Arriva con sette concerti “Gezziamoci Autunno”

Chiusa la stagione estiva del festival jazz della Basilicata di cui abbiamo riferito, comincia sabato 30 settembre la stagione autunnale di Gezziamoci, il festival che da 36 anni diffonde la musica jazz e la cultura dei territori.

Il primo appuntamento in calendario è sabato 30 settembre alle 15:30 per il trekking urbano con partenza e arrivo nel Giardino del Silenzio al termine del quale sarà possibile partecipare al concerto aperitivo di Artvark Saxophone Quartet, quartetto di sassofonisti olandesi capaci di mescolare musica classica e jazz, soul e blues per una esibizione scoppiettante, ricca di emozioni e cambi di registro. Gli Artvark emozionano, “ringhiano e scoppiettano” fondono i loro diversi background per formare un suono unanime creativo e unico. Dalla loro nascita hanno collaborato con artisti speciali e straordinari, come con la leggenda del jazz Peter Erskine, il maestro batterista senegalese Doudou N’Diaye Rose, la band indie rock danese Efterklang e il famoso compositore Philip Glass. Gli Artvark aspirano a collegare mondi e ad attraversare confini, sia in sé stessi che nella loro musica, “Eccellente combinazione, armonie sorprendenti e suono sfacciatamente bello”. (Volkskrant su BusyBusyBusy)
Sabato 14 ottobre Ars Nova Napoli con la partecipazione di Daniele Sepe calcheranno il palco dell’Auditorium di Casa Cava, come farà sabato 28 ottobre Nils Berg con il progetto Basilicata Dream all’interno del Convegno sul Turismo Musicale organizzato dall’associazione I-Jazz e Onyx Jazz Club; Dino Rubino Trio si esibirà domenica 12 novembre sempre nell’Auditorium di Casa Cava.
Cambio di location per il duo Trovesi – Remondini che suoneranno sabato 16 Novembre nelle sale di Palazzo Bernardini; si torna nell’Auditorium di Casa Cava per le ultime due date di Gezziamoci 2023 che il 2 dicembre ospiterà una coproduzione della Piccola Orchestra Materana Onyx con IAC Centro di arti Integrate e l’appuntamento finale con “la signora del jazz italiano” Rita Marcotulli, sabato 16 dicembre.
Questa edizione di Gezziamoci si arricchisce di un appuntamento molto importante: da venerdì 27 fino a domenica 29 ottobre Onyx Jazz Club ospiterà a Matera il Convegno nazionale I-Jazz. L’Associazione Nazionale I-Jazz è stata costituita il 1° febbraio 2008 raccogliendo alcuni dei più conosciuti e seguiti festival jazz Italiani tra i quali Gezziamoci; nel 2014 l’associazione ha ampliato la propria sfera di azione raccogliendo l’adesione di molte realtà ed apprestandosi a divenire, sul modello di quanto accade in tutta Europa, una istanza rappresentativa del jazz italiano, idonea ad operare per progetti e per lo sviluppo di idee. Aderiscono all’associazione circa 80 soci che operano in tutte le Regioni italiane, organizzando festival, rassegne, iniziative promozionali, scuole di musica.

(Redazione)

Per Gezziamoci 2023 proseguono gli appuntamenti nei comuni lucani

Proseguono le iniziative di Gezziamoci 2023 che coinvolgono undici paesi compresi nelle provincie di Matera e Potenza: per il 2023 infatti Onyx Jazz Club ha scelto di portare i suoi concerti in tutta la regione siglando un protocollo di intesa con le amministrazioni comunali che hanno aderito alla Rete Culturale del Gezziamoci.

E’ quindi una vera e propria festa con le comunità che attraversa l’intera Basilicata e incarna in pieno la missione del Gezziamoci: far scoprire il territorio attraverso la musica con azioni e progetti condivisi tra l’Associazione e i cittadini. Da Miglionico ad Avigliano, da San Severino Lucano fino a Grottole, Gezziamoci 2023 porta laboratori di musica d’insieme, sonorizzazioni visive, concerti nelle piazze e negli scorci più suggestivi dei borghi.

La Rete Culturale Gezziamoci è dedicata alla promozione delle specificità ambientali, culturali, storiche dei paesi lucani che sono espressione di un raro equilibrio tra la presenza dell’uomo e della natura in grado di stimolare sentimenti di armonia e bellezza in artisti, viaggiatori, ospiti e residenti. La Rete Culturale del Gezziamoci nasce nel 2022 per coinvolgere attivamente tutto il territorio nelle iniziative dell’Onyx Jazz Club con un protocollo d’intesa stipulato tra l’Associazione Onyx Jazz Club, i Comuni aderenti e la Provincia di Matera ed ha per oggetto la nascita di una Rete tra soggetti pubblici e privati che intendono promuovere lo sviluppo delle realtà locali attraverso la cultura e la valorizzazione delle risorse tangibili e intangibili del territorio.

“Abbiamo sostenuto con convinzione la Rete Culturale del Gezziamoci – ha dichiarato il Presidente della Provincia di Matera, Piero Marrese – sia perché intendiamo perseguire l’obiettivo di contribuire a rinforzare il nostro ruolo di ente che promuove la cultura sotto ogni aspetto, anche con uno sguardo alla valorizzazione del nostro bellissimo territorio, ma anche per affiancare gli altri Comuni aderenti alla rete con l’intento di consolidare questo nuovo sodalizio”.

Il prossimo appuntamento Venerdì 11 agosto a Umberto Viggiano: in Trio con Giuseppe Venezia al contrabbasso e Tony Miolla alla chitarra, si esibirà ad Aliano in Piazzetta Panevino con brani della tradizione jazz manouche, genere musicale che mischia le sonorità della musica tradizionale zingara con quelle del jazz di oltre oceano per un concerto in cui il ritmo diventa il grande protagonista della serata.

Domenica 13 agosto a Genzano in Piazza Margherita arrivano Michele Sannelli&The Gonghers, vincitori del Primo Premio e Premio del pubblico 2022 del Concorso nazionale Chicco Bettinardi. La formazione, nata nelle aule del Conservatorio di Milano, ha da sempre lavorato su una fusione sperimentale del jazz con altri generi musicali.

Giovedì 17 agosto a Latronico alle 22:30 in Piazzetta San Giovanni, Pepe canta Battiato, un’esibizione di Saverio Pepe e Pierdomenico Niglio che offre un punto di vista diverso sul cantautore catanese, un’idea fortemente contemporanea che si intreccia con gli echi dei brani pubblicati tra il 1972 e la metà degli anni ’90.

Il 19 e 20 agosto a Sasso di Castalda doppio appuntamento con Banda Rei: sabato alle 18:30 trekking sonoro con partenza da Piazza Rocco Petrone e domenica concerto al Belvedere, salita San Nicola, alle 19:00. Nata per le strade di Bologna Banda Rei è un collettivo di musicisti colorati e poliedrici, una band versatile e prêt-à-porter dove la mancanza di ingombranti strumentazioni rende agili e compatti musicisti e interpretazioni.

Lunedì 21 agosto a Grottole nel Centro Gerardo Guerrieri, Sophia Tomelleri, Simone Daclon, Alex Orciari, Pasquale Fiore, con il supporto di Kevin Grieco e Rossella Palagano saranno i docenti dei laboratori di musica d’insieme in programma alle 10:00 e alle 16:00. I laboratori continueranno anche il giorno successivo, martedì 22 agosto alle 10:00 sempre nel Centro Guerrieri. Mentre alle 21:00 nel centro storico di Grottole la vincitrice dell’edizione 2020 del Premio Internazionale Massimo Urbani e del Premio Nuovo IMAIE, Sophia Tomelleri, sarà in concerto con il suo quartetto. La sassofonista milanese si avvale di musicisti ai quali è accomunata dall’attenzione verso la storia e la tradizione della musica afroamericana che non impedisce loro di sviluppare composizioni originali con l’ambizione di definire un suono originale di gruppo.

La programmazione estiva di Gezziamoci 2023 continua con gli appuntamenti di Matera dal 23 al 27 agosto e il 24 settembre a Latronico su cui riferiremo nei prossimi giorni.

Rino Cirinnà: in Sicilia non si riesce a fare sistema

Non si può certo dire che la vita di Rino Cirinnà sia banale; nato a Hartford negli Stati Uniti proveniente da una famiglia siciliana di musicisti da tre generazioni torna in Italia quando ha sei anni. Studiato clarinetto nei conservatori di Catania e Roma, città dove si trasferisce per ben otto anni.
Nel 1984 vince il concorso come sassofono soprano nella prestigiosa Banda Nazionale dei Carabinieri di Roma. Nella capitale ha la possibilità di frequentare ed approfondire la musica e l’ambiente jazz confrontandosi con i più importanti musicisti Italiani e principalmente Massimo Urbani, Sandro Satta, Maurizio, Giammarco, Danilo Terenzi, Antonello Salis, e studia con Alfio Galigani. Partecipa ad alcune trasmissioni televisive RAI e fa parte di tour di musica leggera di alcuni tra i più conosciuti cantanti Italiani
Nel 1989 si trasferisce negli USA dove risiede per parecchi anni, studia al Berklee College di Boston con insegnanti del calibro di Jerry Bergonzi e Charlie Banacos. Negli USA frequenta gli ambienti Blues, Jazz, Etno e collabora con Ibraima Camara, Tony Bennett, John Lockwood.
Rientrato in Italia, decide di stabilirsi in Sicilia, sua terra d’origine senza comunque trascurare i suoi “rapporti” con l’estero. Così realizza due tour negli Stati Uniti, ha
la cittadinanza onoraria della città di Little Rock e partecipa a vari Festival Jazz in Francia.
Di recente è uscito il suo ultimo album, “Open Letters” ,  che recensiamo qui accanto:
Ma cosa lo ha spinto a tornare in Italia e trasferirsi in Sicilia. Glielo abbiamo chiesto ed ecco le sue risposte.

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-Tu hai un’intensa vita professionale. Cosa ti ha spinto e cosa ti spinge anche oggi a rimanere in Sicilia?
“Come sai io provengo da una famiglia di musicisti. Mio nonno semi-professionista, mio padre professionista: è stato probabilmente, a livello nazionale, il più importante suonatore di flicornino nelle bande; il flicornino era lo strumento che nelle bande sostituiva il soprano.  Di qui la mia passione per la musica. Ad un certo punto tutta la mia famiglia si trasferisce negli States, io sono nato lì per la precisione a Hartford e lì sono cresciuto fino ai miei sei anni, dopo di ché siamo tornati in Sicilia. Tieni presente che quando noi arrivammo negli Stati Uniti, mio padre fece amicizia con Conrad Gozzo il quale proveniva dallo stesso paese di mio papà; Conrad sotto certi aspetti prese mio padre sotto la sua ala protettiva e man mano lo inserì in un certo ambiente. Mio padre era un discreto strumentista, non improvvisava ma eseguiva bene le parti che gli venivano affidate; suonava un po’ alla Harry James e quindi da lì parte un po’ tutto…ovviamente anche la mia preparazione, la mia cultura musicale”.

-Cultura che non si sostanziava solo nel jazz…
“Certo che no. A casa mia si ascoltava molta lirica, così come la musica delle grandi orchestre…ecco questo era il panorama musicale al cui interno mi sono sempre mosso, sin da bambino”.

-Ok, ma torniamo alla domanda di apertura. Dato questo enorme bagaglio di esperienze, perché hai deciso di stare in Sicilia che non rappresenta certo una tappa definitiva per un musicista di jazz.

“Quando negli anni ’70 siamo rientrati in Italia, io ho vissuto otto anni a Roma, poi, nel 1984, ho vinto il concorso per entrare come sassofono soprano nella prestigiosa Banda Nazionale dei Carabinieri di Roma. Nella capitale ho avuto la possibilità di frequentare ed approfondire la musica e l’ambiente jazz. Ho partecipato ad alcune trasmissioni televisive RAI finché nel 1989 ho deciso di ritornare negli USA dove sono rimasto per ben dodici anni, approfondendo, ovviamente la mia preparazione. Ad un certo punto ho sentito che per tirare fuori veramente tutto ciò che avevo fatto nella mia vita era indispensabile tornare in Sicilia dove avevo vissuto dai sei ai diciotto anni. Così la grande decisione di cui non mi pento assolutamente. In Sicilia ho veramente tirato fuori tutto ciò che avevo dentro; tieni presente che ho anche messo su uno studio di registrazione che mi dà parecchie soddisfazioni. Sai in America la musica è una vera professione per cui mai ti puoi rilassare o fermarti a pensare su come andare avanti, no, devi andare avanti…e poi ci accorgiamo che tutto ciò non ci appartiene”.

-Da quanto mi dici intuisco che sei soddisfatto del percorso compiuto…
“Certo che sì; distinguiamo: in Italia non mi trovo bene anzi in Sicilia mi trovo meglio che in altri posti. Per fortuna mi muovo meglio all’estero dove ho un’intensa attività. Il problema è che da noi – e quindi non solo in Sicilia – c’è una mentalità piuttosto ristretta, gli ambienti sotto certi aspetti sono naif. Certo il Conservatorio ha aperto le porte al jazz ma l’insegnamento è francamente ridicolo. Quindi mi trovo male per quanto riguarda il lato prettamente musicale. Viceversa, per quanto riguarda, lo spazio mentale sono assolutamente soddisfatto: io vivo in campagna, come ti dicevo mi sono costruito un bellissimo studio di registrazione, la vita non è cara per cui se vivi una vita economicamente tranquilla la dimensione di artista la puoi mantenere senza troppi sforzi”.

-Secondo te, qual è oggi la situazione del jazz in Sicilia?
“Dal punto di vista tecnico, vale a dire del numero e della preparazione dei musicisti ci siamo appieno…peccato, però che non esista un ambiente. Ognuno si muove per conto suo, è praticamente impossibile fare qualcosa di buono assieme per cui si procede in ordine sparso con le conseguenze che puoi facilmente immaginare. C’è un individualismo troppo sfrenato per cui non si riesce a creare un ambiente”.

-Ma questo è grave…
“Non è grave, è gravissimo dal momento che non si riesce a fare sistema”.

-Secondo te che conosci assai bene sia la realtà jazzistica statunitense sia quella italiana, è possibile tracciare un qualsivoglia parallelismo tra quanto accadeva negli States nei primi anni del ‘900 quando nasceva il jazz e ciò che in quegli stessi anni accadeva in Sicilia?

“Sì, secondo me sì. Noi abbiamo portato negli States il contributo delle bande che in Italia erano state importantissime già da metà dell’800, importanza che hanno mantenuto sino ad oggi. Mio padre ha mantenuto la nostra famiglia proprio suonando con una banda e adesso è pensionato della Banda Municipale di Noto; in Sicilia le tre bande municipali, non militari, regolarmente costituite, con stipendi regolari e quant’altro, erano tre, Acireale, Caltagirone e Noto. Quindi sì, da questo punto di vista, sono certo che c’è stato un notevole contributo delle bande soprattutto nel jazz eseguito dagli italo-americani. Poi a partire dagli anni ‘70, il jazz è cambiato radicalmente: Comunque facendo riferimento ai miei anni trascorsi negli Stati Uniti devo dire che c’era un fortissimo ambiente jazzistico italo-americano, o forse sarebbe meglio dire siculo-americano. Ti do un elemento interessante: quando veniva fatto un blindfold test se c’era da distinguere un musicista nero da un musicista bianco la cosa risultava facile, ma se il musicista bianco era un siculo-americano la cosa era molto ma molto più difficile”.

-Ma perché questo elemento mai viene enfatizzato a dovere?
“Per il motivo cui accennavo in precedenza: noi non facciano sistema. Mentre ad esempio i lombardi proteggono i loro musicisti, noi siciliani non lo facciamo. SE tu pensi che Conrad Gozzo, ovvero colui che ha definito il ruolo della prima tromba nelle big band, era figlio di un emigrato negli USA proveniente da Canicattini Bagni e pochissimi ne conoscono l’esistenza. Noi non abbiamo alcun rapporto con gli americani di origine siciliana che suonano lì. L’anno scorso ho fatto un calendario in cui c’erano sei musicisti siculo-americani e sei musicisti autoctoni. Bene, tra gli altri ho contatto Sam Noto, Pat LaBarbera, Joe Lovano… e devi vedere come questi sono orgogliosi delle loro origini”.

-Si lo so; parecchi anni fa, quando abitavo in Norvegia, ho avuto modo di conoscere Joe Lovano e quando ha saputo che io ero siciliano mi ha fatto davvero un sacco di feste e da allora abbiamo mantenuto un bel rapporto…
“Purtroppo è così. Io mi sono legato molto più all’estero…ho cari amici in Portogallo Malta, in Israele”.

-E non credo che le cose miglioreranno in un prossimo futuro…anche perché le teste sono sempre le stesse.
“A mio avviso le cose potrebbero migliorare solo se la politica si mette da parte. Finché la musica e la politica sono così strettamente connesse, non se ne esce”.


Gerlando Gatto

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Rino Cirinnà – “Open Letters” – Anaglyphos
Tenendo fede alla sua statura internazionale, Rino Cirinnà guida il “Red Apple 4et” costituito da due musicisti di base siracusana – lo stesso leader al sax soprano e tenore e Santi Romano al basso e contrabbasso – e da due musicisti di radice italiana ma francesi d’adozione, il chitarrista Vittorio Silvestri e il batterista italo-americano Michael Santanastasio.
L’album è declinato attraverso sei composizioni originali (“Esbjorn” e “Dimples” di Vittorio Silvestri, “Deep down” e “Open letters” di Rino Cirinnà, “Wheater Changes” e “While I was waiting for you” di Michael Santanastasio), e una cover (“Historia de un amor” di Carlos Eleta Almaran) e da ciò si può facilmente intuire come la musica proposta rappresenti appieno la personalità dei singoli musicisti. Quindi atmosfere e dinamiche diversificate in cui passato e presente convivono straordinariamente all’insegna di un jazz che, così come sempre dovrebbe essere, non conosce confini di tempo e/o di luogo. I temi sono tutti godibili, ben strutturati, ottimo l’equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte e, cosa ancora più importante, gli assolo appaiono tutti pertinenti, ben inseriti nel contesto globale, senza alcuna pretesa di stupire l’ascoltatore con improbabili equilibrismi sonori. Ciò detto vorrei spendere qualche parola sull’unica cover presente: “Historia de un amor” è un brano ‘latino’ celebre composto dal panamense Arturo “Chino” Hassán con testo scritto da Carlos Eleta Almarán dopo la morte della moglie di suo fratello. Il pezzo ha raggiunto in breve una grandissima popolarità essendo stato inserito nelle colonne sonore di vari film ed inciso da alcuni dei più grossi nomi della musica internazionale quali Cesária Évora, Dalida, Richard Galliano. Insomma molte esecuzioni con cui raffrontarsi: ebbene Cirinnà e compagni hanno felicemente superato la prova per la stretta attinenza mostrata nei confronti dell’originale grazie anche agli ottimi assolo di Rino Cirinnà e Vittorio Silvestri.

MASSIMO URBANI

Si dice che lo strumento musicale più vicino alla voce umana sia il violoncello. Questione di frequenze, di timbro, di oscillazione. Certamente. Un sassofono è un’altra cosa: non è dalle frequenze che si misura la voce umana del sassofono, ma dalla profondità e dall’intensità dell’espressione del linguaggio ad esso abbinato. Si comunica il cosa, che influenza certamente anche il come. Parlare Jazz, come parlare inglese, o spagnolo. Il jazz è l’idioma perfetto per la dolcezza e la sofferenza, per la morbidezza e l’urlo. I contrasti dell’Uomo del ‘900 ritrovano in questa musica una lingua imprescindibile, autentica, deliziosa-gentile-cattiva. Il demoniaco ed il paradisiaco in un corpo solo. Un po’ come ritroviamo in alcune partiture leggendarie dell’800 romantico. Certo. Cosa è cambiato dunque? Semplicemente questa volta non vi è premeditazione nella descrizione umana, vi è altresì estemporaneità, quella stessa del linguaggio parlato. Come facile deduzione di questo ragionamento, possiamo dunque parlare di rassomiglianza del romanticismo all’uomo riflessivo e forse scrivente, più che parlante. Il jazz sarebbe dunque lo strumento più straordinariamente simile alla parola, poiché essa stessa, in qualsiasi idioma, è frutto di miscellanea improvvisazione su di un bagaglio contenente gli strumenti necessari al linguaggio stesso.

Il sassofono non è dunque, per frequenze e timbro, lo strumento dal suono più simile all’umana dannazione. Il sassofono quando suona del jazz però, spesso lo è. Massimo Urbani quando soffia nel sax alto, lo è più di chiunque altro.

Nato a Roma nel quartiere di Monte Mario l’8 maggio 1957, ascolta la prima banda di paese in villeggiatura estiva nei pressi di Ladispoli, la Riccione degli anni ’60 per i romani. Secondo Maurizio Urbani, fratello di 4 anni più piccolo e grande tenorista, tutto partì da una di quelle vacanze con i nonni tant’è che, tornati a Roma, gli comprarono un clarinetto. Aveva 11 anni.

La serie di circostanze che accaddero da lì ai successivi 3 anni sembrano uscite da una sceneggiatura a metà tra il cinema neorealista e la follia felliniana. Massimo suona nella banda di Monte Mario, ascolta i racconti del suo parente Luciano Urbani (che grazie al padre in quel periodo assisteva alle mitiche edizioni di Jazz Concerto di Adriano Mazzoletti alla RAI), ascolta i dischi di Charlie Parker del padre (che non era musicista, faceva l’infermiere a Santa Maria della Pietà) e frequenta la casa del compianto sassofonista Tony Formichella, che gli fa ascoltare i primi dischi di rhythm’n’blues e di jazz e lo porta alle prime jam session romane.

Tutto torna? No, se il risultato è che, a soli 14 anni in un quartiere popolare di Roma, senza quasi sapere cosa fosse un conservatorio di musica, Massimo improvvisava come fosse stato la reincarnazione di Parker.

Roma degli anni ’70 viveva un fermento musicale di altissimo livello. Tra le tante iniziative che segnarono la vita di tutti i più importanti musicisti di allora e dei successivi decenni, voglio citarne due di fondamentale importanza: l’apertura nel 1971 del Music Inn da parte di Pepito e Picchi Pignatelli, e il corso sperimentale di Jazz che partì, grazie a Giorgio Gaslini, al Conservatorio Santa Cecilia. Gli esterni al Conservatorio potevano partecipare al corso solamente da uditori: in quel periodo Massimo Urbani e Maurizio Giammarco si iscrissero. Gaslini permise l’iscrizione agli esterni poiché affermò che, se avessero richiesto il diploma a Louis Armstrong o a Ella Fitzgerald, non avrebbero potuto partecipare ad un corso di jazz (comprendendo da subito dunque la difficile, già dal principio, coesistenza dello studio del jazz a livello accademico).

Gli albori di Massimo Urbani, fondamentali per capire le basi di tutta la sua vita musicale.

 

Max suonava dunque il bop come un demonio, ma frequentava l’avanguardia di Gaslini e il free di Mario Schiano con cui registrò ad esempio, a soli 16 anni, il suo primo album in studio. La fama di questo incredibile ragazzino vestito da bopper navigato arrivò al grande trombettista Enrico Rava, il quale andò a Roma apposta per sentirlo suonare. Nel 1976 lo portò in tour negli States. Intervistai Rava su Urbani qualche anno fa, il quale mi raccontò: “In tutte le jam session newyorkesi Massimo faceva fuori tutti gli altri sassofonisti uno dopo l’altro, non c’era partita”. Ma Max era pur sempre un ragazzo poco più che adolescente di Monte Mario. Celebre fu l’episodio in cui, pieno di vergogna per aver rotto un registratore in casa del trombettista, sparì per due notti dormendo al Central Park e tornò, poco prima di un’esibizione per la TV americana, con la febbre alta e senza vestiti da poter indossare. Massimo Urbani era un puro, non aveva filtri e non apparteneva di certo a quel mondo borghese che, volenti o nolenti, stava già risucchiando le energie della musica afroamericana trasformandola successivamente in qualcosa di eccessivamente elitario. Max incarnava la purezza di alcuni leggendari personaggi che avevano letteralmente segnato la storia di questa musica. Intendiamoci, non sto assolutamente cavalcando cliché sull’artista maledetto, sul genio squattrinato o incompreso, sulla rivalsa di questa musica come riscossa dei ceti popolari. Penso invece che la storia del jazz si sia attorniata di figure provenienti dal mondo popolare quanto da quello borghese e che sia stato proprio questo connubio, democraticamente, a far arrivare alle nostre orecchie capolavori senza tempo. Certamente però, oggigiorno, non possiamo far finta di non notare quanto questa musica si sia eccessivamente imborghesita, negli ambienti più che nelle note, perdendo talvolta uno spirito divulgativo e spensierato che si poteva ritrovare, ad esempio nel blues e nella musica nera, tra le fasce sociali più deboli.

La più celebre frase di Urbani, detta spontaneamente e senza giri di parole “L’avanguardia è nei sentimenti”, sintetizza tutto il mio discorso nel modo più alto e semplice possibile.

Tra la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ‘80 Massimo Urbani, pur rimanendo un ragazzo di quartiere, divenne dunque un sassofonista di successo richiesto in lungo e in largo, sia come leader che come sideman. Cresciuto nell’epoca della sperimentazione, la frase sopra citata è la sua risposta a chi gli chiede il motivo dell’essersi allontanato, all’apice della sua carriera, dal free e dalle cosiddette avanguardie che egli aveva ben conosciuto ad esempio con Rava o ancor di più con Schiano e Gaslini. Max riscopre il bop ma lo fa da musicista navigato e colmo di moltitudini di esperienze: oltre al suo ruolo nel periodo free lo ritroviamo ad esempio, seppur brevemente, a fianco degli Area nel jazz-rock come addirittura in un disco della Nannini. Non è il suo mondo però. Non lo è nemmeno il bop, in realtà. Massimo Urbani è Massimo Urbani.

Lo sanno bene anche i numerosi artisti internazionali con cui collabora (attorniato da tutti coloro che sono stati protagonisti attivi del periodo più incredibile della storia del jazz italiano). Qualche nome: da Chet Baker a Steve Grossman, da Mike Melillo a Red Rodney, da John Surman a Jack DeJohnette, da Lester Bowie a Kenny Wheeler, da Steve Lacy ad Art Farmer. Con Enrico Rava poi, lo ricordiamo accompagnato dalle ritmiche Hill/Astarita e dal celebre tandem norvegese Daniellson e Christensen negli stessi anni in cui registravano nel quartetto europeo di Keith Jarrett e Jan Garbarek.

Tra gli album a suo nome particolarmente di impatto vi sono certamente “Urlo” con Massimo Faraò, Pietro Leveratto e Gianni Cazzola e ancor di più “Easy to love” con Furio di Castri e Roberto Gatto alla ritmica ed un indimenticabile Luca Flores al pianoforte. Ricordando in un’intervista con Roberto Gatto questo album, Roberto mi faceva notare (a ragione) come Flores anticipi il modo di suonare di Brad Mehldau di almeno un decennio; fu un incontro tra solisti immensi, due giganti, che per uno strano scherzo del destino non abitano più entrambi su questa Terra.

Altri album che hanno destato la mia attenzione sono “Via G.T.” di Giovanni Tommaso del 1987 con Danilo Rea, Paolo Fresu e Roberto Gatto (da cui un celebre tour newyorkese) e “The Blessing”, ultimo disco in studio a suo nome registrato nel febbraio 1993, pochi mesi prima della sua scomparsa, praticamente con la stessa formazione di Via G.T. ad eccezione del solo Paolo Fresu e con l’aggiunta di Maurizio Urbani al sax tenore, prodotto dallo stesso Roberto Gatto.

L’epilogo arrivò nel giugno del 1993, dopo una storica settimana all’Alexander Platz Jazz Club di Roma per quelli che furono gli ultimi concerti ufficiali (ben documentati nel disco live che ne seguì) di Max, in compagnia di Andrea Beneventano, Dario Rosciglione, Gegè Munari e con ospite Red Rodney.

Fu proprio all’Alexander Platz che, nel marzo 2020, decisi di fare un grande omaggio a Massimo in quella che fu una storica diretta radiofonica di quasi 3 ore, con protagonisti racconti e musica partoriti da buona parte di coloro che collaborarono con lui. Per chi volesse riascoltare quella mitica puntata andata in onda sull’emittente Radio Città Aperta, mi permetto di allegare qui il podcast integrale.

https://www.radiocittaperta.it/podcast/speak-low-con-danilo-blaiotta-del-03-03-2020/

In questo sintetico ma sentito racconto della gigantesca carriera di Massimo Urbani, non ho volutamente citato i suoi noti problemi legati all’eroina, che portarono a quella maledetta notte tra il 23 e il 24 giugno 1993. Per chi avesse qualche dubbio, vorrei fortemente sottolineare che la musica di Max non è legata al suo essere alterato dagli effetti delle droghe. Massimo Urbani era libertà ma grande attinenza e precisione ritmica, era dotato di un orecchio bionico come di un senso del timing fuori dal normale. La musica di Max era lucida, limpida, oserei dire “nonostante” gli eccipienti, e non “grazie a”.

Il cliché del musicista che altera le proprie condizioni per suonare meglio ed in modo più ispirato la musica ed in particolare il jazz, è totalmente distante dall’universo di Urbani. Max era libero ma musicalmente lucido, come gran parte dei musicisti che hanno fatto uso di droghe, nel bop newyorkese dei favolosi anni ’40 come successivamente nell’Europa di fine anni ’60, e poi nel trentennio successivo.

Massimo Urbani era libero, limpido e brillava di luce luminosa: le note del suo sax alto scintillavano tanto su un fast quanto su un’improvvisazione libera. Alle volte gridava, si, con gli armonici, forse come avrebbe voluto gridare una sua qualche insicurezza legata alla vita reale? Non ci è dato saperlo e non ci deve nemmeno interessare. Che ci interessi, invece, l’emozione di quell’urlo come di quelle scale vorticose. Che ci interessi il canto meraviglioso dell’improvvisazione su ‘Lover Man’, uscito dal soffio di Max come dall’ugola di una Maria Callas vestita di ance e adornata di chiavi.

Vediamoci ciò che vogliamo, ma forse, più di ogni altra cosa, il sentimento di un artista profondo come pochi, vero come pochi, talentuoso come pochi, nella storia di questa straordinaria musica che tutti noi continuiamo a voler, imperterriti e forse anche un po’ contro ogni razionalità, portare avanti.

Danilo Blaiotta

BaSi Jazz: un ponte fra territori

Dalla sinergia fra Il Jazz va a scuola, l’associazione culturale Algos – Monk Jazz Club di Catania e l’Onyx Jazz Club di Matera è nato “BaSi Jazz: un ponte fra territori”, progetto realizzato grazie al sostegno del MIC, Bando Musica Jazz 2023, rivolto ai ragazzi delle scuole medie e superiori.

Lo scopo è quello di formare le Giovani Guide del Jazz – G.G.J., con l’aiuto di artisti e docenti noti nel panorama jazzistico italiano e internazionale, e di realizzare uno scambio fra le scuole della Basilicata e della Sicilia: il Liceo Musicale “T. Stigliani” e l’I.C. “Minozzi – Festa” di Matera, l’I.C. “R. Scotellaro” di Tricarico (MT), il Liceo Classico e Scientifico “C. Marchesi” e l’I.C. “G. Parini” di Catania.

L’Onyx Jazz Club di Matera e l’Associazione Algos di Catania hanno testato, nel tempo, come il linguaggio jazz e la pratica di insieme possano portare opportunità formative e sociali per la crescita e lo sviluppo delle generazioni future con un forte impatto sul territorio e puntando l’attenzione su tematiche importanti del nostro tempo, tra cui la sostenibilità ambientale e l’inclusione.

Coadiuvati dai tutor, i giovani diventeranno essi stessi formatori: partendo dai gradi superiori si sperimenterà un processo a cascata che porterà gli studenti Guide a partecipare attivamente, restituendo la propria esperienza agli alunni delle scuole medie, contribuendo in modo diretto a compiere un primo passo nella diffusione della musica jazz nelle giovanissime fasce di età.

Il progetto si avvale di valide collaborazioni di artisti e docenti fra i quali Pasquale Mega, Kevin Grieco, Giuseppe Lapiscopia, Enzo Appella, Rino Locantore (docenti dei corsi di musica Onyx, Matera) e Roberto Catalano, Nello Toscano, Rino Cirinnà, Giuseppe Privitera, Francesca Mara Santangelo, Dino Rubino, Maurizio Cuzzocrea, Roberto Catalano, Franco Barbanera provenienti dalle realtà siciliane.

Le G.G.J. delle diverse scuole coinvolte avranno l’opportunità di esibirsi, nella seconda fase progettuale, in un evento finale in autunno che vedrà protagonisti, fra gli altri, Alfio Antico e Amedeo Ronga.

Tra gli obiettivi del progetto vi sono anche la conoscenza e l’uso di strumenti tipici delle regioni appartenenti alle relative tradizioni popolari, affrontando tematiche di educazione civica e cittadinanza attiva relative nello specifico al rispetto dell’ambiente.

Doctor 3: non importa cosa suoni ma come lo suoni

L’intervista è stata realizzata in occasione della 23esima stagione di “Latina in Jazz”, nota rassegna a cura del Latina Jazz Club Luciano Marinelli che ospita ogni anno musicisti di fama internazionale. In occasione della terza serata, il Doctor 3 ha gentilmente accettato la proposta di farsi intervistare per la rubrica “Salotto Rosso” a cura di Daniele Mele.

Enzo Pietropaoli, Danilo Rea, Fabrizio Sferra. Il Doctor 3 ha 26 anni: la mia età
praticamente. Come si fa a far vivere una formazione per 26 anni?
Sferra: “Basta suonare poco”.         (ridono)

-Dai, rispondete voi.
Pietropaoli: “É come in un rapporto di coppia, basta gestire tutte le fasi: gli amori, i momenti belli, le crisi… saperli gestire in nome dell’amicizia e della musica, e si può andare avanti”.

-Credo a questo punto, finché…
Danilo Rea: “La morte”.
Sferra: “Finchè morte non ci separi”.

– Questi sono i piani per il futuro, quindi. E suonare poco…
Rea: “Se la prendi da un punto di vista professionale, e gli americani in questo sono maestri, si riesce a suonare anche senza parlarsi. Fanno grandissimi gruppi dove non si parlano neanche più, da anni, non si ricordano neanche i nomi praticamente”.
Pietropaoli: “O gruppi sciolti dopo tournée troppo lunghe”.
Rea: “Se si affronta con professionalità vai avanti ad libitum. Noi siamo italiani, non l’abbiamo fatto con questo atteggiamento”.

– Secondo voi, qual è il valore del trio oggi? Il pubblico ascolta e apprezza il trio come si ascoltava una volta, oppure no?
Sferra: “Forse non dipende dalla formazione, ma da come si esprime la formazione, e dal grado di comunicazione che instaura con il pubblico. Io penso che questo gruppo abbia avuto successo anche per quello, perché stabilisce un alto grado di comunicazione ed è molto interattivo sia per il repertorio scelto sia per come viene trattato. Penso che sia un gruppo molto generoso da questo punto di vista, e quella cosa lì forse conta più della formazione in sé, che sia trio, quartetto o quintetto”.
Pietropaoli: “Sono d’accordo”.

– Il purista del Barocco dice “ascolto solo Bach”, il purista del Jazz dice “ascolto Parker”,e voi invece attraversate tutti i generi musicali e arrivate a tutte le persone nel mondo. Quand’è che, secondo voi, la musica è “buona musica”?
Rea: “Diciamo che il Pop coreano ancora non l’abbiamo affrontato”.
Pietropaoli: “Però abbiamo avuto successo in Oriente”.
Rea: “Perché comunque ci sono delle canzoni che arrivano dappertutto”.

– Sì, insomma quand’è che la considerate una musica “da suonare”?
Rea: “Ah, bella domanda”.
Pietropaoli: “Tu dici a livello di scelta del repertorio?”.

– Sì.
Rea:” Questa è una domanda molto particolare. Vi ricordate quando chiesi a Jeff se avrebbe mai suonato quella canzone, “The Way We Were” “.
Sferra: “Quella che cantava Barbra Streisand”.
Rea: “Quella”.
Pietropaoli: “Dicci chi è questo Jeff”.
Rea: “No, non si può dire… Lui disse “Eh no, perché è troppo smielata”. “É troppo che?”, ho pensato. E il limite è molto personale, per rispondere alla tua domanda, ognuno ha un “pudore musicale” tutto suo”.
Sferra: “Però forse si può dire, in relazione a questo trio, che la canzone Pop funziona perché tutti e tre abbiamo un rapporto molto forte con la canzone e con la melodia. Questo, a prescindere dalla scelta, ha funzionato da sempre perché siamo tutti sinceramente e profondamente legati alla melodia e alla forma-canzone, pur essendo jazzisti e avendo fatto un percorso più complesso. Alla fine rimaniamo “puristi in relazione alla musica”.
Pietropaoli: “Dunque non importa cosa ma come”.
Rea: “Sì, esatto”.
Sferra: “Sì, è chiaro che il Pop spesso contiene quegli elementi della forma-canzone che noi privilegiamo a prescindere dal genere. Ed è la stessa scelta che abbiamo fatto nel Jazz, dove privilegiamo quella forma”.
Pietropaoli: “Non abbiamo mai fatto pezzi contorti, per così dire”.
Rea: “Ma in fondo i jazzisti afro-americani che prendevano? Le canzoni del loro tempo. A un certo punto è come se fosse stata creata una barriera, come a dire che “fin qui si può suonare, se vai oltre diventa un’altra cosa”. Ma in realtà dipende tutto esattamente dal “come”… quelle di allora erano grandi canzoni pop, Billie Holiday, Louis Armstrong, cantavano tutti pezzi pop fatti alla maniera loro. Quello che bisogna fare quindi è cercare di analizzare, contestualizzare…”.
Pietropaoli: “E di impossessarci anche della nostra cultura, che non è necessariamente quella di un americano. Nella nostra gioventù c’è Battisti, De Andrè, Tenco…”.

– In un’altra intervista ho sentito di critiche che vi sono state mosse perché avevate fatto un certo tipo di scelta di repertorio.
Rea: “Un sacco di volte”.
Sferra: “Qualche volta siamo stati additati come “Doctor Furbetti”…”.

– Quando suonate c’è comprensione, c’è feeling e tantissima interazione sul tema, ed è genuinamente bello vedervi dal vivo. Invece la nuova generazione spesso è “Il brano lo faccio tutto io, poi metto assieme i pezzi e carico la mia cover su YouTube”. Che cosa ne pensate di questo approccio alla musica? È tutto brutto, oppure…?
Rea: “Ma stai parlando di quale musica? Quella di oggi?”.

– Quella di oggi, anche Jazz. Coetanei che studiano al Conservatorio, magari prodigi
polistrumentisti che sanno suonare bene il basso, la batteria e fare un improvvisazione al pianoforte come si deve…
Sferra: “Beati loro!”.

– Poi registrano tutto quanto e caricano su Facebook, YouTube.
Rea: “Se tu pensi che Damien Rice, con The Blower’s Daughter, è nato su internet… è un approccio diverso un po’ lontano da noi, insomma”.
Sferra: “Comunque è un fenomeno un po’ complesso da trattare, che non riguarda soltanto la musica”.
Pietropaoli: “Diciamo che la tecnologia e i social sono un’opportunità, dipende come tu li usi. Quel procedimento di cui parli tu può portare a cose splendide, può portare a cose insulse ma questo riguarda anche chi suona dal vivo, per cui è difficile generalizzare”.

– Certo. Vi faccio una domanda conclusiva, la classica: che cosa c’è nel futuro prossimo del Doctor 3?
Sferra: “Abbiamo 2-3 concerti programmati, il che è un bell’orizzonte”.
Pietropaoli: “Resisteremo ancora per un po’, salute permettendo”.         (ridono)
Sferra: “Personalmente ogni volta che c’è un concerto del Doctor 3 sono molto felice”.
Rea: “Siccome ogni volta che suoniamo si aprono finestre nuove, musicalmente parlando, non sappiamo che fine faremo. La fortuna di questo gruppo è che sopravvive perché, oltre alfatto di vedersi poco frequentemente, c’è un’arte dell’incontro, del ritrovarsi per far uscire cose leggermente o spesso anche molto diverse dalla volta precedente. Difficile dire cosa bolle in pentola. I CD sono serviti proprio a mettere il punto su certe situazioni, anche se nonsi fanno quasi più… io non faccio un CD in piano solo da 4-5 anni”.
Pietropaoli: “Ora sta tornando il vinile, c’è molta musica liquida… addirittura ho risentito parlare di cassette”.
Sferra: “Mania Vintage!”.
Pietropaoli: “Beh i supporti cambiano, ma la musica è quella, anche se essa dipende dai supporti e dagli strumenti. Prima che esistessero gli amplificatori era diverso, la musica è stata condizionata da quel cambiamento tecnico, per cui non so oggi quanto sia condizionata dalle opportunità digitali”.
Sferra: “La maniera in cui si mixano i dischi è cambiata notevolmente perché deve tener presente che la musica esce da una piccola scatoletta, e quindi si lavora in maniera diversa”.
Rea: “Se pensi che oggi i dischi si registrano a casa… è cambiato tutto”.

– Vedremo cosa il futuro ha in serbo per noi. É stata una piacevole intervista, grazie per il vostro tempo!

Daniele Mele