Stefania Tallini: la via maestra è la ricerca dell’espressività

Stefania Tallini è una delle più belle realtà del panorama jazzistico non solo nazionale. Davvero molta acqua è passata sotto i classici ponti da quando una sera, mentre discutevamo a casa mia, le chiesi del perché non si decidesse ad incidere un suo primo disco.
Ripeto molti anni sono passati ed eccoci ancora nel salotto di casa mia a festeggiare un evento straordinario, l’ultimo disco di Stefania, “Brasita”, registrato in duo con l’armonicista brasiliano Gabriel Grossi vero e proprio punto di riferimento per tutti gli armonicisti di oggi, cui si aggiunge con special guest il violoncellista Jaques Morelenbaum in quattro brani.
L’intervista scorre fluida e non potrebbe essere altrimenti fra persone che si conoscono e si stimano da parecchi anni.

-Stefania ci racconti come è nato questo per altro splendido album?
“Il disco racconta sostanzialmente dell’incontro con Gabriel Grossi, uno dei più grandi armonicisti al mondo, avvenuto in modo del tutto casuale nel 2019 e che ha dato vita al nostro progetto in duo. Un duo nato quasi per caso dal momento che Gabriel cercava un pianista per fare delle cose in Italia ed un amico comune ci ha messi in contatto. Da subito è nato un bellissimo feeling e quindi un progetto che, a partire dal primo concerto realizzato insieme, si è rivelato immediatamente importante. Nel 2020 avevamo diversi concerti da fare con in più la registrazione dell’album ma come ben sai la pandemia ha bloccato tutto. Però alla fine, dopo non esserci potuti vedere per due anni e mezzo, ce l’abbiamo fatta, e così è nato il nostro “Brasita” un disco in cui omaggiamo alcuni compositori anche classici che ci hanno ispirato”.

-Vale a dire?
“C’è un brano di Giacomo Puccini; un altro di Heitor Villa Lobos e ancora di Ennio Morricone, di Buarque-de Moraes-Jobim…e poi una serie di original scritti sia da me sia da Gabriel di cui due in collaborazione”.

-Come avete ovviato alla mancanza della sezione ritmica?
“Con la mia sinistra. Scherzi a parte in realtà non avvertiamo la mancanza cui tu alludi. Cerchiamo di suonare puntando molto sull’espressività, quindi lontani da qualsivoglia virtuosismo…anche so poi, qua e là, si ascolta qualche spunto strumentale davvero interessante. Al riguardo una notizia interessante e pertinente. Quasi pronti per l’uscita del disco ci è venuto in mente che sarebbe stato opportuno inserire un ospite e abbiamo immediatamente pensato a Jaques Morelenbaum, violoncellista di grandissimo spessore, ed esponente di quella fusione di lusso che da sempre caratterizza la mia cifra stilistica. Lui ha accettato con entusiasmo e così è possibile ascoltarlo in ben quattro brani”.

-Che cos’è per te oggi la musica e in particolare il jazz…ammesso che si possa ancora adoperare questo termine.
“Per me la musica oggi più che mai è la ricerca della melodia, dell’espressività. In certi concerti di jazz oggi io non sento molta melodia soprattutto da parte dei giovani. Li sento molto astratti, ma non c’è il corpo, non c’è il sangue… si ascoltano un sacco di robe molto complicate ma in cui manca la morbidezza, l’espressività”.

-A questo punto interviene Gabriel Grossi:
“Noi non ci leghiamo ad alcun genere, andiamo per la nostra strada. La nostra chiave di lettura resta la ricerca dell’espressività”.

-In quello che hai appena detto – e mi rivolgo a Stefania – qual è stata l’influenza delle scuole di musica?
“I ragazzi pensano che basta conoscere le scale per saper suonare il jazz. Ma non hanno capito che il jazz è un’altra cosa: è suonare sui dischi, è ascoltare moltissima musica. Ecco io credo che questo modo di intende il jazz ci abbia fatto perdere per strada qualcosa di molto importante. Ma chissà, forse ci si arriva con il tempo, con l’età…o forse non ci si arriva. Vedremo”.

-Però gli anni passano ed io in giro di enormi talenti non ne vedo…
“No, no, i talenti ci sono. Diciamo che ci sono dei grossi talenti di cui però non condivido l’estetica”.

-Come valuti il rapporto che oggi si è creato tra critici e musicisti?
“Una cosa che non capisco è il perché non si recensiscono più i concerti: i giornalisti che assistono ai concerti sono davvero pochissimi e chi li recensisce ancora meno. Ecco, lo chiedo a te: perché accade tutto ciò?”.

-Io i concerti li recensisco come ben sai quindi non lo chiedere a me. Ma, se vuoi una mia opinione al riguardo posso dirti che il jazz è praticamente scomparso dai mass media importanti, giornali, radio e televisioni.
“Comunque, venendo alla tua domanda, io ho sempre avuto ottimi rapporti con i critici di jazz”.

-Però, specie negli ultimi tempi, molti tendono a snobbare il giudizio dei critici considerandolo nella migliore delle ipotesi superfluo…
“E fanno male perché quando il recensore è davvero libero e non condizionato dalle case discografiche è lui che fotografa il polso della situazione”.

A questo punto Stefania gira la domanda a Gabriel il quale ci dice che personalmente ha sempre avuto un buon rapporto con i critici e che la stessa cosa può rivelarsi su scala più grande quando si parla di musica brasiliana e dei relativi osservatori. Tenendo conto di un fatto: in Brasile i critici musicali sono una specie in estinzione per cui non è facile trovare qualcuno che si interessi veramente, con passione e competenza, alla tua musica. Insomma i critici degni di questo nome sono davvero pochi, pochissimi oserei dire.
-Sempre rivolto a Gabriel: che differenza hai trovato tra l’ambiente musicale italiano e quello brasiliano?
“In Italia il pubblico ascolta i concerti con molta più attenzione, il Brasile è un Paese molto musicale ma non c ‘è molto la cultura dell’ascolto…anche se le cose stanno migliorando. A San Paulo le cose vanno meglio perché c’è più una cultura europea mentre a Rio de Janeiro occorre che la musica si accompagni sempre ad un evento importante”.

-Stefania tu non sei certo alla prima esperienza con la musica brasiliana. Qual è la differenza tra questo album e ciò che hai vissuto negli anni scorsi?
“Io per anni ho cercato quello che poi ho trovato nella musica brasiliana vale a dire un rapporto profondo, quasi fisico con la musica… insomma un insieme di elementi che nel jazz mai ho trovato e quando ho fatto un viaggio in Brasile e ho cominciato a conoscere la vera musica brasiliana – non solo quella che arriva qui da noi – mi ha fatto capire che era ciò che cercavo, non tanto a livello di estetica quanto al modo di rapportarsi con la musica. Lì i musicisti si incontrano per stare assieme, per ascoltare musica, per suonare… questa è una cosa bellissima che da noi non accade … è il modo in cui loro stanno dentro la musica che mi ha particolarmente impressionato”.

-E qui da noi non c’è?
“Credo proprio di no. Onestamente l’ho cercata per tanto tempo ma non l’ho trovata”.

E come darle torto.

Gerlando Gatto

MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro

DA FERLINGHETTI A KEROUAC C’E’ ANCORA BEAT GENERATION!

– “Beatitude” italoamericana.
C’è di che riflettere sulla capacità autorigenerante della beat generation. Il movimento riesce a fasi alterne a riproporre i propri eroi in eventi, film, pubblicazioni letterarie, dischi.
Dopo la straordinaria stagione iniziale si sono susseguiti echi e ri-percorsi da parte dei suoi protagonisti. Il più longevo, Lawrence Ferlinghetti, nato nel 1919 e vissuto fino al 2021, è stato l’alfiere che ne ha traghettato, anche fisicamente, il vessillo divulgandola oltre gli albori del nuovo millennio. E ancora dopo la sua scomparsa le “city lights” rimangono accese.
La Tùk Music con l’album “Ferlinghetti”, celebra oggi questo guru che ha l’immagine scolpita nella roccia a fianco di Burroughs, Ginsberg, Kerouac, Corso… Il disco vanta come interpreti e, alternativamente, autori, Paolo Fresu, Dino Rubino, Daniele Di Bonaventura e Marco Bardoscia. Il lavoro, che ha una propria autonomia rispetto alla pellicola, raccoglie le musiche originali composte per il docufilm “The Beat Bomb” di Ferdinando Vicentini Orgnani, girato tra il 2006 e il 2022 in U.S.A. ed Europa, che documenta e racconta, come ricorda Fresu “la straordinaria storia creativa intellettuale e umana di Lawrence Monsanto Ferlinghetti: poeta, pittore, attivista sociale e co-fondatore della City Lights Booksellers e & Publishers di San Francisco“. Ferlinghetti, a cui la Brescia dei familiari (il padre Carlo era di Chiari) ha dedicato una importante mostra nel 2017, fa parte della fronda italo-americana (o americoitaliana che dir si voglia) della beat generation. Ha scritto Francesco Meli che “il Vecchio Mondo ha continuato a sopravvivere nel Nuovo in forma originaria, assoluta, radicale” (“Cool, Hip, Beat. Dal jazz moderno a Jack Kerouac”, Mimesis, 2021).
Considerazione che si attaglia all’esperienza beat di Gregory Corso, ritratto nel docufilm “Bomb” di Scarfò, radici del reggino tradite da un linguaggio dissonante e ibrido di dialetto che ne caratterizza il verseggiare. E c’è Diane Di Prima, di parte materna sancosimese – si è in provincia di Latina – quale esponente femminile di spicco laddove è Philip Lamantia , di origini siciliane, a far da tramite col surrealismo francese. Vicino al movimento John Giorno, culturale heritage nel materano, sperimentalista di “spoken word” e poesia sonora. Per la cronaca Michela Valmori, su www.stradedorate.org, ha sottolineato l’accostamento aKerouac di uno scrittore bohemian come John Fante (il cui padre proveniva dalla provincia di Chieti) per analogo “migrant writing”, pur senza che quest’ultimo sia ascrivibile alla Beat Generation. I rapporti con esponenti culturali nostrani, come quelli fra Ginsberg e Pasolini,le frequentazioni, i reading, i raduni, gli happening nell’Italia attorno ai ’70, dimostrano un interscambio col nostro Paese con diversi riscontri, proseliti e gruppi (cfr. Alessandro Manca, “I figli dello stupore. La beat generation italiana”, Sirio, 2018). Evidentemente alla base c’era e resiste il fascino diffuso da/fra quei profeti del dissenso, un alone insieme di poesia prosa musica e ribellione.

– Dal centenario Ferlinghetti al centenario di Kerouac.
Il 2022 segna il trascorrere di un secolo dalla nascita di Jack Kerouac. Per l’occasione RaiPlay ha mandato in onda, sulla striscia di Rai Teche, “Beat Graffiti” con l’ intervista rilasciata a Milano nel ’66 a Fernanda Pivano da questo intellettuale evergreen. Gabriele Romagnoli ha osservato su “DLui” di marzo che Kerouac “non è morto, è solo partito di nuovo”. Una Beat
ri-Generation! Per l’occasione sono da segnalare, fra le novità discografiche, i due cd della compilation “Jack Kerouac. 100 Years Of Beatitude” (Bear Family Records) di Vari Artisti jazz pop e rock (fermo restante il “primum” del cofanetto Rhino del 1990, collection Verve del 1960 rieditata in “Readings by Jack Kerouac on the Beat Generation”). A 360 gradi le iniziative in campo a partire dal fitto calendario predisposto nella città natale di Lowell, nel Massachusetts, dal LCK (lowellcelebrateskerouac.org) quindi a New York il festival “The Village Trip”, ospiti-mattatori David Amram e Bobby Sanabria (Kerouac Society), per continuare a Vigo in Spagna con il “Festival Kerouac” di Musica Poesia e Performances in ottobre, special guest la poetessa Anne Waldman (cfr.jackkerouac.com/news). In ambito più letterario, in Italia, si è tenuto in ottobre il “Premio Internazionale di Poesia e Letteratura 100 anni di Kerouac”, a Morano, in Calabria: terra di santi, meta di barbari, tana di briganti e faro di migranti, con alle spalle una storia di fughe e cadute, risalite e ricadute. Che sia stato forse tale moto “wanderlust” una delle ragioni di questa location sotto i boschi, “sulla strada” per il Pollino, in parallelo alle montagne retrostanti il “Big Sur” californiano di Kerouac? L’associazione Orion che ha organizzato la manifestazione ha il patrocinio morale, con la Euterpe ASP di Jesi, del Lowell Celebrates Kerouac negli States. Due mondi non lontani, nonostante l’Atlantico a far da spartiterre, con la dea Ecate, la statua della Libertà, a stringere idealmente le mani ai Bronzi di Riace.
Ancora un “Viaggio in Italia” anche se virtuale, per Kerouac, nella terra dei futuristi e di D’Annunzio. A seguire lo ricordiamo in una sorta di ragionato “cut up” o meglio un breve collage di citazioni sul suo rapporto con il jazz in generale e nello specifico sul bebop sul quale sperimentò la “scrittura sincopata” modellando la propria “prosa spontanea”.

– Jack e il Jazz
“ Prima che Diòniso venisse depotenziato nella cultura greca a dio del vino, il suo era un culto misterico orgiastico in cui si maledicevano tutti coloro che ne rifiutavano la propiziazione. La forma artistica principalmente associata a Diòniso era il verso ditirambico, una forma di poesia
caratterizzata da un forte entusiasmo spontaneo. Di qui l’interesse degli scrittori della beat generation per il jazz, incarnazione della tendenza dionisiaca”.
Nicoletta Zuliani, “Jack Kerouac: il bop come modello”, ”Nerosubianco”, Roma, SISMA, 1/1993, pg. 53
“Jack intuisce che quel modo istintivo di scrivere, quasi senza punteggiatura (ndr: di Cassady) così vicino al fraseggio jazz di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, è totalmente nuovo.”
Emanuele Bevilacqua, “Beat & Be Bop”, Einaudi, 1999, pg. 42.
“Nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta i nomi dei musicisti che Kerouac cita più spesso sono George Shearing, Stan Kenton, Gerry Mulligan e Chet Baker (…) quello di Kerouac era un gusto
cool (…) Questa sensibilità è più tipica del cool jazz della costa ovest che della ribellione bebop della costa est”.
Berndt Ostendorf, “Il bebop e la Beat Generation. Razza e misletture creative”, a cura di F. Minganti, sta in “JazzToldTales. Jazz e fiction Letteratura e jazz”, Bacchilega, Imola, 1997, pg. 79.
“ Certo, ascoltare la voce di Kerouac sui vari dischi da lui incisi (da solo o in compagnia di Steve Allen, Zoot Sims e Al Cohn) lo riscatta dalle valutazioni che si limitino all’analisi della pagina scritta”.
Franco Minganti, “X Roads. Letteratura, jazz, immaginario”, id. , 1994, pg. 22.
“Zop! Dizzy urlò, Charlie strillò, Monk scoppiò, il batterista scalciò, tirò una bomba – il punto interrogativo del basso vibrò – e via”.
Jack Kerouac, “Scrivere Bop. Lezioni di scrittura creativa”, Milano, Mondadori, 1996, pg. 38.

Amedeo Furfaro

Ciao Franco

La mattina, appena sveglio – maledetta abitudine – per prima cosa do uno sguardo alla rassegna stampa che mi arriva sul telefonino. E così ho fatto anche stamane; ad un certo punto, ancora non del tutto sveglio, noto la foto di un bell’uomo, giovane. Tra me e me penso: ma questo lo conosco. A poco a poco i neuroni si mettono in moto e lo riconosco, è lui, è Franco e capisco immediatamente: Franco Fayenz se ne è andato in un luogo, per chi ci crede, sicuramente migliore di questa terra.

La notizia è di quelle che si fatica a digerire anche se l’età di Franco (92 anni) ci aveva messo tutti in preallarme. Ma, come al solito, una cosa è immaginare altra cosa è vivere una determinata realtà.

Cercherò in questo breve ricordo di non lasciarmi andare a quell’ondata di tristezza che mi ha avvolto questa mattina anche se lo confesso non è facile. Conoscevo Franco non so bene se da 40 o 50 anni. Il nostro era un bel rapporto sempre improntato al sorriso, allo scherzo, al comune amore per il jazz.

Quando ci incontravamo o ci sentivamo per telefono lui amava prendersi gioco di me, inventando giochi di parole sui miei nome e cognome, ma lo faceva in modo così amorevole, col sorriso sulle labbra che sembrava voler dire “non badare alle mie parole, ti voglio bene” che era impossibile arrabbiarsi.

 

Ovviamente c’erano anche momenti più seri, quelli in cui si parlava di musica ed era un piacere ascoltarlo anche perché lui ti raccontava eventi, episodi vissuti in prima persona. Eventi che lo hanno visto protagonista della scena jazzistica almeno per trent’anni di fila in cui Franco si è segnalato come un grande divulgatore grazie ai suoi articoli, ai suoi libri e alle sue apparizioni in TV. Non dimentichiamo che negli anni Settanta Fayenz, assieme a Franco Cerri, collabora a “Jazz in Italia”, un programma di Carlo Bonazzi declinato attraverso una serie di interviste ai jazzisti le cui performances in giro per i jazz club della Penisola venivano mandati in onda. La sua brillante carriera è stata costellata da molti riconoscimenti che riteniamo superfluo ricordare in questa sede. Basti solo considerare il fatto che la stima da parte dei musicisti mai è venuta meno nei suoi confronti anche quando, per lunghi anni, ha lavorato per un quotidiano che mai è stato in cima alle preferenze dell’ambiente jazzistico globalmente considerato.

L’ultima volta che ci siam visti è stato nel 2015 durante il Festival Udine Jazz e non è stato un bel vedere dal momento che si vedeva come Franco, purtroppo, accusasse il peso dell’età anche se l’arguzia e la voglia di scherzare erano quelle di sempre.

Adesso non scherza più… almeno su questa terra. Ciao Franco, vai ad ascoltare altre melodie!

 

Gerlando Gatto

CRITICA DELLA CRITICA CHE CRITICA LA CRITICA

Volano stracci in ambiente musicale. Gino Castaldo su “L’Espresso” aveva osservato che “la musica del momento fa veramente schifo”. E chiedeva più impegno ai musicisti. E giù il blog “Rebel Mag” a contraddirlo. Ma si parlava di categorie distinte, giornalisti e musicisti, e la cosa, a parte i toni aspri, sembrava poter rientrare nella “normale” dialettica del commentare libero. Leggere però su exitwell.com “che cos’è la critica musicale. E perche fa schifo in Italia (perlopiù)” fa un certo effetto perché l’assunto viene dal “fuoco amico”. Si, è vero, si smorza l’effetto del titolo durante l’esposizione ma intanto se uno va a cliccare su internet “critica musicale schifo Italia” gli appare, indelebile, la traccia di una accusa che andrebbe meglio comprovata.

Su una cosa comunque siamo d’accordo: si è in buona parte persa l’autorialità di chi scrive, e l’esempio fornitoci dallo stesso estensore lo prova. Eppoi sul fatto che una massa di persone svogliate e disattente stia vincendo la guerra di posizione sul terreno musicale.
Sul resto – ad esempio “che le recensioni non servano più a nulla” – non discettiamo né sulla “lezione” di cosa dovrebbe fare un buon critico musicale, in primis ascoltare e leggere. Grazie, gentilissimo, a buon rendere. Vorremmo solo aggiungere che l’argomento potrebbe essere affrontato partendo dai massimi sistemi. Se si esclude la fascia musicologica della categoria (censita mirabilmente fino al ’61 da Della Corte) la critica musicale oggi è percepita in genere come una variante del giornalismo (musicale). Ma come sta il giornalismo in Italia?  Certo la situazione non è rosea e di ciò risente quella parte sana deputata a ragionare e non a triturare i fatti, a dare di suo e non a riciclare veline e comunicati stampa. Il problema è in fondo anche questo. Poi ognuno si assume la responsabilità di ciò che firma anche se i lettori saranno meno di 25.
È stato detto – ma non lo condividiamo – il critico d’arte è un pittore mancato con l’invidia del pennello. L’analogia non è però semplice da trasferire alla critica musicale. Ciò poiché ci sono critici musicali, sulle nostre sponde, che sanno essere “creativi” o quantomeno originali, tradurre, sinteticamente o meno, in concetti la chiave di lettura di un disco, il senso di uno spettacolo, lo spirito di un concerto, senza scopiazzare o fare raccolta indifferenziata di ciò che si legge in giro. Qualcuno preferisce invece titolare che la critica musicale è schifosa. In Italia! Ce ne faremo una ragione e, seguendo il prezioso suggerimento, lasceremo che il cursore del pc navighi altrove cercando l’autorialità smarrita (perlopiù).

Amedeo Furfaro

Gegè Telesforo Quintet” – Special Guest Dario Deidda al Latina Jazz Club il 23 aprile

Prosegue intensa l’attività del Latina Jazz Club. Il prossimo appuntamento è dedicato alla vocalità: sabato 23 Aprile alle ore 21:00, presso il Teatro Fellini di Pontinia sarà di scena il “Gegè Telesforo Quintet” Special Guest Dario Deidda al basso, con “Impossible Tour”. A completare il combo Domenico Sanna pianoforte, Michele Santolieri batteria, e Daniela Spalletta voce.

A ben ragione considerato uno dei migliori vocalist del Vecchio Continente, Telesforo sta portando in giro per il nostro Paese questo spettacolo che conferma ancora le sue molteplici qualità testimoniate, tra l’altro, dalla vittoria del Jazzit Award per 10 anni consecutivi dal 2010 al 2019 come miglior voce maschile. Ma considerare Gegè solo come cantante, seppure di classe, sarebbe riduttivo dal momento che la sua prorompente personalità si è affermata anche come ricercatore, divulgatore musicale (con il programma “Soundcheck” per Radio24 dove presenta novità ed artisti di tutto il mondo, anche scoperti con un lavoro di ricerca ed approfondimento di grande spessore e qualità) nonché comunicatore tv: il suo programma “Variazioni Su Tema” per Rai5, parla dei musicisti, della loro vita, della loro musica.
Non meno rilevante la carriera di Dario Deidda; diplomato in contrabbasso a Salerno, durante gli studi al Conservatorio si dedica anche al basso elettrico e al pianoforte, sì da delineare una statura musicale a 360°, anche se il suo mondo musicale preferito è il jazz. Profondo conoscitore del jazz tradizionale, si spinge anche fino alle tendenze più attuali esibendosi al Basso Elettrico.
Dall’incontro tra questi due fuoriclasse non può che scaturire musica di eccellente livello… soprattutto se i due sono coadiuvati da giovani bravi quali i già citati Sanna e Santolieri, per non parlare di quella Daniela Spalletta, vocalist e pianista di assoluta eccellenza, che da poco ha registrato un album eccezionale quale “Per Aspera Ad Astra”.
Insomma un concerto da non perdere specie per chi ama il canto jazz.

(Redazione)