Gli Snarky Puppy al di là di ogni genere

 

Neanche l’atteso ottavo di finale tra Russia e Croazia ai campionati mondiali di calcio ha impedito ai fan degli Snarky Puppy di accorrere all’Auditorium Parco della Musica di Roma per assistere al concerto di una delle più interessanti formazioni apparse negli ultimi anni. Abbiamo scritto “una delle più interessanti formazioni apparse negli ultimi anni” e non “una delle più interessanti formazioni apparse nel mondo del jazz negli ultimi anni” per correttezza intellettuale.
In realtà gli Snarky Puppy sono una band del tutto atipica, per questo, quando si parla di loro, occorre scegliere bene i termini e accettare il fatto che con loro le categorie musicali generalmente utilizzate per definire la musica sono del tutto inutili.
Sotto certi versi gli Snarky Puppy ci hanno fatto venire in mente il pianeta Solaris descritto dallo scrittore polacco Stanislaw Lew e portato sugli schermi dal regista russo Andreij Tarkovskij (sul remake con George Clooney stendiamo un velo pietoso…). Come Solaris, gli Snarky Puppy sono una formazione in continua evoluzione, mai uguale a se stessa, estremamente cangiante nelle scelte musicali, ma capace di dare vita ai tuoi desideri più reconditi ed inespressi. Tanto per dare un’idea della difficoltà di catalogazione, nel 2014 il gruppo guidato dal bassista Michael League ha ottenuto con Something il Grammy Award come migliore performance rhythm’n’blues. Nel 2015 i lettori di Down Beat hanno eletto gli Snarky Puppy il Jazz Group of the Year mentre nel 2016 e 2017, rispettivamente, con Sylvia e Culcha Vulcha hanno ottenuto un Grammy come Best Contemporary Instrumental Album. Come se ciò non fosse sufficiente League ha trovato anche la maniera di produrre gli ultimi due album di David Crosby, Lighthouse e Sky Trail, regalando una seconda giovinezza al vecchio gigante della West Coast.

Non chiedeteci che genere suonano gli Snarky Puppy perché non sapremmo cosa rispondere. Li suonano tutti e tutti insieme, ma contemporaneamente non ne suonano nessuno. In questo operano una fusione tra generi, ma guai a definirli fusion. Immaginate la band come un enorme shaker musicale dove gli ingredienti sono miscelati in dosi diverse. Ad agitare il tutto è una possente sezione ritmica, con le batterie a dialogare sempre tra loro, il basso elettrico a tenere groove, spesso doppiati dalla mano sinistra di una tastiera. Al di sopra degli strati ritmici creati emergono improvvisamente assoli di chitarra elettrica, oppure è la sezione fiati che disegna linee soul, funk jazz, rock, giungendo anche a ricordare gli inni del Philadelphia sound.
Anche a livello di formazione il gruppo di Brooklyn (anche se formato a Dallas, Texas) non ha un assetto tipo. Sono infatti una trentina i musicisti che ne fanno parte, a rotazione. Come più volte ha affermato League, riferendosi agli Snarky Puppy, è più giusto pensare al concetto di una famiglia i cui componenti si frequentano, ma non necessariamente si vedono sempre tutti insieme. Per ogni strumento ci sono tre o quattro musicisti disponibili. I chitarristi sono tre, cinque i tastieristi, quattro i batteristi, sei i musicisti ai fiati. Anche la fase di composizione dei brani è molto originale. Chiunque può proporre una sua composizione che viene poi provata assieme. Nel corso di questa fase ogni musicista può portare cambiamenti o avanzare i suoi suggerimenti. Il brano viene eseguito sino a quando non viene trovata la giusta alchimia frutto del lavoro di squadra.

A Roma gli Snarky Puppy si sono presentati in nove, con una formazione composta da due batterie, un basso elettrico, una chitarra elettrica, due fiati, una tromba e un sax tenore (a volte tre quando un tastierista lasciava il suo strumento e si aggiungeva alla sezione), tre tastiere. Un groove di basso di League ha dato il via a un concerto, purtroppo non impeccabile dal punto di vista sonoro. Spesso si sono udite distorsioni sui fiati, che sono un elemento fondamentale nel suono della band e il volume, generalmente troppo elevato, ha penalizzato la musica invece che esaltarla. Di solito questi problemi si risolvono dopo un paio di brani, ma purtroppo stavolta i fonici non sono riusciti a rimediare. Il rimpianto di non aver potuto ascoltare la musica degli Snarky Puppy al 100% delle sue possibilità è stato ben presto superato dall’entusiasmante prestazione del gruppo. Già al secondo brano, un lento con una parte di fiati alla Sketches of Spain, incastonato su una ritmica funk, ha indotto il pubblico all’applauso ritmico e ad accompagnare, cantando, i temi della band. Non ci era mai accaduto ascoltare la platea intonare dei temi strumentali. Kite, tratto da We Like It Here, è stato accolto da un’ovazione e così tutti i successivi brani proposti dal gruppo. L’entusiasmo del pubblico, in genere molto giovane, è stato autentico e trascinante. Nel corso della serata che è stata essenzialmente improntata al funk (perdonerete la semplificazione giornalistica) abbiamo provato ad analizzare le componenti del gruppo, così come al ristorante si cerca di individuare la ricetta o l’ingrediente segreto di un piatto che ci sta piacendo particolarmente. La base, come detto prima, è la ritmica, con le due batterie a portare i primi mattoni nella costruzione dei brani e il basso elettrico a iniziare l’innalzamenti del muro della struttura portante. Le tre tastiere avevano (perdonate ancora la banalizzazione) compiti ben precisi. La prima era essenzialmente ritmica e spesso doppiava le linee di basso di League. La seconda aveva un suono molto tagliente, anni Settanta, alla Chick Corea del periodo Return to Forever, mentre la terza (probabilmente un Hammond C-3) aveva una funzione più soul e groovy.  La chitarra elettrica era essenzialmente rock, mentre la sezione fiati (che meraviglia, l’avremmo voluta più ampia) agiva quasi come solista e aveva il compito di eseguire linee melodiche fossero esse improvvisazioni jazz o stacchi funk. Ogni volta che la sezione entrava in azione, le sue linee risultavano sorprendenti e capaci di trasformare il mood del brano, vuoi per la bellezza dei temi proposti vuoi per l’inatteso contrasto apportato rispetto alla generale dinamica del brano. In una intervista League ha spiegato di essere cresciuto ascoltando tantissimo pop, soul, rhythm’n’blues. La scuola jazz che ha frequentato gli ha insegnato le basi della teoria musicale, rendendolo capace di comporre musica con sensibilità pop, sebbene dotata di profondità. League non ha mai voluto essere il nuovo grande musicista jazz ma piuttosto essere un musicista che scrive musica unica, risultato della combinazione dei generi che ama. Da quanto abbiamo potuto ascoltare nel corso del concerto, League ha decisamente realizzato il suo obiettivo.

 

 

Marco Giorgi

www.red-ki.com

 

I NOSTRI CD. Tanta buona musica da ascoltare in vacanza

Aca Seca Trio – “Trino” – Sud 019

Sotto l’insegna di “Aca Trio” ecco tre straordinari musicisti argentini: Juan Quintero (chitarra, voce), Andrés Beeuwsaert (piano, tastiere, voce) e Mariano Cantero (batteria, percussioni, voce). I tre suonano assieme da quando nel 1998 si incontrarono all’Università de La Plata. Dal 2000 iniziano ad esibirsi in varie località dell’Argentina e del Brasile, ma anche in Cile, Cina, Ecuador, Spagna, Stati Uniti, Francia, Giappone, Italia, Uruguay e Venezuela, dividendo la scena con importanti artisti quali, a mo’ di esempio, Pedro Aznar, Ivan Lins e Javier Malosetti. I loro successi di carattere internazionale si devono, soprattutto, ad alcune caratteristiche ben precise: innanzitutto la valenza di tutti e tre i musicisti, in secondo luogo la felicissima scelta del repertorio. In effetti oggi quando si parla di musica argentina si pensa immediatamente al tango, senza considerare che viceversa nel grande Paese sudamericano ci sono ben altre musiche. Ed è proprio a questo immenso patrimonio che si rivolge il Trio Aca Seca; ma non basta ché la loro musica spazia anche al di fuori dell’Argentina passando attraverso il Brasile e l’Uruguay, ovvero il jazz, la bossa nova, il folklore più autentico Il risultato è un repertorio molto vasto e di grande fascino che è stato sufficientemente declinato nei precedenti album e che trova, in quest’ultimo “Trino”, probabilmente la sua migliore espressione. Dieci brani che confermano appieno l’originale cifra stilistica del trio che evidenzia una perfetta empatia ovvero la capacità di ogni singolo musicista di ascoltare chi gli sta accanto e soprattutto di saper sviluppare qualsivoglia impulso ritmico, melodico, armonico che gli venga fornito. Una musica alle volte dal sapore antico declinata però con modernità grazie, soprattutto, all’incredibile sostegno ritmico di Mariano Cantero, probabilmente la punta di diamante della formazione. Tra i brani, tutti gradevoli, la nostra personalissima preferenza va a “Formas” dell’uruguaiano Hugo Fattoruso, riletto in modo assai personale.

Julian Cannonball Adderley – “Them Dirty Blues” – Jazz Images 24738

Siamo tra gli anni ’50 e ’60 e Julian Cannonball Adderley attraversa uno dei periodi più felici della sua vita artistica: ha appena inciso “Milestones” e lo storico “Kind of Blue” nel super gruppo di Miles Davis regalando alla storia del jazz il memorabile assolo di “So What”; contemporaneamente incrementa la sua attività di band leader costituendo gruppi di assoluta eccellenza. L’album in oggetto testimonia proprio questa attività di leader facendoci riascoltare l’alto sassofonista alla testa di due differenti gruppi: il primo con il fratello Nat alla cornetta, Barry Harris o Bobby Timmons al pianoforte, Sam Jones al contrabbasso e Louis Hayes alla batteria, il secondo con Wynton Kelly al piano, Paul Chambers o Percy Heath al basso, Jimmy Cobb o Albert Heath alla batteria. E già questa semplice elencazione di nomi credo la dica lunga su che tipo di musica si ascolta. Siamo nell’ambito di un jazz che più canonico non si può, impreziosito sia dalla bellezza dei temi sia dalla bravura di ogni singolo musicista, con il leader in testa capace di inanellare una serie di splendidi assolo, uno più convincente dell’altro, sempre sorretti da una estrema fluidità, da un suono allo stesso tempo leggero ed energico, di assoluta originalità che poneva Cannonball su un piano già diverso rispetto ai sassofonisti che avevano dato vita alla rivoluzione del bop. Quanto al repertorio ecco alcune perle oramai considerate classici del jazz: intendo riferirmi soprattutto a “Work Song” di Nat Adderley e “Dat Dere” di Bobby Timmons, pianista che nello stesso periodo stava ottenendo uno strepitoso successo con il brano “Moanin” inciso con i Jazz Messengers di Art Blakey. Ma è tutto l’album che si ascolta con estremo piacere; tra gli altri brani in programma una particolarissima menzione per “Serenata” il suggestivo brano scritto da Leroy Anderson che ebbe l’onore di essere eseguito in prima assoluta il 10 maggio del 1947 dalla Boston Pops Orchestra diretta da Arthur Fiedler.

Chico Buarque – “Caravanas” – Biscoito Fino 248

E siamo a quota quarantotto: tanti sono gli album inciso da Chico Buarque nell’arco di una lunga e prestigiosa carriera che lo ha visto spesso in prima linea anche dal punto di vista sociale e politico. All’età di 73 anni sfodera questo “Caravanas” che si impone immediatamente per la delicatezza con cui il cantautore brasiliano presenta la sua musica anche quando, come suo solito, affronta tematiche non proprio semplici. E’, ad esempio, il caso della title track in cui la “caravana” è costituita dai molti giovani neri che, a bordo di autobus ricolmi, si riversano nelle zone della classe media a Rio de Janeiro; splendida la musica, significativo il testo impreziosito da una frase – “Filha do medo a raiva é mãe da covardia”, “figlia della paura, la rabbia è la madre della codardia” che ci fornisce un’iea abbastanza precisa di quale sia il clima che si respira oggi in Brasile. Ma è tutto l’album intriso di riferimenti al sociale: così nella parte finale di “Dueto”, canzone già registrata nel 1980 da Chico Buarque con Nara Leão, e qui eseguita con la nipote Clara con un nuovo arrangiamento più vicino al jazz, viene inserito un esplicito riferimento alle varie app su cui si costruiscono i nuovi amori, da Tinder a Whatsapp fino a Telegram; ancora in “Jogo de bola” il gioco del calcio, da sempre passione di Chico, viene evocato come metafora per invitare il mondo ad una maggiore concordia mentre in “Blues pra Bia” viene trattato quasi in punta di piedi, con grande delicatezza, l’amore omosessuale. Ma, se tutto questo concerne i testi, ciò non significa che la musica passi in secondo piano. Buarque rimane un grandissimo musicista e la sua voce, in unicum con la chitarra, riesce ad essere sempre moderna, attuale, per non parlare della raffinatezza insita in taluni arrangiamenti come quello di
“A Moça do Sonho”, composto a quattro mani con Edu Lobo, in cui la scena è lasciata a una chitarra classica e a qualche contrappunto di violoncello sì da lasciare campo libero al canto ispirato di Buarque. Ciò detto resta comunque un appunto da muovere all’album: è troppo breve e lascia l’ascoltatore come insoddisfatto, desideroso di qualcos’altro che purtroppo non arriva…. Ma forse è meglio questa brevità che l’insulso sbrodolarsi di chi ha poco o nulla da dire.

Francesco Cafiso Nonet – “We Play For Tips” – EFLAT

Quello del rapporto tra musicisti e case discografiche è un problema che va assumendo toni sempre più preoccupanti: da un canto i jazzisti lamentano il fatto che incidere un disco viene a costare troppo, dall’altro le case discografiche rispondono che oramai i dischi non si vendono. Insomma un bel ginepraio che non escludiamo di approfondire prossimamente. Intanto, tornando all’attualità alcuni musicisti preferiscono creare una propria etichetta indipendente: è il caso del sassofonista siciliano Francesco Cafiso che ha creato una propria etichetta, la “E FLAT”. Questo “We play for tips” (distribuito da Egea Music) ne è la prima realizzazione e se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino allora è facile prevedere per la nuova arrivata un futuro più che roseo.
Cafiso si presenta alla testa della sua nuova formazione, un nonetto completato da Marco Ferri sax tenore, clarinetto; Sebastiano Ragusa sax baritono, clarinetto basso; Francesco Lento e Alessandro Presti tromba, flicorno; Humberto Amésquita trombone; Mauro Schiavone pianoforte; Pietro Ciancaglini contrabbasso; Adam Pache batteria. In programma dieci composizioni dello stesso Cafiso registrate live nel giugno del 2017 durante il Vittoria Jazz Festival di cui Cafiso è direttore artistico. Come afferma lo stesso sassofonista nelle note che accompagnano l’album, questo CD rappresenta un’estensione del precedente album “20 Cents Per Note” (2015) e racconta alcune delle esperienze vissute tra cui un viaggio di un mese a New Orleans. In effetti il titolo del disco fa riferimento alla scritta che i musicisti di strada di New Orleans portavano sul loro cappello per chiedere la mancia. Insomma la musica che si ascolta è fortemente ancorata al jazz nella sua accezione più completa del termine, quindi, swing, blues, arrangiamento, improvvisazione. Non a caso due brani – “Blo-Wyn’” e “Pops’ Character” – sono dedicati rispettivamente a Wynton Marsalis (artista legato a Cafiso da una profonda amicizia) e Louis Armstrong. Insomma una vera manna per chi ama un certo tipo di jazz lontano dagli sperimentalismi ma non per questo banale, tutt’altro! Si ascolti con quanta perizia tutti i musicisti eseguano i loro assolo e si apprezzi la qualità degli arrangiamenti curati da Cafiso e Schiavone che fanno suonare il nonetto come una vera e propria big band memori delle lezioni di alcuni grandi del passato.

Emanuele Cisi – “No Eyes” – Warner Music

Come recita il sottotitolo “Looking at Lester Young” l’album è un omaggio che il sassofonista italiano ha voluto tributare ad uno dei grandi geni del jazz, Lester Young.
Ad accompagnarlo in questa non facile impresa il pianista e trombettista Dino Rubino, il contrabbassista Rosario Bonaccorso, il batterista Greg Hutchinson e la vocalist Roberta Gambarini. Il repertorio si articola su undici brani di cui tre a firma di Cisi e otto tratti dal grande songbook statunitense. Impresa difficile, si diceva, sia perché Lester è stato artista fondamentale per l’evoluzione del jazz sia perché, assieme a Coleman Hawkins, può a ben ragione essere considerato l’inventore del sax tenore nel jazz; suonava, quindi, lo stesso strumento di Cisi per cui il raffronto è ravvicinato e inevitabile. Fermo restando che l’arte di Young risulta ancora oggi ineguagliabile (né credo che Cisi abbia per un solo attimo pensato di eguagliare il maestro) l’album risulta apprezzabile e per più di un motivo. Innanzitutto il sincero trasporto con cui Cisi ha voluto rendere omaggio a “Prez” evidenziato sia nelle modalità esecutive, sia nel far ricorso prevalentemente a brani o scritti e portati al successo dallo stesso Young o a lui dedicati, sia, infine, nella scelta dei testi tratti liberamente da un poema di David Meltzer. In effetti “No Eyes” ha un triplice significato: nel particolare linguaggio adoperato da Lester significava “non mi interessa”, è il titolo di un celebre blues inciso dal sassofonista nel 1946 ed infine, come accennato, è il titolo di un poema scritto da David Meltzer e ispirato all’ultimo anno di vita di Young che morì a soli 50 anni nel 1959. E crediamo non a caso Cisi abbia scelto di aprire l’album con questo brano da lui composto, particolarmente significativo per i motivi suddetti. Di qui il CD si sviluppa lungo le direttrici dettate dal leader che non si risparmia di certo prendendo significativi assolo in ogni brano sempre sorretto dal pianismo discreto ma essenziale di Rubino (che si esprime benissimo anche al flicorno in “Tickle Toe” e soprattutto in “Jumpin’ With Symphony Sid”) e da una sezione ritmica semplicemente magistrale con un Bonaccorso che sa far cantare il suo strumento come pochi e con un Hutchinson in grado di conferire ad ogni brano una precisa ed originale carica ritmica non disgiunta da una timbrica ricercata (lo si ascolti con quanta e quale dovizia dialoga con il sax di Cisi in “Jumpin’ at the Woodside”). Roberta Gambarini si conferma vocalist di squisita sensibilità ben adatta a tradurre in musica le intuizioni di Cisi il quale con questo album crediamo abbia raggiunto uno dei punti più significativi della sua poetica.

Elina Duni – “Partir” – ECM 2587

Conoscevamo Elina Duni per i due precedenti album incisi sempre per la ECM con il suo quartetto, “Matanë Malit” (Beyond the Mountain), un omaggio musicale al suo Paese natale l’Albania del 2012 e “Dallëndyshe” (The Swallow) del 2015. Per questo terzo album – registrato negli Studios La Buissone nel sud della Francia nel luglio 2017 – la vocalist ha cambiato decisamente strada e si presenta da sola accompagnandosi con il pianoforte, la chitarra e le percussioni. Qui il terreno prettamente jazzistico è abbandonato per approdare su sponde più intimistiche, alla riscoperta di un patrimonio musicale che affonda le sue radici nelle tradizioni di diversi Paesi. Ecco, quindi musica tradizionale dell’Albania, del Kosovo, dell’Armenia, della Macedonia, della Svizzera e dell’Andalusia cui si affiancano brani cantautorali quali “Je ne sais pas” di Jacques Brel, “Meu Amor” di Alain Oulman, “Amara Terra Mia” di Domenico Modugno e un originale della stessa Duni. Insomma un repertorio quanto mai variegato e difficile da eseguire mantenendone una certa omogeneità, tanto più che l’artista lo presenta in nove differenti lingue. Ebbene la Duni è riuscita nell’intento grazie ad alcune doti di fondo che in questa occasione è riuscita ad esprimere appieno: innanzitutto una grande sensibilità musicale che le consente di transitare da un brano all’altro, seppur differenti, con estrema naturalezza senza denotare sforzo alcuno; in secondo luogo un’eccellente preparazione tecnica sia vocale sia strumentale per cui l’interpretazione appare sempre ben calibrata, grazie anche agli arrangiamenti essenziali ma funzionali. Scegliere qualche brano da segnalare in modo particolare è piuttosto difficile, tuttavia vi invitiamo ad ascoltare con particolare attenzione il brano di Modugno in quanto sicuramente lo conoscete e potrete quindi meglio apprezzare la valenza interpretativa della Duni.

Duke Ellington – “Due Ellington meets Coleman Hawkins” – Poll Winners Records 27365

Siamo nei primissimi anni ’60, per l’esattezza nel 1962 e Duke Ellington macina musica straordinaria sia alla testa della sua celebre big band sia a capo di piccole formazioni com’è il caso di questo splendido album. Questa volta a coadiuvare il Duca c’è un quintetto di straordinari musicisti quali Aaron Bell contrabbasso, Harry Carney clarinetto basso e sax baritono, Johnny Hodges sax alto, Ray Nance violino e cornetta,
Sam Woodyard batteria. Tutti insieme incontrano un altro grande del jazz quale il tenorsassofonista Coleman Hawkins per dar vita ad uno splendido album che a ben ragione è stato adesso ristampato con l’aggiunta di cinque bonus tracks registrati da diverse band tra il 1955 e il 1962 in cui il sassofonista si misura con alcuni brani di Ellington inclusa “The Star Crossed Lovers” dalla suite Shakesperiana “Such Sweet Thunder” raramente sentita – come spiega Arnold Marcus nelle note di copertina – nell’interpretazione di Coleman Hawkins Inutile negarlo: ascoltando questi brani, a chi come il sottoscritto ha superato gli ‘anta’ (quali fate un po’ voi) un attacco di nostalgia è inevitabile. Ma è solo un momento ché subito dopo ci si riprende e si ascolta il tutto con la solita attenzione. E alla fine dell’album resta impressa la sensazione di aver ascoltato qualcosa di formidabile. Merito di Coleman Hawkins che ha saputo integrarsi magnificamente nelle atmosfere disegnate da Ellington, ma egualmente merito del Duca che ancora una volta riesce a far suonare i “suoi” musicisti al meglio delle loro possibilità: si ascolti il puntuale sostegno ritmico di Sam Woodyard, si ascolti il sofisticato dialogo tra gli altri due sassofoni partecipanti alla registrazione, Johnny Hodges e Harry Carney. Insomma se ancora non possedete questo album, è il caso che corriate a comprarlo.

Claudio Fasoli Samadhi Quintet – “Haiku Time” – abeat 178

Che Claudio Fasoli sia uomo di vasta cultura, al di là del fatto squisitamente musicale, lo dimostra anche la particolare sensibilità che pone nell’intitolare i suoi album. Così per quest’ultimo ha fatto ricorso al termine giapponese “Haiku” – componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo di particolare brevità – ad indicare lo specifico intendimento di presentare undici brani caratterizzati da estrema sobrietà non solo nella dimensione temporale ma anche nella durata degli assolo e negli stessi titoli. Di qui un comunicare emozioni che risulta diretto, senza orpelli, tutto affidato alla valenza della musica e alla bravura dei musicisti. Questi, grazie alla sapiente scrittura del leader, hanno la possibilità di esprimersi pienamente sia in assolo sia negli episodi d’assieme evidenziando un grado d’affiatamento davvero notevole. D’altro canto la formazione è ben rodata: Michael Gassmann tromba e flicorno, Michelangelo Decorato piano, Andrea Lamacchia contrabbasso e Marco Zanoli batteria li avevamo già incontrati nel precedente album di Fasoli “Inner Sounds” del 2016. La musica, quindi, può dipanarsi facilmente transitando dalle semplici enunciazioni dei brani allo sviluppo degli stessi affidato soprattutto ai due fiati con Decorato impegnato a cucire il tutto, portando ad unità i mille dettagli, le mille sfaccettature contenute nella musica di Fasoli. Ed è questa una sensazione che si coglie evidente sin dalle primissime note dell’album, quando il tema di “Fit” viene introdotto dalla tromba di Gassmann e poi sviluppato dal sax del leader. Ma come si accennava c’è spazio davvero per tutti: si ascolti, ad esempio, con quanta musicalità Andrea Lamacchia fa vibrare il suo strumento nell’assolo di “Bag” mentre la batteria di Zanoli si pone in particolare evidenza nell’introdurre il tema di “Dim”. Dal canto suo Fasoli non si risparmia facendosi apprezzare in ogni singolo brano sia come autore sia come interprete. Ma non scopriamo certo l’acqua calda affermando che Claudio oramai da tempo è da considerare uno dei migliori sassofonisti che il jazz internazionale possa vantare.

Maurizio Giammarco Syncotribe – “So To Speak” – 2plet Records

“Syncotribe” è la formazione varata dal sassofonista Maurizio Giammarco con Luca Mannutza all’organo e Enrico Morello alla batteria e live elctronics. La formula del trio sax, organo, batteria non è certo nuova nell’ambito del jazz internazionale e nazionale: così ricordiamo il trio del sassofonista James Carter con Alex White batteria e Gerard Gibbs organo, mentre, per restare nell’ambito dei nostri confini vanno citate le esperienze di Nevio Zaninotto (sax tenore, soprano) con Renato Chicco (organo Hammond) e Andy Watson (batteria) e dell’altro sassofonista Max Ionata con Luca Mannutza all’organo e Adam Pache alla batteria. Ma Giammarco è musicista troppo intelligente, personale ed inventivo per ripercorrere strade già battute. Ecco quindi una scrittura (i brani sono tutti suoi ad eccezione di “Decoy” di R. Irwing III) che declina il trio nell’ambito di un jazz moderno molto, molto lontano dalle classiche sonorità dell’organ trio solitamente vicine al funky e/o al soul. Ecco quindi il sassofono di Giammarco librarsi con la solita levità e sicurezza a disegnare ampie volute sempre caratterizzate da un sound robusto, asciutto, personale mentre i compagni d’avventura
si rendono essi stessi protagonisti del progetto. Si ascolti con quanta maestria la batteria di Morello dialoga con il sax di Giammarco nel già citato “Decoy” mentre Mannutza dimostra di conoscere appieno le potenzialità dello strumento sia che accompagni sia che si produca in assolo: lo si ascolti, ad esempio, in “Nueva vista”… ma si può ben dire che il suo apporto si avverte distintamente in ogni singolo brano. Un’ultima notazione non secondaria: i tre musicisti che si ascoltano nell’album appartengono a tre diverse generazioni eppure riescono a dialogare con la massima libertà ed empatia a dimostrazione di come davvero il jazz sia un linguaggio universale, che non conosce barriera alcuna.

Simone Graziano – “SnailSpace” – Auand 9073

Periodo decisamente positivo per il pianista fiorentino Simone Graziano che nell’aprile del 2017 ha inciso questo album e il 2 maggio del 2018 è stato eletto presidente del MIDJ, l’Associazione dei Musicisti Italiani di Jazz. Ma veniamo a ciò che maggiormente ci interessa in questa sede, vale a dire l’album. Per questa sua quinta fatica discografica, Simone Graziano (pianoforte, synth e fender rhodes) si ripresenta in trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso e sintetizzatore e Tommy Crane alla batteria. E’ lo stesso leader ad illustrare, nelle poche note di presentazione, il significato del titolo “A passo di lumaca”: non una lentezza in quanto tale ma una concezione secondo cui la lentezza non si riferisce tanto ad uno spazio temporale quanto al tempo necessario per capire dove si vuole andare, per scoprire la propria creatività, per coltivarla e condurla a risultati importanti. Ed in questo senso l’album appare perfettamente coerente: il trio si muove lungo coordinate non nuovissime ma di certo non banali. Intendo riferirmi all’uso intelligente e misurato dell’elettronica, alla ricerca di una timbrica particolare, alla raffinatezza della linea melodica, all’attenzione per i dettagli, alle modalità sempre misurate con cui si esprime la sezione ritmica. Tutte queste caratteristiche si evidenziano lungo tutto l’album (nove brani di cui ben otto a firma del leader) ma trovano forse la loro più completa estrinsecazione in “Aleph 3”: il brano si apre in territorio d’ispirazione hip-hop dopo di che entra in gioco l’elettronica per trasportare il pezzo in territori più arditi grazie anche alla batteria di Tommy Crane; dopo qualche minuto le atmosfere si fanno più rarefatte, quasi un jazz da camera, con in evidenza piano e synth che ci conducono verso un epilogo non scontato.

Pino Jodice – “Infinite Space” – Cose Sonore 18024

Pino Jodice è artista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, di assoluto livello sia che si esprima come pianista, come compositore, come arrangiatore, come direttore d’orchestra o come docente di Composizione jazz presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. In questo ‘concept’ album lo ritroviamo nella classica formazione del trio coadiuvato da Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, con l’aggiunta di Andrea Centrella al live electronics. Una formazione, quindi, di eccellenza su cui non c’è bisogno di ulteriori parole. Di parole ne merita, invece, e tante la musica dell’album, nove brani tutti dovuti alla penna del leader. Il titolo del CD richiama, esplicitamente, una certa visione dell’artista che rivolge il suo sguardo verso l’alto come a volersi distaccare dalle miserie, dalle angosce che affliggono l’esistenza umana. Insomma la musica come una sorta di redenzione ma nello stesso tempo di ricerca: non a caso lo stesso Jodice dedica l’album a Stephen Hawking e Margherita Hack il cui approccio e passione per la ricerca e le relative capacità di divulgazione rappresentano per Jodice un modello da seguire nella ricerca musicale, nella composizione e nella divulgazione di questa materia. Ecco, quindi, che Pino ci prende per mano e partendo dal decollo dell’Apollo 1 ci invita a seguirlo in questo fantastico viaggio. Ora, quando un album parte da un enunciato così esplicito, la musica non sempre riesce ad essere coerente con le parole. Bisogna, in questo caso, dare atto a Jodice di aver saputo declinare la sua ansia di “osservare lo straordinario spettacolo del cosmo” (per usare le sue parole) con una musica che effettivamente richiama questi concetti. Una musica, quindi, di ampio respiro che scorre fluida in tutti e nove i brani, tutti composti dal leader, in cui Jodice evidenzia da un lato la sua sapienza compositiva, mai banale e sempre originale, dall’altro le grandi, grandissime capacità esecutive che a mio avviso lo collocano tra i più grandi pianisti jazz non solo italiani. Il tutto impreziosito dal lavoro di Pirozzi e Pietro Iodice a costituire una delle più affiatate formazioni che il jazz italiano possa vantare, e la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che questi tre musicisti suonano assieme oramai da più di vent’anni. Tutt’altro che marginale, infine, il ruolo di Andrea Centrella.

Reis Demuth Wiltgen – “Once In A Blue Moon” – Cam Jazz7926-2

E’ un trio jazz senza se e senza ma quello che ascoltiamo in questa nuova produzione targata Cam Jazz: Michel Reis al pianoforte, Marc Demuth al contrabbasso e Paul Wiltgen alla batteria si misurano su un terreno usato (e fors’anche abusato) qual è quello del trio pianoforte più sezione ritmica. Di qui da un lato l’impossibilità di attendersi qualcosa di trascendentale dati gli illustri precedenti, dall’altro, però, la possibilità di ben valutare l’artista proprio perché i termini di paragone sono innumerevoli. Ebbene, partendo da questa duplice considerazione, occorre sottolineare come questo trio lussemburghese se la cavi più che bene grazie soprattutto alla bravura di ogni singolo musicista. Reis è pianista ben preparato, che si muove con agilità lungo tutta la tastiera evidenziando una spiccata propensione per la linea melodica senza però disdegnare momenti di più forte incisività come in “Push”. Demuth è batterista musicale e raffinato (si ascolti il suo gioco di spazzole in “22 May 15”) che riesce a dialogare sempre con estrema pertinenza con i colleghi di viaggio mentre Wiltgen è bassista poco appariscente ma solido nel sottolineare i momenti fondamentali del disegno armonico. Il tutto condito da una profonda empatia che lega i tre musicisti e che si respira lungo tutto l’arco del CD declinato su 13 brani di cui 12 originali cui si affianca “Both Sides Now” di Joni Mitchell. E proprio il rifacimento di questo brano rappresenta uno dei momenti clou dell’album: introdotto da un centrato assolo del bassista, cui si affianca dopo quaranta secondi la batteria, il brano viene sviluppato da un intenso dialogo tra contrabbasso e pianoforte, quest’ultimo impegnato in un assolo di rara poesia, tutto giocato su note singole a voler evidenziare la bellezza del tema. Altra esecuzione particolarmente riuscita è quella di “Dante” caratterizzata da un originale andamento ritmico,

Antonio Sanchez – “Bad Hombre” – CamJazz 7919-2

“Channels of Energy” – CamJazz 79922-2

Non si può certo dire che il batterista Antonio Sanchez si risparmi: eccolo infatti protagonista di un singolo -“Bad Hombre”- e di un doppio CD -“Channels of Energy”- ambedue pubblicati da CamJazz. I due album sono molto diversi dal momento che mentre nel primo Sanchez è il vero e proprio ‘deus ex machina’ essendo l’unico protagonista (scrive la musica, l’arrangia, la esegue con batteria, tastiere, electronics e voce), nel secondo è inserito in un contesto assai più vasto rappresentato dalla WDR Big Band arrangiata e condotta da Vince Mendoza. Ma procediamo con ordine; dopo la felice esperienza di autore ed esecutore della colonna sonora di “Birdman” film che tutti ricorderanno per la sua particolarità e per la straordinaria interpretazione di Michael Keaton, Sanchez si cimenta con questo “Bad Hombre”, che, come confessato dallo stesso artista, rappresenta “un progetto sperimentale nel senso che si distacca completamente da tutto ciò che ho fatto in precedenza come batterista, compositore, produttore”. Ma non è il solo obiettivo dal momento che Sanchez si prefigge altresì da un canto di rispondere in qualche modo al senso di frustrazione che cresce in lui a causa dell’attuale situazione politica degli States, dall’altro di rappresentare in musica le sue origini messicane. Di qui un pastiche di batteria, strumenti elettronici, fondali creati a posteriori, suoni alterati che volutamente non frequentano i territori della superficiale godibilità addentrandosi piuttosto in quelli ostili, del non facile ascolto che richiedono una particolare attenzione per essere valutati sotto una giusta luce. Completamente diverso il secondo doppio album: smessi i panni del contestatore, Sanchez torna a suonare la batteria come sa fare, al servizio di un disegno complessivo condotto da Vince Mendoza a capo della WDR Big Band. In repertorio otto brani tutti scritti dallo stesso Sanchez. Il risultato è superlativo. Sotto la sapiente regia di Mendoza l’orchestra si muove con compattezza eseguendo alla perfezione i non semplici arrangiamenti. Di qui un sound, che pur mantenendo una propria specificità, richiama comunque alcune grandi orchestre del passato come, ad esempio, quelle di Duke Ellington e di Gil Evans. Il tutto impreziosito da alcuni elementi della band che si pongono in particolare evidenza come, tanto per fare qualche nome, il pianista Omer Klein (lo si ascolti in “Grids and Patterns”), Johan Hörlen (sax) e Shannon Barnett (trombone) particolarmente brillanti nel brano conclusivo che dà il titolo all’album. Superlativa la prova di Sanchez che dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio in qualsivoglia contesto. Nel caso specifico il suo drumming è allo stesso tempo possente ma non invadente sì da sposarsi magnificamente sia con i pieni orchestrali sia con quei momenti in cui il sound si fa più delicato, prezioso.

Bobo Stenson – “Contra la indecisiòn” – ECM 2582

Il pianista Bobo Stenson (classe 1944) è una delle personalità più importanti del jazz scandinavo, uno dei pochissimi in grado di non far rimpiangere quel Esbjorn Svensson di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica. In “Contra la indecision” Stenson si ripresenta con il suo abituale trio completato da Anders Jormin al basso e Jon Fält alla batteria. Il repertorio è piuttosto vario ed esplica appieno le molteplici sfaccettature del leader. Così dello Stenson compositore abbiamo qui due soli esempi, “Alice”, e “Kalimba Impressions” composto da tutti e tre i membri del combo; la maggior parte dei brani sono a firma di Anders Jormin, la title track è opera del cantautore cubano Silvio Rodríguez mentre gli altri tre pezzi – rispettivamente di Béla Bartok, Erik Satie e Frederic Mompou – illustrano l’abilità di Stenson nell’affrontare anche la musica classica. Ferma restando la statura artistica del leader, ogni brano fa quasi storia a sé dal momento che il bilanciamento tra scrittura e improvvisazione dà la stura, di volta in volta, ad interventi solistici di squisita fattura che mai mettono in pericolo l’equilibrio globale del trio. Così, tanto per fare qualche esempio, in “Doubt Thou The Stars” ascoltiamo una splendida improvvisazione di Jormin che adopera anche l’archetto ben sorretto dalla batteria prima dell’entrata in scena del pianoforte che illustra il tema in tutta la sua bellezza; in “Kalimba Impressions” è Jon Fält a salire alla ribalta suonando la marimba in un fitto dialogo con i compagni d’avventura; in “Alice” i tre disegnano un percorso quasi a zig-zag, sghembo, straniante ma di indubbio misterioso fascino; in “Elégie” , come accennato, riscopriamo il coté classico di Stenson che affronta la partitura di Satie con pertinenza, eleganza ed originalità; “Stilla” è un blues, sempre di Jormin, che evidenzia come tutti e tre questi musicisti conoscano bene la storia della musica afro-americana; in “Oktoberhavet” ancora una splendida intro della batteria dopo di che il tema è sviluppato da Jormin all’archetto con il pianoforte di Stenson che si limita a punteggiare prima di prendere in mano le fila del discorso.

John Surman – “Invisible Threads” – ECM 2588

“Invisibili fili” è il titolo, tradotto in italiano, di questa nuova fatica discografica di John Surman ai sax soprano e baritono e al clarinetto basso. Ed in effetti di fili invisibili è fatta la musica di questo album, una ragnatela di straordinaria eleganza che Surman tesse ben coadiuvato dai due compagni d’avventura, il pianista di San Paolo, Nelson Ayres, jazzista ma anche frequentatore di terreni vicini al pop brasiliano e Rob Waring, docente “classico” al conservatorio di Oslo, al vibrafono e alla marimba. Quindi una formazione del tutto inconsueta mancando, contemporaneamente, di contrabbasso e batteria. Ma i tre suppliscono egregiamente con un affiatamento ed un’empatia che si evidenzia in ogni momento: così quando è Surman a disegnare la linea melodica gli altri due fungono da contrappunto e da sostegno ritmico; ma la stessa cosa accade quando il pallino passa nelle sapienti mani di Ayres: Surman lo contrappunta a meraviglia e Waring si assume il difficile compito di organizzare da solo una sezione ritmica. Questo idem sentire si manifesta altresì nelle reciproche influenze che i tre non nascondono: così se è vero che nella poetica di Surman è sempre presente quel riferimento alle vecchie melodie inglesi e più in generale alla musica del Nord Europa, in questo album non mancano specifici richiami alla musica brasiliana come si può apprezzare in “Summer Song” unico brano non scritto da Surman ma per l’appunto da Nelson Ayres, in “Pitanga Pitomba” introdotto da un centrato assolo di Rob Waring e sviluppato da un fitto dialogo tra Surman e Ayres mentre “Autumn Nocturne” e “The Admiral” si fanno apprezzare per la delicatezza della linea melodica; da segnalare in quest’ultimo brano l’introduzione affidata ad un dialogo tra clarinetto basso e marimba, forse uno dei momenti più belli dell’intero album.

Esbjörn Svensson Trio – “E.S.T. live in London” – ACT 9042-2

Sono trascorsi dieci anni dal quel 14 giugno 2008 quando il pianista svedese Esbjörn Svensson scomparve improvvisamente a causa di un incidente subacqueo, proprio quando la sua fama aveva oramai raggiunto appassionati e critici di tutto il mondo. La formazione proposta in questa realizzazione discografica è quella storica che prese le mosse nel 1990 quando il pianista fondò il suo primo gruppo con l’amico di infanzia Magnus Öström alle percussioni; nel 1993 si aggiunse il bassista Dan Berglund a costituire quell’Esbjörn Svensson Trio (o E.S.T. Trio) che nell’arco di pochi anni ottenne un successo planetario. Non a caso sono stati la prima band europea ad apparire nel 2006 sulla copertina di Downbeat e sempre non a caso il doppio cd “Live in Hamburg”, registrato nella città tedesca nel novembre del 2006, è stato definito “L’album jazz del decennio 2000-2010” dal Times. Il perché di tanto successo si capisce facilmente ascoltando questo doppio album registrato live al Barbican Centre di Londra il 20 maggio del 2005. La performance, articolata su dieci brani piuttosto lunghi, testimonia in modo inequivocabile la trascinante forza del gruppo che in quell’anno era in tournée per promuovere l’album “Viaticum” (e ben cinque pezzi eseguiti a Londra facevano parte di quest’album). La musica è superlativa, ricca di forza, energia, caratterizzata da una profonda carica innovativa che coniugava un linguaggio prettamente jazzistico con atmosfere tipiche del rock. Anche da qui la grande influenza che il gruppo ha esercitato specialmente sulle nuove generazioni nel corso dei suoi diciassette anni di esistenza. Un vuoto di cui si avverte ancora la gravità e che non sarà banale colmare.

Gianluigi Trovesi – “Mediterraneamente” – Dodicilune

Titolo quanto mai esplicativo questo “Mediterraneamente” con cui il “nordico” Trovesi ha voluto chiamare questa sua ultima creatura. Conosciamo Gianluigi da molti anni e contrariamente a tanti che hanno sempre visto in lui lo spericolato sperimentatore multistrumentista, capace di mandare in visibilio le platee di tutto il mondo, abbiamo sempre riscontrato nel suo stile, nella sua poetica un coté lirico che in questo album viene prepotentemente alla ribalta. Ben coadiuvato dal suo ‘Quintetto Orobico’ composto da Paolo Manzolini (chitarre), Marco Esposito (basso), Vittorio Marinoni (batteria) e Fulvio Maras (percussioni), Trovesi presenta un repertorio di dodici brani in cui a composizioni originali (“Gargantella”, “Cadenze Orfiche”, “Rina e Virgilio”, “Materiali”, “Siparietto”), si alternano pezzi della tradizione (“Carpinese”), brani del pop italiano (“Le Mille bolle blu”) e della canzone napoletana (“Tu ca nun chiagne”, “Tammurriata Nera”), nonché standard internazionali (“Yesterdays”, “In your Own Sweet Way”) e un pezzo (“La Suave Melodia”) del compositore barocco Andrea Falconieri (1585-1656). Il tutto trattato con grande delicatezza, dolcezza, ad evidenziare sempre la linea melodica della composizione ed è lo stesso Trovesi a sottolineare questo aspetto quando afferma che “per me molti di questi brani sono come delle serenate”. Serenate eseguite con trasporto, senza alcun timore di evidenziare quel coté lirico cui si faceva riferimento in apertura. Ma, ovviamente, non è il solo Trovesi a seguire questa linea: si ascolti, ad esempio, con quanta modernità espressiva la chitarra di Manzolini dialoga con i fiati del leader che in questo album predilige, comunque il sax contralto. Per non parlare della sezione ritmica che asseconda alla perfezione le idee del leader quando affronta, in modo originale, sia grandi classici del jazz sia brani pop ben noti come “Le mille bolle blu”.

Gaetano Valli – “Thirty Years” – artesuono 139

Quello di Chet Baker è davvero un caso unico nel pur variegato panorama del jazz internazionale. Nonostante per buona parte della sua vita artistica Chet sia stato afflitto da numerosi problemi che lo hanno portato, tra l’altro, a doversi reinventare un modo di suonare la tromba, non conosciamo un solo jazzista che non adori Baker, non abbiamo incontrato un solo musicista che non ci abbia parlato in termini entusiastici del trombettista di Yale; di qui una serie di tributi, di omaggi a lui rivolti con sincera partecipazione. In questo clima si inserisce l’album in oggetto che vuole essere un ricordo di Chet a trent’anni dalla sua scomparsa avvenuta il 13 maggio del 1988. Il progetto è del chitarrista Gaetano Valli che ha chiamato accanto a sé il trombettista Fulvio Sigurtà e il contrabbassista Riccardo Fioravanti. Quindi un trio senza batteria, senza cioè quello strumento con cui Baker incontrava spesso problemi di sintonia. Valli è da sempre un profondo estimatore di Baker tanto da dedicargli già nel 1998 un lavoro intitolato “Tre per Chet”, pubblicato dalla Splasc(h) records, con Mario Brioschi alla tromba e ancora Riccardo Fioravanti al contrabbasso. Adesso Valli ritorna sull’argomento con un repertorio che tende in qualche modo a legare il Chet delle origini con il Chet degli ultimi tempi quando il tasso tecnico era inferiore ma quello poetico superiore. Così accanto a “Bea’s Flat” scritto da Russ Freeman all’inizio degli anni’50 e all’inedito dello stesso Valli “Thirty Years” caratterizzati da notevoli difficoltà esecutive, ascoltiamo altri brani in cui la tecnica è ridimensionata a tutto vantaggio dell’espressività quali, tanto per citare qualche titolo, “My Funny Valentine”, “I remember You, “Beatiful Black Eyes”. Ciò detto, occorre sottolineare come l’album sia eccellente: assolutamente pertinenti i brani scritti da Valle per l’occasione che si conferma altresì chitarrista dal tocco morbido, dal linguaggio personale e soprattutto dal gusto delicato; perfetto il modo in cui Sigurtà interpreta questi brani nel segno di Chet; notevole come sempre l’apporto di Fioravanti che si è caricato il peso dell’intera sezione ritmica non disdegnando di uscire in assolo di assoluta compiutezza.

Antonio Zambrini – “Pinocchio e altri racconti” – abeat 183

Se l’intelligenza di un leader si valuta anche sulla base di come sceglie i compagni di viaggio, allora non c’è dubbio sulle qualità non solo artistiche di Antonio Zambrini. Il pianista, per questa sua nuova fatica discografica, ha richiamato accanto a sé due giganti dei rispettivi strumenti, vale a dire i danesi Jesper Bodilsen al basso e Martin Andersen alla batteria con cui collabora già da qualche tempo. A ciò si aggiunge la felice scelta del repertorio: un omaggio a Fiorenzo Carpi il quale è stato uno dei più grandi rappresentanti della scuola melodica italiana unitamente a Ennio Morricone, Piero Piccioni, Nino Rota… tanto per citare qualche nome. Il disco è intitolato a Pinocchio ed in effetti vi si possono ascoltare tre brani tratti dallo sceneggiato televisivo del 1972 diretto da Luigi Comencini, cui si aggiungono altri cinque brani sempre di Carpi e un originale di Zambrini, “Giovedì”, che, come spiega lo stesso leader, appartiene alla sua lunga collaborazione con “Cineteca Italiana di Milano”. Tracciate le linee programmatiche entro cui si inscrive l’album, occorre sottolineare come le interpretazioni del trio siano del tutto coerenti con l’assunto. La musica scorre fluida evidenziando, di volta in volta, le varie caratteristiche che si ritrovano nella produzione di Rota, vale a dire il suono mediterraneo chiaramente riscontrabile, ad esempio, in molti brani di Pinocchio, le influenze di un certo rock inglese… fino a toccare la musica brasiliana in “Notte italiana” in cui lo stesso Zambrini dichiara di aver adottato lo stile “Choro”. Insomma un album in cui la pagina scritta si equilibra assai bene con l’improvvisazione cui si abbandona Zambrini che conferma il suo stile sobrio, elegante con una costante attenzione alla timbrica e alla dinamica, in ciò perfettamente coadiuvato da una sezione ritmica che dimostra di aver ben assorbito la lezione di altre storiche formazioni come lo E.S.T. trio di Esbjörn Svensson di cui ci siamo in precedenza occupati.

Enrico Zanisi – “Blend Pages” – Cam Jazz7928-2

E’ una musica particolare quella che Enrico Zanisi ci propone in questo album, una musica dal sapore «cameristico» che assume comunque connotazioni differenziate. Così, ad esempio, in apertura il pianismo di Zanisi appare crepuscolare, quasi impressionistico in alcuni passaggi, per poi virare, decisamente, sempre nel corso dello stesso primo brano, verso territori più vicini alla musica colta contemporanea. E questa sorta di duplicità si avverte lungo tutto l’album senza che lo stesso perda in omogeneità. D’altro canto la stessa strutturazione dell’organico è del tutto coerente a quanto sin qui esposto: pianoforte, clarinetto (nella collaudate mani di Gabriele Mirabassi), percussioni e live electronics (affidate al ‘poeta’ Michele Rabbia) cui si aggiunge un classico quartetto d’archi francese, “Quatuor IXI”, formato da Régis Huby (violino), Clément Janinet, (violino), Guillaume Roy (viola) e Atsushi Sakaï (violoncello) costituiscono un ensemble ben attrezzato per navigare in acque difficili come quelle che lambiscono la musica moderna. Ora, se la cosa non stupisce con riguardo sia a Mirabassi sia a Rabbia, rappresenta viceversa una piacevole novità per il pianista che, giunto al suo quinto album, dimostra con queste incisioni di aver raggiunto una sua specificità, una ben precisa consapevolezza delle proprie possibilità…insomma di potersi considerare non più una promessa quanto una delle più belle realtà del panorama jazzistico nazionale. In effetti nei nove brani, tutti di sua composizione, Zanisi da un canto conserva sempre una certa struttura di sapore classicheggiante, dall’altro lascia ampi spazi per le improvvisazioni dei compagni d’avventura, spazi come potrete ben immaginare magistralmente occupati sia dallo stesso Zanisi con il suo incedere elegante sia da Mirabassi, superlativo come sempre.

EDE: Zanisi – Gallo – Baron alla Rassegna Da Maggio a Maggio

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La foto è di Marc Maggio

Rassegna “Da Maggio a Maggio
Sabato 26 maggio ore 20:30
Laboratorio Pianoforti Marc Maggio

EDE
Enrico Zanisi, pianoforte e synth modulare
Danilo Gallo, basso elettrico
Ermanno Baron, batteria

Comincio con il dire che qui a Roma ci sono tanti posti dove ascoltare musica. Auditorium, teatri, club più o meno piccoli, bar, spazi all’aria aperta che ora a primavera cominciano ad animarsi, dunque c’è da scegliere.
Ma io stessa non sapevo che esiste un Laboratorio per la riparazione, e anzi, la cura, dei pianoforti, nel cuore del quartiere Pigneto. E’ il laboratorio di Marc Maggio, tecnico accordatore restauratore di pianoforti, ed è sito in via Giovanni De Agostini 19.
Quando entri senti l’odore caratteristico che chiunque abbia varcato la soglia di un negozio di pianoforti conosce benissimo, e ti trovi in un grande spazio, saturo (naturalmente) di pianoforti, a coda, mezza coda, verticali, un verticale è persino nel bagno.
Marc Maggio con il batterista Marco Calderano hanno inventato, in questo spazio fascinoso e inusuale, un piccolo festival del Jazz, “Da Maggio a Maggio” di tre giorni, a maggio, appunto. Il primo concerto venerdì 25 maggio, con Marco Calderano, AntiHero. Il secondo sabato 26 maggio con EDE, Euristic Data Exchange e l’ultimo il 28 maggio con Stefano Calderano Playin’ Rice.

Sono stata al secondo concerto, quello di EDE, ovvero Enrico Zanisi, pianoforte e synth modulare, Danilo Gallo, basso elettrico, Ermanno Baron, batteria.
EDE oltre che acronimo dei nomi dei musicisti è anche acronimo di Euristic Data Exchange:“un processo euristico di ricerca sonora, scambio di dati estemporaneo, istintivo e intuitivo,il suono come obiettivo finale. Le partiture si ottengono in dirittura d’arrivo
La Treccani ci spiega il termine euristico così: “in matematica, procedimento, qualsiasi procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico, ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.”
Resi doverosamente noti gli intenti del gruppo, doverosamente vi dico che raramente, andando ad ascoltare un gruppo che non conosco, mi documento sull’intento dichiarato del gruppo stesso: preferisco ascoltare e documentarmi alla fine, quando cerco le parole per descrivere la musica, vedere cosa di quell’intento mi è arrivato, cosa io ho capito, e SE ho capito, e se non ho capito, perché .

Ho preso posto in quella sala così profumata di legno, corde, feltrini, e dopo una lezione di Marc Maggio sul funzionamento della meccanica del pianoforte, ho ascoltato un’ora di musica completamente improvvisata, dal primo all’ultimo minuto. Come da intento dichiarato, ma io non lo sapevo: una ricerca estemporanea di una strada sonora comune. Chi guida? Non c’è un pilota in particolare: si improvvisa, ma con la sicurezza di chi il mezzo lo conosce così bene da potersi permettere (e godersi) ogni tipo di evoluzione.
Vi descrivo, sperando di essere fedele a ciò che è accaduto, i primi minuti di questo concerto inusuale, sperando di non essere troppo tecnica, o pedante: ma occorre per dare un’idea della musica. E poter poi approdare nel mio amato spazio “L’impatto su chi vi scrive” per poter parlare delle mie personalissime sensazioni a riguardo.

Dal synth di Zanisi parte un suono lungo, persistente, acuto, che fende l’aria. Baron percuote con bacchette di metallo ciotole di metallo, l’effetto è di campanelli, l’atmosfera è rarefatta. Poco dopo il basso di Danilo Gallo introduce un bicordo che risolve in una nota unica, quasi una tonica. Questo schema bicordo/nota unica prosegue, e i suoni si susseguono aumentando in velocità. Le due note del bicordo si slegano e la sequenza diventa un ostinato di tre note. Il synth aumenta gli effetti. La batteria intensifica i battiti, il tessuto sonoro complessivo prima piuttosto dilatato si addensa. Il basso diventa incalzante, e si assesta sul registro grave. Appare il suono del pianoforte: con una cellula melodica reiterata che comincia su una ampiezza di una nona, per poi restringersi ad una sesta. Il basso elettrico lo doppia con lo stesso andamento ritmico. La batteria ne carpisce il groove e decodifica il tutto dal punto di vista ritmico.
Questo andamento dura qualche decina di secondi, fino a quando il basso procede ascendendo cromaticamente con note ribattute: ma queste via via si diradano. Rallentano gli impulsi e si ritorna gradualmente alla rarefazione sonora dell’inizio. Riappare quella nota persistente del synth con cui tutto era cominciato, ma il basso ricomincia cantando una piccola melodia pentatonica…..
Mi fermo. Perché sono accadute mille altre cose, e questi sono soltanto i primi otto nove minuti. E gli stessi musicisti, se leggeranno questa descrizione, penseranno che sono impazzita, perché il loro procedere era completamente istintivo, anche se non casuale: l’istinto non è mai casuale. Dubito, in pratica, che possano ricordare così precisamente cosa hanno suonato.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

In un concerto tutto di musica improvvisata estemporaneamente ciò che conta, a mio parere, è proprio l’impatto su chi ascolta.
Per ascoltare bene un concerto come questo, secondo me è fondamentale abbandonare i propri rassicuranti riferimenti e lasciarsi avvolgere dai suoni. Su di me una performance come quella di EDE può avere un potere evocativo ed immaginifico molto forte, una volta abbandonati i miei riferimenti usuali (centri tonali, strutture, cadenze, il jazz, il free jazz, il jazz modale, la musica tradizionale e così via dicendo).
Ho dovuto solo cercare di sdoppiarmi concentrandomi e scrivendo (vedi sopra) cosa accadeva, ma mi sono ritagliata anche una metà della mia percezione lasciandola libera, perché volevo godermi quell’impatto emotivo. Per tutto il tempo ho assistito alla nascita improvvisa di suoni che erano ognuno causa del successivo, che a suo volta era effetto del precedente, e ancora, causa del successivo, mi si perdoni la spirale: ma è ciò che è accaduto.
Mi sono trovata in giardini fiabeschi, quando Zanisi insisteva reiterando piccoli arpeggi nel registro acuto del pianoforte, sottolineati dal basso, che cantava libero, e da Baron con i suoi suoni di campane. Poi ho assistito ad un sisma sotterraneo, quando Danilo Gallo si è aperto in un suono grave, lavico, profondo, da far vibrare le pelli della batteria, che è diventata a sua volta secca, insistente, potente. E’ stato un tintinnio di ciotole a fermare quel sisma, quasi richiamando all’ordine il basso, e costringendolo a suoni sempre più diradati.
Talvolta i suoni volatili del synth mi sono sembrati aria pulita. Un momento quasi parossistico placatosi gradualmente mi ha evocato il navigare placido in un fiume di suoni, improvvisamente inscritti in un centro tonale, con un susseguirsi di accordi (quasi) comprensibili: ma oramai io i miei rassicuranti riferimenti li avevo abbandonati , e decodificarli non mi è sembrato così importante. Non li ho analizzati e così ancora non ho capito  come sia potuto accadere di trovarmi, alla fine, ad ascoltare El Choclo, sì, El Choclo, il tango. Mi sono affrettata a trascriverne le note nel mio taccuino per poter poi ricordare a me stessa quale titolo avrei dovuto ricercare. Era El Choclo: sono partita da una nota fissa di sintetizzatore e sono approdata ad un tango argentino.

Avvertenza: il prossimo concerto di EDE non sarà di certo uguale a questo.

 

 

Giuliana Soscia: perché ho deciso di abbandonare la fisarmonica

Giuliana Soscia è personaggio noto agli appassionati di jazz essendo a ben ragione considerata una delle migliori fisarmoniciste jazz, non solo a livello nazionale, oltre che pianista, compositrice e direttrice d’orchestra jazz. Della sua statura artistica, della sua straordinaria carriera abbiamo più volte parlato (si veda ad esempio la recensione, di poco tempo fa, sul Giuliana Soscia Indo Jazz Project). Questa volta affrontiamo una tematica particolare e molto personale: da un po’ di tempo abbiamo notato che Giuliana non suona più la fisarmonica. Perché? Glielo abbiamo chiesto direttamente e dobbiamo ringraziare Giuliana per aver scelto “A proposito di jazz” come sede per svelare questo arcano.

Abbiamo notato come nella recente esibizione all’Auditorium Parco della Musica di Roma, per la prima italiana del tuo “Indo Jazz Project”, hai composto tutti i brani del repertorio, hai diretto la band, hai suonato solo il pianoforte… ma dell’amata fisarmonica neanche l’ombra, addirittura non l’hai portata sul palco. Che succede?

“In questi ultimi mesi ci sono stati diversi cambiamenti importanti nella mia vita musicale. Non so come dirlo perché molto difficile e doloroso. Ho dovuto prendere una decisione, drastica, cosa che ho fatto agevolata, in questo senso, dall’essere anche… e forse soprattutto una pianista e compositrice. Nella vita alle volte bisogna prendere delle decisioni difficili anche per evitare guai peggiori”.

Ma tu ti consideri più una pianista o una fisarmonicista?

“In realtà sono pianista e – questo non tutti lo sanno – la fisarmonica è il mio secondo strumento. Io nasco pianista. In questo momento storico sentivo, inoltre, la necessità di incrementare la mia attività pianistica. Comunque ci sono dei periodi della vita in cui motivazioni interne ed esterne ti spingono a cambiare, a prendere strade diverse e questo potrebbe tradursi anche in un rinnovamento artistico. Di qui è nato questo mio progetto jazzistico dedicato esclusivamente al pianoforte, mantenendo la composizione, aspetto della mia vita artistica che mi ha sempre accompagnato: non a caso ho eseguito più che altro mie composizioni”.

E’ una situazione reversibile o meno?

“Mi spiego meglio e ciò potrebbe essere utile ad altri musicisti che hanno lo stesso problema. Come prima accennato, improvvisamente, ho dovuto mettere da parte la fisarmonica per un problema di salute legato alla pesantezza dello strumento. In effetti ho avuto un distacco del vitreo per disidratazione con un leggero interessamento della retina, cosa che si sarebbe potuta aggravare se avessi continuato a studiare su uno strumento pesante come la fisarmonica, dodici, tredici chili per uno strumento da concerto. Quindi mi sono operata immediatamente, con il laser, ma quindici giorni dopo avevo un concerto. Che fare? Riprendere la fisarmonica per un concerto – con tutto il lavoro di studio, di preparazione che c’è alle spalle, ore e ore di studio – era pericoloso. Comunque ho fatto egualmente altri due concerti finché il primo settembre scorso, ero a Jesi, la città natale di Pergolesi, abbiamo eseguito con il quartetto Soscia-Jodice lo “Stabat Mater in jazz” di Pergolesi e in questa occasione ho deciso di abbandonare la fisarmonica… non si può suonare con la paura che si stacchi la retina. Io sono molto fisica nel suonare, voglio sempre esprimermi fino in fondo, dare tutta me stessa con lo strumento e con la musica. Posso continuare ad esprimermi sul pianoforte e allora lo faccio su quest’altro strumento, che è oltretutto il mio primo strumento!”.

Da un punto di vista strettamente musicale, cosa ha significato tutto questo?

“Dal punto di vista musicale, anche se, come già detto, io sono prima di tutto una pianista (ho sempre scritto sul pianoforte e poi ho trasportato sulla fisarmonica che ho sempre considerato un pianoforte a fiato), c’è però tanta nostalgia di aver perso qualcosa che mi ha accompagnato per tanti anni. Non c’è dubbio che una parte di me è morta… ma ne è rinata un’altra appartenente alle mie origini. Non a caso il primo brano del progetto “Indo Jazz” si chiama “Samsara” che significa, per l’appunto, rinascita: ho vissuto il tutto come una morte ed una rinascita. Io ne sto parlando con te quasi con disinvoltura, ma ti assicuro che anche solo parlarne è molto doloroso”.

E io ti ringrazio sinceramente di aver scelto me per questa difficile chiacchierata.

“L’ho voluto fare intanto per spiegare a tanta gente che mi conosce cosa è realmente accaduto. Come ti ho già detto, avrei potuto continuare prendendo qualche rischio ma ho ritenuto che non ne valesse la pena anche perché io mi esprimo bene, benissimo col pianoforte e l’orchestra jazz con le mie composizioni. Ovviamente c’è tutta una parte del lavoro che ho fatto che per fortuna non è andato perduto – ci sono i dischi e l’insegnamento con il quale poter trasmettere le mie preziose esperienze – ma come spesso accade potrebbe essere questa un’occasione anche per rinnovarsi, per rinnovare la mia musica. Sai può anche darsi che io sentissi questo tipo di esigenza senza neppure rendermene conto e quindi penso che alle volte accadano eventi che tu di primo acchito non capisci ma che in realtà hanno un loro perché. Insomma quando ti capitano certe cose bisogna avere molto coraggio e saper prendere decisioni in tempi rapidi e voltare pagina verso nuove avvincenti esperienze”.

Tu prima hai detto a chiare lettere di essere passata alla fisarmonica in un secondo momento. Come ti è scattato l’amore per questo strumento almeno sulla carta meno prestigioso del pianoforte?

“Io ero e resto innamoratissima del pianoforte: per me suonare il pianoforte è come mangiare, bere… sono nata sul pianoforte…. Ho fatto una carriera da concertista classica. Ho cominciato a fare concerti all’età di quattordici anni e quindi puoi capire come io abbia trascorso un’adolescenza diversa da tutti gli altri ragazzi. I primi concerti, i primi concorsi che ho vinto sempre in omaggio a questo mio sogno di fare la concertista… mi ero molto legata al repertorio di musica classica contemporaneo vale a dire, tanto per fare qualche nome, Béla Bartók, Alban Berg, Hindemith… insomma al repertorio del ‘900 ed ero molto attratta da quelle dissonanze che poi ho scoperto essere tipiche del jazz. Quindi ascoltavo anche il jazz ma all’epoca in Conservatorio studiare il jazz era un’eresia. Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di uscire dal mondo classico che mi stava un po’ stretto e dall’altro di assecondare questa mia spinta che mi portava verso il jazz: io volevo studiare questa musica ma all’epoca – siamo negli anni ottanta – non c’era nulla, non c’erano scuole per cui si trattava di imparare da soli, da autodidatti, ascoltando i vari artisti magari trascrivendone gli assolo. Allora avevo anche notato che nel campo della musica classica c’era una crisi che concerneva anche la composizione e ritenevo che il jazz potesse essere una sorta di chiave di svolta per questa problematica e sicuramente lo era per me. Non a caso molti compositori stanno ora tornando alla tonalità. Insomma c’era e c’è molta confusione per cui penso che inglobare nella musica classica tutto ciò che ci circonda, a partire dalla musica rock, dalla musica jazz potrebbe costituire una risorsa per la musica classica stessa… e questo probabilmente lo vedremo in futuro. Comunque in questi anni già qualcosa si è fatto: il jazz è entrato nei conservatori, tranne però la fisarmonica malgrado le mie battaglie, da poco anche la musica pop-rock… insomma c’è un’apertura che definirei epocale. Insomma pian piano ho capito che c’era un altro tipo di musica ad onta di quanti nei conservatori si ostinavano a considerare solo e soltanto un tipo di musica. Ovviamente c’erano anche maestri aperti: a questo proposito voglio ricordare il Maestro Sergio Cafaro che è stato veramente per me un grande modello che ho seguito per tutta la mia vita, anche dopo la sua scomparsa tramite la moglie il M°Anna Maria Martinelli dalla quale ho ricevuto sin da giovanissima preziosissimi elementi di didattica per l’insegnamento del pianoforte e con la quale sono ancora legata da un’affettuosa amicizia. Sergio Cafaro era un grandissimo pianista ma anche straordinario improvvisatore, compositore di vaglia (aveva studiato con Petrassi e compagno di studi di Ennio Morricone) eccellente pianista classico che suonava anche jazz per diletto e da lui ho ricevuto questi insegnamenti che sicuramente hanno concorso in maniera determinante alla mia formazione. Insomma ho cominciato ad esplorare la musica e l’ho fatto con la fisarmonica”.

Perché?

“Perché la fisarmonica era vicina al folklore. In quel momento io dovevo assaporare tutto ciò che era contrario alla musica classica. Dovevo esplorare ma esplorare sul campo, provare a suonare alcune cose, provare a entrare in un mondo diverso che mi era mancato e volevo capire perché un certo tipo di musica produceva un trasporto così importante che magari la musica classica non aveva. Insomma, mi chiedevo, perché la musica folk e la musica per il ballo fa muovere emozioni così estreme e forti rispetto alla musica classica. Qual è la differenza? Un modo per analizzare le origini della musica e dell’umanità. La musica classica la immaginiamo come qualcosa di strutturato che è avvenuto con un’evoluzione dell’uomo. Ma andiamo alla base; qual è la base? Secondo me il folklore, così ad un certo punto ho preso la folle decisione di andare, di suonare in quei contesti, cosicché mi sono ritrovata a suonare la fisarmonica in un ambiente – la Romagna –  dove il folk era il genere più importante. Ho cominciato per curiosità e si è rivelata un’esperienza artistica davvero straordinaria: in soli tre anni ero diventata famosissima. Avevo scritto un brano che mi era stato ispirato da una composizione di un signore che si chiamava Castellina, molto famoso nell’ambito del liscio romagnolo; era davvero un talento in quanto aveva un modo di esprimersi sulla fisarmonica assolutamente personale, espressivo, molto vicino al bandoneon e aveva un seguito incredibile. Ebbene mi interessava capire perché molta gente amava danzare al suono della sua musica e allora gli chiesi ‘ma come si fa a scrivere questo genere di musica?’ E lui mi insegnò lo stile… ed era molto interessante perché la musica seguiva i passi della danza. Ebbene più tardi ho capito che tutti questi concetti si possono trasferire in tutti i tipi di musica, anche nel jazz. Quindi come ti dicevo ho composto questo brano e ho vinto un concorso e l’Orchestra Borghesi…”

Molto famosa all’epoca…

“Sì, molto famosa… comunque, dicevo, questa orchestra mi prese come fisarmonicista. Ed ero la prima fisarmonicista donna che entrava in questo contesto così maschilista… il mondo della fisarmonica era molto maschile e lo è tutt’ora. Sulla mia scia molte donne si sono avvicinate allo strumento, ma prevalentemente nel folk. Nell’arco di questi tre anni e mezzo con cui ho lavorato con l’Orchestra Borghesi ho inciso molti dischi, con mie composizioni, e tenuto più di mille concerti, ma non era quella la mia strada per cui ho cominciavo già da allora ad abbracciare il jazz. Abitavo all’epoca vicino Bologna e conobbi vari jazzisti che mi illuminarono, infatti già da allora cominciai ad avvicinarmi al jazz con delle collaborazioni. Insomma è stata una parentesi ma fruttuosa che mi ha lasciato un grande bagaglio di esperienza”.

Mi stai dicendo che per quanto concerne la fisarmonica tu sei un’autodidatta?

“Assolutamente sì, volutamente autodidatta. E’ stata una sfida. Tutto è successo quando avevo ventiquattro anni; ho preso in mano la fisarmonica e mi sono detta ‘vediamo che ne esce fuori’. E così pian piano ho imparato ma da sola proprio perché volevo trovare un mio stile, un modo di suonare che fosse originale che potevo ottenere con le mie competenze pianistiche essendo già una musicista strutturata. Questa mia pretesa aveva però un senso in quanto la fisarmonica è a tutt’oggi uno strumento molto giovane che necessita ancora di una precisa standardizzazione: ogni Paese ha le sue modalità, i suoi bassi; c’è chi dice che la mano destra debba essere a bottoni, chi a piano, bassi sciolti per terze, bassi sciolti per quinte, bassi standard… insomma un caos totale. I concorsi si fanno ma con strumenti diversi e alle volte ci sono dei litigi tra fazioni diverse. A seguito di tutto ciò manca un programma di studi di fisarmonica classica ampio come per gli altri strumenti, c’è un repertorio classico contemporaneo e si eseguono molte trascrizioni, che io non amo per niente, ma naturalmente è la mia opinione; quindi spesso si tende ad imitare altri strumenti cercando sonorità sempre più simili all’organo dimenticando  l’originale sonorità di questo strumento nata nel folklore, perché la fisarmonica lì è nata e non bisogna dimenticarlo, oppure nel jazz come testimoniano alcune incisioni dei primi del’900 in America. Comunque, proseguendo nel racconto della mia vita artistica e del mio amore per la fisarmonica, dopo questa breve esperienza con il liscio sono entrata in un’orchestra RAI e così sono stata tra i primi ad introdurre la fisarmonica nella musica pop; ero diventata anche qui abbastanza famosa ed ho dato moltissima visibilità alla fisarmonica per cinque anni sugli schermi televisivi e concerti in tutta Italia, spesso mi ritagliavo ruoli da solista, senza abbandonare però il pianoforte. Ho collaborato con tutti i più grandi cantanti italiani che venivano ospitati in questa trasmissione di Rai 2 che si chiamava “Mezzogiorno in famiglia”; in quest’ambito c’era una rubrica , ‘Storia di una canzone’, e ogni settimana c’era un cantante che aveva vinto Sanremo – quindi ad esempio, Sergio Endrigo, Alex Britti, Amedeo Minghi – ma sono passati quasi tutti.  Ebbene io ho inserito negli arrangiamenti di brani pop la fisarmonica ma il tutto risultava poco creativo e a dire il vero era più un’esigenza legata ad un bisogno economico in quel periodo, per cui ho deciso di cambiare pur essendo stata comunque musicalmene un’ esperienza molto formativa. Proprio in quel periodo ci fu anche una mio tentativo di cimentarmi nella dance music inserendo la fisarmonica in una mia composizione e nel 2002 divenni improvvisamente artista della Universal Music con un singolo… trovo molto bizzarro ma debbo dire mi sono divertita molto. Nel contempo approfondivo le mie conoscenze jazzistiche finché non ho deciso di dedicarmi esclusivamente al jazz che consideravo la forma migliore per condensare in un unicum tutte queste mie esperienze, anche stilistiche, senza nulla perdere del mio originario amore per il pianoforte, la musica classica e di questa mia nuova passione per la fisarmonica. Ho fondato nel 2006 il mio primo quartetto di tango jazz intraprendendo una brillante attività concertistica proseguita poi con l’incontro con Pino Jodice, da me ingaggiato come pianista per il mio quartetto… Ho quindi lavorato su vari progetti jazzistici ma sempre anche come compositrice e riservando un piccolo spazio anche al pianoforte. Ho in quel periodo anche realizzato una importante esperienza televisiva come conduttrice di una rubrica da me ideata sulla divulgazione degli strumenti musicali su Rai Uno all’interno del programma UnoMattina, dove suonavo con gli ospiti famosi del mondo classico, del jazz e del rock, sia come pianista che come fisarmonicista. Da allora c’è stata un’intensa attività concertistica in ambito jazzistico ed ho girato il mondo nei più importanti Festival e Teatri e tanti dischi incisi. Poi le collaborazioni con tanti jazzisti di fama internazionale e le orchestre jazz, prima come solista ed infine come compositrice e direttrice, approfondendo la scrittura per orchestra e cimentandomi nella direzione, altra mia grande passione.”

Un’ultima domanda: tu suoni il pianoforte; nell’affermato quartetto che hai formato con tuo marito Pino Jodice ci saranno due pianoforti, il tuo e quello di Pino. A questo punto che succede?

“Ovviamente c’è stato uno scossone anche in questo senso. La cosa che mi dispiace di più sta proprio in questo: il quartetto/duo Soscia-Jodice non è più possibile portarlo avanti così com’era strutturato, a patto che Pino suoi il vibrandoneon per tutto il concerto…scherzo naturalmente. Perché nei nostri concerti c’era sempre un brano che mi ritagliavo al pianoforte e Pino suonava il vibrandoneon uno strumento nuovo che utilizza le ance della fisarmonica ma a fiato e quindi tutti i progetti che abbiamo realizzato rimarranno alla storia. Stiamo però valutando l’idea di un progetto per due pianoforti e sarà una bella sfida per entrambi. Comunque altre cose continueranno a vivere; mi riferisco all’Orchestra Jazz Parthenopea di Pino Jodice e Giuliana Soscia che potrà continuare ad esibirsi in quanto io e Pino potremmo alternarci nelle vesti non solo di compositori e direttori ma anche in quella di pianista. Per il resto ognuno di noi seguirà i propri progetti, occasione per rinnovarsi. Al riguardo, oltre all’uscita del disco, un libro e vari concerti in programma del Giuliana Soscia Indo Jazz Project, sto lavorando su altri progetti. Ho in programma il trio jazz – Sophisticated Ladies – dedicato alle donne compositrici che già avevo realizzato in precedenza, il duo con Mario Marzi eccellente sassofonista e featuring nell’ “Indo Jazz”, con repertorio tra classico, jazz e mie composizioni, con il quale ho già debuttato in gennaio; il solo piano con un progetto ancora segreto che svelerò tra breve e infine un progetto molto importante per orchestra jazz in veste di direttore d’orchestra con le mie composizioni.

Sarà per me molto artisticamente stimolante e una nuova sfida da affrontare!”

Gerlando Gatto

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Paolo Soriani e Giulio Capobianco per le immagini

Fly Trio, Turner – Grenadier – Ballard all’ Auditorium Parco della Musica

Le foto sono di ADRIANO BELLUCCI

Auditorium Parco della Musica, lunedi 22 gennaio 2018, ore 21

Sala Teatro Studio Borgna
FLY TRIO
Mark Turner sax and clarinet
Larry Grenadier bass
Jeff Ballard drums

Recensione, Parte I

Tre fenomeni del Jazz come Mark Turner, Larry Grenadier e Jeff Ballard non possono che suonare in modo fenomenale.
Fly Trio è un esempio perfetto di quel Jazz che gode della sintesi impeccabile tra musica scritta con cura a livello quasi contrappuntistico e la capacità di travalicarne i rigidi schemi con parti improvvisate ricchissime di spunti che non rimangono mai inascoltati dai tre componenti del gruppo. Ogni idea lanciata dall’uno, passa meticolosamente al vaglio degli altri due: viene colta, reinterpretata, restituita in altra forma. Un riff melodico del sax può essere subito dopo “cantato” dalla batteria. Un piccolo ostinato di contrabbasso può essere espanso dal sax. Un pattern ritmico della batteria può diventare la base per un solo di contrabbasso.
Negli obbligati le parti le si possono immaginare disegnate come tre linee che partono correndo unite, improvvisamente si dividono aprendosi in percorsi a raggiera, per poi riavvicinarsi e correre parallele. Unisoni, improvvise aperture a raggiera, rientri in andamenti a due voci con intervallo minimo e la batteria omoritmica, ritorno all’unisono e sempre sempre una tendenza a procedere oltre. Ogni brano è un viaggio senza “fermate espressive intermedie”, in cui ci si ferma solo al termine del pezzo.

La sintonia tra Turner, Grenadier e Ballard è totale. Ed è importante in un concerto in cui l’enfasi non è né sull’ aspetto melodico, né su quello armonico, e che piuttosto è, come appena accennato, proprio in quel procedere in avanti, insieme, partendo da parti obbligate e macinando idee continue che si sviluppano in corsa, improvvisando, in quella corsa che ha il suo termine dopo aver percorso tutte le strade possibili insieme, dandosi il cambio alla guida. Quando il sax tace, emerge il contrabbasso che prende il comando fino a quando, al momento giusto non esce fuori l’inconfondibile batteria di Ballard, capace di momenti di quasi (benefica) anarchia emotiva rispetto alla quasi perfezione della compagine nel suo complesso, ove quel quasi è garantito proprio da Ballard.

Non mancano brani a dir poco accattivanti, come  La Perla Morena, di Ballard, con soluzioni ritmiche molto attraenti, come quel tempo in 3 che si disgrega temporaneamente, senza fermarsi, s’intenda, per poi riprendere la scansione originaria, o Lone, ballad in cui i riferimenti armonici, che in un trio pianoless solitamente sono destinati al lavoro del contrabbasso, sono qui ulteriormente ridotti all’osso, da intuire concentrandosi, facendo quasi uno strenuo esercizio di orecchio, se si ha la fortuna di averlo.
Sembrerà forse pleonastico dire che gli assoli di questi tre assi del loro strumento sono complessi, tecnicamente perfetti, virtuosistici, ineccepibili.
Le dinamiche occupano una forchetta volutamente poco ampia, assestata su un range di volumi mai alti, dal piano al mezzo forte, e sono dunque raffinate, a volte quasi impercettibili. E’ un Jazz che da questo punto di vista si può considerare con il termine cool, tratto ascrivibile soprattutto a Turner, che è un virtuoso ed eccellente strumentista che non cede mai all’ esasperazione dei toni.


Grenadier lavora strenuamente ed energicamente camminando per linee tematiche e ritmiche, evitando volutamente lo spessore armonico e privilegiando un andamento spedito ed “orizzontale”. I momenti in duo con Ballard trapelano di tutta la profonda conoscenza reciproca e scorrono con una naturalezza che quasi ammorbidisce (positivamente) il suo innegabile lato di virtuoso del contrabbasso.

Recensione, Parte II – Il parere di chi vi scrive.

In quanto persona che scrive di musica spesso viene chiesto il mio parere, ovvero l’impatto che su di me ha un determinato concerto, o un disco, insomma la musica che mi si chiede di ascoltare. E quando vado di mia iniziativa ad ascoltare un concerto, come in questo caso, capita che io esprima un parere.
Il parere non è verità. E’ la descrizione dell’impatto che su di me ha quella musica. L’impatto dipende dalla formazione di ognuno, dai gusti di ognuno, dalle inclinazioni di ognuno.
Volutamente questa volta ho tenuto il mio parere su questo concerto separata dal resto della recensione in cui ho tentato (sottolineo tentato) di descrivere (sempre secondo i miei parametri di ascolto e le mie competenze) che tipo di musica hanno suonato questi eccellenti musicisti.
Così se il parere non è parte interessante per chi legge può essere comodamente saltato a piè pari, da ora. Questo lo specifico perché sempre più spesso leggo che chi scrive di musica non dovrebbe avere un parere, o comunque non dovrebbe esprimerlo.
Poi però leggo anche, contraddittoriamente, che chi scrive di musica dovrebbe essere meno accondiscendente e dare più pareri negativi nelle sue recensioni.
Poi però leggo anche, quando emerge un parere negativo, che colui che scrive di musica dà un parere rancoroso magari dovuto a chissà quali retroterra di incompetenze o addirittura invidia del musicista.
Dunque attenzione, da qui in poi leggerete un parere. Quello di Daniela Floris. Siete liberi di non leggerlo.

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Su di me, Daniela Floris, il Fly Trio, che riconosco essere composto da eccellenti musicisti, da me molto apprezzati in altri contesti, ha un impatto un po’ raggelante. Hanno un ottimo livello comunicativo tra loro (interplay)  ma, riducendo all’osso – in una formazione già di per se pianoless – i riferimenti armonici e non perseguendo linee melodiche vere e proprie, finiscono per essere quasi criptici, e poco comunicativi all’esterno. Chi svirgola rispetto a questo rigore “emotivo” è Jeff Ballard, che nei suoi assoli e in alcuni momenti in duo con Larry Grenadier riesce a farti sobbalzare e risollevare da quella raffinatezza, cura estrema dei particolari e controllo totale perseguiti strenuamente in ogni momento di un concerto obiettivamente di altissimo livello.
La scelta di Mark Turner di operare, pur se con dinamiche curatissime, in un range poco ampio di volumi, diciamo tra il piano ed il mezzo forte, diminuisce ulteriormente l’impatto che definirei “emotivo” e risultandoMI compìto, colto, un po’ freddo.
Per alcuni questo è un pregio. Per me, lungi dall’essere un difetto, è un’ occasione perduta: quella di far fruttare un’eccellente bravura per emozionare, anche e divertire, o magari anche “scandalizzare” il pubblico.
Che in sala era, ad essere sinceri,  diviso tra chi era visibilmente annoiato e chi invece ha convintamente applaudito.
Chi di voi ascolterà Fly Trio ci farà sapere, se vuole, il suo parere.

Un(Folk)ettable Two di Nico Morelli all’Auditorium Parco della Musica

Foto di Adriano Bellucci

Roma, 14 settembre, ore 21
Sala Teatro Studio Luigi Borgna

Un(Folk)ettable two

Nico Morelli, pianoforte
Camillo Pace, contrabbasso
Mimmo Campanale, batteria
Davide Berardi, voce e chitarra
Barbara Eramo, voce
Paolo Innarella, sax soprano

Il Jazz ospita la pizzica, anzi no. La pizzica ospita il Jazz: si incontrano in campo neutro e si avvicendano prendendosi per mano e rimanendo ognuno ben saldo nel proprio mondo. Non “contaminazione”, piuttosto il coesistere di due generi che per contrasto esaltano reciprocamente bellezza e la forza dei punti in comune.
Nico Morelli è un jazzista, italiano, che vive e suona a Parigi oramai da un po’. Nico Morelli è anche pugliese di origine, un pugliese che con  “Un(Folk)ettable two edito da Cristal Records e Puglia Sounds, decide per la seconda volta di riappropriarsi delle proprie origini e di esprimersi attraverso due linguaggi apparentemente lontani e così profondamente radicati in lui: il Jazz, appunto, e la musica tradizionale della sua Puglia.

Per realizzare questo progetto un po’ visionario sceglie di avere con sé musicisti pugliesi: decisione importante, visto il risultato della performance percettibilmente autentica, dal punto di vista squisitamente emotivo. Pianoforte, contrabbasso, batteria, voci e l’incursione, una sola purtroppo, di Paolo Innarella con il suo sax soprano, un vero cameo, lirico come non mai, e un’energia notevole del gruppo dal primo all’ultimo minuto.
E’ proprio il contrabbasso che introduce la pizzica, percuotendo ritmicamente le corde con l’archetto: è una specie di evocazione suggestiva che apre il concerto, fino a quando il suono non si riempie anche di accordi del pianoforte e del groove della batteria.

I ritmi cambiano quasi improvvisamente e si viene trascinati nel Jazz, nell’improvvisazione, nello swing.
Da questo inizio incalzante fino al termine del concerto si oscilla di continuo dalla musica tradizionale al Jazz con una particolarità: lo stacco da una all’altra non crea traumi, non provoca scossoni: a stupire è la naturalezza con cui i due generi si avvicendano, trascinando chi ascolta in un flusso continuo di ritmi ed armonie cangianti, eppure mai in contrasto netto tra loro.
La pizzica è lo spunto per arrivare al Jazz. Il Jazz è lo spunto per tornare alla pizzica. La pizzica può essere anche in 5/4 e il jazz può avere la scansione ritmica della pizzica. Senza mischiarsi, ma scambiandosi suggestioni reciproche che vanno a permeare un tessuto sonoro ricco, connotato dal sommarsi di episodi colmi di pathos. Un pathos a volte garantito dalle due bellissime voci di Barbara Eramo e Davide Berardi, splendidi interpreti di questa musica così legata alle loro stesse origini, altre dal drumming multiforme e trascinante di Mimmo Campanale altre ancora del contrabbasso vivido, espressivo, basilare di Camillo Pace.


Il garante del flusso di questa bella performance che è quasi anche un flusso narrativo è Nico Morelli, che firma i brani, li riempie di vitalità e di vita vissuta e li materializza in un pianoforte che diventa di volta in volta (non vi paia strano) anche organetto, o  tamburello, persino, ma anche elemento fondamentale di un notevolissimo trio Jazzistico.


Ascoltare Un(Folk)ettable rivela che il Jazz e la Pizzica non sono mondi poi così distanti. Che è benefico, ad ascoltare un tale scorrere di suoni, scoprire punti in comune coltivando le differenze. Un messaggio importante al di là della musica e che arriva alla mente ed al cuore d’istinto, solamente ascoltando: l’unione di due culture, di due mondi lontani è possibile ed è una ricchezza. Un pensiero a cui se non arriviamo con il raziocinio possiamo arrivare con la musica. E gli applausi entusiasti alla fine del concerto lo hanno dimostrato.