Pat Metheny e Trio Rahsaan Due linguaggi a confronto

Due dimensioni concertistiche, due luoghi, due pubblici. Si vuole qui mettere a confronto indiretto il recital di Pat Metheny con il suo quartetto al Parco della Musica (8 maggio, sala S.Cecilia) con quello del trio Rahsaan (Eugenio Colombo, Marco Colonna, Ettore Fioravanti) al 28diVino. La più prestigiosa istituzione sonora capitolina ed un club, migliaia di persone da una parte e qualche decina dall’altra, tutte accomunate dalla passione per la (stessa ?) musica.

Metheny è uno dei pochi jazzisti che riesca a riempire il più grande degli spazi del romano Parco della Musica. Da anni la sua fama va ben al di là dell’ambito jazzistico:  coinvolge i numerosi estimatori del linguaggio chitarristico come coloro che amano cantabilità ed atmosfere evocative di un vasto spettro espressivo, dalla musica brasiliana al country.  Il musicista di Lee’s Summit conserva lo stesso look (maglietta a righe, capelli fluenti e castani) come se il tempo si fosse fermato e ciò crea complicità e “rispecchiamento”, almeno con la parte più “storica” dei suoi estimatori. Il chitarrista ha con sé, da tempo, Antonio Sanchez, un batterista di rara finezza e creatività che segue il leader senza bisogno di spartiti e ne asseconda ( o stimola) le dinamiche, immerso in modo partecipe nel flusso della musica. Al contrabbasso Linda Oh e al piano (confinato in un ruolo di accompagnamento, interrotto da brevi e rari assoli) lo strumentista inglese Gwilym Simcock. Pat Metheny – e questo è l’unico segno del tempo ed una “debolezza” da rock-star – ha un’assistente che, seguendo la scaletta, gli porge o sottrae i vari strumenti che colorano brani e concerto: la Manzer Pikasso Guitar (con 42 corde), la storica Gibson ES 175, la chitarra synth Roland 303, la Manzer Classical… Brani nuovi e del vasto repertorio si susseguono sempre accolti dal favore esplicito di un pubblico che celebra Metheny quale “guitar hero”, ruolo che gli appartiene davvero e che ha meritato sul campo in decenni di recital ed album, guidato da un entusiasmo per la musica che non è mai formale, al contrario generoso.

Alla lunga, tuttavia, il concerto tende ad essere ripetitivo perché ci vorrebbero altri partner, più paritari (Sanchez escluso) e perché la musica di Metheny si configura in una sua splendida quanto manieristica stagione: dona eufoniche certezze, sfodera un dinamismo invidiabile ma non “graffia” più (o molto meno) sul panorama sonoro contemporaneo.

 

Dagli spazi e dalle masse dell’Auditorium precipitiamo metaforicamente (anche a ritroso nel tempo) al 28diVino, locale romano che accoglie proposte innovative e radicali, sempre aperto a giovani jazzisti, novità, sperimentazioni ed incontri (gestito con coraggio da Marc e Natacha, ancora non si sa per quanto). Qui il 30 aprile (International Jazz Day) ha scelto di esibirsi il trio  Rahsaan che ri-propone la musica visionaria e comunicativa del politrumentista Roland Kirk, artista spesso dimenticato il cui magistero ancora brilla per originalità. Colombo, Colonna e Fioravanti hanno suonato in altri locali romani ed hanno registrato il 18 aprile le tracce di un album di prossima uscita: l’esibizione al 28diVino è, quindi, il frutto maturo di una ricerca d’identità che passa attraverso un repertorio arrangiato (soprattutto da Marco Colonna) per due ance (a volte tre o quattro) e percussioni, rendendo essenziale il lirismo kirkiano pur mantenendone l’espressionistica policromia. Del resto il plurisassofonista era in grado di suonare più strumenti contemporaneamente, servendosi di sassofoni, flauti ed “attrezzi sonori” desueti (come il C Melody Sax). Dodici i brani impaginati dal trio in modo narrativo e timbrico, con un continuo cambiare delle ance mentre Ettore Fioravanti alterna e fonde pelli e piatti. Il fiato continuo ed il ff dominano “Voluntareed Slavery”;”Theme for the Euliption” gioca con due alti mentre all’alto di Colombo si affianca il possente baritono di Colonna nella mingusiana “Oh Lord…” (nella registrazione originale c’era Kirk alle ance). E’ teatrale “Three for the festival”, trasuda blues “Inflated Tear”; un funk vicino a quello di Sun Ra o di Albert Ayler si ascolta in “Funk Underneath” e pentatonico è il bis conclusivo, “Blacknuss”.

Non mancano brani originali o di altri autori che ben si integrano con il variegato corpus delle composizioni/happening di Roland Kirk, artista cieco in cui l’aspetto visionario, iconico ed onirico era fondamentale. Il flauto ed il clarinetto basso tratteggiano “Desert Walkin”, arricchito da un exploit percussivo di Fioravanti, e “Frames” entrambi di Colonna. Il “Petit Fleur” di Sidney Bechet viene arrangiato (ed estremizzato) per due alti; “Devi Urga” è di Colombo e “Konia/Otha” dei due polistrumentisti, il cui linguaggio rielabora e personalizza elementi etnici e del radicalismo free. Musica incandescente, quasi “lavica” per un pubblico ristretto eppur partecipe come è, in genere, quello del 28diVino: il pubblico di una “cave” che è basilare terreno di cultura e incubazione per un jazz che rifiuta l’intrattenimento o il revivalismo.

Alla fine pur essendo in gran parte musica di repertorio quella proposta dal trio Rahsaan, suona più nuova che quella dello scintillante quartetto di Pat Metheny; più in dettaglio la musica di Colombo/Colonna/Fioravanti ingloba ed a tratti esalta quei tratti afroamericani che in Metheny esistono in forma ormai stemperata, anche se al chitarrista va riconosciuto il merito storico di aver prodotto e suonato con Ornette Coleman (“Song X”, 1986) quando molti si erano dimenticati del padre del free e di averne sempre valorizzato i brani per il loro lirismo. Ed è, paradossalmente, la vocalità che accomuna i due: il chitarrista bianco di Lee’s Summit (Missouri) e l’altista nero di Forth Worth (Texas).

Cettina Donato – Lucian Ban e Matt Maneri due facce della stessa medaglia

 

Cos’è oggi il jazz? Chiunque volesse dare una qualche sensata risposta a tale interrogativo si troverebbe immerso in un mare di guai. Eh sì, perché definire cosa sia oggi il jazz è impresa al limite dell’impossibile tali e tanti sono gli elementi che contribuiscono a determinare tale linguaggio. Il jazz è la tradizione di Louis Armstrong, le splendide voci di Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, il bebop di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, le cascata sonore di John Coltrane, il modale di Miles Davis, l’informale di Cecil Taylor e Ornette Coleman… ma è anche l’espressione di quanti cercano e spesso trovano un ponte sonoro con la musica contemporanea creando qualcosa in cui è ben difficile trovare attinenze con la tradizione di cui sopra.

Di tutto ciò abbiamo avuto ancora una volta plastica conferma ascoltando, alla Casa del Jazz,  una sera dopo l’altra le esibizioni di Cettina Donato e del duo Lucian Ban e Mat Maneri.

Ma procediamo con ordine.

Il 30 aprile in occasione dell’International Jazz Day, la pianista e compositrice messinese ha presentato, per la prima volta live in Italia, il suo quarto lavoro discografico “Persistency – The New York Project” realizzato con Matt Garrison sax, Curtis Ostle contrabbasso e Eliot Zigmund drums. Andare in tournée con tre musicisti di tal fatta è impresa praticamente impossibile per cui la Donato si è presentata con Luca Fattorini contrabbasso  e Francesco Ciniglio batteria che non hanno certo sfigurato. Ecco, Cettina Donato è artista che ancora adopera un linguaggio che non si fatica a definire “jazzistico” essendo profondamente inserito in quella sorta di mainstream che ancora oggi contraddistingue molti jazzisti di  vaglia. E questo suo radicamento lo si nota non solo nel suo modo di “toccare” il pianoforte quanto nelle composizioni che denotano una raggiunta maturità espressiva che le consente di magnificamente adattare le sue capacità strumentali a ciò che vuole esprimere. Di qui una musica che pur rimanendo fortemente ancorata alle radici del jazz è tuttavia in grado di offrire spunti sempre nuovi e…perché no, di commuovere quanti sanno ascoltare non solo con la mente ma anche con il cuore. E di cuore Cettina ne ha davvero tanto; anche durante il concerto romano, l’artista ha tenuto a precisare che l’intero ricavato della vendita del disco sarà destinato ad un progetto da lei fortemente voluto: la costruzione della Residenza “VillagGioVanna”, in provincia di Messina, destinata ad ospitare in maniera permanente bambini, ragazzi e adulti affetti da autismo e che non hanno il sostegno della propria famiglia. Il progetto comprende anche un grande spazio destinato alle attività musicali con uno studio dotato di strumenti, dischi, una sala cinema, un terreno che ospiterà animali domestici per la Pet Therapy ed anche una piscina. Previsto il supporto di medici, assistenti, infermieri, operatori.

Come accennato, la sera dopo siamo tornati alla Casa del Jazz, per ascoltare Lucian Ban al pianoforte  e Matt Maneri alla viola. E qui il discorso cambia radicalmente ché trovare tracce di jazz, canonicamente inteso, è davvero difficile…anche se la performance dei due è stata semplicemente superba.  Lucian Ban è un pianista e compositore rumeno cresciuto in un villaggio della Transilvania e residente da diverso tempo negli Stati Uniti. Il suo pianismo ha radici nel blues, in Ellington, Monk e Jarrett e si collega in qualche modo alla tradizione afroamericana, cui aggiunge le influenze che gli vengono dalla sua terra,  la melodia, la malinconia soffusa. Mat Maneri, americano di origine italiana, figlio del sassofonista Joe Maneri, è invece un affermato violinista e specialista di viola, che ben conosce tutta la lezione del free. I due hanno già suonato insieme nel disco a doppio nome Ban/Hebert intitolato “Enesco Re-Imagined” del 2010 mentre a Roma i due hanno presentato brani tratti da “Transylvanian Concert” registrato nel 2011 e che ha rappresentato l’esordio per ECM del pianista rumeno. L’album nasce da un’esibizione live al Culture Palace di Targu Mures in Romania, regione in cui Lucian Ban ha trascorso la sua infanzia. I due hanno letteralmente affascinato il non numeroso pubblico con una musica tanto straniante quanto profonda, esplorando a fondo quel terreno di confine che sta tra il jazz e la musica contemporanea con una padronanza strumentale fuori del comune. I due si conoscono bene e soprattutto si nota che provano grande gioia nel suonare assieme. Non c’è frase, non c’è spunto, non c’è input lanciato da uno dei due che non venga immediatamente ripreso, sviluppato, rilanciato dall’altro. Comunque quello che tra i due impressiona maggiormente è Maneri per la sua capacità di piegare uno strumento difficile come la viola alle sue esigenze espressive. Così la viola la si ascolta ora con voce perentoria, con un sound profondo quasi del tutto privo di vibrato, ora con voce sottile, delicata a sottolineare i passaggi più intricati del pianista, ora in funzione quasi vocale, il tutto sulle ali di una improvvisazione che sembra non conoscere limiti e che proprio per questo, necessita di una concentrazione totale, assoluta. Non a caso il clima che si crea è di quelli che si fatica a rompere anche con gli applausi alla fine di ogni brano.

Un’ultima ma non secondaria considerazione: ad ascoltare questi due artisti straordinari eravamo circa quaranta; nelle stesse ore per il concertone del I maggio a San Giovanni c’erano migliaia di persone!!!

Roma e il jazz

Massimo urbani 2

Che Roma sia una città jazzistica – nonostante i numerosi e strutturali problemi per la musica di ispirazione afroamericana – è affermazione plausibile. Domenica 8 maggio alle ore 18 è stata collocata una targa in onore di Massimo Urbani nell’area verde antistante il parco di Santa Maria della Pietà a Roma nord. E’ l’atto (temporaneamente) conclusivo di un percorso iniziato il 6 agosto 2015, quando la giunta del municipio XIV aveva deliberato l’apposizione di una targa in memoria di “Max” che è nato e cresciuto nel quartiere di Monte Mario. Nel marzo 2015 si era, peraltro, svolto un jazz festival a piazza Guadalupe, sempre dedicato al grande sassofonista e la rassegna dovrebbe essere replicata nei prossimi mesi, diventando un “appuntamento annuale per tutti gli appassionati e i fruitori di questa forma musicale (il jazz, n.d.r.) di cui Massimo ha saputo rendere al meglio quell’urgenza espressiva che ne è alla base” (come ha dichiarato Pino Acquafredda, presidente della commissione Scuola, Cultura e Sport). Alla cerimonia di domenica hanno partecipato svariate persone che hanno conosciuto Massimo Urbani e gli sono state amiche, come il batterista Ivano Nardi con cui Max ha spesso suonato. (altro…)

primavera 2015: nusica.org “on tour”. Ecco tutte le date!‏

Siamo lieti di annunciare che, per nusica.org, questa primavera sarà un periodo ricco di eventi, che vedranno partecipi i nostri progetti, i cd, le band in numerosi appuntamenti in Italia.Sarà un’occasione per incontrarti e conoscerti, farti scoprire chi siamo, presentarti la nostra realtà e ascoltare la nostra musica dal vivo.
Ecco dove saremo: vieni a vedere! Ti aspettiamo.

30 aprile, ore 14.00 @ Sala Petrarca, Teatro MPX, PadovaInternational Jazz DayBig Band Unipd (Università degli Studi di Padova)

diretta da Alessandro Fedrigo

MusiCafoscari Ensemble (Università Ca’ Foscari di Venezia)

diretto da Nicola Fazzini

Maggiori info: http://m.unipd.it/ilbo/international-jazz-day

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1 maggio, ore 21.00 @ Spazio Aereo, Marghera, Venezia

nusica.org dal vivo per “Power Acoustic Sunday”

Luigi Vitale and Luca Colussi “Stilelibero” 

HYPER+ 

Info sull’evento qui e qui

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4 maggio @ Radio Veneto Uno, Treviso

HYPER+ a “Garage Music”, live e intervista

Info qui: http://www.venetouno.it/ e qui

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16 maggio, ore 21.00 @ Museo Toni Benetton, Mogliano Veneto, Treviso

Luigi Vitale e Luca Colussi “Stilelibero”

Info qui

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23 maggio, ore 11.30

XYQuartet dal vivo @ “Young Jazz Festival”, Foligno (PG) Info: http://www.youngjazz.it/programma-young-jazz-2015-foligno-umbria.html
23 maggio, ore 21.00
nusica.org presenta
XYQuartet
Alessandro Fedrigo Solitario
Nicola Fazzini “Minimum Sax” Random2 (anteprima nuova uscita)
@ Casa del Jazz, Roma
Info: http://www.casajazz.it/pagine/eventi-000

il quartetto e il progetto;

su Facebook: https://www.facebook.com/XyQuartet

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10 giugno, ore 21.30 @ Vitraria Glass +A Museum, Venezia

Nicola Fazzini – Minimum Sax

Random2

Info qui: http://explore.vitraria.com e qui

La grande vitalità del Jazz italiano

©Foto: Paolo Soriani

©Foto: Paolo Soriani

Una lunga kermesse di quattro ore Al Jazzit Club per festeggiare la giornata internazionale del Jazz promossa dall’ Unesco: 600 persone all’ Antonianium di Roma e più di 50 Jazzisti italiani che si sono avvicendati sul palco, nel super concerto organizzato dall’ instancabile Luciano Vanni e dal direttore artistico Gegè Telesforo. I musicisti si sono esibiti a titolo gratuito, il biglietto di dieci euro a persona ha finanziato le spese di palco e di gestione, ed il resto del ricavato è stato devoluto in beneficienza. Questa è formula di “sharing economy” che Vanni, in collaborazione tra gli altri con Radio 24, ha voluto per rendere possibile un evento di questa portata e che evidentemente ha funzionato oltre i suoi migliori auspici.

Sembrerebbe un buon momento per il Jazz in Italia: nasce l’ Associazione Musicisti Jazz Italiani, il ministro Franceschini ne ascolta e ne approva le istanze, e comincia a circolare un po’ di ossigeno che pur se non ancora economico, è culturale. Il che non è poco in un Paese in profonda crisi nel quale la cultura è divenuta il fanalino di coda.

E che il Jazz italiano sia più vitale che mai si è visto in questa lunga maratona, in cui abbiamo ascoltato artisti di grande livello, di tutte le età, e gruppi che rappresentano tanti tipi di linguaggi, diversissimi tra loro eppure tutti fervidi di creatività strutturale ed estemporanea.
Ce n’ è stato davvero per tutti i gusti.

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FESTA DEL LIBRO EBRAICO & JAZZ CLUB FERRARA – Mercoledì 30 aprile con il BEN GOLDBERG TRIO si celebra la GIORNATA INTERNAZIONALE DEL JAZZ UNESCO

Nonostante l’inclemenza del tempo prosegue in questi giorni il ricco palinsesto della Festa del Libro Ebraico che, in occasione della Giornata Internazionale del Jazz UNESCO 2014, trascina il grande jazz al di fuori del Torrione San Giovanni e in collaborazione con il Jazz Club Ferrara ospita, nella serata di mercoledì 30 aprile (ore 21.30) presso il Chiostro di San Paolo di via Porta Reno a Ferrara, il trio guidato dal poliedrico clarinettista Ben Goldberg completato da Greg Cohen al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria.
Rising Star del clarinetto secondo una recente edizione del Downbeat Critic’s Poll, Ben Goldberg è autentico pionere nell’uso di questo strumento in ambito jazz. 
Il primo approccio con la musica avviene durante l’infanzia grazie ad un vecchio Noblet (marca di clarinetti prodotti in Francia) che la madre gli suonava pazientemente. Gli studi successivi lo conducono a suonare contemporaneamente clarinetto classico da una parte e sax jazz dall’altra sotto l’ala di mentori quali Steve Lacy e Joe Lovano. Con tutta probabilità è da questa interessante dicotomia che lo spirito poliedrico di Goldberg ha tratto linfa per esplorare le sue radici klezmer ed innestarle, attraverso un uso del tutto innovativo e personalissimo del clarinetto, nel filone del jazz più innovativo.
Dopo una prima esperienza nel gruppo dei Klezmorin Goldberg concepisce la propria formazione, il New Klezmer Trio, grazie alla quale è conosciuto ai più sin a partire dai primi anni ’90, in particolare da quando viene intercettato da John Zorn per partecipare al “Radical Jewish Culture Festival” di Monaco. Successivamente sarà lo stesso Zorn a dichiarare la diretta discendenza del suo progetto Masada dal New Klezmer Trio producendone diversi album con la propria etichetta, la Tzadik Records.
Ma Goldberg non è solo sinonimo di musica ebraica radicale, è altresì visionario cantautore (basti pensare ad album come Unfold Ordinary Mind o Subatomic Particle Homesick Blues), ricercato sideman (di recente a fianco di Joshua Redman e Marty Elrich), nonché membro dell’avventurosa formazione di musica da camera chiamata Tin Hat.
In occasione di questo nuovo viaggio musicale in cui Goldberg prosegue l’indagine su musica ebraica, jazz e improvvisazione troviamo al suo fianco il contrabbassista Greg Cohen (già nel quartetto Masada e in quello capitanato da Ornette Coleman) e il batterista Kenny Wollesen (con cui Goldberg iniziò l’avventura del New Klezmer Trio) già con Bill Frisell e John Zorn.
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