Franco D’Andrea compie 80 anni: i più fervidi auguri da “A Proposito di Jazz”

Lunedì 8 marzo 2021, il pianista e compositore Franco D’Andrea compie 80 anni. Lo conosco personalmente e ho avuto modo di parlare con lui diverse volte. Ora, anche se la parola “amico” è forse esagerata, posso tuttavia tranquillamente affermare che con Franco ho un bel rapporto. Ogni volta che ho avuto bisogno di parlargli, magari per una intervista, un consiglio, un chiarimento, è stato sempre non disponibile… di più! Mi è bastato alzare il telefono e trovare dall’altra parte un interlocutore gentile e cordiale, sempre pronto a rispondermi, a chiarire, a spiegare.
Corroborando così una convinzione che mi sono fatto frequentando musicisti da oltre 60 anni: è proprio vero che i più gentili sono proprio i più grandi.
E non c’è dubbio alcuno che con oltre 160 dischi incisi in Italia e all’estero e almeno 20 premi Top Jazz vinti nella sua lunga carriera, Franco D’Andrea sia ormai uno dei migliori pianisti contemporanei e rappresenti l’eccellenza che il jazz italiano ha saputo partorire negli ultimi 50 anni.

Per questa occasione, l’11 marzo uscirà la biografia “Franco D’Andrea. Un ritratto”, a cura del giornalista Flavio Caprera, pubblicata dalla casa editrice EDT e impreziosita dalla prefazione di Enrico Rava.
Nato a Merano nel 1941, D’Andrea incomincia a suonare il piano da autodidatta a 17 anni, avendo suonato in precedenza tromba e sax soprano. Dopo una parentesi bolognese nei primi anni ‘60, che lo vede anche al fianco di Lucio Dalla in quartetto jazz, è alla Rai di Roma nel 1963 che comincia la sua attività professionale, insieme a Nunzio Rotondo. Incide il primo disco con Gato Barbieri nel 1964 – col quale collabora due anni –  fonda insieme a Franco Tonani e Bruno Tommaso il Modern Art Trio nel 1969, per poi entrare nel 1972 nei “Perigeo”.
Da lì in poi, una lunghissima carriera come pianista, arrangiatore e leader di numerosi progetti, elaborando uno stile personale e molto originale che attinge alle fonti più disparate, dal serialismo al jazz-rock, dalla world music a quella contemporanea.
Un’unicità la sua, testimoniata da più di duecento brani composti, da autorevoli riconoscimenti accademici, tra cui  “Le Prix du Musicien Européen 2010” de l’Academie du Jazz de France, per non parlare delle centinaia di collaborazioni con musicisti di tutto il mondo (Johnny Griffin, Dexter Gordon, Steve Lacy, Enrico Rava, Lee Konitz, Phil Woods, Han Bennink, Dave Douglas e Dave Liebman), delle masterclass tenute in diverse scuole e accademie. Fino, ovviamente, alle tante formazioni che ha saputo impreziosire con il suo sconfinato talento. Con i suoi dischi, i suoi concerti e la sua attività didattica, Franco D’Andrea ha tracciato un percorso tutto personale nel jazz, portando avanti una ricerca profonda nell’ambito della musica afroamericana, dando vita a progetti ambiziosi che vanno dal “solo” a formazioni più allargate come l’ottetto e “Eleven”, sempre mantenendo una cifra estetica e poetica estremamente originale.
Da diversi anni pubblica i suoi album con l’etichetta Parco della Musica Records. L’ultima sua fatica discografica si intitola “New Things” ma è già al lavoro su due nuovi progetti.

Gerlando Gatto

Jazz e goliardia, fra storia e ironia

Alcuni anni orsono, in un incontro con gli studenti dell’Università di Siena incentrato su quella goliardia che egli stesso ha professato nella propria carriera di musicista, Renzo Arbore affermava, fra il serio e il faceto, che lo spirito goliardico non era morto negli anni sessanta semmai il ’68 era “stato il punto più alto della goliardia nel manifestare la sua vocazione politica e trasgressiva”.
Ed eccolo ancora nell’estate dello scorso anno sul palco della Versiliana alla Congrega dei Goliardi, come se il tempo fosse passato invano e il movimento studentesco fosse relegato nel modernariato della storia contemporanea.
Nostalgici “amici miei” che si riuniscono al motto di “gaudeamus igitur”? Di certo se la goliardia non ė finita allora si può certificare l’esistenza in vita di suoi elementi quali popolaresco e taverna, umorismo e dissacrazione, nonsenso ed erotismo, allusione e parodia.
Per non dire poi della satira politica insita in alcuni canti dei goliardici “clerici vagantes”, con motivi antigerarchici e anticuriali e di disobbedienza civile sui quali forse non si è abbastanza riflettuto a causa dell’anatema verso la goliardia più “cameratesca”.
Dal canto suo, l’Arbore jazzista ha tentato di trasferirne la leggerezza in diverse riproposizioni di sincopati, classici e swing d’epoca, in maniera peraltro più soft rispetto a quella pop degli Squallor del compianto Alfredo Cerruti e di altri gruppi. Roberto Brivio, membro de I Gufi, nel prefare “I canti goliardici” curati da Alfredo Castelli come supplemento al n. 53 di “La Mezzora”, citava sia Jannacci sia Cochi e Renato come musicisti che si rifacevano talora al repertorio goliardico.

Per trovare più precisi punti di contatto fra jazz e goliardia occorre guardare al modello musicale per eccellenza, a livello di poesia/musica goliardica, ovvero i “Carmina Burana” di Carl Orff. Il musicista tedesco adattò vari canti, raccolti a metà 800, in un’omonima opera lirica in tre episodi nel 1935/36, rappresentata l’anno dopo a Francoforte e alla Scala di Milano nel 1952,  dopo che nel 1949 Luisa Vertova ne aveva pubblicato una prima traduzione italiana.

Una musica di “grande chiarezza tonale e incisività ritmica, ottenuta col mezzo tecnico dell’ostinato” come nel canto “O Fortuna” (Fortuna Imperatrix Mundi), affiancato a quello di influenti riff tipo “Stratus” di Billy Cobham pubblicato nel disco Spectrum del 1973: “nel XX secolo l’ostinazione, quasi l’ossessione industrial-meccanica della reiterazione” si è diffusa anche in musica (www.carlopasceri.it).
Un successo, quello di “O Fortuna”, al pari di riff rock famosi alla “Satisfaction” degli Stones, capace di penetrare vari canali di ricezione auditiva, guadagnare ascolto in ampi strati di pubblico e “contaminarsi” con altri generi.
Non saranno un caso allora progetti del genere “Carmina Burana. La classica incontra… il jazz”, come l’anno scorso a Pforzheim dove coro e cantanti sono stati accompagnati da un gruppo di cinque percussionisti e dal sassofonista jazz Matthias Anton. Ancora in Germania, al Thalia Kino di Berlino, è stata fatta un’altra operazione interessante con la sonorizzazione live, a cura del trio jazz Neuzeit, del film di Jean-Pierre Ponnelle “Carmina Burana ” del 1975 (www.urbanite.net e su YouTube cfr. Carmina Variations, sub voce).
L’incisività ritmica compressa in alcuni canti è stata estratta da Tullio De Piscopo che con la batteria ha creato un particolare tappeto percussivo ai “Carmina Burana”, come documentato nelle esecuzioni di “Buran / Fortune Empress of the World” nei due distinti album “Bona Jurnata” (Capriccio, 2007), “Questa è la storia” (Edel, 2010, 2 cd) e su YouTube.
Ed è reperibile su dvd “Carmina Burana. Live” del 2004 con il batterista e percussionista ravennate Armando Bertozzi che una decina d’anni fa ha allestito la medesima cantata scenica orffiana in chiave jazz in un “inedito connubio”, con coreografie di Luc Bouy e pittori sul palco, uno spettacolo “che incrementa il già alto calore emotivo dell’opera” (Zètema).
Ancora. Ha ripreso antichi “Carmina Burana” il sassofonista Daniele Sepe nel progetto “Kronomakia – la battaglia del tempo”, del 2017, fusione fra jazz, musica medievale, araba, funk, folk del nord Europa con formazione allargata a Rote Jazz Fraction e Ensemble Micrologus.
I “Carmina Burana” danno un’idea di medioevo pagana, ben differente da quella spirituale e solenne che ha ispirato Jan Garbarek e l’Hilliard Ensemble in parti di “Officium”(ECM), album da oltre un milione di copie! E sacrale era Hildegard of Bingen, artista a cui si sono rifatti il pianista Stefano Battaglia e il clarinettista Mirco Mariottini in un brano del cd “Music for Clarinets and Piano”, edito da Caligola nel 2019.
Ma torniamo al punto del sarcasmo nel mondo del jazz.
Storicamente jazz e goliardia hanno avuto diverse occasioni di incontro; a Bologna esisteva un Circolo Goliardico del Jazz e la Dr. Dixie Jazz Band di Nardo Giardina veniva fondata nel 1952 come Superior Magistratus Ragtime Band, adottando una tipica nomenclatura goliardica. Il jazz allora era visto come una forma di bonaria eresia rispetto alla musica dominante (cfr. cittadellamusica.comune.bologna.it).

Non si deve però pensare al jazzista come a un goliarda puro – per contro esistono esempi di attenzione goliardica verso il jazz come lo “Spiritual” (Dio del cielo etc.) il cui testo è riportato nel volume di Umberto Volpini “La goliardia” edito da Simone nel 1994 – pur se comunque sopravvivono nell’ambiente jazz pezzi di spirito goliardico come sparsi da un folletto che appare e scompare per fomentare situazioni che assemblano follia e nichilismo, jazz irridens e jazz ridens.

Un certo gusto beffardo si insinua in una fetta della musica improvvisata europea; musicisti come Sergey Kuryokhin e gruppi come il Kollektief di Willem Breuker, olandese come Han Bennink, per certi versi riesumando l’allegria del New Orleans e del Dixieland, hanno sovvertito l’idea canonica di concerto jazz, rendendo protagonista il paradosso, l’absurde, non sappiamo quanto definibile goliardico. A proposito di ridens, ci sarebbe di che discettare sulle ingiuste critiche alla ammiccante cordialità che rese popolare Louis Armstrong, ambasciatore del jazz nel mondo. Satchmo è l’emblema di un artista che fece il proprio mestiere in modo aperto e frontale ed a lui viene oggi riconosciuto un ruolo di rilievo nell’affermazione dell’identità neroamericana.

Tornando agli italiani che hanno ostentato in qualche modo un animus “post-goliardico”, oltre al vintage Arbore, si potrebbe pensare a Bollani, per la spigliatezza inventiva, od alla musica frizzante di Mauro Ottolini, od anche a Carlo Actis Dato ed a quegli altri musicisti “creativi” che sanno fare musica estrosa e spettacolare.
Ma, per quanto ci si sforzi nel trovare agganci e addentellati, la verve discola dei “cantores Goliae” pare in via di esaurimento, fors’anche per colpa dei tempi che non incoraggiano il buonumore. Sulla sua scia si sono ritagliati uno spazio performer di varie nazionalità, inquieti come quei giramondo di “les vagants” che scorrazzavano fra università e abbazie francesi, tedesche, inglesi, italiane diffondendo musica profana nel vecchio continente. Diceva un abate dell’epoca che “percorrono il mondo intero”, come i jazzisti in tour, aggiungiamo oggi. Ma era prima che venisse scoperta l’America!

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Amedeo Furfaro

Se n’è andato Gianni Lenoci

Un altro grande del jazz italiano se n’è andato: Gianni Lenoci è scomparso a 56 anni, la sera del 30 settembre.

Originario di Monopoli, in Puglia era considerato una sorta di orgoglio locale, un personaggio di cui andare fieri… e non solo come artista ma forse anche, e soprattutto, come uomo. Non a caso sui social si leggono frasi del tipo “una persona eccezionale, un amico speciale, un musicista strepitoso, un collega insostituibile”, e proprio oggi su Facebook è possibile leggere un ricordo davvero commovente vergato da Francesco Cusa, altro valente jazzista.

Il fatto è che Gianni Lenoci sapeva davvero conquistare chi a lui si avvicinava grazie ad un carattere deciso ma allo stesso tempo dolce e privo di astrusità. Ma era il coté artistico che l’aveva portato alla ribalta internazionale, ottenendo la stima e la fiducia di pubblico e critica.

Diplomato in pianoforte presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma e in Musica elettronica presso il Conservatorio “N. Piccinni” di Bari, Lenoci ha studiato jazz ed improvvisazione con Mal Waldron e Paul Bley. Forte di questo bagaglio, si è affacciato sulle scene jazzistiche già nei primi anni ’90, collaborando con alcuni artisti di assoluto livello internazionale come Enrico Rava, Steve Grossman, Harold Land, Carlo Actis Dato, Antonello Salis, Glenn Ferris, Han Bennink, Kent Carter, John Tchicai, David Murray, Roscoe Mitchell, Evan Parker… tra gli altri.

Alla musica ‘attiva’ sul campo affiancava l’attività didattica esercitata nei corsi jazz del conservatorio Nino Rota della sua Monopoli, e i suoi ex studenti lo ricordano oggi con tanto, tanto affetto.

Dal punto di vista artistico, Lenoci si è caratterizzato da un canto per la grande capacità improvvisativa declinata attraverso composizioni originali sempre indirizzate verso una sperimentazione mai fine a sé stessa, dall’altro per l’estremo scrupolo con cui studiava ed eseguiva le composizioni altrui, che quando venivano da lui interpretate nulla perdevano dell’originario fascino. In particolare, Lenoci si è dedicato alla rilettura delle pagine di Morton Feldman, Earle Brown, Sylvano Bussotti, John Cage (su questo stesso blog ricordo la recensione dell’album “One – John Cage Piano Music” – Silta Classics SC002) oltre all’opera completa per strumento e tastiera di John Sebastian Bach. Il tutto impreziosito da un tocco sempre al servizio della scrittura, con una attenzione particolare ad ogni minimo dettaglio sia timbrico sia dinamico e con un linguaggio che cercava di essere fedele alle intenzioni del compositore.

Insomma un artista e un uomo straordinario!

Gerlando Gatto

 Cosa potrebbe accadere

Tra composizione e improvvisazione, groove e jazz-rock d’assalto il nuovo disco di Marraffa, Papajanni e Di Giacinto. Lo pubblica la berlinese Aut Records, ospiti Fabrizio Puglisi, Stefano De Bonis e Valeria Sturba
CASINO DI TERRA
COSA POTREBBE ACCADERE
Aut Records
8 tracce – 46′. 17”
“Rispetto ad altri miei progetti, Casino di Terra si contraddistingue per l’esplorazione di sonorità più affini al rock, senza però negare la continuità con l’approccio che ho cercato di sviluppare negli anni, basato sulla sperimentazione di pratiche compositive orientate all’improvvisazione. La contaminazione con espressioni musicali in cui è presente una componente ritmica più legata al groove, d’altra parte, è una costante nelle vicende del jazz e della musica improvvisata – basti pensare a Ornette Coleman. Il sound che contraddistingue la band è quindi un terreno di ulteriore sperimentazione, in cui cerco di dare alla mia ricerca uno sbocco coerente”.
Una presentazione avvincente, quella di Edoardo Marraffa, che illustra le caratteristiche del trio Casino di Terra. Un manifesto programmatico e artistico dal quale emergono gli elementi più rappresentativi di un progetto unico nel suo genere: jazz e groove, rock e improvvisazione, sperimentazione e ricercaricordando maestri come Ornette Coleman. Il nuovo album Cosa potrebbe accadere (Aut Records) è la dimostrazione lampante di un percorso fuori dalle classificazioni, alla continua ricerca di nuovi orizzonti.
Sassofonista e compositore, esponente di spicco della musica improvvisata in Italia, Edoardo Marraffa lavora dal 1993 sul suono del sassofono, in particolare il tenore, esplorando i confini del suo potenziale espressivo. Figura spesso nella programmazione di tanti festival europei e internazionali e ha suonato con giganti quali Tristan Honsinger, William Parker, Hamid Drake, Han Bennink, Wadada Leo Smith, realizzando più di venti album tra collaborazioni con altri artisti e progetti originali (l’ultimo è Diciotto, uscito nel 2018). Un tassello significativo di questo percorso è Casino di Terra, fondato con Sergio Papajanni e Gaetano Di Giacinto, artefice di un disco d’esordio nel 2015 intitolato Ori. Con l’arrivo di Valeria Sturba Casino di Terra diventa un quartetto e nel 2019 pubblica il secondo album con la indie-label berlinese Aut Records.
Dichiara Marraffa: “Ho esplorato a lungo le possibilità del sassofono, spesso illudendomi di aver inventato qualcosa di veramente nuovo, per poi accorgermi che non era vero. Ma ho l’intenzione di insistere per sempre. Mi diverto così. Casino di Terra nasce come trio, è stato questo il “formato” da cui siamo partiti nel concepire Cosa potrebbe accadere. La collaborazione con una musicista straordinariamente versatile e incline alla sperimentazione come Valeria Sturba ha rappresentato l’occasione per ampliare l’organico ad un nuovo elemento, nell’idea di conferire al sound della band una varietà timbrica più ampia e di aggiungere nuovi livelli di interplay tra i musicisti”. Come accaduto in Ori, ma con un’attenzione maggiore agli elementi del groove e all’impatto ritmico, Casino di Terra immagina un jazz-rock diretto, esplicito, nel quale trovano spazio anche colori, timbri e soluzioni all’insegna della varietà, come l’Arp Odissey di Fabrizio Puglisi e il Fender Rhodes di Stefano De Bonis.

Il nome della band – Casino di Terra è una località della Val di Cecina – allude a un’organizzazione razionale e terrena della materia sonora, nella quale il fulcro è l’improvvisazione, una pratica sistematica alla quale Marraffa dedica la sua vita musicale da anni, in costante dialogo con la composizione. “Gli otto brani di Cosa potrebbe accadere sono tutti composti. Non ci sono – qui e nella produzione di Casino di Terra in generale – dei pezzi totalmente improvvisati. L’improvvisazione viene spesso vista come contrapposta o addirittura antitetica alla composizione. Si tratta di una dicotomia fuorviante, legata al concetto molto recente (e tutto occidentale) di composizione come realizzazione di un prodotto “definitivo” che può al massimo essere “interpretato” da un esecutore diverso dall’autore. Se però si guarda alle pratiche musicali che caratterizzano le tradizioni musicali popolari in buona parte del mondo, ci si rende conto immediatamente di come, accanto alla trasmissione orale, l’improvvisazione sia un altro elemento che ritorna costantemente. Intendere l’improvvisazione come pratica sistematica vuol dire certamente spingersi sul terreno dell’improvvisazione totale – da sempre presente nel mio percorso – ma anche esplorare la dialettica tra composizione e improvvisazione – una dialettica in cui la composizione “apre” all’improvvisazione e l’improvvisazione si presenta come una forma di “composizione istantanea”.

Cosa potrebbe accadere:
1. Cosa potrebbe accadere
2. Orlando
3. Fantasmi di Nadia
4. Golden Square
5. Red Carpet
6. Belka
7. Ma te ne sai di più
8. La gran follia
Edoardo Marraffa: tenor sax
Sergio Papajanni: bass
Gaetano Di Giacinto: drums
Featuring:
Fabrizio Puglisi: Arp Odissey 1 & 8
Valeria Sturba: electric violin  2 & 4
Stefano De Bonis: Fender Rhodes 7
Edoardo Marraffa:
Aut Records:
Synpress44 Ufficio stampa:

Centrato omaggio di Riccardo Fassi all’arte di Herbie Nichols

Un centenario passato sotto silenzio, quello del pianista-compositore afroamericano Herbie Nichols nato nel 1919 e scomparso nel 1963, quarantaquattrenne, a causa di una leucemia. Il suo amico ed allievo Roswell Rudd, trombonista, sosteneva che a favorire, se non a causare, la morte di Nichols fosse stata anche la profonda frustrazione di un artista eccelso, all’avanguardia, che non riusciva a vivere della propria musica ma sopravviveva facendo il sideman in gruppi dixieland oppure suonando in locali scadenti. Lo raccontava già A.B. Spellman nel 1966, nel suo bel libro “Four Jazz Lives” (tradotto in italiano nel 2013, da minimum fax).

Ci volle la lungimiranza del produttore Alfred Lion a portare nel 1955-’56 Nichols in sala di incisione per uno dei suoi pochi album, in trio. In realtà il songbook del pianista contava circa centosettanta composizioni (svariate con liriche di suo pugno) e Rudd – tra i più esperti in materia – ne conosceva una settantina. Un centinaio di lavori sono, quindi, andati persi ma una parte significativa del repertorio nicholsiano resta nelle incisioni Blue Note e Bethelem, più altri inediti che man mano vengono proposti. Tanti e significativi jazzisti, americani ed europei, hanno infatti valorizzato nel tempo una musica di sorprendente attualità: Steve Lacy, Rudd, la ICP con Misha Mengelberg ed Han Bennink, Buell Neidlinger, Simon Nabatov tra gli altri.

Di grande spessore appare, quindi, la serata “Herbie Nichols 100” che la romana Casa del Jazz, per iniziativa del direttore Luciano Linzi, ha organizzato venerdì 17 maggio scorso, serata che ha visto una breve introduzione storico-biografica sul musicista newyorkese di chi scrive seguita da un ottimo concerto del Riccardo Fassi Quintet. Come ha spiegato il leader-pianista, il “testimone” del repertorio di Herbie Nichols gli è stato direttamente passato da due musicisti: il pianista e didatta inglese Martin Joseph, che nelle sue lezioni di storia del jazz alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio gli dedicava particolare attenzione; il trombonista Roswell Rudd che, in occasione del disco “Double Exposure” (Wide, 2009, Fassi 4tet con Rudd, Paolino Dalla Porta e Massimo Manzi), gli regalò partiture inedite che aveva ricevuto direttamente dal padre di Nichols.  In realtà il concerto romano ha avuto una doppia valenza: la realizzazione in quintetto con due fiati (Torquato Sdrucia, Carlo Conti; Steve Cantarano al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, tutti eccellenti come il pianista-leader) che ha dato spessore e ricchezza a brani eseguiti dall’autore solo in trio, anche se pensati per organici più ampli; l’esecuzione di una serie di inediti di notevole bellezza e visionarietà. Unico appunto alla serata la mancanza nel pubblico degli studenti di musica di scuole e conservatori che avrebbero potuto ascoltare dal vivo un repertorio pregevole e modernissimo, che secondo A.B.Spellman – se debitamente promosso – avrebbe potuto costituire un’alternativa (a livello di estetica) a quello di Bud Powell e John Lewis negli anni ’50.

La scaletta del concerto ha, in effetti, montato con sagacia composizioni note ed inedite, ampliandone la tavolozza timbrica ed esaltandone la dinamica, sottolineando la forte e caratterizzante componente ritmica di Nichols; apprezzato da Mary Lou Williams, il pianista aveva studiato attentamente la musica di Monk ma la propria aveva radici e riferimenti amplissimi (Bartok, Prokofiev, Hindemith, la musica caraibica ed una conoscenza enciclopedica del jazz, dal ragtime all’hard-bop). Si sono ascoltati “Third World” dalle armonie molto moderne, con un bel solo di piano, uno scambio (Four) tra batteria e pianoforte ed un assolo al tenore di Carlo Conti che ha esaltato gli aspetti coltraniani (prima di Coltrane) insiti nel brano; “Cro-magnon Nights” dalla particolare linea melodico-ritmica, con colori quasi mingusiani; “Shuffle Montgomery” dal tema suadente, impreziosita da un arioso assolo di piano e da un efficace solo di baritono (Sdrucia); “The Happening” che sfrutta un tempo di marcia; la poco conosciuta “Ina” che per le sue armonie sembra uscita dalla penna di Wayne Shorter; la ballad inedita – e magistrale – “I Never Loved or Cared With Love”; l’asimmetrica e monkiana “Double Exposure”; un altro inedito basato su una scala della musica classica indiana, “Carnacagi”: nulla sfuggiva alla colta e onnivora curiosità di Herbie Nichols. Il concerto si è concluso con il brano più noto dello sfortunato pianista: “Lady Sings The Blues”, un omaggio-ritratto a Billie Holiday di cui scrisse anche le parole.

A volte – come scrisse il critico letterario, saggista e romanziere Giacomo Debenedetti – progetto e destino non coincidono.

Luigi Onori