Udin&Jazz torna a Udine, nella sua sede naturale, dal 12 al 16 luglio

Udin&Jazz ritorna nel suo luogo naturale: il capoluogo friulano ospiterà dal 12 al 16 luglio la 32° edizione di “Udin&Jazz”, a cura di Euritmica, la gloriosa manifestazione che nel corso degli anni ha assunto un’importanza sempre crescente nel pur vastissimo panorama dei festival italiani dedicati alla musica afro-americana.
Viene così archiviata la parentesi, per altro più che positiva, di GradoJazz, che per tre anni, anche in tempi di pandemia, ha portato in regione grandi stelle della musica nazionale e internazionale (King Crimson, Paolo Conte, Stefano Bollani, Gonzalo Rubalcaba, Paolo Fresu, Dee Dee Bridgewater, Brad Mehldau e molti altri…) e il successo delle due edizioni invernali di Udin&JazzWinter al Teatro Palamostre di Udine.

Ma, a mio avviso, un festival che si chiama “Udin&Jazz” trova il suo perché anche per la località in cui si svolge. In effetti molte volte mi è capitato di sottolineare come oggi un Festival del Jazz assume rilievo solo se soddisfa determinate condizioni. In primo luogo essere strettamente legato al territorio in cui si svolge, sì da valorizzarne i contenuti cultuali ed economici (prodotti tipici); in secondo luogo se, contrariamente ai “grandi festival” non  si inseguono i grandi nomi solo per fare cassetta (poco importa se poi con il jazz poco o nulla hanno a che vedere) e viceversa si dà il giusto spazio ai musicisti locali. E sotto questo specifico aspetto tutte le regioni italiane potrebbero benissimo dare spazio ai tanti talenti locali solo che a Udine si fa da sempre e in molti altri posti purtroppo no.
Ciò, ovviamente, nulla toglie che si dia ampio rilievo alle stelle di primaria grandezza e più in generale a quei musicisti che si esprimono su alti livelli qualitativi. E anche da questo punto di vista Udin&Jazz non ha mai deluso, cosa che accadrà anche quest’anno visto le prime notizie che si hanno sul programma il cui dettaglio verrà presentato a breve.
In effetti si sa già che la chiusura del Festival sarà affidata sabato 16 luglio 2022 alle 21, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, ad una delle band più acclamate dello scenario del nuovo jazz contemporaneo mondiale, gli Snarky Puppy. Guidato da Michael League, il collettivo, con circa 25 musicisti in rotazione, si muove tra jazz, funk e R&B, musica scritta e improvvisazione totale e ritorna nel 2022 con un nuovo album live appena inciso, “Empire Central”, il quattordicesimo, una lettera d’amore a Dallas, il luogo dove l’avventura è iniziata nel 2004. “Empire Central”, per loro stessa ammissione, è il progetto più ambizioso e comunicativo di sempre, e arriva dopo quasi 2.000 spettacoli, 13 album, 4 premi Grammy, 8 premi JazzTimes e Downbeat e centinaia di masterclass presso istituzioni educative in tutto il mondo.
Ovviamente appena sarà varato il calendario completo avrete modo di leggerlo su questo stesso spazio.
U&J è ideato e organizzato dall’Associazione Culturale Euritmica e gode del sostegno di: Regione FVG, Fondazione Friuli, Reale Mutua Assicurazioni Udine Franz&Dilena, Banca di Udine, oltre agli importanti partenariati con Radio 1 Rai, Radio 3 Rai e Rai FVG. Udin&Jazz è altresì gemellato con alcuni tra i più prestigiosi festival jazz europei, come quello di Vienne in Francia, di cui è partner nell’organizzazione della 3a edizione di JazzUp.

Gerlando Gatto

I nostri libri

Pochi giorni fa mi sono soffermato sulla necessità di scrivere in maniera chiara sì che tutti possano capire; chiarito questo concetto per me fondamentale, vi presento la nostra rubrica dedicata ai libri, sei volumi che sicuramente non “lo fanno strano”.
Buona lettura.

Serena Berneschi – “La pittrice di suoni – Vita e musica di Carmen McRae” – Pgg.362 – € 15,00

Atto d’amore verso una grande interprete: credo che questa definizione si attagli benissimo al volume in oggetto, rielaborazione della tesi di laurea in Canto jazz, conseguita dalla Berneschi nel 2018, che esamina la vita e la carriera di una delle più grandi vocalist del jazz, troppo spesso sottovalutata. L’autrice è anch’essa una musicista: cantante, compositrice, arrangiatrice, autrice di testi e attrice di musical e teatro, oltre che insegnante di musica e canto, vanta già una buona esperienza professionale. Insomma ha tutte le carte in regola per scrivere un lavoro che cattura l’attenzione del lettore, non necessariamente appassionato di jazz.
In effetti la Berneschi traccia un quadro esaustivo della personalità di Carmen McRae (Harlem, 8 aprile 1920 – Beverly Hills, 10 novembre 1994), vista non solo come musicista ma anche come donna. Di qui tutta una serie di suggestioni che inquadrano perfettamente la figura dell’artista e ci fanno capire perché sia a ben ragione considerata una delle figure fondamentali della musica jazz, capace di lasciare un’impronta indelebile nella storia della musica americana…e non solo.
Il volume è suddiviso in quattro parti: La vita – La musica – Woman Talk – La discografia, tutte molto ben curate. In particolare la biografia è dettagliata, e la vita artistica della McRae ricostruita in modo tale da far risaltare le capacità dell’artista particolarmente rilevanti nell’interpretazione dei testi, suo vero e proprio cavallo di battaglia. Nella seconda parte la Berneschi si addentra in un’analisi dello stile interpretativo della McRae che prendendo le mosse dalla grande Billie Holiday se ne distaccò per esprimersi secondo stilemi assolutamente personali. La terza sezione del libro, contiene estratti di varie interviste, cui fa seguito, nella quarta sezione una discografia, suddivisa per decenni, dagli anni Cinquanta ai Novanta. Il volume è corredato da un glossario dei termini musicali e jazzistici più ricorrenti e dei brevi cenni sulla storia del jazz. Ecco francamente di questi “brevi cenni” non si sentiva assolutamente la necessità dato che sono troppo brevi per risultare interessanti a chi nulla sa di jazz, e di converso assolutamente inutili per chi questa musica segue e apprezza.

Flavio Caprera – “Franco D’Andrea un ritratto” – EDT – Pgg. 209 – € 20,00

Franco D’Andrea si è oramai ritagliato un posto tutto suo nella storia del jazz, non solo italiano. Artista poliedrico, sempre alla ricerca di qualcosa che potesse meglio esprimere il proprio io, D’Andrea coniuga la sua straordinaria arte musicale con una personalità umana davvero straordinaria. Lo conosco oramai da tanti anni e non c’è stata una sola volta, e sottolineo una sola volta, in cui D’Andrea non abbia risposto alle mie sollecitazioni, di persona o per telefono, con la massima cortesia e disponibilità, mai dando per certezze le sue opinioni, aprendosi così ad un confronto serrato ma costruttivo,
E’ quindi con gioia che vi segnalo questo volume scritto da Flavio Caprera per i tipi della EDT, una casa editrice che si va sempre più caratterizzando per la produzione di volumi interessanti.
Devo confessare che quando leggo una biografia così accurata, in cui le varie tappe artistiche vengono seguite con precisione come se l’autore fosse stato sempre accanto al musicista, avverto un po’ d’invidia. Questo perché sono oramai tre anni che cerco di scrivere una biografia di Gonzalo Rubalcaba e non ci riesco perché sono troppi i tasselli che mancano alla costruzione del disegno complessivo.
Ma torniamo al volume di Caprera che, come avrete capito, è in grado di seguire passo dopo passo la vita artistica di D’Andrea da quando giovane si innamora di Louis Armstrong e degli strumenti a fiato, fino al 2019 quando incide “New Things”.
Sorretto da un periodare semplice ma non banale, l’autore ci accompagna quindi alla scoperta di una carriera davvero formidabile mettendo sempre in primo piano le motivazioni artistiche che hanno portato D’Andrea a scegliere alcune strade piuttosto che altre. E lo fa ricorrendo sovente a dichiarazioni dello stesso musicista, riportate in virgolettato; il tutto corredato da valutazioni sui dischi più significativi della carriera artistica del pianista. Il volume è corredato da una preziosa prefazione di Enrico Rava, da una discografia ragionata, da un’accurata bibliografia e da un sempre utilissimo indice dei nomi.
Insomma un volume che si raccomanda alla lettura di quanti ascoltano la buona musica. Personalmente, pur avendo apprezzato in toto il libro (come si evince facilmente da quanto sin qui scritto), mi sarebbe piaciuto avere qualche notizia in più sull’uomo D’Andrea, sulle sue sensazioni, emozioni anche al di fuori della musica.

Amedeo Furfaro – “Il giro del jazz in 80 dischi (‘20)” – Pgg.121 €10,00

Dopo i primi volumi su cui ci siamo già soffermati, eccoci alla quinta tappa della serie “Il giro del jazz in 80 dischi” con sottotitolo “’20” riferita cioè al ventennio appena chiuso e delimitato dall’ assalto alle Torri Gemelle e dalla pandemia. Per il jazz italiano, il ciclo, nonostante le gravi evenienze che hanno interessato il globo nella sua interezza, è stato comunque prodigo di novità discografiche da cui l’Autore ha potuto decifrare lo stato di salute di questo genere di musica nel nostro paese. Stato di salute che tutto sommato potremmo definire buono, frutto di contaminazioni ma comunque ricco di contrasti come nell’arte e nella moda contemporanee che vivono per altro verso una fase di assenza di idee forti ed indicazioni dominanti.
Anche in questo lavoro gli album rappresentano la traccia seguita per individuare come solisti e gruppi, label e operatori del mondo jazz, abbiano continuato anche in pieno lockdown a muoversi in un ambito, in particolare quello dello spettacolo dal vivo, che è stato fra i più penalizzati dalle recenti restrizioni. Nello specifico Furfaro ha recensito nuove proposte e maestri acclarati e riconosciuti dando luogo ad una sorta di inchiesta in cinque puntate, di cui questa rappresenta l’ultima, in cui ha analizzato spesso con vis critica quello che i nostri jazzisti sono andati esprimendo in questo inizio millennio.
Ecco, quindi, comparire accanto a musicisti celebrati quali Stefano Bollani, Stefano Battaglia, Ermanno Maria Signorelli, Maurizio Brunod, Dino Piana, Maurizio Giammarco (tanto per fare qualche esempio), i nomi di artisti che devono ancora farsi conoscere come Emanuele Primavera, Bruno Aloise, Valentina Nicoletta…e molti, molti altri.
Il libro si chiude con l’indicazione di 10 dischi da incorniciare (particolarmente condivisibile la scelta di “Ciak” firmato da Renzo Ruggieri e Mauro De Federicis), l’indice dei musicisti, quello delle label e gli indici di tutti gli album citati nelle quattro precedenti “puntate” di questo “giro del jazzz”
In buona sostanza, quindi, non un repertorio o un dizionario in 5 tomi bensì una fotografia per molti versi indicativa e realistica di cosa va succedendo in Italia a livello jazzistico attraverso la messa a confronto di tutta una serie di dischi. La risultante è un panorama di indubbia vitalità ed effervescenza in cui il ricambio generazionale funziona a pieno ritmo.
Un motivo in più per rafforzare ed incoraggiare questo “giacimento artistico” di cui l’Italia può andare ben fiera.

Valerio Marchi – “John Coltrane – Un amore supremo – Musica fra terra e cielo” – Kappa Vu – Pgg.80 – € 11,00

Un volumetto snello, agile, solo ottanta pagine, ma quanta devozione, quanto amore trasudano da questo scritto verso uno dei musicisti in assoluto più, importante del secolo scorso. L’autore è personaggio ben noto specie in Friuli: storico, scrittore e giornalista, ha pubblicato una decina di libri e numerosi saggi e articoli di argomento storico, collabora con le pagine culturali del Messaggero Veneto e da qualche anno scrive testi teatrali e organizza spettacoli, salendo anche sul palco. Ultimamente ha curato due racconti sceneggiati per Radio Rai del Fvg. In effetti la storia di Coltrane, così come sintetizzata da Marchi, ha costituito l’ossatura di uno spettacolo andato in onda di recente al Teatro Pasolini di Cervignano, nel cartellone della stagione musicale del Teatro, a cura di Euritmica e in replica a Udine, al Teatro Palamostre, nel programma di Udin&Jazz Winter. La drammaturgia è firmata, quindi, da Valerio Marchi e lo spettacolo ha preso forma grazie alla volontà di Euritmica e all’apporto di jazzisti straordinari quali il sassofonista Francesco Bearzatti, il batterista Luca Colussi e il pianista Gianpaolo Rinaldi. Le voci recitanti sono state quelle dello stesso Marchi e dell’attrice Nicoletta Oscuro. Marchi e Oscuro, accompagnati dalla musica del Bearzatti-Colussi-Rinaldi Trio, hanno messo in scena una performance multimediale per narrare la complessa parabola umana ed artistica del grande sassofonista del North Carolina, che giunto alla fine dei suoi giorni, è forse riuscito a trovare quel ponte ideale che lega la musica a Dio, un cammino ancora non del tutto esplorato e su cui Coltrane ha praticamente speso tutta la sua vita di ricerca. Questo particolare aspetto della poetica di Coltrane traspare chiaramente dal libro in oggetto non solo nella parte biografica ma soprattutto nella seconda parte in cui l’autore immagina di intervistare Coltrane traendo le sue riposte da interviste e dichiarazioni effettivamente rilasciate dal sassofonista. Il libro è completato da una serie di interessanti suggerimenti bibliografici.

Massarutto, Squaz – “Mingus” – Coconino Press Fandango – Pgg.154 – € 20,00

Bella accoppiata, questa, tra il giornalista Flavio Massarutto e il disegnatore Squaz. Argomento della loro indagine la vita e la musica di Charles Mingus; contrabbassista e pianista, compositore e band leader, Charles Mingus è a ben ragione considerato uno dei più grandi musicisti della storia del jazz, un talento naturale straordinario in un uomo dal carattere ribelle che spese la sua vita in una instancabile lotta contro la società americana così fortemente caratterizzata da un razzismo ancora oggi ben presente. Mingus nacque il 22 aprile del 1922 e quindi in vista del centenario della sua nascita, Massarutto e Squaz presentano una biografia a fumetti che tratta la vita dell’artista. Come sottolinea, però, lo stesso Massarutto nella postfazione “un fumetto non è un saggio. Un fumetto è un’opera narrativa Questo libro perciò non è il racconto illustrato della vita di Mingus. Qui ci sono frammenti di una esistenza raccontati pescando da sue interviste e scritti, da testimonianze, da fatti storici. E rielaborati in forma visionaria”.
La strada scelta è infatti quella di procedere per episodi impaginati come una successione di brani che vanno a formare una suite musicale: dagli esordi nella Los Angeles degli anni Quaranta fino alla scomparsa in Messico. Si parte così con “Eclipse” registrato da Mingus al Plaza Sound Studios, NYC, il 25 maggio 1960 e si chiude con “Sophisticated Lady” con esplicito riferimento all’episodio avvenuto a Yale nell’ottobre del 1972; era stato organizzato un concerto in onore di Duke Ellington e al concerto che faceva parte del programma Mingus era sul palco quando nel bel mezzo della musica un capitano della polizia arrivò nel retropalco per avvisare che era stata annunciata la presenza di una bomba. Tutti uscirono dalla sala a parte Mingus che continuò a suonare il suo contrabbasso da solo sul palco. Quando la polizia cercò di convincerlo a uscire come tutti gli altri lui rispose: «Io resto qui! Un giorno o l’altro devo morire, e non c’è un momento migliore di questo. Il razzismo ha messo la bomba, ma i razzisti non sono abbastanza forti da uccidere questa musica. Se devo morire sono pronto, ma me ne andrò suonando “Sophisticated Lady””. E così continuò a suonare da solo per venti minuti finché non fu annunciato il cessato allarme e il concerto riprese.
Insomma un libro che farà felice non solo quanti amano il jazz e i fumetti.

Marco Restucci – “Temporale Jazz” – arcana – Pgg.213 – € 16,50

Può un filosofo scrivere adeguatamente di jazz? E, viceversa, può un musicista jazz essere contemporaneamente un filosofo? La risposta ce la fornisce proprio Marco Restucci; laureato in filosofia, pubblicista e musicista si è occupato per anni di critica musicale,  mentre in ambito filosofico si occupa soprattutto di estetica, in particolare della dimensione sonora del pensiero. In questo libro affronta uno dei temi più affascinanti e controversi che da sempre animano il dibattitto sulla musica jazz: l’improvvisazione. Cos’è l’improvvisazione, come nasce, come si sviluppa, attraverso quali passaggi? Sono questi gli interrogativi, certo non semplici, cui Restucci fornisce risposte. Esaurienti? Onestamente credo proprio di sì in quanto l’Autore non si perde dietro inutili e fumose congetture, ma traccia un preciso percorso al cui interno possiamo davvero seguire nota dopo nota, passo dopo passo come il musicista improvvisa, come si rapporta con l’ascoltatore, come riesce a smuovere in chi ascolta sentimenti profondi, vivi, spesso in netto contrasto tra loro. Come si nota è materia davvero affascinante cui credo ognuno di noi avrà cercato, almeno una volta, di rivolgere la propria attenzione alla ricerca di risposte agli interrogativi di cui sopra. Per svelare l’arcano, l’Autore insiste prevalentemente sul concetto di “tempo”, con tutte le sue sfumature, quale componente essenziale della musica e della vita: il “tempo” viene declinato in esempi concreti, calato nella quotidianità: “percezione e tempo sono, infatti, i luoghi dell’improvvisazione – dimensioni estetiche in cui si muovono contemporaneamente musicista e spettatore – ma sono anche dimensioni dell’essere, forme di ciò che siamo, modi del nostro stare al mondo”. In effetti, scrive Restucci, “L’avventura sonora nel jazz deve sempre ancora accadere. Nessun jazzista verrà mai a raccontarci qualcosa di cui conosce già l’esistenza, qualcosa che esiste prima di esistere. E noi saremo lì, in quel tempo misterioso mentre accadrà, ne saremo parte, e qualora i suoni non dovessero riuscire completamente nel compito a loro più congeniale, quello di suonare risuonando dentro di noi, qualora non dovessimo sentirci protagonisti al pari dei musicisti, vivremmo l’avventura quantomeno da testimoni reali, presenti sulla scena del tempo, durante, mentre si spalanca davanti ai nostri occhi, mentre si forma dentro i nostri timpani”. Ecco questo è solo un piccolo assaggio di ciò che si può trovare all’interno di un libro che va letto, assaporato pagina dopo pagina anche da chi non si intende particolarmente di jazz. Anzi forse questi ultimi cominceranno ad apprezzare questa musica proprio per i contenuti veicolati da Restucci.

I NOSTRI CD. Un disco (jazz) per dopo l’estate…

Segnadisco per sette, come le note, album di altrettante label (elencate qui in ordine alfabetico). Li segnaliamo in un panorama jazzistico più che qualificato, estraneo al can can estivo perché relativo a musica che non si esaurirà col deporre ombrelloni e sdraio e alle prime cadute delle foglie dagli alberi. Ecco allora una possibile Top Seven, una Jazz Parade che sottoponiamo al vaglio del lettore.

Trio Kàla – “Indaco Hanami” – Abeat Records

Fra le novità 2021 della Abeat spicca “Indaco Hanami” del Trio Kàla, album inciso presso Artesuono destinato a lasciare il segno nel corrente anno discografico. Per caratura dei musicisti, la pianista Rita Marcotulli, il contrabbassista Ares Tavolazzi e il batterista Alfredo Golino, anzitutto. Perchè dagli studi di registrazione di Stefano Amerio è ancora una volta uscito un prodotto di fattura impeccabile, in cui mixaggio e masterizzazione sono fasi finali determinanti del processo produttivo che porta al cd. Ma soprattutto la musica, in parte originale – come i due brani introduttivi della Marcotulli (“Indaco”, “Bobo’s Code”) oltre a “ Dialogues” scritto a sei mani dal trio ed a “Cose da dire” – che si congiunge ad un quinterno di cover imbellettate con sopraffino gusto jazzistico. Oltre a “Quando” e “ Napule è” di Pino Daniele, alla beatlesiana “Lady Madonna” vi figura, di Randy Newman, “I Think It’s Going To Rain” anche questa arrangiata con sapienza in confezione per standard trio. Anche nella conclusiva “Romeo and Juliet” di Nino Rota il sensuale groove della tastiera ci riporta in mente il dubbio che il sesso del pianoforte sia femmina tanto l’immedesimazione della Marcotulli col suo suono appare organica, di una strana solarità attenuata dall’indaco.
Il trio, questo trio nella fattispecie, ne rafforza la “visibilità” per chi, nell’ascolto, immaginasse di trovarsi al di qua della “quarta parete”, col pensiero astratto da quelle note e da quelle linee improv- visative.

Luigi Bonafede – “Lokas” – Caligola Records.

Certo jazz fa pensare all’alta moda, per eleganza, stile, alchimia nel creare senza demolire la lezione dei grandi maestri. E quando il brand è griffato Luigi Bonafede, musicista ben piazzato nel ranking dei pianisti jazz, allora c’è da aspettarsi l’uscita di album come “Lokas”, su etichetta Caligola Records, ospite la vocalist di origine caraibica Dawn Mitchell, un cd dedicato alla cantante Anna Lokas, a sei anni dalla sua scomparsa. Il jazzista piemontese, che si esibisce in una formazione più che testata, una sorta di “think tank” musicale di esperti strumentisti con Gaspare Pasini al sax alto e soprano, Marco Vaggi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria, dà vita ad un mood di ampio respiro e di freschezza rigenerante, gravitante in più J Zones, fra swing e be/hard bop, attraverso vari format, dalla ballad (“She”, “Wake Up”) allo spiritual (“Silently”), dall’elettronico (“Curse of Pan”) al latin (“Running of my Way”), dal modaleggiante (“Lokas”, “Flash”) al climax vocalese (“Looking Around”) in genere con prati e praterie per gli steps improvvisativi lasciati scoperti dal pianoforte. Come avviene in “Balance”, in apertura, allorchè sotto la voce bluesy della Mitchell, compare, inconfondibile, il Logo Bonafede.

Javier Girotto, Vince Abbracciante – “Santuario” – Dodicilune

Capita che il jazz sia un pensiero triste che si suona… quando incontra il tango. Capita che il tango riscopra inedite possibilità di sviluppo lirico e melodico… quando due strumenti come un sax soprano o baritono o un quena flute si sovrappongono alle armonie rese da una fisarmonica ed inseguono la partitura di un choro.  Capita tutto ciò quando ad imbracciarli quegli strumenti sono due jazzisti latini completi e creativi come Javier Girotto e Vince Abbracciante, ambedue in diverso modo legati al DNA piazzolliano. “Santuario” è l’album Dodicilune che racchiude al meglio, artisticamente parlando, questa esperienza che ancora una volta unisce Puglia e Argentina su un filo sonoro che corre e scorre da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico in direzione sud, con Tavoliere e Ande rispettivi capolinea. Tra le cose più belle del disco il pedale introduttivo di “Santuario degli animali”, il barocco girovagant e “tono su tono” di” “Fugorona”, l’atmosfera pastorale di “Ninar”, la metrica “spezzata” da contrattempi in “Trama della Natura”, il pathos intimo di “En Mi”, la melodia andante di “2 de Abril”, l’articolato fraseggio tanguero in “Fuga a Sud”, il “Pango” più tango del compact, la avviluppante tessitura accordale di “Aramboty”. E, a chiusura sipario, “Soprano” e “L’ultima chance”, degno suggello del lavoro del duo prodotto dalla label leccese.

Andrea Rea Trio – “El Viajero” – Filibusta

L’album “El Viajero” (Filibusta) “registra” un Andrea Rea Trio in gran spolvero. Intanto il pianista campano vi esplicita una notevole verve sia interpretativa che esecutiva nonché attrezzi compositivi di prim’ordine nei tre brani a sua firma, “Dillo”, “Tales of Freedom” e “El Viajero”. Lo caratterizzano una robusta forza negli “ostinati” mentre il tocco sui tasti ne rivela uno spanish heart che spiega anche l’adozione di un termine ispanico come titolo del disco.L’anima latina sta anche alla base della scelta di un brano di Hamilton De Hollanda in tracklist esattamente “Capricho de Espanha” nonché “Milonga Gris” di C. Aguirre ed è condivisa dai musicisti del combo, il contrabbassista Daniele Sorrentino e il batterista Lorenzo Tucci (nel cd Losen “Impasse” del 2018 il drummer era Marcello De Leonardo). Ma il “viaggiatore” Rea nel proprio personale errare si sposta anche su territori differenti, ed eccolo alle prese con “The Man Who Sold The World” di David Bowie e “Till There Was You” di M. Wilson districarsi con il solito estro, la consueta abilità e l’immancabile inventiva fra paesaggi sonori pop e jazz ad origliare i suoni del mondo da riprodurre sul pianoforte. Non sarà un caso se il brano forse più intenso fra gli otto totali ci pare “En la Orilla del Mundo” di M. Rochas, reso celebre da Charlie Haden e Gonzalo Rubalcaba, che è poi quello in cui il gruppo si trasforma in 4et arricchito dall’inclusione qualificata di Giacomo Tantillo alla tromba.

Livio Minafra, Eugenia Cherkazova – “Round Trip Apulia Balkans” – Incipit/Egea.

Si era appena intravisto Livio Minafra in veste di autore di manuali didattici (120 finestre sull’improvvisazione. Teoria e pratica dell’Improvvisazione libera e idiomatica, Timoteo, 2020) che lo si ritrova di lì a poco nei consueti panni di musicista, nell’album “Round Trip Apulia Balkans”, in duo con la fisarmonicista greco-ucraina Eugenia Cherkazova, su marchio Incipit, distribuito da Egea. Le otto registrazioni sono state effettuate in tre festival pugliesi, Wanda Landowska 2018, Euterpe Festival 2018 e Talos 2019, kermesse appena tenutasi a metà luglio di quest’anno nella cornice di Ruvo di Puglia. L’ affacciata sui Balcani – confessa il pianista nelle liner notes – risale ai 13 anni, al primo ascolto del “tempo 7/8. Era l’Along Came Jazz Festival di Tivoli e l’Italian Instabile Orchestra eseguiva uno speciale arrangiamento di “Ergen Deda” del bulgaro Petar Liondev”. Quel suono fu una folgorazione! Da allora l’Adriatico, propaggine del Mediterraneo, è stato visto e vissuto dal Nostro come una semplice piattaforma d’acqua, non una barriera, che connetteva due sponde marine e due catene montuose, appunto i Balcani con l’Antiappennino apulo-garganico. La musica, l’improvvisazione, anche in questo compact, risente dello spostamento del bari/centro dal cuore afroeuroamericano in direzione indoeuropea, con tutto quanto ciò comporta. Anzitutto nel repertorio che comprende tarantelle di Rossini e Kircher oltre ad una ruvese, una “Danza Tartara” ideata dal pianista come del resto altre composizioni (“Lacrime Stelle”, “Zefiro Torna”, “Boomerang”) unitamente a un “Mix Tartar” a firma congiunta con N. Marziale e C. De Leo. E poi nell’interpretazione mutuante e mutante, senza cesure né diaframmi al fluire dei suoni anche nei momenti di ralenty melodico e ritmico. La fisa è a dir poco esemplare nell’assecondare e nel sostituirsi ad un pianoforte a volte metamorfizzato in cymbalon rumeno. Il progetto, inserito nel circuito concertistico di Puglia Sounds, si inquadra in una visione non centrica ma circolare della storia della musica.

EMAB Connection – “Unsaid” – Nusica.org

Unsaid degli Emab Connection, il titolo non inganni, è album di fitto dialogo strumentale, di jazz il cui “dire” è composto di segni, interplay comunicante, interfacciarsi frontale e laterale, feeling inten- so nel duettare e dettare cadenze, modulare timbri, levigare suoni. Il 4et, nato sull’asse adriatica Emilia-Abruzzo dei componenti e cioè Manuel Caliumi all’alto sax, Giulio Gentile al piano e Fender Rhodes, David Paulis al contrabbasso e Luca Di Battista alla batteria, conia una musica ricca di espressioni, frasi, costrutti liberi ed originali anche quando, come in “So- liloquy”, il “non detto” potrebbe sembrare lasciar spazio alla meditazione personale sulla collettiva, cioè a quella che scava e scova verità nascoste nella propria identità creativa. Ed il gruppo anche nelle altre sei tracce originali del compact si dimostra coeso nel perseguire l’obiettivo di una musica che ricuce eloquentemente impressioni ed atmosfere nell’omaggiare tutto ciò che è tacito.

Costanza Alegiani – “Folkways” – Parco della Musica

Le strade del folk sono in/finite?
E chi, nello specifico, si ritrova ancora a calcare le orme di maestri come Woody Guthrie o Bob Dylan? E poi, stante l’attualità di poeti ancora oggi pop(ular) come Lee Masters o la Dickinson, che spazio (r)esiste per chi si cimenti in lyrics a loro ispirate? Una risposta, non caduta nel vento, la suggerisce la vocalist Costanza Alegiani con l’album “Folkways”, prodotto da Parco della Musica Records, label della Fondazione Musica per Roma, distribuito da Egea Music. La cantante ci offre una misticanza sonora di traditional, composizioni originali e cover dei mitici folksinger soprariportati, denotando doti di originalità e sensibilità vocale già evidenziate nei due precedenti dischi a propria firma, “Fair is Foul and Foul is Fair” del 2014 e “Grace in Town” del 2018 con il batterista Fabrizio Sferra. Stavolta il suo progetto punta a comprovare come uno dei possibili percorsi per il folk born in U.S.A., forse il più energizzante, sia proprio il jazz. Ed in tale ottica si muovono gli altri musicisti che partecipano al lavoro, il sassofonista Marcello Allulli all’opera anche con apparati elettronici come il contrabbassista Riccardo Gola. Il tutto viene integrato dagli apporti degli ospiti, il chitarrista Francesco Diodati in tre tracce e il menzionato Sferra in quattro delle nove tracce complessive.
Ne vien fuori un florilegio multicolore di note in cui la voce affiora e riaffiora lasciando spesso fiato al fiato, il sax, aprendo sovente varchi al “battito” alla ritmica, per poi riprendere scena e microfono da cui far trapelare echi della Mitchell e della Baez nel lasciar sfilare una ideale galleria di personaggi letterari reali e immaginari.
Per la cronaca l’album, presentato in giugno alla Casa del Jazz di Roma, era stato anticipato dalla pubblicazione dei due singoli “It Ain’t My Babe” e “When I Was A Young Girl”.

Krall, Galliano, Lloyd, Kidjo Quattro artisti di classe per l’estate romana

Diana Krall, Richard Galliano, Charles Lloyd, Angelique Kidjo: questi gli artisti che ho ascoltato nel corso delle ultime due settimane a Roma.

Le motivazioni che mi hanno condotto a questi concerti sono piuttosto diversificate e forse vale la pena spendervi qualche parola.

La Krall non è mai stata in cima alle mie preferenze: l’ho sempre considerata una brava musicista, ma non un fenomeno, anche perché il suo canto non mi prende, non mi commuove. Ma allora, mi si potrebbe chiedere, perché sei andato a sentirla? La risposta è semplice: mi intrigava la formazione portata qui a Roma. Non a caso un amico, che come me ha visto il concerto del 14 luglio alla Cavea dell’Auditorium – e del quale non farò il nome neanche sotto tortura – mi ha detto scherzando ma non troppo, “certo, se mi fossi presentato con quel gruppo anch’io avrei avuto successo”.  In effetti l’artista canadese si è presentata con una formazione davvero stellare comprendente Joe Lovano al sax tenore, Marc Ribot alla chitarra ed una ritmica di sicuro spessore con Robert Hurst al basso e Karriem Riggins alla batteria. Ora, con una front-line composta da uno dei migliori tenorsassofonisti oggi in esercizio e da un chitarrista che viene unanimemente considerato un vero e proprio genio dello strumento, tutto diventa più facile. Ed in effetti a mio avviso i momenti più alti della performance si sono avuti quando la Krall ha dialogato con i suddetti jazzisti e quando sia Lovano sia Ribot si sono prodotti in assolo tanto entusiasmanti quanto lucidi e pertinenti. Intendiamoci: la Krall ci ha messo del suo; ha cantato e suonato con la solita padronanza impreziosita da quella presenza scenica che tutti le riconoscono. In un frangente ha accusato anche una piccola defaillance canora, superata con disinvoltura, e il concerto è stato sempre costellato dagli applausi del pubblico. Anche perché il repertorio era di quelli che non possono non piacere; abbiamo, quindi, ascoltato, tra gli altri, “I Can’t Give You Anything But Love”, “I Got You Under My Skin”, “Just Like A Butterfly That’s Caught In The Rain” (con un toccante assolo di Ribot, forse una delle cose migliori della serata), “The Boulevard Of Broken Dreams (Gigolo And Gigolette)” e “Moonglow”. Alla fine un bis e lunghi applausi per tutti.

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Il 16 luglio eccomi alla Casa del Jazz per ascoltare Richard Galliano nell’ambito de “I concerti nel parco”. Per lunga pezza ho considerato Galliano un artista assolutamente straordinario, forse l’unico capace di ricreare le atmosfere care a Piazzolla. Negli ultimi tempi non mi aveva però convinto data l’ansia di suonare sempre troppo durante i concerti. Ricordo una serata di qualche anno fa in cui Galliano si esibì in duo con Gonzalo Rubalcaba: ebbene, in quella occasione il pianista cubano si trovò in evidente difficoltà dinnanzi ad uno straripante Galliano. Anche in questo caso, quindi, sono andato a risentirlo perché mi interessava il contesto, vale a dire la presenza del flautista Massimo Mercelli e dei “Solisti Aquilani Quintet” con Daniele Orlando e Federici Cardilli violini, Gianluca Saggini viola, Giulio Ferretti violoncello e Alessandro Schillaci contrabbasso.

E le mie attese non sono andate deluse in quanto Galliano ha suonato con misura, adeguandosi al gruppo e soprattutto al repertorio scelto che comprendeva musica classica, jazz e qualche tango. Insomma una serata assolutamente eccezionale: in effetti l’intesa tra Galliano, il flautista e il quintetto d’archi è apparsa assolutamente perfetta dando vita ad un’ora e mezza di musica sempre eseguita su altissimi livelli tecnici e interpretativi, in grado, perciò, di soddisfare anche l’ascoltatore più esigente, al di là di qualsivoglia barriera stilistica.

Il concerto si è aperto con “Contrafactus per flauto e archi” del musicista siciliano Giovanni Sollima, eseguito da Massimo Mercelli e i solisti aquilani. Il titolo – come ha spiegato lo stesso Mercelli – si riferisce alla prassi medioevale della contraffazione e il brano è basato su un frammento della venticinquesima variazione delle Goldberg di Bach, una delle più difficili. Il brano ha dato quindi la misura di quello che sarebbe stato l’intero concerto, vale a dire una sorta di incontro tra classico e contemporaneo, nell’intrecciarsi di note, di situazioni che svariavano dall’Argentina di Piazzola alle Venezia del ‘600 di Antonio Vivaldi, alla Germania barocca di Bach.

Dopo il brano di Sollima, è comparso Galliano accolto da un fragoroso applauso. Il fisarmonicista ci ha deliziato con le interpretazioni di “Milonga del Ángel per violino e archi”, di Astor Piazzolla, cui ha fatto seguito una nuova composizione, “Jade concerto per flauto e archi”. Evidentemente dedicata a Mercelli, la suite si compone di tre parti, la prima – illustra Galliano – è un valzer new musette, tinto di jazz e di swing, la seconda una pavana che esplora il suono soave del flauto basso, la terza un movimento perpetuo alla maniera dello chorinho che mette in luce tutti i possibili dialoghi tra il flauto e gli archi”.

Dopo la versione per fisarmonica di un concerto di Bach, ecco “Opale concerto per fisarmonica e archi” dello stesso Galliano; avviandosi alla conclusione, Galliano esegue, tra l’altro, “Primavera Porteña per fisarmonica e archi” di Vivaldi nell’arrangiamento del fisarmonicista, per chiudere con il celebre “Oblivion” di Piazzolla.

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Il 19 luglio ancora alla Casa del Jazz per ascoltare un mio idolo di sempre. Era il 1968 quando, in occasione della mia laurea, un amico già esperto di jazz, mi regalò “Forest Flower: Charles Lloyd a Monterey”, un album dal vivo registrato al Monterey Jazz Festival nel 1966 dal Charles Lloyd Quartet con Keith Jarrett, Cecil McBee e Jack DeJohnette. E fu innamoramento al primo ascolto, innamoramento che dura tutt’oggi. In effetti “Forest Flower” resta uno dei miei dischi preferiti, sicuramente quello più ascoltato e quindi più rovinato.

Tra i tanti meriti di questo straordinario artista mi piace ricordare il fatto che nelle sue formazioni si sono messi in luce alcuni dei più grandi pianisti che il jazz abbia mai vantato, quali Keith Jarrett nel biennio 1966-1968 e Michel Petrucciani all’inizio degli anni ’80.

A Roma si è presentato con una nuova formazione “ Kindred spirits” che unisce i talenti chitarristici di Julian Lage e Marvin Sewell e la sua fedele ritmica composta da Reuben Rogers batteria e percussioni  ed Eric Harland contrabbasso. Il gruppo è certamente ben affiatato, con una forte impronta quasi funky, ma non del tutto originale. In altre parole mi sembra che il modern mainstream si vada sempre più caratterizzando per una sorta di connubio tra jazz e rock in cui, non a caso, la chitarra assume un ruolo di assoluto primo piano. Così è in questo nuovo gruppo in cui Julian Lage e Marvin Sewell sono sempre in bella evidenza; comunque, il perno resta lui, Charles Lloyd, che, ad onta dell’età (81 anni), si fa ammirare per la straordinaria energia creativa e per l’indefessa volontà di cercare nuove vie espressive sia al flauto sia al sax tenore che ancora oggi lo caratterizzano. Non a caso egli stesso si definisce “un cercatore di sound. Quanto più mi immergo nell’oceano del sound – ama ripetere – tanto più sento l’esigenza di andare sempre più in profondità”. Certo, il tempo non è passato invano, i segni dell’età si sentono, si avvertono nel suono non più corposo come prima, si avvertono nel fraseggio fluido ma non come un tempo, egualmente quel passare con disinvoltura dalle tonalità più alte a quelle più basse è sempre lì ma si nota qualche indecisione prima assolutamente impensabile. Ma il fascino resta sempre quello di un tempo, straordinario, immarcescibile!

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Il 24 luglio eccomi ancora alla Cavea dell’Auditorium per Angelique Kidjo che avevo ascoltato il 25 novembre scorso sempre all’Auditorium in chiusura dell’edizione 2018 di RomaEuropa Festival.

Purtroppo la serata non è andata nel verso giusto… almeno per me. In effetti gli organizzatori hanno deciso di far aprire la serata al trio della vocalist Eva Pevarello che nulla ha aggiunto alla mia voglia di sentire buona musica… anzi mi ha costretto a lasciare il concerto prima della fine in quanto la Kidjo ha cominciato a cantare una mezz’ora dopo rispetto a quanto avevo previsto e muovendomi io con i mezzi, correvo il rischio di perdere l’ultima metro. Per non parlare della poca gentilezza – per usare un eufemismo – di un addetto alla sicurezza che si è rifiutato di fornirmi le sue generalità dopo che io avevo fornito le mie. Peccato ché episodi del genere non fanno bene ad una struttura per altri versi condotta bene.

Ciò detto ho trovato la performance della Kidjo piuttosto ripetitiva: in repertorio come l’altra volta il nuovo disco “Remain in Light”, l’album dei Talking Heads registrato dal gruppo insieme a Brian Eno nel 1980 e contaminato dalla poliritmia africana (esplicito il richiamo a Fela Kuti), dal funk e dalla musica elettronica. Introducendo dei testi cantati in lingue del suo paese d’origine (Benin, stato dell’Africa occidentale) e percussioni trascinanti, la vocalist ha realizzato un album più africanizzato rispetto all’originale e più accessibile. E il gradimento del pubblico non è mancato. Nella seconda parte del concerto il pubblico si è accalcato sotto il palco rispondendo così ai ripetuti inviti della Kidjo a cantare, ballare senza comunque dimenticare i molti problemi dell’oggi, dal rispetto dovuto a tutte le donne, all’invito ad apprezzare le diversità (“Se mi guardo allo specchio – ha detto la Kidjo – e vedo sempre un viso uguale al mio, dopo un po’ che noia”)… sino alla denuncia contro la pratica molto diffusa in Africa dei matrimoni combinati tra uomini adulti e bambine di dodici, tredici anni. Non potevano altresì mancare due classici della musica africana come “Mama Africa” e il celeberrimo “Pata Pata” portato al successo da Miriam Makeba. E intonando questi pezzi la vocalist si è immersa nell’abbraccio del pubblico prima scendendo in platea e poi invitando molti giovani a raggiungerla sul palco per chiudere con una sorta di festa collettiva.

Gerlando Gatto

Gonzalo Rubalcaba: è difficile restare in alto

 

 

L’appuntamento è fissato per le 18,30 nel migliore albergo di Grado, poche ore prima del concerto che lo vedrà trionfare alla prima edizione di Grado Jazz.

Ogni volta che ci incontriamo ho sempre un po’ di timore: lui è diventato una stella di primaria grandezza, acclamato da pubblico e critica sotto ogni latitudine; io un cronista di jazz che continua a fare il suo lavoro con passione e onestà intellettuale. E quindi: sarà affettuoso come sempre o sarà annoiato dalla mia presenza?

Per fortuna anche questa volta i miei dubbi si sciolgono immediatamente: appena mi vede mi corre incontro e mi abbraccia con il calore e l’affetto di sempre.

In effetti molta acqua è passata sotto i classici ponti da quando nel 1991, in Martinica, ho avuto il piacere di conoscere Gonzalo Rubalcaba; da allora ci siamo mantenuti in contatto e ogni volta che viene in Italia se possibile lo raggiungo e lo sottopongo alla rituale tortura di un’intervista, cui egli non si sottare…anzi.

Entriamo subito in argomento, regalandogli il mio libro – “Gente di jazz” – contenente la prima intervista che gli feci nell’oramai lontano 1991.

 

-Gonzalo, dopo tutti questi anni, come ci si sente ad essere considerati una stella di assoluta grandezza nel firmamento del jazz?

“Bene, ovviamente, anche se tu mi conosci bene e sai che ho dovuto faticare non poco per raggiungere questi risultati. Credo, per rispondere più dettagliatamente alla tua domanda, che oggi sono un pò più in linea con ciò che per molti anni ho cercato di raggiungere. Però questa è una carriera come altre in cui non si arriva mai. Certo, ciò dipende da ciascun individuo, da ciascuna persona, da ciò che ognuno pensa. Ci sono alcuni che trovano – e si accontentano – la formula di fare musica, per me è molto importante trovare la forma di fare musica. La forma io credo che non sia legata ad alcun tipo di ordine di moda, o di ordine commerciale. La forma è essere più fedele alla creazione stessa senza che tu sia troppo interessato a quali siano le strade che ti portano ad un risultato più rapido; l’importante per me è sentirmi bene con ciò che faccio e sentire che sono sincero, coerente con ciò che dico. Comunque non ti credere, anche se sono arrivato in alto, la vita è sempre difficile anche perché c’è molta concorrenza e quando questa è leale no problem, quando invece è scorretta allora le cose si complicano”.

-Senti mai il bisogno di rifugiarti in seno alla tua famiglia?

“No anche perché ho sempre accanto a me la mia famiglia. Noi viviamo in Florida, a Coral Springs, un’ora di macchina più su di Miami. Come forse ricorderai ho tre figli, due maschi ed una femmina e tutti e tre sono in qualche modo impegnati nella musica”.

 

-Chissà perché la cosa non mi stupisce affatto. Come articolerai il concerto di questa sera e cosa puoi dirmi dei tuoi attuali partner?

“Per quanto riguarda il repertorio sarà una sorta di summa della mia carriera sino a questo momento, vale a dire brani, suggestioni tratti dai molti album che ho registrato fino ad oggi. Per quanto concerne i miei attuali compagni di viaggio, con il bassista Armando Gola collaboro oramai da molti anni e quindi l’intesa è perfetta, quasi telepatica. Il batterista, Ludwig Afonso, è con me solo da un anno ma sentirai: è un drummer sontuoso”.

 

-Conoscendo la cura con cui scegli i tuoi partner non ne dubito. Poco fa hai fatto cenno alla tua produzione discografica. Quali progetti hai in cantiere al riguardo?

“Come probabilmente saprai, qualche anno fa ho fondato una mia etichetta indipendente – “5 Passion” – con cui realizzo i miei nuovi album. Adesso ne ho pronti tre ma sto ancora cercando la casa di distribuzione. Il primo di questi CD si chiama “Skyline” e vorrei uscisse entro quest’anno”.

 

-Mi sembra di aver letto che si tratta di una sorta di omaggio a Ron Carter e Jack DeJohnette.

“Esatto: il trio è composto da me e da questi due straordinari artisti. L’album lo abbiamo registrato in ottobre ai Power Station di New York durante una session di due giorni. Sono gli studi di registrazione un tempo chiamati Avatar ricchi di ricordi per tutti noi tre”.

 

-Perché hai sentito l’esigenza di questo omaggio?

“Perché non dimenticherò mai quello che artisti come Ron Carter e Jack DeJohnette, fra molti altri, hanno fatto per me al mio arrivo negli Stati Uniti quando avevo meno di trent’anni. Mi vengono in mente, oltre a Ron e Jack, Joe Lovano, Chick Corea, Herbie Hancock, Paul Motian… tutte persone che si sono prese cura di me, accettandomi all’interno della comunità musicale. E da loro ho cercato di imparare il più possibile. Da allora ho cercato, quasi, di pagare loro un tributo invitandoli a suonare con me 20 o 30 anni dopo. L’album sarà composto da 6 tracce originali, due firmate da ognuno di noi tre. Ho poi voluto aggiungere due brani di piano solo, il primo scritto da Jose Antonio Mendez mentre il secondo è una versione di “Lágrimas negras” reso famoso in tutto il mondo dai Buena Vista Social Club, c he presenterò anche questa sera. A chiudere un brano nato spontaneamente, quasi un blues, che è venuto davvero bene”.

 

-Questo senza ovviamente dimenticare Dizzy Gillespie e soprattutto Charlie Haden con il quale, come tu stesso hai avuto speso modo di dichiarare, hai avuto un rapporto stretto, non solo in campo artistico ma anche personale.

“Certo”.

-Bene parliamo adesso degli altri due album pronti sulla rampa di lancio.

“Il secondo è stato inciso dal “Trio d’été” che mi vede accanto a Matthew Brewer basso  ed Eric Harland batteria. E con questa formazione mi sono esibito anche all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Il terzo, cui tengo particolarmente, è la registrazione di un recital per piano solo che ho tenuto il 16 maggio del 2017 al Teatro Olimpico di Vicenza, un concerto che ricordo con particolare piacere per le sensazioni straordinarie che ho vissuto”.

-Dischi a parte, hai qualche altro progetto in mente?

“Sì, tra qualche mese con una tournée in Giappone, partirà un progetto particolare con la vocalist Aymee Nuviola che si chiama “Viento y Tiempo”. Aymee è una straordinaria vocalist cubana che conosco praticamente da sempre. Quando avevo dieci anni, e lei sette, andavamo dalla stessa maestra di piano, Silvia; abitavamo nello stesso barrio e ci vedevamo spesso. Poi, come puoi ben immaginare, le vicende della vita ci hanno portato lontani. Ma poco tempo fa ci siamo rivisti, abbiamo ricordato i vecchi tempi e abbiamo scoperto la possibilità, anzi la voglia di mettere su un progetto assieme, incentrato non sul jazz ma sulle musiche tradizionali cubane. L’abbiamo fatto ed ora siamo sui blocchi di partenza. E’ un progetto di cui sono davvero entusiasta e spero tanto che vada bene”.

 

-Se non sbaglio avete già collaborato in passato

“Sì, sono stato suo ospite nell’album “First Class to Havana”.

 

-Quando pensi che sarà possibile ascoltarlo in Italia?

“Lo porteremo in Europa il prossimo anno e sono sicuro che verremo anche in Italia dove so di poter contare su molti estimatori”.

 

-Ci sono altri artisti cubani che si stanno mettendo particolarmente in luce?

“Ce ne sono davvero tanti e sparsi in tutto il mondo. Tanto per farti qualche nome c’è Alfredo Rodriguez, pianista e compositore che adesso ha 33 anni e che ha collaborato con Quincy Jones; c’è David Virelles statunitense d’adozione; a Madrid opera Iván ‘Melón’ Lewis che viene da Pinar del Río; ad Amsterdam è possibile ascoltare Ramón Valle… insomma ce n’è davvero tanti e come vedi sono davvero in giro per il mondo”.

 

-Un’ultima domanda che spero non ti crei imbarazzo: come vedi la situazione attuale a Cuba?

“Come sempre… nel senso che non vedo segni di profondo cambiamento. Negli ultimi cinquant’anni Cuba è stata totalmente scollegata dal resto del mondo per cui reputo improbabile una sua veloce e specifica ripartenza. Certo, è possibile che tra poco si possano trovare anche a Cuba quantità rilevanti di prodotti di qualità ma le incrostazioni nella struttura mentale dei cubani, il modo in cui ormai intendono la vita sono assai difficili da sconfiggere. C’è chi da tempo si è messo l’animo in pace con ciò che passava il convento e non ha altre ambizioni; altri, invece, sperano nel cambiamento; vedremo!”.

 

Grande musica a GradoJazz by Udin&Jazz: in particolare evidenza Gonzalo Rubalcaba e Snarky Puppy

Snarky Puppy Grado 11.7.19 ph: Dario Tronchin ©

Si è conclusa con una standing ovation la 29° edizione di “Udine&Jazz” o se preferite la I° di “GradoJazz”. No, non sto giocando con le parole o con i numeri, sto solo sottolineando come, giunto alla sua 29° edizione, “Udine&Jazz”, per volontà del suo ideatore Giancarlo Velliscig, ha abbandonato il capoluogo friulano per motivazioni di carattere politico già ampiamente illustrate in questa stessa sede. La scelta è caduta su Grado, splendida località tra laguna e mare, storica stazione turistica di tedeschi e austriaci. Ed è stata una scelta pagante: ottima l’accoglienza delle autorità comunali, ottima la risposta del pubblico, splendida la location del Parco delle Rose al cui interno è stata istituita una tenso-struttura capace di ospitare un migliaio di persone con una resa acustica soddisfacente. Unico elemento su cui non si è stati in grado di intervenire la pioggia, che si è fatta vedere a giorni alterni provocando comunque qualche guasto come l’annullamento del concerto di “Maistah Aphrica” un gruppo di otto musicisti molto amati e di cui qui in Friuli si dice un gran bene.

Palmanova, 06/07/2019 – Grado Jazz by Udin&;Jazz – King Crimson Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2019

E proprio la pioggia è stata la grande protagonista del concerto che nella Piazza Grande di Palmanova, il 6 luglio, ha inaugurato la fase finale del Festival, dopo i concerti-anteprima a Tricesimo, Cervignano, San Michele del Carso e della rassegna “Borghi Swing” a Marano Lagunare. Nella storica cittadina in provincia di Udine era in programma l’attesissimo concerto dei King Crimson; durante tutta la serata la pioggia ha flagellato costantemente le migliaia di spettatori giunti per ascoltare la storica band. Alle 22,30 tutto lasciava prevedere che il concerto non si sarebbe potuto svolgere, data l’inclemenza del tempo. Ma gli organizzatori hanno tenuto duro nella speranza che la pioggia si fermasse ed hanno avuto ragione ché verso le 23 finalmente ha smesso di piovere e Fripp e compagni hanno fatto il loro ingresso sul palco suonando per circa due ore. Ed è stato tutto un amarcord: ho visto spettatori più che adulti commossi quasi fino alle lacrime nell’ascoltare la musica che probabilmente aveva accompagnato la loro gioventù. Ed in effetti i King Crimson hanno riproposto un repertorio di brani celebri: da “Epitaph” a “In the Court of The Crimson King”, da “Starless” al bis, arrivato all’una di notte, “21st Century Schizoid Man”. L’esecuzione è stata degna di cotanto nome anche se personalmente non ho particolarmente gradito l’insistenza di Fripp sulle distorsioni: uno, due, tre vanno bene… ma tutto un pezzo suonato in questo modo francamente per me è troppo. Confesso comunque di non essere un giudice imparziale dal momento che i King Crimson non hanno mai fatto parte della mia formazione musicale.

Quinteto Porteño ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Archiviato l’evento, eccoci a Grado per la prima serata del festival vero e proprio (il 7 luglio). Apertura come si dice col botto data la grande levatura dei musicisti, italiani, sul palco. A rompere il ghiaccio è stato il “Quinteto Porteño” e per il vostro cronista è stata forse la sorpresa più bella del festival. Amo incondizionatamente la musica di Piazzolla ma solo molto raramente mi è capitato di ascoltare un gruppo che pur rifacendosi alla musica del grande compositore argentino riesca ad esprimerne adeguatamente lo spirito. Di solito manca la carica drammatica, il pathos. Ebbene il “Quinteto Porteño” nonostante abbia eseguito solo musiche originali, è riuscito perfettamente a ricreare quelle atmosfere, quelle suggestioni care a Piazzolla. Il tutto grazie ad una empatia che costituisce l’asse portante del gruppo: così, mentre la scrittura è equamente divisa tra Nicola Milan (accordion) e Daniele Labelli (pianoforte), il compito di esporre la linea melodica è principalmente sulle spalle dell’eccellente violinista Nicola Mansutti, ben sostenuto da Roberto Colussi alla chitarra; una menzione particolare la merita Alessandro Turchet assolutamente sontuoso al contrabbasso sia in fase di accompagnamento sia negli interventi solistici tutt’altro che sporadici. Come si accennava, quel che affascina in questo quintetto è la compattezza declinata attraverso arrangiamenti sempre ben studiati che trovano terreno fertile nella bellezza dei temi caratterizzati sempre da una suadente linea melodica. Così tutti i musicisti si mettono al servizio del collettivo, senza ansia o volontà di strafare; in questo senso perfetto il contributo del fisarmonicista: di solito, nei gruppi tangheri, la fisarmonica tende e strafare; non così nel “Quinteto Porteño” in cui Nicola Milan è apparso sempre misurato, suonando le note indispensabili al progetto, non una di più.

Paolo Fresu Trio, Grado 7.7.19 ph: Gianni Carlo Peressotti ©

A seguire il trio di Paolo Fresu con Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso. I tre hanno presentato la colonna sonora dello spettacolo teatrale “Tempo di Chet” che hanno portato in giro per oltre sessanta repliche. Di qui un’intesa umana oltre che musicale che si percepisce immediatamente, al primo ascolto: il gruppo si muove in maniera coesa, mai una sbavatura, mai un’indecisione, con Fresu a tracciare e dettare le atmosfere, con Rubino a disegnare straordinari tappeti armonici e Bardoscia a legare il tutto.  In repertorio, oltre ad alcuni standard preferiti da Chet Baker, brani originali sempre nello spirito e nel ricordo di Chet. Ecco, quindi, tra gli altri, “My Funny Valentine”, “Basin Street Blues”, “The Silence Of Your Heart”, “Jetrium” un original in cui si ascolta la batteria preregistrata di Stefano Bagnoli, “When I Fall In Love”; in conclusione si ascolta brevemente la voce dello stesso Chet Baker che interpreta “Blue Room”. Particolarmente curiosa la storia di un altro original, “Hotel Universo”, presentato durante il concerto e scritto da Fresu in ricordo di una particolare notte; quella volta a Lucca – è lo stesso Fresu a raccontarlo – “alloggiavo all’ Hotel Universo. La signora alla reception mi dà le chiavi della numero 15. Salgo in camera, è una bella stanza ampia arredata con mobili un po’ retrò, stile anni Cinquanta. Mi sistemo, apro la finestra che dà su piazza del Giglio e prende posto su una sedia. Sopra il letto è appesa una fotografia: è Chet Baker. E’ seduto nello stesso posto in cui sono seduto ora. Dietro, dalla finestra aperta, si vede la piazza, esattamente come ora, dalla medesima finestra. Insomma un bell’omaggio di una albergatrice che evidentemente mi vuole bene”. Comunque ricordi a parte, set assai intenso, di grande impatto emotivo non a caso salutato dal foltissimo pubblico con calorosi applausi.

A completare una prima serata assolutamente positiva un duo di classe con Laura Clemente alla voce e Andrea Girardo alla chitarra. Laura è una vocalist raffinata, dotata di una bella voce, di notevoli capacità interpretative, di un gusto particolarmente ricercato: nel suo repertorio figurano brani tutti di notevole spessore anche se non sempre identificabili con il jazz… ma questo poco importa.

Clemente&Girardo duo 7.7.19 ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Anche la seconda giornata – ad ingresso gratuito –  si apre con una sorpresa: il trio del pianista brasiliano Amaro Freitas, con Hugo Medeiros alla batteria e Jean Elton al contrabbasso. Cresciuto nelle favelas di Recife, il giovane Amaro si è costruito passo dopo passo uno stile del tutto personale, uno stile percussivo in cui tuttavia è possibile riscontrare le influenze di alcuni maestri sia del jazz quali Ellington, Monk e Tatum, sia della musica brasiliana, Egberto Gismonti su tutti. Il rapporto con la musica inizia nella chiesa evangelica grazie al padre che, quand’era bambino, gli insegna a suonare la batteria. La tastiera arriva solo in un secondo momento perché, durante le funzioni religiose, c’è bisogno di uno strumento che funga da accompagnamento. Venendo al concerto di Grado, dopo il brano d’apertura – “Coisa n. 4” di Moacir Santos – Amaro ha sciorinato una serie di sue composizioni (“Dona Eni”, “Samba de César”, “Paço”, “ Trupé”, “Rasif “, “Aurora”, “Mantra”) che hanno letteralmente mandato in visibilio il pubblico, colpito dalla straordinaria energia e inventiva dell’artista brasiliano. All’interno di “Vitrais” ha addirittura creato nuovi innesti musicali basati sulle note di “Con te partirò” di Bocelli e di “Bella Ciao”! Non è certo un caso che Freitas venga, quindi, considerato un rinnovatore della musica brasiliana “attraverso – come afferma lo stesso pianista –  una nuova forma di costruzione melodica e armonica che passa per la valorizzazione percussiva e per il work in progress collettivo che si realizza durante i concerti”.

Amaro Freitas 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

A seguire un’altra esibizione trascinante quella della “North East Ska Jazz Orchestra”. Nata nel 2012 la big band riunisce diciotto musicisti che si rifanno soprattutto alla musica giamaicana. L’intento era quello di unire molte persone attive professionalmente nel panorama della musica giamaicana e afroamericana presenti nel Triveneto. La NESJO fin da subito ha, quindi, ottenuto molti consensi, anche grazie alla collaborazione con importanti esponenti della musica ska e del reggae italiano, consensi che si sono registrarti anche al di fuori dei confini nazionali, in Francia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Slovenia e Croazia. Sostenuto magnificamente dalle voci di Rosa Mussin, Freddy Frenzy e Michela Grena il gruppo si muove su ritmi assai elevati, ottenendo successo di critica e di pubblico, successo che non è mancato a Grado.

Sempre l’8 in cartellone anche un terzo concerto con Lorena Favot 4et “Landscapes” ma, causa stanchezza, non sono riuscito a sentirlo; amici degni di fede mi hanno comunque riferito che si è trattato di una performance in linea con il livello alto della serata.

North East Ska* Jazz Orchestra 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Lorena Favot 4et 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Ed eccoci al 9 luglio con quella che personalmente consideravo la chicca del Festival, vale a dire l’esibizione del Trio di Gonzalo Rubalcaba.

Ma procediamo con ordine. Ad aprire la serata i “Licaones” al secolo Mauro Ottolini trombone, Francesco Bearzatti sax, Oscar Marchioni organo, Paolo Mappa batteria. Nato quasi per gioco con l’album “Licca-Lecca” di una decina d’anni fa, il gruppo ha conservato la vivacità e soprattutto la gioia di suonare degli inizi. Elementi questi che si riscontrano in ogni loro concerto: a vederli sul palco si intuisce immediatamente che si divertono a suonare e in tal modo divertono anche chi li ascolta, mantenendo il livello musicale sempre alto. Così verve, ironia, funky si mescolano in una ricetta originale e trascinante.

Licaones 9.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Successivamente è stata la volta del già citato Gonzalo Rubalcaba, in trio con Armando Gola al basso e Ludwig Afonso batteria. Illustrare, in questa sede, la carriera di Rubalcaba è impresa tutto sommato inutile tale e tanta è la popolarità raggiunta in tutto il mondo dal pianista cubano: basti dire che attualmente è considerato una delle massime espressioni del pianismo jazz, vincendo due Grammy e due Latin Grammy e ottenendo ben 15 nomination. Agli inizi era, a ben ragione, considerato un pianista “cubano” in quanto nel suo stile erano ben presenti tutti gli elementi musicali dell’ ”Isola”: Man mano, Gonzalo si è staccato da questo linguaggio per approdare ad una sintesi che è sua e solo sua. Descrivere la sua musica è infatti molto, molto difficile; si ascolta un flusso sonoro illuminato da improvvisi lacerti di gran classe che aprono come uno spiraglio, una luce improvvisa sull’universo sonoro disegnato dal trio. In quest’ottica, particolarmente brillante l’intesa con il bassista, con il quale Gonzalo collabora da una decina d’anni… e si sente chiaramente, dal momento che i due si uniscono, si accarezzano, si compenetrano, sempre insieme, come una mano in un guanto. Oggettivamente difficile il compito del batterista entrato nel gruppo solo da un anno che deve dialogare da pari a pari con il piano di Rubalcaba, senza un attimo di tregua, sempre nella condizione di fornire la risposta giusta e rilanciare verso nuovi traguardi. Comunque devo dire che anch’egli se l’è cavata egregiamente. Insomma davvero un concerto memorabile che resterà nel cuore e nella mente di chi ha avuto la fortuna di assistervi.

Gonzalo Rubalcaba Trio 9.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

I concertini notturni ci riservano un’altra bella sorpresa: Humpty Duo, ovvero Luca Dal Sacco alla chitarra acustica e Matteo Mosolo al contrabbasso. Sebbene il progetto, “Synchronicities” sia interamente dedicato all’opera di Sting e dei Police, il jazz si libera in ogni singola nota con squisita ricercatezza. Non a caso il nome scelto dal duo richiama un celeberrimo brano di Ornette Coleman: “Humpty Dumpty”.

Il 10 serata dedicata al blues. Apertura con il chitarrista Jimi Barbiani accompagnato da Pietro Taucher all’organo e Alessandro Mansutti alla batteria. Professionista di sicuro spessore, Barbiani si è fatto le ossa suonando in giro per il mondo grazie ad una tecnica raffinata, ad un repertorio consolidato e ad una voglia di suonare che dopo tanti anni di professionismo è ancora lì, ben presente.

Jimi Barbiani 10.7.19 Grado ph: Angelo Salvin ©

Il clou della serata era rappresentata da Robben Ford “Purple House Tour” e l’attesa dei tanti amanti del blues non è andata delusa. Ad onta dei 67 anni e di circa 50 anni di carriera Robben conserva tutte le caratteristiche che ne hanno fatto un grande bluesman. Bella padronanza scenica, tecnica chitarristica di primo livello, voce sempre presente, intonata… e una carica di entusiasmo che si è facilmente trasmessa al numeroso pubblico. Considerato “Uno dei più grandi chitarristi del XX secolo” nel corso della sua carriera ha ottenuto cinque nomination ai Grammy, senza trascurare il fatto che la marca di chitarre Fender gli ha dedicato una sua creatura (“Robben Ford Signature”); ultima notazione tutt’altro che trascurabile: nel 1977 è stato il fondatore degli “Yellowjackets” all’epoca chiamato “The Robben Ford Group”. A Grado ha presentato, in quartetto, il suo nuovo album “Purple House” ed è stato un bel sentire. Ottimo il gruppo con un batterista tanto potente quanto di metronomica precisione, moderno il linguaggio caratterizzato da un’alternanza di generi: dal southern al blues, dal rock alla fusion, con qualche sconfinamento nel jazz.

Robben Ford 10.7.19 Grado ph: Angelo Salvin ©

La serata si è conclusa con il trio del chitarrista Gaetano Valli, con Silvano Borzacchiello alla batteria e Gianpaolo Rinaldi alle tastiere (a sostituire degnamente il contrabbasso di Riccardo Fioravanti); in programma il nuovo progetto “Sylvain Valleys & Flowers”, nato dall’intesa di tre amici di vecchia data che si ritrovano a suonare assieme dopo vent’anni scoprendo la passione comune, oltre che per il jazz, per la montagna. Non a caso il clima della performance è stato, oserei dire, dolce, distensivo e meditativo alternando brani inediti e citazioni provenienti dalla tradizione musicale. Un bravo di cuore a Gaetano Valli, artista che non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita.

 

Gaetano Valli Trio 10.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Ed eccoci alla serata finale dell’11 luglio; come accennato la pioggia ha costretto gli organizzatori a cancellare il primo concerto di “Maistah Aphrica” e l’ultimo del trio di Gianpaolo Rinaldi. E’ rimasta quindi in piedi l’esibizione di Snarky Puppy (main stage e platea completamente al coperto), che a Grado hanno iniziato la loro tournée italiana per presentare il nuovo lavoro discografico, almeno nel titolo di estrema attualità, “Immigrance”. Il concerto ha visto il sold out con molti spettatori anche in piedi – da segnalare al riguardo, finalmente, la presenza di molti giovani. E, come accennavo in apertura, il pubblico ha gradito – e molto – il concerto tanto da riservare al gruppo l’unica stand ovation di tutto il festival. Ovazione assolutamente meritata in quanto ancora una volta il gruppo ha espresso una cifra artistica di assoluto livello. Certo, la loro musica è trascinante ma non facilissima: il collettivo newyorchese, composto da una trentina di musicisti (a Grado rappresentato da nove elementi), si muove su terreni impervi, in cui jazz, funk e R&B si mescolano in un magma sonoro costruito con estrema consapevolezza. In effetti chi crede che la musica di Snarky Puppy sia soprattutto estemporanea si sbaglia e di grosso: il tutto è arrangiato con precisione e grande professionalità, lasciando comunque spazio ad improvvisazioni declinate attraverso una preparazione tecnica di primo livello. Come sempre in primo piano il bassista, compositore e arrangiatore Michael League, vera mente del gruppo, che ha guidato l’esibizione con sicurezza.

Snarky Puppy 11.7.19 Grado ph: Dario Tronchin©

Il recital del gruppo ha quindi chiuso nel migliore dei modi l’esperienza di questo primo “GradoJazz”,  il cui bilancio finale non può che essere positivo. Il festival, organizzato da Euritmica con il sostegno di regione Friuli Venezia-Giulia, comune di Grado, Promoturismo FVG, Fondazione Friuli e in collaborazione con i vari comuni coinvolti, nonostante il cambio di location, sempre pericoloso, ha comunque conservato quelle caratteristiche che nel corso degli anni ne hanno fatto una delle manifestazioni più interessanti dell’intero panorama jazzistico italiano. Intendo riferirmi da un canto al giusto mix tra musicisti internazionali e italiani con una particolare attenzione verso gli artisti friulani, dall’altro alla valorizzazione del territorio e dei relativi prodotti: ad esempio, quest’anno, il vino ufficiale della rassegna è la vitovska del Castello di Rubbia (con etichetta creata ad hoc per GradoJazz) e vi assicuro che si tratta di un gran vino.

Gerlando Gatto