Danilo Blaiotta: c’è bisogno di un jazz “politico”

Tra i tanti dischi che mi arrivano, ce n’è stato uno che mi ha particolarmente colpito per la materia trattata e per come la musica fosse assolutamente pertinente con le enunciazioni dell’artista. Sto parlando di “Planetariat” inciso dal pianista e compositore Danilo Blaiotta che i lettori di “A proposito di jazz” conoscono già come raffinato commentatore avendo egli stesso scritto alcuni articoli che hanno trovato unanimi consensi.
L’album è stato registrato per Filibusta Records da un gruppo comprendente Eleonora Tosto voce recitante e voci, Achille Succi sax alto e clarinetto basso, Stefano Carbonelli chitarra e voci ed Evita Polidoro alla batteria.
Spinto dalla curiosità di capire meglio le motivazioni di Blaiotta, gli ho chiesto un’intervista e ciò che leggerete qui di seguito ne è il risultato.

– Innanzitutto un complimento nel senso che veramente di rado la musica che si ascolta nel disco corrisponde alle reali intenzioni del musicista. Nel suo caso invece la coerenza tra musica e titoli è perfetta: ascoltando il disco si immagina immediatamente ciò che voleva esprimere. Una musica “politica” nell’accezione più alta del termine.
“Sì, ha ragione. Si tratta di un disco “politico” anche se io amerei definirlo meglio un disco “sociale”. Ho avuto una frequentazione molto gratificante con il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa, il quale ha avuto un forte impatto non solo emotivo, estetico ma anche di carattere politico e sociale sul mio modo di vedere la realtà. In effetti l’ho conosciuto da piccolo, grazie alle frequentazioni della mia famiglia, mio padre in particolare, poeta e pittore. Alla sua scomparsa ho messo insieme due cose: il dolore per la sua perdita e le mie impressioni sull’attualità”.

– A suo avviso è riproponibile una sorta di “jazz politico” come quello che abbiamo registrato negli anni ’70 con i molteplici equivoci che si è portato appresso?
“A mio avviso è molto più importante oggi piuttosto che negli anni Settanta. In quegli anni si era appena usciti dal boom economico e nel mondo si registrava un certo tasso di eguaglianza che oggi ce lo sogniamo. Quindi, ripeto, oggi è molto più importante la presenza di un jazz politico o comunque di forme d’arte che vanno verso il sociale; il problema è che oggi queste denunce si fanno sempre meno. Forse si ha paura, intendiamoci più che lecitamente, di farle. Non a caso, ascoltando questo mio disco, in molti hanno sottolineato il coraggio di aver voluto parlare di certi argomenti. Probabilmente se ne sente il bisogno ma non si trova lo spazio”.

– Lei lo spazio l’ha trovato; allora perché non lo trovano anche gli altri?
“Intendiamoci: certo che si può fare; il problema è che magari non ci si vuole esporre a certi giudizi che potrebbero nuocere alla diffusione delle idee, in questo caso trasmesse attraverso la musica. A ciò si aggiunga un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”.

– Ma lei non pensa che una denuncia del genere proveniente dall’ambiente del jazz italiano , non proprio esemplare, possa risultare poco credibile?
“In che senso?”

– Io credo che una denuncia di tal fatta debba provenire da chi ha tutte le carte in regola per poterla fare; ecco a mio avviso il mondo del jazz italiano tutte queste carte in regola non le ha…
“Lei cerca di farmi dire delle cose che forse è meglio che io non dica. Il jazz italiano, come tutto ciò che accade nella nostra società negli ultimi anni, si è un po’ arreso dinnanzi allo spirito critico, si è forse imborghesito…se possiamo utilizzare questa espressione. Adesso faccio un parallelismo con la musica classica: sia in questa sia nel jazz il pubblico va lentamente scomparendo come effetto di una certa auto-ghettizzazione. Nella classica il pubblico ha di media 70-80, nel jazz magari ne ha 60 ma proseguendo di questo passo le conseguenze sono facilmente immaginabili. C’è poi un altro fattore: tutto sta diventando molto accademico; anche i jazzisti della mia generazione devono quasi difendere un fortino piuttosto che trasmettere una denuncia. La difesa del fortino produce l’implosione delle idee mentre bisognerebbe capire come entrare nella società contemporanea, certo non solo con le denunce.”

– Tutto giusto; ma una domandina semplice semplice: come se ne esce?
“Ovviamente non è una risposta facile; innanzitutto bisogna uscirne vivi fisicamente e intellettualmente. E poi bisogna uscirne politicamente, ma se non c’è cultura non c’è politica. I momenti di massima proliferazione culturale coincidevano con i periodi in cui anche l’economia andava molto bene; le due cose sono collegate. Molto spesso si associa la proliferazione culturale al denaro ma perché non provare a fare l’inverso, cioè servirsi della cultura come volano per migliorare la situazione economica di tutti. Ecco, questa è la sfida che ci attende anche perché altrimenti non credo ne usciamo, tanto per tornare alla domanda”.

– Dopo che ci siamo sfogati sul piano sociale, parliamo di musica tornando al disco. A me pare che ogni brano abbia una sua ben individuabile specificità. E’ così?
“Assolutamente sì. Intanto sono molto felice di aver suonato con questo quintetto nuovo di zecca, dopo aver prodotto in piano trio – con Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria– due dischi di stampo acustico. Questo è un disco che trascende dalle precedenti esperienze anzitutto dal punto di vista timbrico: ho composto i brani partendo dall’elettronica, affidandomi totalmente all’espressività di tale strumentazione per la scrittura, cosa mai avvenuta prima per quanto mi riguarda. E poi sono lietissimo di aver collaborato con musicisti straordinari: anzitutto la grandissima attrice e cantante Eleonora Tosto, mia partner in tante produzioni sia musicali che teatrali, e poi Stefano Carbonelli (chitarra e voci) e Achille Succi (sax alto e clarinetto basso) quest’ultimo al mio fianco in svariati progetti già dal 2011. Infine c’è Evita Polidoro che è una scoperta incredibile, una batterista straordinaria non a caso molto richiesta anche da stelle di primaria grandezza come D.D. Bridgewater e Enrico Rava. Tornando alla domanda, inizio con il far notare l’acrostico che fuoriesce dalle prime lettere degli undici brani – “Human Rights” – palese omaggio ai diritti umani. Quasi tutti i brani contengono i versi del poeta Jack Hirschman citato prima. Il mio è dunque anche un omaggio, oltre che alla sua arte, alle sue battaglie contro il capitalismo sfrenato e senza regole”.

– E per quanto concerne i singoli brani?
Il disco si apre con “Human Being” che è una sorta di ouverture; successivamente la voce di Hirschman introduce “Under Attack. Gaza” evidentemente inerente ai bombardamenti nella striscia di Gaza, seguito da “Mama Africa. Multinationals’ Hands of Blood” un omaggio all’Africa da sempre depredata dalle multinazionali. Con “A Street of Walls” ho voluto rivolgere una critica al sistema capitalistico mentre con “Nasty Angry Tyrannical Order” ho rinominato la NATO con riferimento a quel ventennio di aggressioni in Iraq e Afganistan che ha prodotto i guasti che tutti conosciamo, più di un milione di morti.  Il sesto brano è una bellissima poesia di Jack, “The Homeland Arcane” da cui ho tratto “Real Earth” , dedicato all’inquinamento ambientale, probabilmente il problema più grave e urgente del nostro pianeta; a seguire una critica all’imperialismo, “Imperialism. Unequal Feelings” (feeling diseguali). “Gino’s Eyes” è un omaggio a Gino Strada, agli occhi di questo straordinario uomo che negli ultimi tempi vedevo particolarmente stanco e sfiduciato, forse perché provato da ennesime guerre. Di certo erano anche occhi dolci: tutti gli uomini buoni hanno uno sguardo che esprime tenerezza e ciò spiega perché il brano è composto in forma di ballad. “Hiddens. A Mediterranean Requiem” vuole invece ricordare i troppi morti annegati nelle acque del Mediterraneo; poi con “Troika’s Madness. For Hellas” c’è una violenta critica a ciò che è successo nel 2015 quando la famigerata Troika sostanzialmente rovinò la Grecia e portò alla disperazione migliaia di persone…la Grecia è fondamentale per l’Europa, per l’Italia, senza di essa non ci saremmo stati tutti noi e non a caso per scrivere questo pezzo ho utilizzato la scala misolidia antica, inventata – a quanto si tramanda – dalla poetessa Saffo, che corrisponde alla moderna scala frigia nel jazz. C’è da sottolineare che ad ogni brano si accompagna una poesia di Hirschman dedicata all’argomento in oggetto. L’album chiude con “Stop!” che vuole essere un appello a far sì che non accada più tutto questo”.

– Qual è il brano cui è più affezionato?
“Cerco di capirlo io stesso ma non è facile. Non so decidermi. Quando scrivo i miei album li strutturo come fossero parte di una suite, anche se questa volta ciò non appare così chiaramente come ad esempio nel precedente. E’ comunque difficile scegliere un brano specifico all’interno di un contenitore in cui si susseguono diverse situazioni”.

– La produzione è…
“Di Filibusta Records, che mi segue fin dal primo album a mio nome. Spesso oggi si parla piuttosto male delle case discografiche. C’è da dire, però, che nella melma ci sono sì i musicisti ma anche le case discografiche in quanto sui diritti d’autore non è che si guadagni chissà quanto. Siamo tutti nella stessa barca: basti pensare che i produttori nel jazz fanno tutti un altro mestiere. Comunque qualcosa da migliorare ci sarebbe, ad esempio in SIAE: non capisco perché il diritto di autore debba essere ricompensato sulla base degli ascolti e non su un auspicabile livellamento. Secondo me l’apice di questa rovina è stato il principio dell’uno uguale uno perché se tutto è generato dal mercato siamo davvero alla fine”.

– Ancora con riferimento al disco, anche la copertina è particolarmente indovinata, del tutto pertinente con la musica.
“Sì, la copertina è molto bella: è di Aurora Parrella, una giovane pittrice e restauratrice molto brava, un olio su tela che le ho commissionato io stesso. Poi ci sono le foto di Laura Barba e voglio ringraziare molto Enrico Furzi del Recording Studio La Strada e il suo assistente Francesco Bennati, perché abbiamo fatto un lavoro egregio: questo disco non è stato semplice da registrare”.

Gerlando Gatto

Grande jazz al Festival di Palermo: il SJF in programma dal 23 giugno al 2 luglio

Cari amici, il team di “A Proposito di Jazz” è lieto di comunicarvi una nuova iniziativa che speriamo possa risultare di vostro interesse, la nostra inchiesta su: il Jazz in Sicilia.
L’Isola presenta, in effetti, molti aspetti paradossali ma ce n’è uno che riguarda da vicino il nostro microcosmo. Non c’è dubbio alcuno che la Sicilia sia una delle più belle terre da visitare: un clima splendido, una cucina tradizionale di grande spessore, bellezze storiche, artistiche e naturalistiche su cui non è necessario spendere ulteriori parole. A fronte di tutto ciò, la situazione lavorativa è drammatica… e non da oggi. Il nostro direttore appartiene a quella categoria di chi, alla fine degli anni ’60, fu costretto a stabilirsi a Roma per trovare soddisfacenti condizioni di lavoro.
Dal punto di vista jazzistico, oggi come ieri, la Sicilia è terra fertile di talenti: sono davvero tantissimi i jazzisti siciliani che si sono fatti onore anche al di là delle Alpi. Eppure, nonostante le difficili condizioni lavorative cui prima si faceva riferimento, molti artisti, anche dopo esperienze vissute altrove, hanno preferito ritornare alla terra d’origine per stabilirvisi definitivamente.
Ecco questa inchiesta tende a scoprire quali sono “i segreti” che hanno così fortemente condizionato moltissimi musicisti… ma anche a darvi conto di ciò che di importante accade nell’Isola. Il tutto ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività.
Ci pare quindi opportuno iniziare questa avventura presentando la terza edizione del Sicilia Jazz Festival che si terrà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio.
Seguirà una vasta serie di ritratti, recensioni discografiche, interviste che abbiamo condotto su larga scala avvicinando molti musicisti che abitano in Sicilia senza però trascurare quanti, e sono una minoranza, hanno fatto una scelta diversa.
Buona lettura! (Marina Tuni, redazione APdJ)
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Si svolgerà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio la terza edizione del Sicilia Jazz Festival, promosso ed organizzato dalla Regione Siciliana – Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo, frutto della collaborazione con il Comune e l’Università degli Studi di Palermo, la Fondazione the Brass Group e i Conservatori di Musica siciliani
La manifestazione sembra avere tutte le carte in regola per bissare il successo degli anni scorsi; in effetti, come abbiamo spesso sottolineato specie in questi ultimi tempi, un Festival Jazz a nostro avviso si giustifica solo se in strettissima relazione con il territorio nel cui ambito insiste. Insomma non solo musica ma anche valorizzazione di tutto ciò che il territorio stesso rappresenta, quindi spazio ai talenti locali, forti richiami alle tradizioni culturali, alle testimonianze archeologiche, ai prodotti della terra e via discorrendo.
Ecco, il festival siciliano risponde appieno a questo tipo di peculiarità: per quanto concerne i talenti locali saranno presenti anche quest’anno con numerose esibizioni i dipartimenti jazz dei conservatori “Vincenzo Bellini” di Catania, “Arcangelo Corelli” di Messina, “Alessandro Scarlatti” di Palermo, “Antonio Scontrino” di Trapani, e “Arturo Toscanini” di Ribera al cui interno spiccano come special guest i nomi di Paolo Damiani e Nicky Nicolai.

Per quanto riguarda le location, anche questa terza edizione del Sicilia Jazz Festival vuole rivolgersi alla valorizzazione di luoghi particolarmente significativi per riscoprirli nella loro pienezza storica e culturale in quanto la musica è un linguaggio universale, da tutti compreso senza limiti di età e di genere, senza limiti di appartenenza e di razza. Prova ne sia l’altra importante novità di quest’anno costituita dal fatto che verranno realizzati alcuni spettacoli a Palazzo Butera, per valorizzare ancora di più le bellezze storiche e monumentali della Sicilia.
Ma tutto ciò non avrebbe senso compiuto se non fosse accompagnato da un programma musicale di sicuro livello.
Anche da questo punto di vista, il Festival non ha alcunché da invidiare ad altre situazioni grazie alla scelta oculata degli organizzatori che hanno previsto per il capoluogo siciliano un cast davvero eccellente. Ma la bontà del Festival non si gioca solo sui grandi nomi, dal momento che saranno proposti più di 100 concerti, di cui 10 produzioni orchestrali originali in scena in alcuni siti del centro storico di Palermo quali Palazzo Butera, Palazzo Chiaramonte Steri, il Complesso Monumentale Santa Maria dello Spasimo, il Real Teatro Santa Cecilia e il Teatro di Verdura di Villa Castelnuovo. Sono previste altresì 4 prime assolute di produzioni inedite appositamente commissionate.
Ma vediamo, seppure a grandi linee, cosa ci propone il SJF con specifico riferimento alle “stelle” di primaria grandezza: apertura venerdì 23 giugno allo Steri con Marcus Miller, fuori abbonamento; seguiranno, tutti al Teatro di Verdura, i concerti di Diane Schurr il 24 giugno; Bob Mintzer il 25 giugno; Gregory Porter il 26 giugno; Anastacia il 27 giugno; Al McKay – Earth Wind & Fire Experience il 28 giugno; Judith Hill il 29 giugno; Dave Holland il 30 giugno; Manuel Agnelli il 1 luglio; The Manhattan Transfer il 2 luglio.
Tutti questi concerti saranno accompagnati dall’Orchestra Jazz Siciliana diretta, volta per volta, da Carolina Bubbico, Giuseppe Vasapolli, Dave Holland, Bob Mintzer, Domenico Riina, Antonino Pedone, Gianna Fratta e Vito Giordano.
Nel corso della conferenza stampa di presentazione, sono stati presentati anche alcuni dati a significare l’importanza della manifestazione. In particolare da segnalare un incremento del 104% per gli abbonamenti realizzati con ben 955 del 2023 al 3 maggio ; ed ancora le entrate di botteghino (dati SIAE) di € 88.802,00 il primo anno, € 147.643,22 con un incremento del 66,26% il secondo anno e € 129.741,00 al 3 maggio scorso per il terzo anno; il numero complessivo degli eventi è stato di 56 nel 2021, 100 nel 2022 con un incremento del 78.57% e 107 nel 2023 con un incremento del +7 % rispetto all’anno precedente; il numero di giornate lavorative dei musicisti residenti è di 693 nel 2021, 1.118 nel 2022 con un incremento del 61.33 % e 1.365 nel 2023 con un incremento del 22.09 %; non si deve trascurare anche il numero di prime esecuzioni assolute con un incremento nel 2023 del 33,33%.
Insomma ci sono tutte le premesse affinché anche l’edizione di quest’anno sia un grande successo.

Gerlando Gatto

Gerlando Gatto al Conservatorio di Teramo e al CASC BI di Bankitalia

Il nostro direttore Gerlando Gatto sarà impegnato nei prossimi giorni in due importanti appuntamenti rispettivamente al Conservatorio di Teramo e al Casc Bi di Bankitalia.

Ma procediamo con ordine. Nell’ambito della tre giorni dedicata all’Accordion Spring Fest, la seconda edizione del Festival della Fisarmonica, promosso dal Conservatorio Statale di Musica ‘G. Braga’ di Teramo, sabato 13 maggio Gatto terrà una conferenza sul tema dei rapporti tra jazz e tango.

Ma, al di là di questo evento, l’Accordion Spring Festival (che inizia giovedì 11 maggio) riveste una particolare importanza in quanto testimonia l’attenzione che il Conservatorio di Teramo sta dedicando alla fisarmonica grazie anche all’impegno di Renzo Ruggieri, fisarmonicista jazz tra i più attivi e validi a livello internazionale.

La manifestazione proporrà concerti, masterclass e conferenze dibattito dedicate alla scoperta della storia e della poliedricità dello strumento musicale, iniziativa che vede come coordinatori artistici il docente di Fisarmonica Classica Massimiliano Pitocco e il docente di Fisarmonica Jazz Renzo Ruggieri.

“Il Conservatorio Braga – ha sottolineato il Direttore Vratonjic – è tra i più virtuosi in Italia grazie all’ampia offerta formativa e al crescente numero di iscritti, elementi che rappresentano un incentivo all’organizzazione di un’attività extradidattica importante che permetta agli studenti di sperimentare subito il proprio talento oltre che le abilità acquisite in classe nelle ore di didattica. La classe di Fisarmonica classica è attiva già da cinque anni ed è stata affidata al docente abruzzese Massimiliano Pitocco, noto per la sua produzione concertistica a livello internazionale, e che è anche titolare della cattedra presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma. La classe di Fisarmonica Jazz, prima cattedra istituita in Italia, è invece affidata al Maestro Renzo Ruggieri, anch’egli noto in campo internazionale quale concertista e docente. Il Festival ci consentirà di valorizzare l’importanza della Fisarmonica che da sempre ha fatto parte della tradizione musicale abruzzese e che ha visto protagonisti alcuni dei ‘padri’ maggiori della musica italiana”.

Ma ecco il programma dettagliato

Si parte giovedì 11 maggio, con le Masterclass che si terranno dalle 9 alle 13 e dalle 14.30 alle 18 con Massimiliano Pitocco alla fisarmonica classica, il maestro serbo Zoran Rakic per la fisarmonica classica e Renzo Ruggieri per la fisarmonica jazz-moderna; alle 18 Concerto del maestro Riccardo Pugliese per la fisarmonica classica.

Venerdì 12 maggio dalle ore 9 alle ore 12 Masterclass dei Maestri Pitocco, Rakic e Ruggieri; alle 12 Concerto degli studenti; dalle 14.30 alle 18 di nuovo Masterclass con i Maestri Pitocco, Rakic e Ruggieri; e a chiudere alle 18 il concerto con Gianni Fassetta alla Fisarmonica classica-virtuoso.

L’evento si chiuderà sabato 13 maggio: alle 9 Masterclass dei Maestri Pitocco, Rakic, Ruggieri e Max De Aloe, per gli strumenti ad ancia libera e jazz; dalle 14.30 alle 16.30 Conferenza di Gerlando Gatto su ‘I rapporti tra tango e musica jazz”; alle 17.30 Consegna dei Diplomi e Concerto di Max De Aloe per la musica jazz.

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Il secondo appuntamento vedrà Gerlando Gatto impegnato giovedì 25 maggio alle ore 18.00, presso l’Auditorium CASC-BI (Centro per l’Aggregazione Sociale e Culturale tra il personale della Banca d’Italia) di Via del Mandrione 190, Roma. Oggetto dell’incontro la presentazione dell’ultimo libro di Gerlando Gatto, “Il Jazz Italiano in epoca Covid”. Il libro, che attraverso una serie di oltre quaranta interviste, fotografa perfettamente la situazione dei musicisti jazz italiani durante il periodo del Covid, risulta particolarmente interessante oggi alla luce di una ripresa che, per quanto concerne il jazz, tarda ad arrivare date le numerose difficoltà del mercato e la situazione non proprio felice in cui questa musica si dibatte nel nostro Paese.

A coadiuvare Gatto ci sarà Daniele Mele giovane pianista e compositore. Laureato con lode al Conservatorio “O. Respighi” di Latina, Daniele affianca all’attività performativa quella di docente di pianoforte e teoria musicale. Inoltre da più di un anno collabora con “A proposito di jazz” scrivendo interviste a musicisti italiani ed esteri.

HARRY BELAFONTE

L’America del 900, questo strano intreccio di possibilità e impossibilità, di scoperte straordinarie e di libertà negate, di nuove entusiasmanti arti e di negazione dei più basilari diritti dell’uomo.

Fin dalla nascita, Harry Belafonte sembra un predestinato ad incarnare la decisamente parziale sintesi contenuta nel mio incipit. Genitori cresciuti in Giamaica, che come tutte le isole caraibiche è un crogiuolo di incontri nati da crocevia. La madre è infatti figlia a sua volta di discendenti scozzesi e africani, il padre, di un’afroamericana e un olandese, quest’ultimo però di origine sefardita. Potremmo immediatamente rubare una definizione coniata nell’autobiografia di un altro grande della musica del ‘900, Charles Mingus: “l’America tutta in un uomo”.

Il piccolo Harry nasce ad Harlem, NYC, nel 1927. Divide gli anni dell’infanzia tra New York e la Giamaica. Nel 1939 si stabilisce nuovamente nella Grande Mela, questa volta in modo definitivo, frequenta la George Washington High School e si arruola in marina durante la Seconda guerra mondiale.

L’esordio avvenne alla fine degli anni ’40, come molti afroamericani di allora, calcando anche il palco dell’ American Negro Theatre di Harlem. Nei primi anni ’50 venne scritturato dalla RCA. Oltre al singolo “Matilda” (1952) che lo portò immediatamente in auge, i successivi album “Belafonte” e soprattutto “Calypso” gli diedero un successo planetario. “Calypso” vendette oltre un milione di copie, primo album della storia a raggiungere tale risultato. Il Mondo intero canticchiava brani come “Banana Boat song” e “Jamaica Farewell”, addirittura più di quelli di un’autentica icona di allora come di oggi, Elvis Presley. Harry Belafonte divenne quindi non solo artista popolare come pochi nella storia, ma un’autentica bandiera della musica caraibica.

Decisamente sulla cresta dell’onda, Belafonte venne scritturato in alcuni leggendari film di Hollywood di quei tempi, come “L’isola nel sole”, “Carmen Jones”, “Strategia di una rapina” e “La fine del mondo”.

Arrivati a questo inaspettato successo globale, al suo posto la maggior parte degli artisti si sarebbero goduti notorietà e denaro, scendendo a forzati compromessi che la società statunitense di quel tempo imponeva agli afroamericani, a tutte le latitudini sociali. A Belafonte venivano ad esempio proposti ruoli per il cinema alquanto discriminatori, che il re del calypso sistematicamente cominciò a rifiutare.

Divenne amico di Martin Luther King e sposò la causa dei diritti civili più di ogni altro: partecipava a raduni, manifestazioni, finanziava i giovani studenti attivisti, fu addirittura tra gli organizzatori della celebre marcia del 1963, quella che tutti ricordiamo per il discorso “I have a Dream” pronunciato dal Reverendo King.

In quegli anni, tutti i più celebri artisti neri di successo cercavano di far passare messaggi antisegregazionisti dall’interno dei loro ruoli. Belafonte non si accontentò di ciò. Lo ritroviamo ad esempio nelle marce per l’uguaglianza in Alabama a gridare “Bombingham” nella cittadina di Birmingham, dove il Ku Klux Klan soleva organizzare continui attentati alla comunità afroamericana. Di conseguenza, sappiamo che l’FBI controllò Belafonte a partire dagli anni ’50 per quasi un trentennio.

L’ America ed i suoi contrasti; la bellezza dell’avvento di musiche che hanno segnato la storia nel Mondo Contemporaneo, dal blues, al jazz, alla musica caraibica, a quella della Motown e a molte altre, di fronte ad uno scenario umano devastante portato a compimento dall’odio razziale.

Nel 2019 sono stato invitato a suonare nello Stato di Washington. Tra i momenti che hanno più segnato la mia prima breve permanenza negli States c’è sicuramente la visita al National Museum of African American History and Culture, inaugurato nel 2016 da Barack Obama.  Dal quarto piano sottoterra al quarto in superficie, si percorre la tragedia di un popolo e il suo troppo recente percorso di emancipazione.

“Ma da dove nasce tutto questo odio?” diceva William Dafoe a Gene Hackman in “Mississippi Burning: le radici dell’odio” di Alan Parker del 1988.

Harry Belafonte si tuffa in tutto questo con voce piena, e lo fa a prescindere dalla sua arte: in prima persona, come cittadino, come portavoce, prima ancora che come artista.

La straordinaria personalità di questo monumento caraibico non si fermò mai, fino agli ultimi anni della sua esistenza. Negli anni ’80 fu tra gli artisti che cantarono “We are the World”, negli anni 2000 criticò apertamente l’amministrazione Bush per la guerra in Iraq, e nel frattempo scrive anche alcuni libri in difesa dell’uguaglianza e dei diritti umani.

Harry Belafonte muore nella sua casa dell’Upper West Side di Manhattan, all’età di 96 anni.

Alcuni anni fa, la biblioteca del Congresso ha onorato Belafonte includendo l’album “Calypso” tra le grandi opere americane di sempre. Un Belafonte già ultranovantenne ha pronunciato una splendida frase che è destinata certamente a rimanere nella Storia non solo della sua straordinaria esistenza, ma di quella degli interi Stati Uniti d’America: “l’America è corrosa dal razzismo, ha un DNA fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finché vivrò”.

Danilo Blaiotta

Christian McBride: la mia passione è suonare il contrabbasso

Nell’odierna realtà jazzistica se c’è un personaggio che riesce a racchiudere tutte quelle qualità che fanno di un buon musicista un eccezionale artista questi è sicuramente Christian McBride. Strumentista portentoso, compositore e arrangiatore di sicuro livello, didatta coscienzioso (con la moglie, la cantante Melissa Walker, diplomata anche come educatrice, crea a Montclair, New Jersey, una scuola la Jazz house Kids), sembra mai accontentarsi e così nel marzo 2016 viene nominato direttore artistico del Newport Jazz Festival. Il tutto condito da una serie di riconoscimenti ufficiali tra cui ben otto Grammy.

Originario di Filadelfia, classe 1972, ha un aspetto imponente: alto, massiccio, con una bella voce profonda e leggermente roca all’apparenza non sembra certo il tipo con cui vorresti avere qualche incontro ravvicinato del terzo tipo. Ma quando lo incontri e gli parli, l’impressione cambia radicalmente: Christian è persona squisita, gentile, comprensivo, che parla volentieri e non elude alcuna domanda.

Cominciamo da un fatto che mi incuriosisce parecchio. Lei è molto giovane eppure ha già fatto davvero tante, tante cose. Tournée, didattica, produzione, composizione, direzione di big band, tecnica straordinaria sullo strumento…e potrei continuare. Cosa preferisce fare?
“Innanzitutto vorrei precisare che non sono così giovane. Ad oggi sono cinquant’anni. Quel che ho fatto non è stato tutto pianificato, è venuto così dove mi ha portato la mia anima. Quando sono andato a vivere a New York per la prima volta, trentadue anni fa, volevo solo suonare con i miei eroi e molto di questo è successo. Per quanto concerne ciò che è venuto dopo, ho solo proseguito lungo il cammino. Comunque tornando alla sua domanda preferisco suonare il basso…e non sto scherzando. Da sempre suonare il contrabbasso è la mia passione, ciò che realmente mi riempie il cuore di gioia. Io davvero mi auguro che tutti i musicisti abbiano queste stesse possibilità, di sentirsi felici quando suonano il proprio strumento”.

Data questa sua passione per il contrabbasso, lei preferisce suonarlo nell’ambito di un’orchestra o di un combo?
“Per me è assolutamente lo stesso. Metto lo stesso impegno, la stessa passione e mi diverto allo stesso modo sia se suono all’interno di una big band, sia che mi trovo a far parte di un trio o un quartetto”.

Cosa ricorda di una delle sue prime collaborazioni, quella con Bobby Watson parecchi anni fa, se non sbaglio nel 1989?
“Ero alle primissime settimane di college quando qualcuno mi ha detto ‘ehi c’è uno strano tipo che ti sta cercando, ma non sappiamo il suo nome’. Così me ne sono andato a seguire la successiva lezione ma altri studenti mi hanno ripetuto che qualcuno mi stava cercando. Così quando sono andato a pranzo, seduto ad un tavolo leggendo un giornale l’ho visto: era Bobby Watson che già conoscevo. Appena sono entrato e l’ho visto, l’ho salutato calorosamente e lui mi ha risposto: ‘ehi, ti stavo cercando; che fai questo fine settimana? Ho un regalo per te. Suoniamo al Birdland con James Williams che suona il piano, Victor Lewis alla batteria”. Cosa ricordo di questo episodio? Che ero molto, molto spaventato. Quel pomeriggio abbiamo provato e poi è andato tutto bene. Sono rimasto nella band di Bobby Watson per due anni”

Così poco? Io avevo letto che avevate suonato assieme per più tempo…
“No, con la stessa band sono rimasto due anni. Poi, sai come succede, se uno si fa un nome finisce con il suonare con un sacco di gente. E ovviamente a me è capitato anche in seguito di suonare con Bobby. Ma nello stesso tempo ho avuto modo di suonare con altri grandissimi musicisti quali, tanto per fare qualche nome in ordine cronologico, ho lavorato dapprima con Ray Hargrove, quindi con Benny Golson, e poi con Freddie Hubbard. Tra il 1989 e il 1992 ho fatto molti concerti con diversi leader”.

Un altro dei grandi musicisti cui Lei è particolarmente affezionato è sicuramente Chick Corea. Come ricorda questo artista?
“Lui è stato una delle persone più straordinarie, meravigliose che io abbia incontrato nel corso della mia vita. Certo era un grande compositore, un grandissimo pianista, ma soprattutto una bellissima persona”.

In che senso?
“Abbiamo collaborato per ben ventisei anni e in questo lungo periodo mai una volta l’ho visto rivolgersi male verso qualcuno, essere sgarbato…insomma era davvero una brava persona, una persona per bene: nel mondo ci sarebbe bisogno di molte più persone come lui. Da un punto di vista più strettamente musicale, Chick mi spronava sempre a comporre aggiungendo che lo facevo bene. Ma egualmente io mi sentivo in imbarazzo davanti a lui in quanto, mi creda, Chick Corea è stato uno dei compositori più illuminati del secolo scorso”.

Chick a parte, qual è la collaborazione che ricorda con più piacere?
“Quella con James Brown, l’eroe della mia infanzia. Suonare con lui per me è stato come realizzare un sogno. Quando mi ha chiamato io ero, in un certo senso, più che preparato…conoscevo ogni suo pezzo, conoscevo tutto ciò che aveva fatto nel corso della sua carriera. Quindi nel momento in cui, quando festeggiava il suo 64simo compleanno, nel corso di una sorta di jam session mi chiamò sul palco, ero letteralmente al settimo cielo. Poi ho prodotto uno dei suoi ultimi spettacoli ed è stata un’esperienza unica, straordinaria, meravigliosa”.

Bene. E cosa pensi di Marvin Gaye?
“Anche lui è una leggenda. Ci sono molti cantanti r&b, soul che sono anche eccellenti musicisti jazz. Herbie Hancock racconta questa bella storia di quando entrando in uno studio di registrazione ha incontrato per la prima volta Marvin Gaye che intonava magnificamente al pianoforte “Maiden Voyage” (Uno dei brani più conosciuti di Hancock ndr). Non so se Winton Marsalis, entrando in uno studio, potrebbe incontrare John Legend che intona uno dei suoi brani. Mi piace moltissimo anche Stevie Wonder: lui è il re”

Cosa pensa del cd. ‘modern jazz’?
“Onestamente devo dire che non lo amo particolarmente. Bisogna però intendersi meglio. Oggi per modern jazz si intende la musica suonata per lo più da ventenni. In realtà molti giovani suonano mescolando ad esempio suoni acustici con l’elettronica, cosa certo non nuova, e alle volte devo ascoltare questa musica anche due volte per entrarci dentro ma ciò mi piace. Insomma in linea di massima questo tipo di espressione non mi soddisfa pienamente anche se devo riconoscere che ci sono cose interessanti”.

Pensa sia possibile parlare oggi di jazz americano, jazz europeo, jazz italiano?
“Non sono molto bravo ad operare simili distinzioni. Io penso che il jazz è jazz: il jazz è nato in America e da lì tutto deriva, anche la musica improvvisata europea, anche quella asiatica seppure innervata da elementi tratti dalle culture locali. Ciò non toglie, ovviamente, che ci siano eccellenti musicisti di jazz in tutto il mondo”.

Cosa conosce del jazz made in Italy?
“Tete Montoliou, Michel Petrucciani…”

Mi scusi ma l’uno è spagnolo e l’altro di origine italiana ma francese…
“Stefano Di Battista…”

Sì con lui ci siamo, e poi?
“Il contrabbassista Giuseppe Bassi che è un mio caro amico e poi naturalmente Paolo Fresu”.

Perché lo stato della popolazione afroamericana negli States è sempre così complessa, per usare un eufemismo?
“Io penso che in tutto il mondo, ma particolarmente negli Stati Uniti, ci sia un problema di razza e allo stesso tempo di classe sociale, di soldi. Se tu sei ricco nessun problema; viceversa i bianchi che sono poveri hanno gli stessi problemi dei neri poveri, degli asiatici poveri, dei latini poveri. A ciò si aggiunga il razzismo verso la gente di colore che negli States è ancora forte. E’ molto difficile che quanti hanno tanti soldi si prendano cura di chi è realmente povero. Questa è la grande sfida da affrontare subito”.

Personalmente Lei ha avuto brutte esperienze in tal senso?
“Certo che sì. Ogni cittadino americano di colore tra i sedici e i settantacinque anni potrebbe raccontare episodi del genere. Io stesso più volte sono stato fermato dalla polizia ho sempre reagito nel migliore dei modi, educatamente, salutando cordialmente. Ma non sempre funziona: io sono grande, grosso e nero e ciò basta per suscitare qualche sospetto, per pensare che sia violento. Per non parlare dell’enorme problema costituito dalla presenza delle armi che andrebbero bandite perché gli americani quando si parla di armi è come se diventassero bambini”.

Pensa che in Europa sia diverso?
“Onestamente non lo so. Uno dei miei più cari amici che vive a Roma da quattro anni, Greg Hutchinson, mi racconta che non importa dove vai, qualcuno ti guarderà sempre in modo sciocco. Per quanto concerne moleste della polizia e razzismo non so come sarebbe in Europa; conosco molti musicisti neri che hanno lasciato l’America tra gli anni ’40 e ’50 e sembrano felici

Qual è il suo album che preferisce?
“Francamente è difficile rispondere. Comunque, pensandoci meglio, credo che le mie preferenze vadano al primo album, “Gettin’ to It”, per la Verve nel 1995 con Roy Hargrove tromba e flicorno, Joshua Redman tenor saxophone, Steve Turre  trombone, Cyrus Chestnut  piano, Lewis Nash  batteria, Ray Brown e Milt Hinton  basso on ‘Splanky’ “.

Qual è la musica che preferisce suonare oggi?
“Tutta, purché sia buona musica. Voglio essere cittadino del mondo”.

Gerlando Gatto

I nostri cd: il jazz, musica d’insiemi

Il jazz, musica d’insiemi, ma forse è meglio dire insieme per non creare ambigue assonanze con … l’insiemistica. Insieme di creatività, talento, “possesso” dello strumento, istantaneità interpretativa, capacità relazionale, qualità che sono a loro volta un “insieme” di altri elementi. Nelle note seguenti la musica d’insieme presa ad oggetto è quella di una rosa dei nuovi album incisi da organici più o meno infoltiti. Sono progetti diversi fra di loro, inoltre le formazioni cambiano a seconda di strumentisti e strumenti. Altra differenza, di tipo lessicale, è fra collettivi ed ensemble, i  primi più “paritari” nella relazione che avviene collettiva/mente, le seconde con una netta prevalenza della figura di bandleader, non il conductor autoritario della felliniana “Prova d’orchestra” ma un coach che “organizza” il suono indirizzandone le componenti verso un dato obiettivo. Nel jazz i maggiori spazi concessi all’improvvisazione rispetto ad altri generi musicali fanno si che chi “coordina” debba tenere sempre stretto il timone e sott’occhio la bussola. Come il capitano di una nave che riesce a domare in ogni frangente i flutti marini.

Gerardo Pepe – “Orchestrando piano” – Caligola Records.
Le composizioni di grandi pianisti jazz hanno dell’ineffabile negli iter creativi. Su quelli compositivi, non afferenti al solo inconscio, ci si può peraltro esprimere anche in rapporto, più o meno stretto, con lo stile pianistico. Gerardo Pepe, in Orchestrando piano (Caligola Records), testando l’orchestrabilità di sei brani scritti da altrettanti maestri del piano, ne ha perscrutato l’attitudine ad essere eseguite da un organico di piccola orchestra di dodici musicisti sulla base di suoi riarrangiamenti. “Nigerian Marketplace” di Oscar Peterson è il primo pezzo ad esser stato selezionato per la band comprendente Andrea Salvato (fl.), Daniele D’Alessandro (cl.), Federico Califano (alto s.), Giacomo Casadio (t. sax), Francesco Milone (b.sax), Antonello Del Sordo e Matteo Pontegavelli (tr.), Roberto Solimando (tr.ne), Saverio Zura (guit.), Filippo Galbiati (p.), Filippo Cassanelli (cb.) e Dario Rossi (dr.). A seguire “ We See” di Monk autore replicato in “Ask Me Now”. Va detto che finalità dichiarata di questo lavoro d’esordio del jazzista gravinese è il rendere omaggio ad alcuni grandi pianisti afroamericani proponendone una personale rilettura con sul leggio gli spartiti di  ”Song For My Father” di Horace Silver e “Passion Dance” di Alfred McCoy Tyner. Nello schieramento orchestrale da lui assemblato il pianoforte comprime il proprio protagonismo pur rimanendone perno essenziale secondo cooordinate rispettate anche in “Remembering Charles”, a sua firma, che chiude la tracklist a ridosso di “Three Bags Full” di Hancock. Non solo dunque una sinopsi tratta dal Real Book pianistico per organici allargati; e non un mero make up e neanche uno stravolgente trattamento chirurgico bensì una reinterpretazione coerente con i modelli, a dimostrazione di quanta potenzialità possiedano tuttora alcune gemme  di capiscuola del piano jazz moderno e contemporaneo.

Pietro Pancella Collective, “Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1” Abeat Records
Pietro Pancella Collective licenzia per Abeat Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1. Un progetto ambizioso questo del contrabbassista abruzzese,  figlio d’arte del pianista Tony Pancella,  se si pensa che il primo brano in tracklist, “Black Narcissus”,  venne inciso dal sassofonista Joe Henderson nel ‘77 con figure iconiche come Kuhn al piano, Jenny-Clark al basso, DeJohnette ed Humair alla batteria! Ma il ricercare nuove skyline musicali fa parte del bagaglio di un jazzista che si rispetti.  E poi se i partners si chiamano Giulio Gentile (pf), Christian Mascetta (guit.), Manuel Caliumi (alto) e Michele Santoleri (dr.) allora il salto non sarà mai più lungo della gamba. Il 5et si è prima impadronito, a seguito di lungo rodaggio, delle partiture  hendersoniane. Quindi ha ricongiunto i moduli del prefabbricato sulle stesse fondamenta sagomandoli per mezzo di arrangiamenti, assegnati secondo l’abbinamento Pancella-Henderson, Gentile-Shorter, Mascetta-Coltrane.  Tale procedere per assimilazione-architettura si ripete anche nei due brani di Shorter, “Witch Hunt” e “Nefertiti”, quest’ultima  registrata per il quintetto di Miles Davis, composizione fra le più eseguite fra quelle esposte nel cd.  Analogamente dicasi per le coltraniane “Lonnie’s Lament” e “Resolution-Pursuance” (da A Love Supreme).  Il gran lavorio sulle punte di chitarra e sax ha prodotto risultati interessanti, vedansi assoli e “strappi” che gli stessi intessono con piano e ritmica in “Afro Centric”, tratto da “Power To The People” di Henderson. La triarchia nera ha dettato stilemi jazzistici che il Collective ha fatto propri senza l’assillo di semplificare il complesso né di complicare il semplice.  Con lo scopo dichiarato di rendere un omaggio che non fosse solo richiamo, citazione o mero strizzare l’occhio agli originali bensì riformulazione aggiornata di un linguaggio musicale che ” trascende le parole” (Coltrane).

Marco Luparia, Masnä, L’autre collectif.
Il batterista Marco Luparia presenta in Masnä (L’autre collectif) un lavoro discografico in sestetto  con  Clement Merienne al pianoforte, piano preparato (e Bontempi), Sol Lèna-Schroll all’alto sax, Hector Lèna-Schroll alla tromba, Federico Calcagno ai clarinetti e Pietro Elia Barcellona al contrabbasso.  La radice etimologica dal dialetto piemontese di Masnä è il termine bimbo. Si spiegano così le foto infantili sulla cover di questo album grondante nostalgia ideato nel quieto borgo di San Martino di Rosignano, ai piedi delle Alpi, al di qua dalla Savoia francese. Un habitat bucolico che ha ingenerato la ricerca del tempo perduto attraverso brusii fruscii rumeurs dimenticati. Essi tornano a rivivere rielaborati nell’incontro con altri musicisti con cui esplorare i canoni, da un punto di vista radicale, di antiche tradizioni quali il gagaku giapponese, il gamelan indonesiano, la musica carnatica indiana e quella sacra europea. Per una musica a/formale, di forme/non-forme, in cui la ricerca affida all’improvvisazione il ruolo-guida di riconnessione dei frammenti di un passato che gli anni hanno decostruito con il loro trascorrere. Le cinque composizioni su sette (Flock, Knup, Rapid Eye Movement, Teaper, Harm) dello stesso Luparia oltre “Etude  Campanaire” di Lèna-Schroll e “Wuh” di Calcagno, sono il frutto di un “fucina” musicale che, sotto il segno della temporalità  divisa da un ritmo spesso “concreto”, diventa  narreme di vissuto, placenta in cui nuotano i sogni che il soggetto narrante  interpreta.

Massimo Pinca – “Singing Rhythms, Pulsin Voices” – Dodicilune Records.

E’ un grand ensemble di nove elementi quello che il contrabbassista Massimo Pinca ha riunito per l’album Singing Rhythms, Pulsing Voices, prodotto da Dodicilune Records, label leccese come lui. Il lavoro, concepito nel mezzo della pandemia, è stato registrato tramite sovraincisioni tranne che per il Geneva Brass,  quintetto di ottoni che ha inciso direttamente in studio. Alle note del gruppo vanno assommate quelle del  4et  con Nicola Masson ai sax tenore e soprano, Gregor Fticar al rhodes, Paolo Orlandi alla batteria oltre a Pinca che si è alternato a basso elettrico contrabbasso e rhodes. Il collante principale delle due formazioni è dato dalla “voce pulsante”  di una scrittura che ha intessuto trame sonore “tono su tono”, non nel senso di tonalità, ma di coerenza timbrica e cromatica degli strati compositivi con gli spazi di libertà espressiva. Pinca, giunto a quest’esperienza overdubbing dopo il “solo” di Fragments (NBB Records 2021), è riuscito, in nove brani per un totale di un quarto d’ora di musica, nell’opera di incarnare un sound  naturale  anche ad un ascolto  pan  pot,  grazie anche all’apporto di musicisti che ne hanno condiviso l’approccio classico-jazz “ ed hanno inserito le loro meravigliose  tessere in un mosaico ad essi invisibile”. Il disco è stato realizzato con il contributo del dipartimento di cultura di Ginevra, città adottiva di Pinca.  Del Geneva Brass fanno parte  Baptiste Berlaud e Lionel Walter (tr. fl.), Cristophe Sturzenegger (horn), David Rey (tr.ne), Eric Rey (tuba).

Bertazzo/Francesconi  New Project Orchestra – “Playing  With Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen” – Caligola Records.                   
Non hanno più “l’acre odore di sigaretta” le canzoni di Jimmy van Heusen, “latecomer”, secondo Alec Wilder, affermatosi cioè più avanti rispetto ai primi grandi songwriter del 900, anche per ragioni anagrafiche.  All’autore della musica di “Here’s That Rainy Day”, “All The Way”,  “Darn That Dream” sono  state nel tempo dedicate diverse compilation fra cui quella del Reader’s Digest, in cui è partner di scrittura Johnny Burke (Timeless Favorites: Sunday Monday or Always. The Songs of Burke & Van Heusen), “blocco” che si affianca all’altro relativo alla collaborazione con il lyricist Sammy Cahn, a proposito del quale va segnalato almeno lo storico l.p. Emi di Frank Sinatra del ’91 (Sinatra Sings the Songs of Van Heusen & Cahn).   La sua discografia si arricchisce oggi di un titolo italiano,  Playing with Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen, di Francesca Bertazzo  Hart e Michele Francesconi  New Project Orchestra, edito da Caligola Records. Un lavoro dal giusto groove in cui ci si sposta a piacimento dall’atmosfera metropolitana alla traditional, dal soffuso al ritmicamente portante. Gli arrangiamenti, firmati dal pianista-direttore Michele Francesconi e dalla chitarrista-vocalist  Francesca  Bertazzo Hart, vengono dipanati con duttilità dai musicisti:  Trettel, tr./ Grata, tr.ne. /Menato, a.sax-cl. / Zeni, t.sax. / Beberi, t.sax b. cl. / Pilotto cb.b. / oltre al batterista Mauro Beggio in qualità di ospite. Focus dunque puntato su una categoria non certo sopravvalutata quale quella degli autori di song, nello specifico su un autore che brilla in melodiosità specie sui tempi pari, eccelle per sofisticate misure armoniche, spicca in ritmicità.  Caratteristiche che il disco “illustra” in undici brani, individuati fra le varie centinaia a firma di siffatto “Grande Artigiano” oltre a un paio scritti dalla leader, eseguiti esaltandone al meglio la “jazzabilità”.

Mario Rosini / Duni Jazz Choir- “Wavin’ Time” –  Abeat Records.
Wavin’ Time è l’album che Abeat pubblica con Mario Rosini  e il Duni Jazz Choir.  Dove il DJC, nato nel 2015 nelle classi del conservatorio Duni di Matera, con sezione soprani (Ceo/Rotunni/Lombardi), contralto  (Colangelo/ Razem/ Carrieri) e tenori (Schiavone/Giammarelli) non canta a cappella. Sottostanno infatti ai cori chitarra (Ruggiero), basso (Laviero), batteria (Parente), percussioni (Lampugnari, Ciaravella), sax (Menzella), trombe (Santoruvo, Todisco), trombone (Fallacara), flauto (Di Caterino) assortiti a seconda delle situazioni, spazianti dal cool fino al pop internazionale, per come delineate dal pianista nonché direttore ed arrangiatore Rosini.  Varia la tracklist di cover ed original.  Oltre a “A New Sunrise” in cui appare la firma di Rosini così come in “Ti sento così (per Sofia)” e “Wavin’ Time”, vi si ritrova una convincente versione corale di “Giant Steps” (un Coltrane vocalizzato è rintracciabile già in Lambert Hendrix & Bavan).  C’è poi “Four Brothers” di Giuffre, e si è in pieno vocalese stile Manhattan Transfer; ed ancora “Quando quando quando”, hit straincisa da vocalist che vanno da Humperdick  alla  Furtado. A  seguire un tuffo nel Motown con un paio di brani di Stevie Wonder – “Don’t You Worry ‘Bout A Thing” e “Love Collision” –  ed il gustoso paragrafo italiano.  Quest’ultimo comprende,  oltre al citato successo di Tony Renis, “E la chiamano estate” di Bruno Martino e Franco Califano ed “I cieli in una stanza” dove si celebra il “matrimonio” fra l’evergreen di Gino Paoli e il soundtrack di  “Metti, una sera a cena” di Morricone con un arrangiamento che interseca sottilmente i due temi.  Da rimarcare in positivo “Black or White” di Michael Jackson (con B. Bottrell) di cui Mario Crescenzo dei Neri per Caso, nelle note di copertina, sottolinea l’iniziale “sentore progressive” che richiama verso il finale “la “salsa brava” della storica Fania All-Stars (la Motown latino-americana della musica Salsa)”.  Il disco reca il logo del Premio 2022 di “La Musica di Sofia”, assegnato da Guido Di Leone per conto della famiglia Bratta.

Amedeo Furfaro