al progetto, non una di più.

Paolo Fresu Trio, Grado 7.7.19 ph: Gianni Carlo Peressotti ©

A seguire il trio di Paolo Fresu con Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso. I tre hanno presentato la colonna sonora dello spettacolo teatrale “Tempo di Chet” che hanno portato in giro per oltre sessanta repliche. Di qui un’intesa umana oltre che musicale che si percepisce immediatamente, al primo ascolto: il gruppo si muove in maniera coesa, mai una sbavatura, mai un’indecisione, con Fresu a tracciare e dettare le atmosfere, con Rubino a disegnare straordinari tappeti armonici e Bardoscia a legare il tutto.  In repertorio, oltre ad alcuni standard preferiti da Chet Baker, brani originali sempre nello spirito e nel ricordo di Chet. Ecco, quindi, tra gli altri, “My Funny Valentine”, “Basin Street Blues”, “The Silence Of Your Heart”, “Jetrium” un original in cui si ascolta la batteria preregistrata di Stefano Bagnoli, “When I Fall In Love”; in conclusione si ascolta brevemente la voce dello stesso Chet Baker che interpreta “Blue Room”. Particolarmente curiosa la storia di un altro original, “Hotel Universo”, presentato durante il concerto e scritto da Fresu in ricordo di una particolare notte; quella volta a Lucca – è lo stesso Fresu a raccontarlo – “alloggiavo all’ Hotel Universo. La signora alla reception mi dà le chiavi della numero 15. Salgo in camera, è una bella stanza ampia arredata con mobili un po’ retrò, stile anni Cinquanta. Mi sistemo, apro la finestra che dà su piazza del Giglio e prende posto su una sedia. Sopra il letto è appesa una fotografia: è Chet Baker. E’ seduto nello stesso posto in cui sono seduto ora. Dietro, dalla finestra aperta, si vede la piazza, esattamente come ora, dalla medesima finestra. Insomma un bell’omaggio di una albergatrice che evidentemente mi vuole bene”. Comunque ricordi a parte, set assai intenso, di grande impatto emotivo non a caso salutato dal foltissimo pubblico con calorosi applausi.

A completare una prima serata assolutamente positiva un duo di classe con Laura Clemente alla voce e Andrea Girardo alla chitarra. Laura è una vocalist raffinata, dotata di una bella voce, di notevoli capacità interpretative, di un gusto particolarmente ricercato: nel suo repertorio figurano brani tutti di notevole spessore anche se non sempre identificabili con il jazz… ma questo poco importa.

Clemente&Girardo duo 7.7.19 ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Anche la seconda giornata – ad ingresso gratuito –  si apre con una sorpresa: il trio del pianista brasiliano Amaro Freitas, con Hugo Medeiros alla batteria e Jean Elton al contrabbasso. Cresciuto nelle favelas di Recife, il giovane Amaro si è costruito passo dopo passo uno stile del tutto personale, uno stile percussivo in cui tuttavia è possibile riscontrare le influenze di alcuni maestri sia del jazz quali Ellington, Monk e Tatum, sia della musica brasiliana, Egberto Gismonti su tutti. Il rapporto con la musica inizia nella chiesa evangelica grazie al padre che, quand’era bambino, gli insegna a suonare la batteria. La tastiera arriva solo in un secondo momento perché, durante le funzioni religiose, c’è bisogno di uno strumento che funga da accompagnamento. Venendo al concerto di Grado, dopo il brano d’apertura – “Coisa n. 4” di Moacir Santos – Amaro ha sciorinato una serie di sue composizioni (“Dona Eni”, “Samba de César”, “Paço”, “ Trupé”, “Rasif “, “Aurora”, “Mantra”) che hanno letteralmente mandato in visibilio il pubblico, colpito dalla straordinaria energia e inventiva dell’artista brasiliano. All’interno di “Vitrais” ha addirittura creato nuovi innesti musicali basati sulle note di “Con te partirò” di Bocelli e di “Bella Ciao”! Non è certo un caso che Freitas venga, quindi, considerato un rinnovatore della musica brasiliana “attraverso – come afferma lo stesso pianista –  una nuova forma di costruzione melodica e armonica che passa per la valorizzazione percussiva e per il work in progress collettivo che si realizza durante i concerti”.

Amaro Freitas 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

A seguire un’altra esibizione trascinante quella della “North East Ska Jazz Orchestra”. Nata nel 2012 la big band riunisce diciotto musicisti che si rifanno soprattutto alla musica giamaicana. L’intento era quello di unire molte persone attive professionalmente nel panorama della musica giamaicana e afroamericana presenti nel Triveneto. La NESJO fin da subito ha, quindi, ottenuto molti consensi, anche grazie alla collaborazione con importanti esponenti della musica ska e del reggae italiano, consensi che si sono registrarti anche al di fuori dei confini nazionali, in Francia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Slovenia e Croazia. Sostenuto magnificamente dalle voci di Rosa Mussin, Freddy Frenzy e Michela Grena il gruppo si muove su ritmi assai elevati, ottenendo successo di critica e di pubblico, successo che non è mancato a Grado.

Sempre l’8 in cartellone anche un terzo concerto con Lorena Favot 4et “Landscapes” ma, causa stanchezza, non sono riuscito a sentirlo; amici degni di fede mi hanno comunque riferito che si è trattato di una performance in linea con il livello alto della serata.

North East Ska* Jazz Orchestra 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Lorena Favot 4et 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Ed eccoci al 9 luglio con quella che personalmente consideravo la chicca del Festival, vale a dire l’esibizione del Trio di Gonzalo Rubalcaba.

Ma procediamo con ordine. Ad aprire la serata i “Licaones” al secolo Mauro Ottolini trombone, Francesco Bearzatti sax, Oscar Marchioni organo, Paolo Mappa batteria. Nato quasi per gioco con l’album “Licca-Lecca” di una decina d’anni fa, il gruppo ha conservato la vivacità e soprattutto la gioia di suonare degli inizi. Elementi questi che si riscontrano in ogni loro concerto: a vederli sul palco si intuisce immediatamente che si divertono a suonare e in tal modo divertono anche chi li ascolta, mantenendo il livello musicale sempre alto. Così verve, ironia, funky si mescolano in una ricetta originale e trascinante.

Licaones 9.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Successivamente è stata la volta del già citato Gonzalo Rubalcaba, in trio con Armando Gola al basso e Ludwig Afonso batteria. Illustrare, in questa sede, la carriera di Rubalcaba è impresa tutto sommato inutile tale e tanta è la popolarità raggiunta in tutto il mondo dal pianista cubano: basti dire che attualmente è considerato una delle massime espressioni del pianismo jazz, vincendo due Grammy e due Latin Grammy e ottenendo ben 15 nomination. Agli inizi era, a ben ragione, considerato un pianista “cubano” in quanto nel suo stile erano ben presenti tutti gli elementi musicali dell’ ”Isola”: Man mano, Gonzalo si è staccato da questo linguaggio per approdare ad una sintesi che è sua e solo sua. Descrivere la sua musica è infatti molto, molto difficile; si ascolta un flusso sonoro illuminato da improvvisi lacerti di gran classe che aprono come uno spiraglio, una luce improvvisa sull’universo sonoro disegnato dal trio. In quest’ottica, particolarmente brillante l’intesa con il bassista, con il quale Gonzalo collabora da una decina d’anni… e si sente chiaramente, dal momento che i due si uniscono, si accarezzano, si compenetrano, sempre insieme, come una mano in un guanto. Oggettivamente difficile il compito del batterista entrato nel gruppo solo da un anno che deve dialogare da pari a pari con il piano di Rubalcaba, senza un attimo di tregua, sempre nella condizione di fornire la risposta giusta e rilanciare verso nuovi traguardi. Comunque devo dire che anch’egli se l’è cavata egregiamente. Insomma davvero un concerto memorabile che resterà nel cuore e nella mente di chi ha avuto la fortuna di assistervi.

Gonzalo Rubalcaba Trio 9.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

I concertini notturni ci riservano un’altra bella sorpresa: Humpty Duo, ovvero Luca Dal Sacco alla chitarra acustica e Matteo Mosolo al contrabbasso. Sebbene il progetto, “Synchronicities” sia interamente dedicato all’opera di Sting e dei Police, il jazz si libera in ogni singola nota con squisita ricercatezza. Non a caso il nome scelto dal duo richiama un celeberrimo brano di Ornette Coleman: “Humpty Dumpty”.

Il 10 serata dedicata al blues. Apertura con il chitarrista Jimi Barbiani accompagnato da Pietro Taucher all’organo e Alessandro Mansutti alla batteria. Professionista di sicuro spessore, Barbiani si è fatto le ossa suonando in giro per il mondo grazie ad una tecnica raffinata, ad un repertorio consolidato e ad una voglia di suonare che dopo tanti anni di professionismo è ancora lì, ben presente.

Jimi Barbiani 10.7.19 Grado ph: Angelo Salvin ©

Il clou della serata era rappresentata da Robben Ford “Purple House Tour” e l’attesa dei tanti amanti del blues non è andata delusa. Ad onta dei 67 anni e di circa 50 anni di carriera Robben conserva tutte le caratteristiche che ne hanno fatto un grande bluesman. Bella padronanza scenica, tecnica chitarristica di primo livello, voce sempre presente, intonata… e una carica di entusiasmo che si è facilmente trasmessa al numeroso pubblico. Considerato “Uno dei più grandi chitarristi del XX secolo” nel corso della sua carriera ha ottenuto cinque nomination ai Grammy, senza trascurare il fatto che la marca di chitarre Fender gli ha dedicato una sua creatura (“Robben Ford Signature”); ultima notazione tutt’altro che trascurabile: nel 1977 è stato il fondatore degli “Yellowjackets” all’epoca chiamato “The Robben Ford Group”. A Grado ha presentato, in quartetto, il suo nuovo album “Purple House” ed è stato un bel sentire. Ottimo il gruppo con un batterista tanto potente quanto di metronomica precisione, moderno il linguaggio caratterizzato da un’alternanza di generi: dal southern al blues, dal rock alla fusion, con qualche sconfinamento nel jazz.

Robben Ford 10.7.19 Grado ph: Angelo Salvin ©

La serata si è conclusa con il trio del chitarrista Gaetano Valli, con Silvano Borzacchiello alla batteria e Gianpaolo Rinaldi alle tastiere (a sostituire degnamente il contrabbasso di Riccardo Fioravanti); in programma il nuovo progetto “Sylvain Valleys & Flowers”, nato dall’intesa di tre amici di vecchia data che si ritrovano a suonare assieme dopo vent’anni scoprendo la passione comune, oltre che per il jazz, per la montagna. Non a caso il clima della performance è stato, oserei dire, dolce, distensivo e meditativo alternando brani inediti e citazioni provenienti dalla tradizione musicale. Un bravo di cuore a Gaetano Valli, artista che non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita.

 

Gaetano Valli Trio 10.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Ed eccoci alla serata finale dell’11 luglio; come accennato la pioggia ha costretto gli organizzatori a cancellare il primo concerto di “Maistah Aphrica” e l’ultimo del trio di Gianpaolo Rinaldi. E’ rimasta quindi in piedi l’esibizione di Snarky Puppy (main stage e platea completamente al coperto), che a Grado hanno iniziato la loro tournée italiana per presentare il nuovo lavoro discografico, almeno nel titolo di estrema attualità, “Immigrance”. Il concerto ha visto il sold out con molti spettatori anche in piedi – da segnalare al riguardo, finalmente, la presenza di molti giovani. E, come accennavo in apertura, il pubblico ha gradito – e molto – il concerto tanto da riservare al gruppo l’unica stand ovation di tutto il festival. Ovazione assolutamente meritata in quanto ancora una volta il gruppo ha espresso una cifra artistica di assoluto livello. Certo, la loro musica è trascinante ma non facilissima: il collettivo newyorchese, composto da una trentina di musicisti (a Grado rappresentato da nove elementi), si muove su terreni impervi, in cui jazz, funk e R&B si mescolano in un magma sonoro costruito con estrema consapevolezza. In effetti chi crede che la musica di Snarky Puppy sia soprattutto estemporanea si sbaglia e di grosso: il tutto è arrangiato con precisione e grande professionalità, lasciando comunque spazio ad improvvisazioni declinate attraverso una preparazione tecnica di primo livello. Come sempre in primo piano il bassista, compositore e arrangiatore Michael League, vera mente del gruppo, che ha guidato l’esibizione con sicurezza.

Snarky Puppy 11.7.19 Grado ph: Dario Tronchin©

Il recital del gruppo ha quindi chiuso nel migliore dei modi l’esperienza di questo primo “GradoJazz”,  il cui bilancio finale non può che essere positivo. Il festival, organizzato da Euritmica con il sostegno di regione Friuli Venezia-Giulia, comune di Grado, Promoturismo FVG, Fondazione Friuli e in collaborazione con i vari comuni coinvolti, nonostante il cambio di location, sempre pericoloso, ha comunque conservato quelle caratteristiche che nel corso degli anni ne hanno fatto una delle manifestazioni più interessanti dell’intero panorama jazzistico italiano. Intendo riferirmi da un canto al giusto mix tra musicisti internazionali e italiani con una particolare attenzione verso gli artisti friulani, dall’altro alla valorizzazione del territorio e dei relativi prodotti: ad esempio, quest’anno, il vino ufficiale della rassegna è la vitovska del Castello di Rubbia (con etichetta creata ad hoc per GradoJazz) e vi assicuro che si tratta di un gran vino.

Gerlando Gatto

 

 

Teatro Pasolini Cervignano (ud): il 2019 in musica si apre con Roots&Future di Franco D’Andrea, musicista italiano dell’anno, in trio con D’Agaro e Ottolini

FRANCO D’ANDREA, UNO DEI PIÙ GRANDI PIANISTI CONTEMPORANEI, APRE IL 2019 IN MUSICA DEL TEATRO PASOLINI DI CERVIGNANO DEL FRIULI

Dal jazz-prog dei Perigeo, più di cinquant’anni di musica e un nuovo progetto: Roots&Future, in trio con Daniele D’Agaro al clarinetto e Mauro Ottolini al trombone

Cervignano del Friuli, Teatro Pasolini, giovedì 17 gennaio 2019, ore 21:00 – Nel cartellone della stagione musicale 2018/2019, curata da Euritmica

La stagione musicale 2018/2019 del Teatro Pasolini di Cervignano, curata da Euritmica, entra nel vivo con una serie di quattro concerti di livello assoluto! Si parte giovedì 17 gennaio 2019 (inizio alle 21.00) con un concerto che chiama a raccolta i jazzofili di tutta la regione: Franco D’Andrea, tra i più grandi pianisti contemporanei, già leader dei mitici Perigeo (la band di jazz-prog che ebbe un successo strepitoso negli anni ’70), presenta sul palco del Pasolini il suo recente progetto, Roots&Future, con il friulano Daniele D’Agaro al clarinetto e l’iridescente Mauro Ottolini al trombone. (Info&Biglietti: 0431 370273 – Il giorno del concerto, alla cassa del Teatro, dalle 20:00 – intero € 15 / ridotto € 12 / ridotto giovani e studenti under 26 € 8).

La scintillante sapienza creativa di Franco D’Andrea – che ha recentemente vinto, per la dodicesima volta,  il Top Jazz 2018, lo storico riconoscimento assegnato dalla rivista Musica Jazz, come “Musicista italiano dell’anno” e quello per “Disco italiano dell’anno” con Intervals I – è un poliedro tendente alla sfera. L’estensione della sua costante ricerca di un linguaggio personale all’interno della tradizione jazzistica, trova in questo concerto in trio una rappresentazione adamantina, straordinaria panoramica sul suo pensiero musicale libero da manierismi di sorta e costantemente alla ricerca di un’espressività autentica e profonda. Musica di una caparbietà gentile, appuntita, magmatica, scattante e raffinata, innovativa e coerente allo stesso tempo. Mirabilmente in bilico tra Apollo e Dioniso. Intensamente personale, completamente jazz. Tra i brani in repertorio figurano i notissimi Basin Street Blues, Naima, I Got Rhythm e molti altri.

È di certo un trio atipico quello che vede D’Andrea al piano insieme a Daniele D’Agaro al clarinetto e Mauro Ottolini al trombone. “La banda è stata il colore di riferimento del jazz tradizionale, che è la musica che mi ha affascinato ai miei esordi – dichiara Franco D’Andrea – la formazione degli “Hot Five” di Louis Armstrong comprendeva tromba, clarinetto, trombone, piano e batteria o banjo. Questa combinazione di strumenti, per me assolutamente magica, ha ancora molto da offrire anche alla musica jazz dei nostri tempi. Questo trio contiene in sé l’essenza del suono di una banda, nella quale strumenti caratteristici sono sicuramente il clarinetto, in rappresentanza delle ance, e il trombone, per gli ottoni. Il pianoforte in questo contesto può giocare una molteplicità di ruoli grazie alla sua tipica orchestralità. La musica si sviluppa tra riff, poliritmie, contrappunti improvvisati, astrazioni contemporanee e sonorità talvolta ispirate al “jungle style” ellingtoniano”.

La stagione musicale del Pasolini prosegue il 9 febbraio con Marc Ribot e le sue canzoni di resistenza; il chitarrista statunitense, che gravita nell’alveo di John Zorn e collabora con il mitico Tom Waits, è annoverato da parecchi critici tra i top guitar player di tutti i tempi.

La programmazione giungerà al capolinea con i concerti del re dello scat italiano, il poliedrico Gegè Telesforo (22 febbraio) e della North East Ska Jazz Orchestra (26 marzo), che presenta in anteprima il suo nuovo album.

 

Info: www.euritmica.it

euritmica / Via C. Percoto, 2 – 33100 UDINE – Italy / tel. +39 0432 1720214

Ufficio Stampa (Marina Tuni +39 339 4510118 o 345 6968954)