I nostri CD: Buone Feste con tanta buona Musica e oggi… non solo Jazz!

Heinz Holliger, Anton Kernjak – “Eventail” – ECM New Series
Consentitemi di aprire questa rubrica in modo assolutamente nuovo, vale a dire con una sortita nel campo della musica classica. Lo faccio perché questo album mi ha semplicemente incantato e credo valga la pena di essere ascoltato soprattutto da quanti, come me, amano la musica francese dei primi anni del secolo scorso incentrata sull’oboe. In programma musiche di Messiaen, Koechlin, Jolivet, Ravel, Debussy, Milhaud, Saint-Saens, Casadeus. L’ oboista e compositore svizzero Heinz Holliger (classe 1939) è considerate uno dei migliori oboisti al mondo particolarmente versato nel genere che si ascolta in questo album; al suo fianco Anton Kernjak, che ebbe modo di collaborare con Holliger nell’album “Aschenmusik” del 2014, mentre l’arpista francese Alice Belugou l’ascoltiamo in un solo brano di Andre Jovilet “Controversia” per oboe e arpa. L’ascolto è impreziosito dal libretto che accompagna il CD in cui Holliger spiega perché ha scelto questi brani illustrandone la valenza storica e artistica.

Veljo Tormis – “Reminiscentiae” – ECM New Series
Un’altra prestigiosa realizzazione di ECM nella collana New Series. Protagonista la musica di Veljo Tormis (1930-2017) considerato a ragione uno dei più grandi compositori corali contemporanei nonché uno dei più importanti compositori del XX secolo in Estonia. Nell’album sono contenute memorie che evocano scene dell’infanzia di Tormis in un alternarsi di situazioni sonore che vedono protagonisti ora il coro e i due soprani più un recitativo, ora il coro e l’orchestra, ora il mezzo-soprano Iris Oja e l’orchestra, ora il coro, il soprano Maria Valdmaa ora alcuni solisti come Indrek Vanu alla tromba, Madis Metsamart alle percussioni e Linda Vood al flauto. L’album assume una particolare rilevanza anche perché è stato personalmente curato da Tõnu Kaljuste che per decadi è stato uno dei più stretti collaboratori di Tomis e che nell’occasione, oltre a dirigere la Tallinn Chamber Orchestra ha scelto personalmente il materiale da far ascoltare, ivi compreso quel ‘The Tower Bell in My Village’ che Tormis compose nel 1978 appositamente per un tour che Kaljuste effettuò di lì a poco. Insomma un album in cui Kaljuste riflette tutto il suo amore, la sua ammirazione verso il compositore scomparso la cui musica non può che affascinare ad onta degli anni che passano.

Anthony Burgess – “Complete Guitar Quartets” – Naxos
Il compositore inglese Anthony Burgess (1917-1993) fu personalità poliedrica, capace di eccellere sia nella letteratura sia nella musica. In quest’ultimo campo compose una serie di quartetti per chitarra che vengono qui presentati in edizione integrale, unitamente ad altre due composizioni, di cui una ‘traditional’ e le altre due dovute rispettivamente all’estro di Gustav Holst e Car Maria von Weber. Tornando ai quartetti di Burgess, composti negli anni ’80, la cosa strana è che Anthony mai ha suonato la chitarra eppure in molte sue novelle il protagonista principale è proprio un chitarrista. Il primo quartetto rilevante, “Quatuor pour Guitares”, completato nel 1986, fu scritto per l’ Aighetta Quartet, e fu eseguito per la prima volta presso l’ Academié Rainer III di Monaco; sottotitolato ‘Quatuor en hommage a Maurice Ravel’ evidenzia una forte influenza della musica francese. Come già accennato, oltre ai quartetti in questo album compare “Trois Morceaux Irlandais” ovvero tre trascrizioni e arrangiamenti di altrettante arie Irlandesi che evidenziano le grandi capacità di Burgess anche come arrangiatore. Un’ultima ma non secondaria notazione: nell’album a suonare la musica di Burgess è chiamato il Mēla Guitar Quartet ovvero Matthew Robinson, George Tarlton, Daniel Bovey e Jiva Housden.

Torniamo sempre con ECM sul terreno jazzistico

Wolfgang Muthspiel – “Dance of the Elders” – ECM
Il chitarrista Wolfgang Muthspiel si ripresenta alla testa del suo trio con Scott Coley al contrabbasso e Brian Blade alla batteria per bissare il successo ottenuto con il precedente album “Angular Blues” del 2018. Ancora una volta la musica dell’artista presenta molteplici riferimenti sia alla musica folk sia alla musica classica solo che, in questa occasione, abbiamo ascoltato un Muthspiel più attratto dalle linee melodiche il più delle volte perfettamente riconoscibili. Di qui un fraseggio sempre originale, misurato, tecnicamente ineccepibile e sempre molto, molto elegante. Dei sette brani presentati nell’album (tutti a firma del leader eccezion fatta per “Liebeslied” di Kurt Weill e Berthold Brecht e “Amelia”) il brano che meglio esemplifica quanto fin qui detto è proprio il conclusivo “Amelia”: si tratta di una splendida ballad di Joni Mitchell che il trio reinterpreta con rara delicatezza e con un linguaggio prettamente jazzistico a conferma, se pur ce ne fosse bisogno, che il jazz si identifica non già per quel che si suona ma per come lo si suona.

Maciej Obara Quartet – “Frozen Silence” – ECM
Maciej Obara è un sassofonista polacco (alto e tenore) che ha già alle spalle una fortunata carriera sia come leader sia come sideman in altri gruppi. Con questo nuovo album è alla sua terza realizzazione per ECM e si ripresenta alla testa del suo collaudato quartetto che ha già alle spalle una lunga storia. Al piano troviamo Dominik Wania anch’egli polacco, un altro grande talento che si è incontrato con Obara una decina di anni fa in un ensemble di Tomasz Stanko. Da 2012 i due sono stati raggiunti da una sezione ritmica norvegese composta dal bassista Ole Morten Vagan e dal percussionista Gard Nilssen. Sette delle otto composizioni dell’album sono state scritte durante il periodo della pandemia e quindi riflettono al meglio il lato interiore di Maciej Obara. Di qui un’atmosfera sempre assai meditativa, alle volte velata da una certa malinconia, il tutto declinato con un linguaggio pacato, mai sopra le righe, che non vuol affermare alcuna validità tecnica ma solo rispondere appieno a quelle che sono le intenzioni comunicative del leader. Molto interessante anche il gioco sulle dinamiche che esplicita al meglio l’empatia tra i membri del quartetto.

Sinikka Langeland – “Wind And Sun” – ECM
Undici composizioni della vocalist norvegese Sinikka Langeland su testi del poeta Jon Fosse più un brano scritto sempre dalla Langelad ma questa volta in collaborazione con Geirr Tveitt. Ad accompagnare la leader un quartetto composto da Trygve Seim – già collaboratore della stessa Langeland – al sax tenore e soprano, Mathias Eick alla tromba, Mats Eilertssen al contrabbasso e Thomas Stronen alla batteria, musicisti tutti ben noti a chi segue il jazz nordico. L’album rispecchia ancora una volta quelle che sono le coordinate stilistiche della Langeland, vale a dire una musica essenziale, senza fronzoli, che trae i suoi motivi ispiratori il più delle volte direttamente dal ricco patrimonio folkloristico nonché dagli input che provengono direttamente dalla natura. Non è certo un caso che la vocalist abbia messo in musica i versi di uno dei più importanti poeti e drammaturghi contemporanei come Jon Fosse –  anch’egli norvegese – conosciuto come “il nuovo Ibsen”. Ma chi si aspettasse un album dalle sonorità arcaiche rimarrebbe deluso in quanto il gruppo si muove invece su elementi di assoluta modernità sorretti da grande preparazione tecnica e da un idem sentire con la vocalist. Sentite, ad esempio, come il sax (ora soprano ora tenore) di Seim sottolinei alcuni passaggi che il kantele di Sinikka continua ad eseguire in sottofondo con una stratificazione di suoni tutt’altro che banale.

Restiamo in Norvegia con le produzioni Losen

Sara Calvanelli, Virginia Sutera – “Ejadira” – Losen
La Losen si va caratterizzando sempre più per la presenza nel suo catalogo di musicisti non norvegesi tra cui parecchi italiani. Questa volta è il caso di un duo al femminile composto da Sara Calvanelli, accordeon, indian harmonium, loops, cojo, voce e Virginia Sutera, violino. Davvero strana la genesi di questo album per cui vale la pena raccontarla brevemente. La Calvanelli è fisarmonicista arguta che ama sia la scrittura sia la libera improvvisazione; dal canto suo Virginia Sutera è violinista anch’essa attenta all’improvvisazione ma soprattutto all’interazione tra la musica e le altre arti. Siamo nell’autunno del 2020, tempo di lock-down. Le due musiciste decidono di incontrarsi seppure solo per corrispondenza: di qui uno scambio di idee, di prove, di registrazioni fino a quando chiuso il periodo del lock-down, le due si incontrano personalmente dando vita all’album in oggetto. Date le premesse tutto il disco si basa su un libero gioco improvvisativo tra le due che dimostrano di avere un’ottima intesa passando da sonorità che richiamano il barocco a momenti folk fino ad atmosfere più “moderne”.

Sudeshna Bhattacharya & Somnath Roy –“Mousson de Calcutta” – Losen
Ancora una sortita fuori dai confini nazionali da parte di questa coraggiosa etichetta che si è spinta sino a considerare la musica indiana…anche se poi la registrazione è stata effettuata a Oslo. Anche di questo album è protagonista un duo ben lontano, come si accennava, dalle terre e dalle atmosfere nordiche: Sudeshna Bhattacharya e Somnath Roy. Si tratta di un connubio apparentemente improbabile: Sudeshna è infatti uno dei migliori specialisti di sarod, lo strumento a corde tipico della tradizione musicale dell’Hindustan mentre Somnath è conosciuto per la sua straordinaria abilità nel percuotere il ghatam, strumento tipico della musica carnatica indiana. E’ possibile far coesistere questi due generi sulla carta così diversi? Secondo gli esperti di musica indiana assolutamente no: viceversa i due artisti, con questo album, hanno dimostrato che sì, è possibile, basta intendersi su ciò che si vuole esprimere, basta possedere una straordinaria tecnica di base e il gioco è fatto. In repertorio tre composizioni create da Bhattacharya che durano ben sei, 13 e 38 minuti; in tutte e tre spicca il meraviglioso canto della già citata Somnath Roy che riesce ad emozionare ogni ascoltatore al di là di qualsivoglia barriera di terra e di lingua.

Benvenuta alla Ipogeo Records
E’ con vero piacere che salutiamo questa nuova etichetta discografica Ipogeo Records fondata di recente da Filippo Cosentino, uno dei principali compositori e musicisti jazz contemporanei.
Come sottolineano i responsabili dell’etichetta, fondamentale è la solidità del team di produzione. Da un lato il gruppo di lavoro, che nelle figure chiave è formato da Filippo Cosentino, fondatore, producer e direttore artistico; Federico Mollo, fonico e assistente di produzione; Adriana Riccomagno, ufficio stampa e coordinamento team di distribuzione; Fabrizia Gar e Carlotta Vacchetti, team grafico. Particolare attenzione viene dedicata alla cura del catalogo musicale assicurato dalla casa editrice Cose Note Edizioni. Le sezioni del catalogo sono: jazz music, songwriting e cantautorato; musica contemporanea; early music; soundtrack.
In jazz music e musica contemporanea, tre progetti sono stati ammessi al primo turno di ballottaggio dei Grammy® Awards in due differenti edizioni: 65th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Heros, Filippo Cosentino feat. Danilo Mineo e Daniele Bertone, nella categoria Best New Artist; Carlotta The Musical, James David Spellman / Filippo Cosentino, nella categoria Best Theatre Music essendo in effetti la colonna sonora di uno spettacolo teatrale; e quest’anno alla 66th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Ask, Filippo Cosentino, nella categoria Best Instrumental Contemporary Music mentre Leeway, singolo tratto da Ask, Filippo Cosentino & Marc Copland feat. Daniele Bertone, nella categoria Best Jazz Performance.
Nella categoria Jazz i primi due lavori pubblicato sono stati “Multiverse” solo in versione digitale e quindi “Heros” di Filippo Cosentino. In quest’ultimo album la formazione è il trio in cui il leader, chitarrista, è accompagnato dal formidabile pianista Marc Copland, per moltissimi anni componente della formazione di John Abercrombie, e Daniele Bertone alla batteria e percussioni. In programma sette composizioni del leader in cui si evidenzia da un lato le capacità strumentali di tutti e tre i musicisti, dall’altro le ottime capacità compositive di Cosentino che di certo non scopriamo oggi. Le atmosfere predilette sono un mix di jazz, folk e country anche se qua e là riemerge l‘anima mediterranea del leader.

In Italia scendono in campo anche i grossi calibri

Amato Jazz Trio – “Keep Straight On” – abeat
Elio Amato piano, Alberto Amato contrabbasso e Loris Amato batteria sono i componenti dell’Amato Jazz Trio, una delle formazioni più longeve he a storia del jazz italiano conosca. Una storia costellata di successi straordinari colti in tutto il mondo tanto che non a caso l’amico Franco Faienz li aveva definiti uno dei più originali trii d’Europa e oltre”. La storia del Trio comincia nel 1979 in Sicilia, a Canicattini Bagni, dove i tre fratellini Elio, Alberto e Sergio si divertono a suonare assieme. Ben presto si fanno notare a livello locale e arrivano i primi ingaggi, i primi concerti. Nel periodo che va dal 1985 al 1987 la svolta: il gruppo viene chiamato per aprire i concerti di stelle quali Betty Carter, Muhual Richard Abrams e Wynton Marsalis. Nel 1988 il gruppo vince a Milano il concorso indipendenti per l’allora celebre rivista Fare Musica e subito dopo il jazz contest della Dire. ottenendo come premio la possibilità di incidere il loro primo disco intitolato ‘Jazz Contest 88’. Da quel momento l’Amato Jazz trio incide una serie di album sempre di grande successo e soprattutto ottiene il plauso indiscriminato di pubblico e di critica mantenendo il suo standard qualitativo sempre molto elevato. Cosa che si ripete anche in quest’ultimo album in cui i tre fratelli convincono sempre di più. La loro è davvero una musica ‘universale’ nel senso che nel stessa confluiscono input assai diversi provenienti ovviamente dal bop, dal free jazz, dalla tradizione classica e dalle straordinarie armonizzazioni proprie della musica dei primo del ‘900, il tutto senza dimenticare le origini mediterranee del trio che trova in ognuno dei componenti l’interprete ideale per quel che in quel momento si sta eseguendo. Di qui la difficoltà di segnalare un brano piuttosto che un altro…anche se qualche parola in più desideriamo spenderla per “Arvo” scritto da Alberto Amato: si tratta di un sentito omaggio al compositore estone Arvo Pärt contenuto in poco meno di quattro minuti in cui le influenze minimaliste la fanno da padrone trasportando l’ascoltatore in un mondo “altro”, ben lontano dalle nefandezze di quello odierno.

Claudio Angeleri – “Concerto feat. Gianluigi Trovesi” – Dodicilune
Si intitola semplicemente “Concerto” il nuovo album firmato Claudio Angeleri e registrato live in occasione del Bergamo/Brescia Capitale della Cultura Italiana il 20 maggio 2023 presso l’Auditorium Modernissimo Nembro. Nella versione live i quadri di Gianni Bergamelli si intrecciano con le composizioni musicali di Claudio Angeleri, i testi narrativi di Maurizio Franco e le animazioni di Adriano Merigo che danzano in tempo reale con le improvvisazioni dei diversi solisti. Il CD che vi presentiamo è quindi  un album a tema in cui   il pianista e compositore bergamasco desidera omaggiare i grandi della cultura lombarda. Per affrontare questo difficile compito Angeleri ha chiamato accanto a sé una schiera di eccellenti musicisti quali Gianluigi Trovesi (clarinetto), Giulio Visibelli (sax soprano e flauto), Gabriele Comeglio (sax alto), Marco Esposito (basso elettrico), Matteo Milesi (batteria), Paola Milzani (impegnata sia come solista vocale sia come direttrice del coro), il giovane talento Nicholas Lecchi (sax tenore) e il coro The Golden Guys. In programma otto brani tutti scritti dallo stesso Angeleri eccezion fatta per “Lacrimosa” tratto dalla Messa da Requiem op. 73 di Gaetano Donizetti, mentre le liriche di “Light and Dark” e “Armida” sono state scritte da Alessia Marcassoli. Cercando di mantenersi in un difficilissimo equilibrio tra antico e attuale, Angeleri mette in campo tutta la sua sapienza musicale scrivendo partiture in cui echi di gospel si mescolano a input di chiara influenza “jazz contemporary” nonché classica in cui l’improvvisazione gioca un ruolo di primissimo piano grazie all’interplay che si è costituito tra i musicisti. Al riguardo eccellente il contributo degli artisti citati in precedenza con un Trovesi che sembra non sentire minimamente il peso degli anni che passano anche per lui. Per la cronaca i protagonisti cui sono dedicate le varie performance sono Caravaggio, Arturo Benedetti Michelangeli, Giacomo Costantino Beltrami, Niccolò Tartaglia, Giacomo Quarenghi, Torquato Tasso e le donne della Resistenza. Infine un elemento su cui interviene lo steso Angeleri: la musica, come si accennava, è tratta da uno spettacolo multimediale, procedimento sempre piuttosto rischioso. Di qui la domanda: è possibile gustare la valenza della musica prescindendo da tutto il resto? “Suggerisco afferma Angeleri –  di dedicarsi ad un primo ascolto esclusivamente sonoro senza guardare e leggere il booklet: solo pura suggestione uditiva. Gli ascolti e le letture successive offriranno così la possibilità di cambiare prospettiva e replicare più volte le emozioni. Il disco, in questo modo, assume una dimensione plurale e condivisa che lo rende ancora oggi, nel terzo millennio, un mezzo vivo e stimolante per i musicisti di jazz – uso volutamente un termine così ampio – che si esprimono nel tempo reale e per il pubblico che ne fruisce. Anche per questo motivo è stata scelta una versione live di Concerto per catturare una versione unica e irripetibile».

Dino Betti Van Der Noot – “Let Us Recount Our Dreams” – Audissea
Mi onoro di conoscere Dino Betti oramai da qualche decennio ma posso tranquillamente affermare che ben difficilmente ho visto un jazzista conservare un entusiasmo, una lucidità, una positività che sempre riscontro quando parlo con lui. E queste qualità si ritrovano puntualmente negli album che, in questi ultimi tempi Dino licenzia producendo sempre musica di altissima qualità. Ovviamente a questa regola non fa eccezione “Let Us Recount Our Dreams” (“Raccontiamoci i nostri sogni”) chiaramente ispirato da una delle più belle e suggestive pagine di William Shakespeare.    A parte l’originalità delle composizioni, è straordinario il modo in cui Betti gioca con le note: lui le fa ruotare, rimbalzare, rincorrere a formare un caleidoscopio che poi, fatalmente va a sfociare in un disegno unitario che evidentemente è lì, nella mente del leader. Ovviamente per raggiungere risultati del genere, è indispensabile poter contare su musicisti che ben conoscono il modo di operare del compositore: non è quindi un caso che anche questa volta Dino Betti Van Der Noot abbia chiamato accanto a sé i ventidue musicisti con i quali ha lavorato negli ultimi anni, in particolare nel precedente “The Silence of the Broken Lute”, con l’aggiunta del trombettista Tiziano Codoro, mentre a scrivere le lunghe note di copertina è stato incaricato il critico statunitense Thomas Conrad le cui considerazioni sono, a mio avviso, condivisibili dalla prima all’ultima riga. Venendo alle nostre personalissime considerazioni, anche in questo album abbiamo ritrovato quelle caratteristiche elencate in apertura con una attenzione maggiore verso certi suoni orientaleggianti che amplificano lo spettro sonoro di cui si serve Dino. Non a caso si è servito di strumenti quali l’arpa, il dizi e il flauto cinese poco usuali nelle orchestre jazz. A Conferma della sua straordinaria conoscenza dell’universo musicale nel suo insieme, non mancano accenni al progressive, accenni sempre misurati e comunque assolutamente pertinenti. Tutto Ciò, agendo allo stesso tempo con l’incrociare delle linee melodiche, con il flusso dinamico che varia in modo straordinario, con il variare delle atmosfere proposte fa sì che l’album mai perda una sola oncia di omogeneità. Insomma un gran bell’album che vale la pena ascoltare più di una volta per capirne ogni più remota sfumatura.

Maria Pia De Vito – “This Woman’s Work” – PMR
Se ci dichiarassimo stupiti dall’ascolto di questo nuovo album di Maria Pia De Vito non saremmo sinceri fino in fondo: in effetti seguiamo la straordinaria carriera della vocalist napoletana da tanti anni e l’abbiamo sempre ammirata per quel suo mai adagiarsi sugli allori di un successo più che meritato, ma continuare a ricercare, ad andare avanti ad esplorare nuovi terreni. Questa volta l’obiettivo è veramente importante e per chi scrive è un piacere sottolinearlo dal momento che proprio a questo argomento ha dedicato un libro: riflessione sulla condizione femminile e su quali strategie sono state attuate dalle donne per resistere in questi lunghi lassi di tempo. Per farlo la De Vito si è avvalsa innanzitutto di un nuovo gruppo senza pianoforte composto da Mirco Rubegni tromba, Giacomo Ancillotto chitarre ed electronics, Matteo Bortone basso ed electroncis, Evita Polidoro batteria. I pezzi in repertorio provengono dal jazz di Tony Williams, Ornette Coleman, dal cantautorato di Elvis Costello e Kate Bush, fino a elementi del folk cui si aggiungono tre pezzi composti a quattro mani dalla leader con Matteo Bortone. L’ispirazione, per esplicita ammissione della stessa De Vito, proviene dalle opere di autrici quali Virginia Woolf, Rebecca Solnit, Margaret Atwood. Il risultato? Assolutamente convincente. La De Vito è del tutto credibile quando affronta la questione femminile anche perché, come si accennava in apertura, ha speso tutta la vita al servizio della musica senza cedere a compromessi e andando sempre dritto per la sua strada. Prescindendo dalle più che lodevoli intenzioni della leader, l’album si segnala per la sua intrinseca valenza artistica: i brani sono tutti significativi, interpretati ora con vigore ora con dolcezza dalla De Vito la cui voce sembra più chiara rispetto ad altre occasioni. More solito la De Vito improvvisa con disinvoltura chiamando in causa la sua profonda conoscenza della musica non solo jazz, ma anche rock, folk e classica. Ovviamente per affrontare una tematica così complessa non solo dal punto di vista musicale, la De Vito si è affidata ad un gruppo di musicisti non solo collaudati ma anche sulla rampa di lancio come la bravissima batterista Evita Polidoro. Al riguardo occorre sottolineare come la scelta si stata più che felice dal momento che il gruppo ha funzionato semplicemente alla perfezione.

Claudio Fasoli NeXt 4et – “Ambush” – abeat–
Conosco Fasoli oramai da parecchi anni e quindi posso affermare, senza tema di smentite, che Claudio è uomo intelligente, spiritoso, cordiale e originale. Queste doti il sassofonista le trasporta nella sua musica che di conseguenza risulta sempre straordinariamente nuova, affascinante, coinvolgente. Ascoltando uno dopo l’altro i vari suoi dischi si rimane davvero stupefatti di come l’artista abbia saputo trovare una chiave sempre nuova per le sue composizioni. Così anche questo “Ambush” presenta una sua spiccata originalità che lo distingue nettamente dai precedenti album, originalità che può farsi risalire ad un uso più spregiudicato e intenso dell’elettronica che trova nella chitarra di Simone Massaron un interprete fondamentale. Le note sembrano quasi rimbalzare da un lato all’altro del pentagramma senza soluzione di continuità con il leader che guida il gruppo con mano ferma anche se le parti improvvisate paiono davvero tante. Il tutto senza che mai il discorso narrativo perda la sua logica: Fasoli è sempre perfettamente a suo agio qualunque strumento imbracci ( sax tenore o sax soprano) e qualunque ruolo rivesta in quello specifico momento. E al riguardo non si può non rilevare la grandezza di Fasoli come compositore, un musicista che conosce benissimo il linguaggio musicale anche al di là del jazz, che sa perfettamente da dove partire e dove arrivare e che soprattutto riesce sempre ad esprimere i propri sentimenti all’interno di una scrittura che sa valutare assai bene anche il valore del silenzio, l’importanza del respiro nella musica, nell’universo sonoro. Non a caso Nat Hentoff ha scritto di lui “che non lo si può confondere con nessun’altro”. Molto ben studiato anche il repertorio in cui a brani veloci si alternano atmosfere più riflessive e intimistiche. Che portano l’ascoltatore a chiedersi con curiosità ‘cosa ascolterò adesso?’. Come ci piace sottolineare sempre in occasioni del genere, quando un album riesce così bene certo il merito va alle composizioni, al leader…ma anche al resto del gruppo che per l’occasione è costituito dal già citato Simone Massaron chitarra elettrica, Tito Mangialajo Rantzer contrabbasso e Stefano Grasso percussioni.

Nicola Mingo – “My Sixties in Jazz” – Alfa Music
Come si è forse già capito dalle mie note, i jazzisti italiani che hanno più di 50 anni praticamente li conosco tutti…o quasi. Ma coloro i quali posso definire “amici” sono ovviamente pochi, molto pochi. Ecco, Nicola Mingo è uno di questi anni. L’ho conosco da tempo e tra di noi si è instaurato un bellissimo rapporto fatto di reciproca stima ed amicizia. Stima ed amicizia che però non mi impediscono di valutare con tutta l’oggettività di cui sono capace le sue ‘imprese’ musicali. E proprio partendo da tale presupposto non ho alcun timore di essere smentito affermando che quest’ultima produzione del chitarrista napoletano è fra le cose migliori da lui incise nel corso degli anni. Nicola è uno dei musicisti più coerenti che abbia conosciuto: lui è u amante del bop e a questo linguaggio rimane fortemente ancorato nonostante i boppers in esercizio permanente effettivo siano rimasti veramente pochi ed è questa una considerazione imprescindibile nel valutare l’album. Lo stesso si pone, infatti, come un esplicito omaggio da un canto ai 60 anni di jazz di Mingo in senso autobiografico e,  dall’altro esplicita il chitarrista “a quegli anni Sessanta che hanno prodotto fenomeni musicali come l’hard bop, Art Blakey and Jazz Messengers e tutte le derivazioni chitarristiche come Grant Green, Wes Montgomery, Kenny Burrell, Barney Kessel, Tal Farlow, Joe Pass, Pat Martino, George Benson, miei punti di riferimento stilistici”. M per essere ancora più chiari Mingo aggiunge che “questo progetto rappresenta un contributo personale, moderno ed innovativo al linguaggio del bebop e al suo fraseggio, nato con Charlie Parker e Dizzie Gillespie e ulteriormente sviluppatosi in una continua evoluzione fino ad approdare alla nostra contemporaneità”. Obiettivo centrato? A mio avviso assolutamente sì. La modernità di Mingo nell’approcciare uno dei linguaggi più complessi del jazz è sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di tutti e può rappresentare, soprattutto per i più giovani, un momento di attenta rilettura di uno dei periodi più gloriosi nella storia del jazz, un momento che, specie negli ultimi anni, non tutti hanno saputo interpretare, nel modo più giusto facendolo apparire vecchio e superato. Ottimo, è anche questo è un grande pregio, il rivolgersi a compagni di viaggio che hanno saputo ben interpretare gli intendimenti del leader: Francesco Marziani piano, Pietro Ciancaglini contrabbasso e Pietro Iodice batteria sono risultati perfetti, assolutamente inseriti nel progetto studiato da Mingo.

Modern Art Trio – “Modern Art Trio” – Gleam Records
Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba, Bruno Tommaso contrabbasso sono gli artefici di una registrazione che è rimasta iconica, una registrazione che ha spinto la Gleam Records a ristampare per la quarta volta il disco in oggetto. Questa ulteriore ripresentazione dell’album è il frutto di una importante opera di restauro audio voluta dal produttore Angelo Mastronardi e realizzata grazie al fortuito ritrovamento del nastro originale da parte dell’editore Luca Sciascia e accuratamente restaurato e masterizzato dal fonico Jeremy Loucas negli Stati Uniti. L’album è disponibile in edizione limitata su Vinile 180 gr. (bauletto con inedito booklet) e su CD (formato gatefold con booklet arricchito), dal 10 novembre 2023 e distribuito da IRD International Distribution. Ciò detto vediamo più da vicino i contenuti musicali (e non solo) di questo “Modern Art Trio”. Siamo nell’aprile del 1970 a Roma e già da qualche anno (per la precisione dal 1967) è attivo il Il Modern Art Trio che rimarrà in attività fino al 1972. La prima formazione vedeva al contrabbasso Marcello Melis che lascerà il posto l’anno successivo a Giovanni Tommaso, il quale a sua volta nel 1969 sarà sostituito da Bruno Tommaso. Il primo e unico disco del trio riporta sulla copertina la sigla “Progressive Jazz”, un chiaro riferimento alla musica suonata. L’album fece scalpore in quanto si trattava di un primo tentativo di mettere ordine in un linguaggio che di ordine non voleva sentir parlare come ricorderanno chi quegli anni ha vissuto in prima persona. E che il tentativo fosse già di per sé piuttosto ambizioso se non addirittura velleitario lo evidenzia lo stesso D’Andrea quando nel libro dedicato a Gato Barbieri da Andrea Polinelli afferma: Quando con Gato facemmo ‘Ultimo tango’ io venivo fuori da questa cosa terribile che era il MAT nel quale come linguaggio musicale stavo completamente da un’altra parte”. Comunque a parte le sensazioni che i componenti il trio possono esprimere oggi, resta il fatto che il disco rappresentò una grossa novità specie per il panorama italico dal momento che in ogni modo rappresenta una sorta di dichiarazioni di intenti, un documento in cui Tonani e compagni illustrano le ricerche che in quel momento stavano portando avanti, ricerche che come dimostrerà un attento ascolto del disco, avevano, hanno e avranno un loro perché.

Roberto Ottaviano – “A che punto è la notte”, “Astrolabio mistico” – Dodicilune
Credo di aver speso tutte le aggettivazioni possibili parlando di Roberto Ottaviano che considero in assoluto uno degli artisti più innovativi, immaginifici, tecnicamente superlativi, coerenti con alcuni inderogabili principi di fondo quale in primo luogo l’onestà intellettuale, che calchino le scene del jazz internazionale. E ciò che si abbia riguardo sia ai concerti sia alle registrazioni. A quest’ultimo riguardo due sono le perle che il sassofonista barese Roberto Ottaviano ha deciso di regalarci nel corso di questo 2023 che ci sta salutando: la prima – “Roberto Ottaviano & Pinturas – A che punto è la notte” – è un progetto interamente pugliese in cui il gruppo guidato da Ottaviano è completato dalla chitarra di Nando di Modugno, dal contrabbasso di Giorgio Vendola e dalla batteria e dalle percussioni di Pippo D’Ambrosio. Il progetto è dedicato alla memoria del chitarrista pugliese Rino Arbore prematuramente scomparso nel 2021. Per chi ama leggere “A che puto è la notte” avrà sicuramente richiamato il titolo di un racconto di Fruttero e Lucentini ma Ottaviano spiega chiaramente che la frase è stata usata strumentalmente solo perché “può racchiudere in sé molte altre atmosfere e richiami, come quelli contenuti in diversa letteratura”. Ciò premesso, l’album si snoda minuto dopo minuto, attimo dopo attiamo, scoprendo di volta in volta le sue innumerevoli sfaccettature. Ecco quindi trapelare nelle composizioni originali il profondo radicamento dei musicisti nella realtà mediterranea bilanciato in qualche modo dai due brani che aprono e chiudono il disco, di “O Silencio das Estrellas” della cantante e compositrice brasiliana Fatima Guedes e “Avalanche”, del cantautore canadese Leonard Cohen. Ma a parte queste citazioni quel che colpisce è soprattutto l’empatia che si avverte tra i musicisti e la loro capacità improvvisativa che emerge magari laddove non te l’aspetti.
Il secondo volume in realtà è a firma doppia – “Michel Godard, Roberto Ottaviano – Astrolabio mistico – Dodicilune” e racconta la vita di Bianca Lancia, «l’unica donna che l’imperatore Federico II di Svevia abbia mai amato». Per questa non facile impresa l’ 11 e 12 settembre scorsi al Castello Normanno-Svevo di Gioia del Colle (Ba), si sono dati appuntamento il serpentone e il basso elettrico di Michel Godard, il sax soprano di Roberto Ottaviano, il canto di Ninfa Giannuzzi, la tiorba di Luca Tarantino, i testi e la voce recitante di Anita Piscazzi. In programma quattordici brani originali scritti dai musicisti, con testi di Anita Piscazzi e arrangiamenti di Michel Godard e Luca Tarantino. In perfetta coerenza con la storia raccontata, l’album è pervaso da una a volte struggente malinconia come nel bellissimo brano d’apertura firmato da Roberto Ottaviano. E questo tono soffuso, raccolto si avverte per tutta la durata dell’album che acquisisce così una propria personalità ben distinta dal clamore della sperimentazione ad ogni costo o dalla riproposizione sic et simpliciter di modelli usati e abusati. Insomma una originalità di esposizione che caratterizza non già da oggi le produzioni dei due leader; ad ulteriore conferma si ascolti il terzo brano, “Light the Earth”, per l’appunto scritto da Godard.

Gerlando Gatto

IL FALSETTO, DAL CANTO PRIMITIVO AL JAZZ

Il falsetto nelle etno-musiche
Rock o barocco? Gospel o nenia hawaiana?  E le musiche primitive dove le mettiamo in tema di falsetto? Alan Lomax ricorda, a proposito di voce umana, che ”in tutte le età dell’uomo, nel peregrinare attraverso il pianeta, nei vari stili di vita, età, avventure, ogni adattamento ha trovato eco nel guscio di conchiglia dello stile canoro” (Cantometrics, Univ. California, 1978). Ancor prima Roberto Leydi aveva specificato che “la musica africana è forse la più varia, la più ricca, la più imprevedibile del mondo. Il cantante (…) sa usare la sua voce in ogni timbro e in ogni possibilità espressiva; sa passare dai toni più gravi al falsetto” (Musica popolare e musica primitiva, ERI, 1959). Dal “canto” suo Curt Sachs ha descritto i Maori in Nuova Zelanda che “eseguono i canti di guerra rapidamente, in un falsetto sferzante, microtonico, che sembra quasi un pigolio eccitato” (Le sorgenti della musica, Bollati Boringhieri, 1962). E tracce di falsetto sono state rilevate presso i nativi americani e in altri contesti, ad esempio fra le genti del Caucaso così come nel teatro tradizionale cinese.

Questa tecnica vocale , oltre al canto in senso stretto, può investire il linguaggio in senso lato. Dal racconto di André Schaeffner: “trovandoci per la prima volta in Africa, in Camerun, i miei compagni di missione ed io fummo ricevuti da uno di quei piccoli sovrani negri che spesso non sono altro che la triste caricatura dei grandi imperatori africani dei secoli passati. Il principe si rivolse a noi con una strana voce in falsetto che ci fece pensare si trattasse di un evirato. In seguito avemmo la sorpresa di udirlo rivolgersi agli uomini del suo seguito con voce assolutamente normale. Egli ricorreva alla voce in falsetto soltanto nell’esercizio solenne delle sue funzioni regali” (cit., La musica africana dal deserto all’equatore, RaiTv, 1955). In La musica entre los pueblos primitivos, saggio tradotto apparso nel “Boletin Latino-americano de musica” a Montevideo nel 1941, il compositore Henry Cowell intravedeva l’importanza sociale della musica per l’uomo primitivo che “impara a interpretarla seriamente, come una necessità di vita”.  Schaeffner, pioniere della critica jazz francese con Goffin e Panassié (cfr. L. Cugny, Di una ricezione del jazz in Francia, HAL Open Science, Rivista di studi sul Jazz e sulle Musiche Audiotattili, 2019) esplicita con vari esempi il contrasto fra voce naturale ed artificiosa, fra parlato profano e parlata rituale, quest’ultima legata ad una specifica funzione sociale e politica.
Allargando lo spettro visuale, sono vari i casi possibili nel campo delle musiche popolari, dallo yodel alpino al country yodel del West America, dallo huapango dei mariachi messicani e dei gruppi tipici huastechi centroamericani interpreti di petenera (sottogenere del flamenco) agli holler afroamericani, dalle musiche vocali di alcune tribù pigmoidi fino ai “canti a distesa” del giuglianese.
Per restare all’Italia, Giovanna Marini accenna a varianti vocali non “naturali” nella musica contadina in cui “la voce si permette degli spessori timbrici delle note roche di corda che nessuna voce impostata classicamente farebbe“ (Improvvisazione ed uso della voce, “I Giorni Cantati”, 2/3, 1981).  Dopo la doverosa premessa antropomusicale su una tale “tecnica di canto che, sfruttando un naturale fenomeno di impiego parziale delle corde vocali, consente la produzione di suoni più alti rispetto all’estensione naturale del soggetto cantante in voce piena” (Della Seta, Breve Lessico Musicale, Carocci, 2009) eccoci a tratteggiare, del falsetto maschile, un sintetico resoconto storico, non tecnico, che prende le mosse dalla nascita del melodramma dischiudendo l’excursus a più aree musicali.

Tra Farinelli e Moreschi
Nel cinquecento la terra è più ricca di un continente, l’America. Intanto, al di qua del Nuovo Mondo, in Europa, lettere scienze ed arti registrano uno sviluppo tumultuoso. Nell’Italia del Rinascimento anche la musica fiorisce rigogliosa. Poi, nel Seicento, la monodia accompagnata subentra alla polifonia con la trasformazione di assetto della musica vocale da cui ha origine il melodramma. A Firenze, nell’erudita Camerata de’ Bardi, figura fra i propugnatori del “recitar cantando” Giulio Caccini, convinto che il linguaggio musicale debba constare di “favella, ritmo, suono”. Il valente musicista è contrario al falsettismo, cioè a quel tipo di canto artatamente mutato in timbro e altezza. Le voci “artificiali” di soprano o contralto intonate dai falsettisti sono da lui ritenute stridule. Nelle sue prefazioni “’l’intonazione delle parole era discussa nella relazione del loro contenuto” (A. Della Corte, La critica musicale e i critici, Utet, 1961) nel presupposto che “la grazia del cantare sia parte proveniente dalla natura e non dall’arte” (V. Giustiniani, Discorso sopra la musica, 1628). Va da sé che “nell’opera italiana il canto delle arie era un compito da musicisti virtuosi; ad esempio i famosi castrati, la cui carriera era lanciata da particolari arie che ne costituivano l’epitome” (R. Strohm, Aria e recitativo. Dalle origini all’Ottocento, Enc. Musica Einaudi/Il Sole 24 Ore, 2006, I).  Nello Stato pontificio, la proibizione alle donne di esibirsi in scena, decretata da un editto del 1588, aveva aperto ampi spazi ai castrati. Questi ultimi, presenti già nei lavori del Monteverdi, possedevano una vocalità in “perfetto equilibrio fra lo sfoggio virtuosistico nell’improvvisazione e la sostanza profondamente espressiva della linea melodica” (P. Mioli, La musica nella storia, Calderini). Non c’era un unico registro espressivo e il vocalismo degli evirati era più acuto rispetto a quello “naturale” dei camerati fiorentini. E voce bianca, impiegata essenzialmente in parti femminili, era quella del famoso Farinelli, al secolo Carlo Broschi (Andria 1705 – Bologna 1782), a cui è dedicata la biografia di Cappelletto ed il film di Corbiau del 1994 con Stefano Dionisi. “Farinello”, allievo del Porpora e amico del Metastasio e di Domenico Scarlatti, soleva suscitare “stupore per il modo spavaldo con il quale gareggiava perfino con gli strumenti in passaggi virtuosistici. A Londra, circondato dal fanatismo degli ammiratori, fece registrare entusiasmi e commozione da lasciare interdetti sulla veridicità dei resoconti” (Storia dell’opera, UTET, III). Broschi ebbe successo anche a Vienna, Parigi e alla corte di Madrid quale “musico terapeuta” del malinconico re Filippo V sin dal 1737. Nell’arco di una permanenza ultraventennale vi fondò, nel 1750, una scuola di “bel canto” italiano sotto l’egida di Ferdinando VI.  Dunque “la voglia di strabiliare, il divismo, la follia delle passioni e delle rivalità furono esaltate dall’irruzione dei castrati sui palcoscenici d’opera. La loro storia incominciò alla fine del Cinquecento e durò fino all’Ottocento, fu penosa e gloriosa, esaltante e sconcertante” (L. Arruga, Il teatro d’opera italiano, Feltrinelli). Finchè appunto nell’800 nasce “l’età del tenore, in cui non sono più le voci acute dei soprani e dei castrati a primeggiare nelle rappresentazioni teatrali bensì quelle dei tenori (A. Petroni, Gilbert Deprez e i “disumani entusiasmi” per la voce tenorile, framentirivista.it, 16/12/22) e il tenore romantico subentra al contraltista evirato. Ed è grazie alle registrazioni effettuate fra il 1902 e il 1903 direttamente dalla voce del falsettista Alessandro Moreschi (Montecompatri, 1858-Roma 1922) che sono stati ricavati una decina di dischi. Moreschi, definito l’Angelo di Roma, cantore presso la Cappella Sistina dal 1883 al 1913, fra gli ultimi cantanti evirati con Domenico Mustafà (cfr. Il segreto della “quarta voce” di Mustafà, Emma Calvè ed Enrico Caruso, belcantoitaliano, blogspotcom,1/5/2020) e il Sebastianelli, si esibì, nel 1900, al Pantheon, ai funerali di re Umberto I, traghettando di fatto il falsettismo nel Novecento, secolo che avrebbe peraltro registrato l’abbandono della pratica dell’evirazione, usanza barbara e atroce, frutto di fondamentalismo moralistico, praticata su persone divenute macchine per cantare mutilate nel corpo e nella mente “immolate sull’altare dell’arte a prezzo della drammatica perdita di identità” (La riproduzione sonora, www.amedeofurfaro.it). La loro eredità canora, quella non chirurgicamente modificata, sarebbe stata raccolta dai controtenori con in repertorio, ancora oggi, musiche di Porpora, Purcell, Haendel, Bach…  Da sottolineare che nel primo Ottocento era comparso il falsettone (talora “rinforzato”), tecnica di emissione di note molto acute o sovracute adoperata da vari tenori in alcune partiture liriche di Rossini, Donizetti, Bellini (Credeasi, misera da “I Puritani”). Pagine su cui si sarebbero cimentate grandi ugole (ad es. YouTube Luciano Pavarotti sings A High E flat (!!) in Falsetto).

Poliedrico Novecento!
Nel Novecento si “sventaglia” un uso poliedrico del falsetto in più ambiti musicali. Intanto il belcanto lirico, culla ideale per le voci “finte”, consegna agli annali della discografia incisioni di un Enrico Caruso solito durante le prove cantare “le note acute in un falsetto del tipo usato dai cantori sinagogali” (Rosa Ponselle & James A. Drake, “Ponselle. A singer’s life”, Doubleday, 1982) e andrebbe ricordato al riguardo Nicolai Gedda per il suo tipico effetto alla Braham, il grande tenore ottocentesco di origine ebraica. Torniamo all’America, al continente della cui scoperta si era accennato scrivendo del Cinquecento, ma con un salto di oltre quattro secoli (anche se andrebbe quantomeno approfondito il capitolo ottocentesco della musica corale), per ritrovarvi la tecnica della voce “feigned” in nuovi “lidi” stilistici come il blues. E’ del 1928 l’incisione di “Canned Heat Blues” di Tommy Johnson. Attorno ai 40s compaiono i primi gruppi di doo-wop proprio mentre formazioni come The Mills Brothers inseriscono il falsetto fra le pratiche vocali adoperabili. Detta tendenza vocale si estende nella seconda metà dei ’50 quando è il doo-wop dei Platters, con la voce solista di Tony Williams proveniente dal gospel, a dilagare. In area popular, oltre a menzionare il falsetto “eerie” di  John Jacob Niles, decano dei folksingers, va ricordato che il successo dei Tokens, “The lion sleeps tonight,” del ’61, era una cover del sudafricano di etnia zulu Solomon Linda (Mbube, 1939).  Fra i falsetti più personali emerge quello di Jimmy Jones con la hit “Handy Man” mentre nel vicino Messico si impone Miguel Aceves Mejia, “The Golden Falsetto”.  E’ c’è in parallelo anche in Europa da segnalare il falsetto gipsy del romeno Dona Dumitru Siminica (cfr. Tom Huizenga, A suave rumanians sing the falsetto song, npr.org, 10/10/06).  Fra le grandi personalità in U.S.A. eccelle Curtis Mayfield, esponente di r&b, soul, funk, la cui carriera inizia nel’58 con gli Impressions. Divenuto celebre nei ’70, grazie alla colonna sonora del film SuperFly, del genere cinematografico della blaxploitation che ha come target iniziale il pubblico di colore, Mayfield simboleggia col suo album “Superfly” la rivalsa della coscienza politica neroamericana dell’epoca. Il suo modo di cantare è connotato dall’uso preponderante del falsetto. (cfr. riccardofacchi.wordpress.com, Il falsetto “impegnato” di Curtis Mayfield, 21//17).  Essendo tante le citazioni possibili al riguardo, è il caso di rinviare la lettura a qualche classifica presente in rete. Ad esempio, the topten.com, Top Ten Male Singers with Best Falsetto con Barry Gibb (Bee Gees), Prince, Jeff Buckley nelle prime postazioni ed a seguire artisti come Dimash Kudaibergen, Matt Bellamy (Muse), Justin Timberlake, Chris Martin (Coldplay), Michael Jackson, Brian Wilson (Beach Boys), Thom Yorke  (Radiohead). Si prosegue con The Weeknd, Smokey Robinson, Roger Taylor, Frankie Valli (The Four Seasons), Freddie  Mercury, Morten Harket (a-ha), King Diamond, Andy Gibb, Philip Bailey (Earth, Wind & Fire), Adam Levine, Bobby Debarge, Paul McCartney, Brendon Urie, John Lennon, Eddie Kendricks quest’ultimo di area soul, dopo la sequenza di rock heavy alternative e pop sia melodico che “spinto”. Il trend dunque si rafforza nei ‘60/70 laddove negli 80s dance e disco si affiancano con prepotenza al rock e ai suoi fratelli, con importanti diramazioni in direzione black music. Seguiranno picchi e sbalzi decrescenti “a ondate”, senza uscite di scena.  Da visionare al riguardo su Listcaboodle.com la Playlist di The Best Falsetto Songs utile da consultare per verificare la collocazione temporale dei vari successi. Ecco, appresso, i primi cinque hits quivi riportati:
Night Fever (Bee Gees, 1977)
After the Gold Rush (Neil Young, 1970)
Got To Give It Up (Marvin Gaye, 1977)
Let’s Work (Prince, 1981)
Only The Lonely (Roy Orbison, 1961)
Seguono vari brani, spalmati su più anni (“September” di Earth Wind & Fire del 1978 –“ Don’t Worry Baby”, dei Beach Boys del 1964 ,”Emotional Rescue” dei  Rolling del 1980 – “Don’t Stop ‘Til You Get Enough” di Michael Jackson  del 1979 – “Just My Imagination” dei Temptations del 1971, “ Tracks of My Tears” di The Miracles, 1965 ), di fine secolo  (“High And Dry” dei Radiohead del 1995) fino al più recenti “I’m Not The Only One” di Sam Smith del 2014 e “Redbone” di Gambino del 2016.  Come si vede si tratta di selezioni che coprono un arco temporale di mezzo secolo da integrare con artisti come Silvester, Police, Judas Priest, Deep Purple, AC/DC,  Kiss, Ted Neeley (Jesus Christ Superstar), Darkness …fino ai giorni nostri con Bruno Mars, Mika e il vintage soul di Aaron Frazer quindi i Maroon Five, Justin Bieber, Pharrell Williams,  i sudcoreani BTS …
L’Italia ha qualcosa da dire al riguardo a partire dalla tradizione. Non disdegnavano gorgheggi o svolazzi “falsettati” Enrico Caruso (e si era a inizio 900) e Gill; quindi, nella seconda metà del secolo, voila Luciano Tajoli, Claudio Villa, Sergio Bruni, seguiti più avanti dal pop melodico di Flavio Paulin dei Cugini di Campagna e dal rock progressivo dei New Trolls, contemporanei dei Pooh (cfr. Massimo De Vincenzo, Storia del Falsetto. Dai castrati all’heavy metal, Youtube.com).
Discorso a parte meriterebbe Alan Sorrenti così come il semifalsetto di Mango e taluni interventi vocali dello stesso Battisti, senza parlare di Antonella Ruggiero per il semplice motivo che ci si sta occupando del falsetto maschile. Il quale anche in ambito classico ha continuato ad avere proseliti fino ad oggi, vedansi ad esempio il controtenore italiano Raffaele Pe sulla scia di Alfred Deller, David Daniels, Philippe Jaroussky, Jakub Jòzef Orlinski,  il russo Vitas … (cfr. sull’argomento Alessandro Mormile, Controtenori, Zecchini Ed.).

La magnifica “ossessione”
Su “eartworm” quella del falsetto è definita una “obsession” per molti vocalist mentre su djrobblog.com si produce una playlist di The Best Falsetto Singers “A Men Only” Club aggiornata al 2015 su cui ritroviamo interessanti presenze Motown (Robinson), soul (Russell Thompkins) e comunque con propaggini nella musica neroamericana come nel caso di David Peaston ma sempre con prevalenza del pop e rock.   Fatto è che se sul web artisti tipo Sam Smith, dal falsetto preponderante, viaggiano nel brano surricordato a colpi di un miliardo e mezzo di visualizzazioni, allora la cosa andrebbe in qualche modo attenzionata. Si è detto che il falsetto rincorre la leggiadria del canto infantile e la leggerezza di quello femminile ma forse ciò è riduttivo alla luce della sua diffusione. Intanto molti musicisti che lo possiedono accarezzano in fondo il sogno di una voce in grado di passeggiare sugli 88 tasti del pianoforte. E c’è pure Ligeti che ne ha scoperto il lato noir in “Le Grand Macabre” (1974) agli antipodi rispetto alla briosa teatralità settecentesca del musical “Falsettos” (1992), di William Finn e James Lapine, costituito dai due atti unici “March of the Falsettos” e “Falsettosland”.
A proposito di jazz soffermiamoci ora su un altro esperto della “voce di testa” cioè Bobby McFerrin, alla ribalta mondiale per “Don’t Worry. Be Happy” ma jazzista a tutto tondo. Le sue capriole vocali riescono a coniugare Bach e avanguardia a tribalismi africani con straordinaria naturalezza. Un simbolo vivente di come la musica jazz possa muoversi in libertà senza frontiere nel tempo o nello spazio. Ed ecco, in conclusione, una Playlist, del tutto soggettiva, con i “magnifici sette” jazzmen da noi preferiti fra coloro che vantano  attrezzi vocali  falsettofoni, con uso magari episodico, per un range più “espanso”. Nel jazz non è configurabile una categoria settoriale di vocalist “falsettisti” ma il falsetto od anche il “similfalsetto” (Scott) può far parte del bagaglio da cui trarre spunto nelle interpretazioni e improvvisazioni.  I nomi seguenti rappresentano solo una (opinabile) delle scelte possibili, potenzialmente tante specie ove si faccia un’affacciata al soul e dintorni:
Bobby McFerrin
Mark Murphy
Kurt Elling
David Peaston
Alan Harris
Thomas Allen
Jimmy Scott
Si è affidata al jazz la chiusura di questa storia parziale del registro vocale più “ambiguo” che, partendo da etno-musica e lirica, ha attraversato do- wop, mainstream, disco, funk, dance-pop, R&B e hip hop (la suddivisione riprende quella di The Male Falsetto, cult-sounds.com). La pubblichiamo con il fondato dubbio che se oggi Farinelli rinascesse sarebbe ancora una superstar!

Amedeo Furfaro- Franco Sorrenti

Un ricordo di NINA SIMONE a 20 anni dalla morte

Un ricordo di NINA SIMONE a 20 anni dalla morte

«La musica era dentro di me. Siamo in pochi ad aver ereditato questo dono dal cielo: la Callas, Rubinstein, Horowitz, io e pochi altri».
Era questa l’autoconsapevolezza di Nina Simone, e non per caso i fedeli della chiesa protestante di cui faceva parte, vedendola già incredibilmente predisposta fin dall’infanzia, la consideravano una manifestazione divina: «Il piccolo prodigio», un segno di speranza per la comunità nera della sua città (Tryon, Carolina del Nord), quasi la prova che le invocazioni rivolte a Dio da intere generazioni di afroamericani fossero state finalmente esaudite. Ecco perché quando si parla di talenti prodigiosi, di doni della natura – o di Dio –, è impossibile non pensare a lei, che ci ha lasciati 20 anni fa (morì il 21 aprile 2003) e che lo scorso 21 febbraio ne avrebbe compiuti 90.
In realtà il suo nome di battesimo era Eunice Kathleen Waymon. “Nina” era invece il soprannome datole da un fidanzato latino (Nina come niña, piccolina), mentre l’ispirazione per “Simone” le venne dalla grande attrice Simone Signoret, che ricordiamo anche per il suo anticonformismo, la sua combattività, il suo impegno contro le ingiustizie sociali: caratteristiche che Eunice-Nina replicò, ovviamente a modo proprio, gettandosi anima e corpo nella lotta per i diritti civili e scatenando, specialmente nelle esibizioni dal vivo, quello che lei stessa definì «lo spirito dei miei antenati africani».

Il pacco-regalo che si trovò fra le mani all’inizio della sua esistenza non conteneva tuttavia né una famiglia benestante – tutt’altro – né una vita felice: sesta di otto fratelli, ebbe un rapporto assai travagliato con la madre Mary Kate (una reverenda metodista «fanatica della religione», secondo Nina) e sperimentò sulla propria pelle sia la carta vetrata della discriminazione razziale sia la mano violenta della prevaricazione maschile. La sua esistenza, insomma, è stata al tempo stesso gloriosa e tormentata.
La gloria premiava innanzitutto gli enormi sacrifici fatti per valorizzare al massimo quelle doti di partenza che, come si dice, o si hanno o non si hanno: lei le aveva, e difficilmente avrebbero potuto essere sviluppate meglio. Partì da ciò che sperimentava nelle comunità evangeliche, soprattutto quelle di indirizzo neo-pentecostale (senso e potere del ritmo, energie e vibrazioni mistiche, effetto ipnotico della musica…) e intraprese durissimi studi di musica classica con la maestra di pianoforte Muriel Massinovitch («Bach ha fatto sì che votassi la mia vita alla musica», scrisse Nina nelle sue memorie): «Il rigore di Bach e le vertigini del gospel, la purezza e la mistica, la disciplina e lo spirito», come ha spiegato il biografo David Brun-Lambert.
Il tormento era figlio di diversi fattori: dalla delusione per non aver potuto diventare una concertista classica a causa del colore della pelle («All’improvviso il mondo mi apparve sotto una luce diversa e niente è stato più semplice», scrisse), al serio disturbo bipolare di cui soffriva, e poi le tumultuose e sofferte relazioni famigliari, matrimoniali e sentimentali, gli sfruttamenti subiti, gli abusi di alcol e droga, i difficili rapporti con il pubblico, con le case discografiche e con le autorità, le spinose vicende economiche e con il fisco, le sofferenze inflitte alla figlia Lisa…
Respinta dal mondo della musica classica iniziò, dal palco di una lurida bettola, una carriera leggendaria che l’avrebbe portata agli apici del “music business”. Al virtuosismo al pianoforte abbinò una presenza scenica e una voce così straordinarie che neppure lei, sulle prime, immaginava di avere, portando a livelli altissimi quella che per sua madre era «la musica del diavolo». Ma per tutti fu «The High Priestess of Soul», la grande sacerdotessa dell’anima.

Valerio Marchi

Un palco “Aperto” per Sanremo

Cari amici jazzofili, immaginiamo vi stiate chiedendo perché su Proposito di Jazz si parli del Festival di Sanremo… argomento all’apparenza in antitesi rispetto alle tematiche che di norma affrontiamo. Del resto, anche uno dei più grandi umoristi italiani del ‘900, Achille Campanile, si chiedeva che cosa legasse gli asparagi e l’immortalità dell’anima… o le seppie coi piselli, che sono uno dei più strani e misteriosi accoppiamenti della cucina! Eppure, un legame c’era… come c’è anche tra Sanremo e il jazz… Non dimentichiamo, infatti – e il nostro Amedeo Furfaro non l’ha fatto! – che in tempi passati, ma anche più di recente, su quel palco si sono esibiti pezzi da novanta della scena jazz, sia internazionale sia nazionale e dunque questo articolo potrebbe anche voler essere uno sprone affinché a Sanremo, oltre alla cosiddetta musica “popolare”, trovino spazio anche i generi musicali meno mainstream…
Noi ce lo auguriamo! (MT – Redazione)

Lo share ha premiato Sanremo, festival in cui era apparsa da subito vincente la strategia di aprire a giovanissimi, a generazione di mezzo ed a più attempati “giganti” dell’ugola per incollare al video più fasce di telespettatori.  Al riguardo ecco alcune considerazioni sulla eventualità che, con alcuni accorgimenti regolamentari, la manifestazione possa trasformarsi da fenomeno nazionalpopolare in campione rispecchiante il meglio dell’Italia canora tutta, pur sempre confermando la propria radicata veste “International” . Va intanto ricordata come positiva la precedente formula delle due sezioni distinte, Nuove Proposte e Big, interne alla manifestazione, anche in ossequio ai titoli dei Big più accreditati. Andrebbe poi implementata la scoperta di nuove voci “sparse” nel territorio (in questa edizione sono rimaste fuori aree come la Calabria) magari affinando il modello stile ”Miss Italia”, diffuso su scala regionale, tentando di prevenire il taglio degli anelli deboli della catena musicale.  E poi, parlando di canzone napoletana, possono bastare Ranieri, Di Capri e il cast di “Mare Fuori” a rappresentarla?
Occorrerebbe inoltre puntare ad un deciso coinvolgimento del cantautorato “classico”. Oltre al concorrente Grignani hanno arricchito la serata delle cover gli ospiti Antonacci, Ramazzotti, Vallesi, Zarrillo, Edoardo Bennato…  Ed il plauso generale è stato di fatto un’indicazione sulla opportunità di rafforzare, nelle future edizioni, la presenza di tale categoria centrale nella storia della canzone nostrana.
Altra annotazione riguarda l’articolazione della canzone italiana in filoni diversi da quelli dominanti ovvero il melodico da una parte ed il pop/rock/rap dall’altra. C’è carenza di folk, world, lirica. Quest’anno, se il blues ha avuto un messaggero in Alex Britti (sempre nella serata delle cover) e Mengoni ha riletto la beatlesiana “Let It Be” nella cornice gospel del Kingdom Choir, non si è sentito molto jazz “applicato” alla canzone. E qui si parla di una kermesse che ha ospitato in passato Louis Armstrong e Lionel Hampton e, in anni più recenti, le voci di Al Jarrow e Cincotti oltre a quelle, di “scuola” italiana, di Gualazzi, Brancale, Molinari, Nicolai, la prima Arisa…

Le rassegne jazzistiche hanno da tempo allargato le fila a interpreti canori di varia provenienza stilistica. E la pur breve performance, nella serata finale sanremese, di Gino Paoli con Danilo Rea dimostra come possa ripetersi con successo l’interscambio fra jazz e canzone d’autore anche dalle parti dell’Ariston.

Amedeo Furfaro

Torna il grande Jazz sotto i cieli di Roma

Dopo un periodo di relativa stasi per motivi facilmente individuabili, Roma è tornata ad essere attrattiva per gli passionati di jazz. Così da un canto l’Auditorium (con pochi ma eccellenti appuntamenti) dall’altro la Casa del Jazz con la sua consueta rassegna estiva, stanno fornendo ai cultori del jazz parecchi appuntamenti degni di rilievo, su alcuni dei quali mi soffermerò qui di seguito.

Il 10 luglio, alla Cavea dell’Auditorium, appuntamento con Gregory Porter. Sono oramai parecchi anni che conosco ad apprezzo questo vocalist e ancora una volta la sua performance ha corrisposto in pieno alle mie aspettative. La sua musicalità, il feeling che riesce a trasmettere agli ascoltatori, il suo senso del ritmo, il modo in cui riesce ad interpretare qualsiasi testo sono davvero straordinari. E non è certo un caso che la sua carriera artistica sia costellata da grandi successi e riconoscimenti tra cui due Grammy Awards per Miglior Album Vocale.

Per celebrare un decennio di successi, Gregory Porter ha pubblicato “Still Rising”, un doppio album contenente 34 tracce tra brani inediti, covers, duetti e una selezione speciale delle sue canzoni più amate. Ed è proprio sul repertorio di quest’ultimo doppio album che si è incentrata la performance romana. Ben coadiuvato da Hip Crawford al piano, Tivon Pennicott al sax tenore, Emanuel Harrold alla batteria, Jahmal Nichols al basso elettrico e Ondrej Pivec all’organo (gli stessi che l’hanno accompagnato nella già citata ultima fatica discografica) Porter ha dato ancora una volta un saggio di bravura proponendo una musica in cui era facile scorgere echi di soul, di gospel, di blues, financo di pop, mescolati in un unicum tanto originale quanto suggestivo. Ed è stato a tratti entusiasmante sentirlo duettare con alcuni dei suoi compagni di viaggio in un concerto tutto sommato breve ma di grande intensità.
Ascoltando Porter viene naturale un parallelo con i nostri giovani rampanti: beh, penso che ai vari San Giovanni, Albe, LDA, Ultimo e via discorrendo non farebbe male ascoltare qualche disco di chi sa cantare veramente bene. Ma questo è un tema che mi sollecita oramai da tempo e su cui prima o poi vorrò intervenire.

Il 13, sempre alla Cavea, appuntamento con una vera e propria leggenda del jazz: Herbie Hancock. Spesso si adopera la parola “leggenda” in modo esagerato ma nel caso in questione non v’è dubbio alcuno che il termine sia più che appropriato. Non è questa la sede adatta per sintetizzare un curriculum assolutamente straordinario; basti solo dire che l’artista di Chicago, oggi ottantunenne, ha attraversato, sempre da protagonista, generi e mode come performer, compositore, arrangiatore, produttore, scopritore di talenti, inventore di nuove tendenze, senza mai perdere una coerenza di fondo. A Roma si è presentato alla testa di una band eccezionale completata da Terence Blanchard alla tromba, Lionel Loueke (chitarra), James Genus (basso) e Justin Tyson (batteria). Ascoltare un concerto di Hancock è come rivivere, in sintesi, buona parte della storia del jazz dal momento che questo artista ha sviluppato un’estetica giocata sempre su una sorta di doppio binario: da un canto virtuoso pianista del jazz acustico, dall’altro estimatore se non fondatore del funky elettronico. E questi due aspetti della sua personalità sono apparsi evidenti anche nel concerto romano; così in una prima parte abbiamo ascoltato alcuni classici del jazz come il sempre verde “Footprints” di Wayne Shorter, un altro giovanotto di 89 anni, omaggiato da Hancock che si alternava al piano e alle tastiere non disdegnando un ricorso mai esagerato al vocoder (ma che comunque se non ci fosse stato nulla avrebbe tolto alla validità del concerto). Nella seconda parte Hancock si richiamava al suo coté più funky e chiudeva il concerto con “Chameleon” brano tratto dal celebre album “Head Hunters” del 1973, scatenando l’entusiasmo del pubblico che si è accalcato a ballare sotto il palco.

E veniamo adesso ai concerti alla Casa del Jazz.

Il 12 luglio una vecchia e cara conoscenza del pubblico romano: John Scofield. Il chitarrista può a ben ragione essere considerato una delle massime espressioni della chitarra jazz degli ultimi decenni. Musicista eclettico, voglioso sempre di sperimentare strade nuove, questa volta si è presentato con un progetto del tutto nuovo, “Yankee Go Home”, con cui torna alle radici del rock americano, riscoprendo classici fra il folk e il rock’n’roll. Accanto a lui Jon Cowherd (pianoforte e tastiere), Vicente Archer (contrabbasso)e Josh Dion (batteria). E’ lo stesso Scofield a illustrare il senso di questo nuovo progetto, non senza elogiare i suoi compagni di viaggio: “L’idea –afferma Scofield – è di coprire successi americani/rock e canzoni folk jazz, più alcuni dei miei brani originali scritti in quel modo. Mi sto riconnettendo con molte delle mie radici Rock ‘n Roll da adolescente, naturalmente colorate dai miei 50 anni di pratica Jazz…. Questi ragazzi sono straordinariamente versatili, altrettanto bravi quando si tratta di suonare in modo interattivo e creativo. Stiamo esplorando rock, funk, country, jazz e musica libera e ci divertiamo moltissimo. Sono entusiasta di questa collaborazione”. Risultato raggiunto? Assolutamente sì; il repertorio, comprendente brani tra gli altri di Bob Dylan, Neil Young, Grateful Dead, B.B. King, Buddy Holly, viene declinato attraverso quella maestria strumentale che ben conosciamo oramai da tanti anni. Scofield è sempre lì a tessere le fila del discorso, con un solismo preciso, elegante, raffinato mai soverchiante cosicché tutti i suoi compagni di viaggio hanno la possibilità di mettersi in luce. I vari pezzi vengono riletti alla luce di quelle esperienze cui lo stesso Scofield faceva riferimento ridando loro una sorta di nuova linfa e il pubblico dimostra di apprezzare con lunghi appalusi a scena aperta. Immancabile il bis: un coinvolgente blues che evidenzia come Scofield rimanga solidamente ancorato anche alle radici della musica afro-americana.

Il 21 uno dei concerti inseriti nell’ambito della rassegna, tutta dedicata alle nuove tendenze e, dunque, alle più interessanti proposte di jazz contemporaneo. Un mondo affascinante, in cui si incontrano jazz, soul, funk, hip-hop, elettronica e spoken word.
In particolare giovedì 21 di scena il batterista Makaya McCraven produttore e batterista emergente, definito da Down Beat come uno dei più influenti musicisti del prossimo decennio.
In effetti Makaya McCraven, figlio di Stephen McCraven, batterista di Archie Shepp tra gli altri, è tutto questo e molto di più: americano di Parigi classe ‘83, iniziato alla musica jazz dal padre, cresciuto tra gli altri con la formazione derivante dal già citato Shepp, inizia a collaborare con artisti del calibro di Kris Delmhorst e gli Apollo Sunshine, prima di stabilire un suo complesso con il bassista Junius Paul, il chitarrista Matt Gold e il trombettista già attivo autonomamente Marquis Hill, formazione con cui si è presentato alla Casa del Jazz, per un concerto che ha soddisfatto appieno le più rosee aspettative.

La band inizia a suonare senza presentare alcunché; McCraven è uomo di poche parole, e non si concede quasi mai pause, tranne una ogni tre pezzi circa per presentare e ringraziare la sua band e per annunciare – qualche volta – il nome del prossimo pezzo. Per il resto è stata una serata di pura musica ed energia: non solo di McCraven, il cui vigore era pari alla sua abilità – mai sentito un batterista che suonasse per circa un’ora e mezza, senza mai smettere di percuotere pelli e piatti con tanta ininterrotta energia – ma anche di tutti gli altri musicisti, che durante il concerto si cimentavano con diversi tipi di percussioni. Altra nota di merito va alla varietà di brani suonati: si passa da pezzi ormai diventati standard del jazz, come “Autumn in New York”, Frank’s Tune” di Frank Strzier o “A Slice of the Top” a pezzi originali di McCraven, come “In These Times”, “The Bounce!” e un inedito tratto dal suo prossimo album in uscita a settembre.
Riguardo alla performance dell’”archeologo del beat”, (come si definisce lo stesso batterista), essa nel suo complesso si basava su due punti di forza: la leadership di McCraven, che con grande forza e precisione trascinava sia i suoi musicisti sia il pubblico durante le esibizioni, nonché l’approccio inedito da DJ dello stesso McCraven specie nelle sue composizioni: infatti in gran parte dei brani veniva ripetuto un leitmotif al basso, che diventava il vero centro motore della situazione, attorno a cui venivano aggiunte gradualmente la batteria, la chitarra, la tromba e varie percussioni; in seguito si passava ad una graduale elaborazione dei motiv aggiunti alla linea di basso che, rimanendo sempre costante, forniva all’ascoltatore un filo rosso che legava le varie elaborazioni e improvvisazioni e un senso di familiarità all’interno della composizione. Quest’operazione coniuga a mio parere il processo creativo di numerose canzoni house, dance ed EDM con l’improvvisazione tipica del jazz: inoltre l’enfasi posta sulle percussioni nel concerto è caratteristica anche dei beat dei brani hip hop, dove il ritmo della base è cruciale per orientare il rapper durante il brano in questione.

 

Il 23 la Casa de Jazz proponeva un quesito intrigante: può la sofisticata poetica di un Pieranunzi coniugarsi con l’incredibile carica energetica di Antonello Salis? In altri termini possono coesistere due musicisti stilisticamente quasi all’opposto, uniti solo dalla grande passione e dedizione alla musica? Ciò perché il concerto in programma prevedeva per l’appunto un duo di piano composto da questi due artisti che mai avevano avuto modo di incontrarsi sul palco. Grande attesa, quindi, e non a caso grande affluenza di pubblico…ripagato da un concerto sicuramente interessante. Seduti l’uno di fronte all’altro i due hanno suonato per circa un’ora e mezza sciorinando un’intesa che non era facile prevedere. Spesso si partiva da un tema che veniva sviluppato, esaminato, sviscerato fin nelle sue più intime pieghe e quindi riproposto in una veste totalmente diversa che traeva nelle capacità improvvisative dei due nuova linfa vitale. E questa volta non si può dire che l’uno si sia piegato alle esigenze dell’altro in quanto ambedue hanno sviluppato appieno le proprie tematiche che finivano con l’incontrarsi su un terreno ben frequentato sia da Enrico sia da Antonello: l’improvvisazione pura o forse meglio la capacità di creare musica strada facendo. In effetti, oltre che partire da un dato tema, i due si sono spesso avventurati anche sul foglio bianco, vale a dire cominciando a suonare senza conoscere il punto di approdo, con una maestria che solo pochi posseggono.
Ed è stato lo stesso Pieranunzi a svelare come la musica eseguita sia stata tutta improvvisata. Tra i brani eseguiti, da ricordare una sempre suggestiva “Moon River” di Henry Mancini, una “Well, you needn’t” di Thelonious Monk che nulla ha perso dell’originario fascino, una memorabile versione di “Naima” di John Coltrane, nonché un sentito omaggio ad Ennio Morricone con “Il clan dei siciliani”.
E a conferma della splendida atmosfera che si respirava sul palco, Pieranunzi è apparso particolarmente in forma anche quando ha intrattenuto il pubblico con sagaci commenti sulla “strumentazione” di Antonello (tra cui una latta di tonno Callipo) e con un sentito ricordo della sua esperienza a fianco di Morricone.

Ed eccoci alla serata di lunedì 25. Mi reco alla Casa del Jazz al solito orario e noto immediatamente una sorta di novità: una fila interminabile di auto parcheggiate sul marciapiedi a indicare una straordinaria affluenza di pubblico. Cosa che verifico subito: i giardini della Casa del Jazz sono letteralmente invasi da una massa di giovani festanti in attesa dell’evento: il concerto di “Sons of Kemet”.
La band inglese è giunta a Roma preceduta da una formidabile campagna di stampa che la indicava come una delle massime espressioni del cosiddetto nu jazz; a richiamare il pubblico anche la considerazione che si trattava dell’ultima tournée del gruppo che nei prossimi mesi dovrebbe sciogliersi. Insomma tutto pronto per un grande successo di pubblico… che puntualmente è arrivato.

Guidati dal funambolico sassofonista Shabaka Hutchings, il quartetto (completato dal basso tuba di Theon Cross e ben due batterie nelle mani di Eddie Hick e della giovanissima e bravissima Jas Keyser in sostituzione di Tom Skinner in tour con Thom Yorke) ha sciorinato una musica di grande intensità, basata sul fitto tappeto ritmico intessuto dalle due batterie su cui svolgevano i loro interventi i due fiati. In particolare il sax del leader, spesso effettato con delay o reverberi, non disegnava lunghe linee melodiche ma intonava frasi ritmiche e frammenti melodici ripetuti più volte mentre il basso tuba contribuiva in maniera determinante a completare il tessuto ritmico delle due batterie. Il tutto ‘condito’ da un volume molto, molto elevato a creare una musica che raggiungesse l’obiettivo di portare al massimo l’eccitazione dell’uditorio e di coinvolgerlo in una sorta di rito collettivo in cui i richiami all’Africa erano ben evidenti. Si tenga presente che il concerto si è sviluppato su una linea di continuità ininterrotta tranne due momenti in cui Shabaka Hutchings ha imbracciato un flauto di legno per intonare una splendida melodia di origine africana e il tubista si è espresso in solitudine. Obiettivo raggiunto? Quanto al coinvolgimento direi proprio di sì… anche se non al cento per cento. Nel senso che, ad esempio, il vostro cronista non si è sentito coinvolto dalla musica dei Sons of Kemet. Ed il perché non è difficile da spiegare: avendo avuto la fortuna di ascoltare anche dal vivo alcuni dei più grandi musicisti  – per intenderci quelli che hanno scritto davvero la storia del jazz – non è facile lasciarsi impressionare da qualcuno che pur suonando bene non raggiunge quei vertici cui prima si faceva riferimento. Quanto ai messaggi che questa musica così aggressiva intende veicolare, ci viene in soccorso lo stesso Shabaka Hutchings affermando che “Black to the Future (ultimo album del gruppo) è un poema sonoro di invocazione del potere, del ricordo e della guarigione. Raffigura un movimento, quello della ridefinizione e riaffermazione di cosa significa lottare per il black power”. Ma anche sotto questo aspetto non riusciamo a vedere una grande novità dal momento che il jazz come musica di protesta non è certo cosa di oggi.
Quindi ben vengano gruppi del genere ma se mi si dice che questa è la nuova strada che il jazz si avvia a percorrere devo confessare che il jazz dei prossimi anni non mi avrà tra i suoi massimi sostenitori. Ovviamente la cosa poco importerà ai più ma a mio avviso il ruolo di un cronista-critico non è quello di affermare sempre che tutto va bene, ma anche di esprimere qualche perplessità, sempre motivandole, è ovvio.

Smaltita la sbornia dell’“Afrofuturism” (così viene definita la musica di Sons of Kemet da chi se ne intende), ecco il 27 sempre alla Casa del Jazz, la giovane e brava sassofonista Nubya Garcia, reduce dallo straordinario successo ottenuto dal suo primo album “Source” su etichetta Concord. Bel concerto questo con una musica sì proiettata verso il futuro ma sempre memore di ciò che il jazz ha rappresentato fino ad oggi. Anche la Garcia viene fuori dalla tumultuosa scena londinese di questi ultimi anni affermandosi passo dopo passo come una delle strumentiste più preparate e fantasiose del pur vasto panorama. In effetti Nubya frequenta il sax da tanti anni riuscendo così a raggiungere una tecnica tutt’altro che banale, una tecnica comunque sempre messa al servizio dell’espressività e di una concezione musicale fortemente inclusiva dal momento che nelle sue performances sono ben riscontrabili echi di jazz spirituale, dub, reggae, ritmi latini e suoni africani. Così il concerto si è sviluppato lungo modalità contrassegnate da notevoli assolo non solo della leader ma anche del pianista-tastierista Alastair MacSween mentre la sezione ritmica (Daniel Casimir contrabbasso e Sam Jones batteria) forniva un supporto sempre preciso, puntuale, propositivo. E a proposito di ritmo, da sottolineare la sensualità dei ritmi colombiani rinverdita dalla Nubya nella riproposizione di uno dei brani più riusciti dell’intera serata, “La Cumbia Me Está Llamando”, scritta con il trio colombiano al femminile “La Perla”.

Gerlando & Beny Gatto

I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

*****

B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.