Si apre il 12 con Ibrahim Maalouf
il 47° Roma Jazz Festival

Una conferenza stampa molto, troppo lunga, per un programma molto, troppo lungo. Potrebbe essere questo, in estrema sintesi, il racconto della mattinata del 4 ottobre in cui è stato presentato alla stampa il più che voluminoso programma di Musica per Roma per la stagione 2023-2024.

In linea teorica si sarebbe dovuto parlare sia del l’Auditorium sia della Casa de Jazz ma di quest’ultima struttura si è detto poco o nulla.

Veniamo quindi al calendario delle manifestazioni in programma nella sede dell’Auditorium; per darvi un’idea l’indicazione delle stesse occupa ben più di dieci pagine per cui risulta impossibile sintetizzarle in un articolo che possa essere letto fino alla fine.

Di qui una decisione drastica: dopo aver detto che le manifestazioni si articoleranno attraverso “I grandi concerti”, “Le nuove residenze artistiche di Tosca e Daniele Silvestri”, “il focus Brad Mehldau”, “La stagione del Teatro, della musica contemporanea e delle orchestre giovanili”, soffermeremo la nostra attenzione sugli argomenti che maggiormente interessano i lettori di questo blog, vale a dire la musica, in special modo il jazz.

Il focus su Brad Mehldau si sostanzia in due concerti che il grande pianista terrà il 16 marzo e il 6 maggio rispettivamente in piano-solo e in trio.

Dal I° al 10 dicembre si svolgerà l’oramai collaudata rassegna italo-francese “Una Striscia di Terra Feconda” curata come sempre da Paolo Damiani e Armand Meignan. Quest’anno i concerti si svolgono anche al di fuori di Roma vale a dire Ostia e Civitavecchia. Numerosi i musicisti italiani coinvolti, tutti di grande prestigio: da Enrico Rava (il 1 novembre in trio con William Parker contrabbasso, Andrew Cyrille batteria), a Gianluigi Trovesi il 10 novembre, da Rita Marcotulli con lo stesso Damiani il 1 dicembre, a Maria Pia De Vito con Anais Drago, Michele Rabbia e Romail Al il 3 dicembre, da Peppe Sevillo & Solis String Quartet il 5 dicembre a Zoe Pia e Cettina Donato l’8 dicembre… a Javier Girotto con Jean Pier Como il 9 dicembre. Egualmente numerosi e di prestigio i jazzisti francesi come Louis Sclavis clarinetti, Benoît Delbecq pianoforte, Steve Argüelles batteria, Bruno Chevillon contrabbasso, Noe’ Clerc solo fisarmonica…

Ma senza dubbio l’evento più atteso per gli appassionati di jazz è il “Roma Jazz Festival” in programma dal 12 ottobre al 26 novembre. La manifestazione, giunta quest’anno alla sua 47° edizione, viene declinata attorno all’attualissimo tema della transizione. In effetti, come sottolineato in un comunicato del Festival, in un mondo dove la “transizione” ecologica, tecnologica, economica e sociale, rappresenta una delle principali priorità, la musica jazz non poteva che generare una ulteriore transizione stilistica. Così, negli ultimi anni la scena jazz si è ampliata e diversificata, accogliendo numerosi generi paralleli tanto che oggi, la linea di demarcazione tra jazz, musica elettronica, musica contemporanea, musica popolare, rap o pop è diventata sempre più sottile e sfumata.

Coerentemente a tali premesse, il programma è quanto mai variegato presentando artisti di estrazione completamente diversa.

L’apertura, il 12, è affidata ad un musicista che in breve è divenuto un beniamino anche del pubblico italiano, Ibrahim Maalouf; trombettista di straordinarie capacità tecniche, Ibrahim è stato premiato in Francia con i più alti riconoscimenti e nel corso della oramai lunga carriera ha collaborato con artisti come Sting, Marcus Miller e Melody Gardot.

Il 2 e 3 novembre appuntamenti con due calibri da novanta quali John Scofield e Avishai Cohen ambedue in trio.

Il 4 novembre incontro con Judith Hill vocalist proveniente dal pop di classe avendo collaborato con Stevie Wonder e Michael Jackson.

Il 5 concerto che consigliamo vivamente essendo di scena uno dei migliori fisarmonicisti jazz, Vincent Peirani, in trio.

Il 9 un’occasione per scoprire il talento del pianista sudafricano Nduduzo Makhathini venuto prepotentemente alla ribalta in questi ultimi tempi.

Tra gli altri numerosi concerti da segnalare ancora l’11 novembre gli intramontabili “Yellowjackets”, il 12 il trio Jan Bang/Eivind Aarset, il 16 Tony Levin e Pat Mastelotto, bassista e batterista della storica band King Crimson.

Tra gli italiani il 12 novembre “Conversession” ovvero il gruppo vincitore del contest Lazio Sounds 2023, il 16 Anais Drago, il 17 Francesco Bearzatti e Ilaria Capalbo, il 18 Raffaele Casarano e Ilaria Sanchietti.

Chiusura il 26 con un trio d’eccezione costituito dal sassofonista inglese Shabaka Hutchings ben noto alle platee di tutto il mondo, il cantante e compositore marocchino Majid Bekkas e il batterista Hamid Drake con un programma dedicato ad Alice Coltrane.

Altro evento di grande interesse per il pubblico di “A proposito di jazz” il Gospel Festival su cui ci soffermeremo in un prossimo articolo.

Gerlando Gatto

Arriva con sette concerti “Gezziamoci Autunno”

Chiusa la stagione estiva del festival jazz della Basilicata di cui abbiamo riferito, comincia sabato 30 settembre la stagione autunnale di Gezziamoci, il festival che da 36 anni diffonde la musica jazz e la cultura dei territori.

Il primo appuntamento in calendario è sabato 30 settembre alle 15:30 per il trekking urbano con partenza e arrivo nel Giardino del Silenzio al termine del quale sarà possibile partecipare al concerto aperitivo di Artvark Saxophone Quartet, quartetto di sassofonisti olandesi capaci di mescolare musica classica e jazz, soul e blues per una esibizione scoppiettante, ricca di emozioni e cambi di registro. Gli Artvark emozionano, “ringhiano e scoppiettano” fondono i loro diversi background per formare un suono unanime creativo e unico. Dalla loro nascita hanno collaborato con artisti speciali e straordinari, come con la leggenda del jazz Peter Erskine, il maestro batterista senegalese Doudou N’Diaye Rose, la band indie rock danese Efterklang e il famoso compositore Philip Glass. Gli Artvark aspirano a collegare mondi e ad attraversare confini, sia in sé stessi che nella loro musica, “Eccellente combinazione, armonie sorprendenti e suono sfacciatamente bello”. (Volkskrant su BusyBusyBusy)
Sabato 14 ottobre Ars Nova Napoli con la partecipazione di Daniele Sepe calcheranno il palco dell’Auditorium di Casa Cava, come farà sabato 28 ottobre Nils Berg con il progetto Basilicata Dream all’interno del Convegno sul Turismo Musicale organizzato dall’associazione I-Jazz e Onyx Jazz Club; Dino Rubino Trio si esibirà domenica 12 novembre sempre nell’Auditorium di Casa Cava.
Cambio di location per il duo Trovesi – Remondini che suoneranno sabato 16 Novembre nelle sale di Palazzo Bernardini; si torna nell’Auditorium di Casa Cava per le ultime due date di Gezziamoci 2023 che il 2 dicembre ospiterà una coproduzione della Piccola Orchestra Materana Onyx con IAC Centro di arti Integrate e l’appuntamento finale con “la signora del jazz italiano” Rita Marcotulli, sabato 16 dicembre.
Questa edizione di Gezziamoci si arricchisce di un appuntamento molto importante: da venerdì 27 fino a domenica 29 ottobre Onyx Jazz Club ospiterà a Matera il Convegno nazionale I-Jazz. L’Associazione Nazionale I-Jazz è stata costituita il 1° febbraio 2008 raccogliendo alcuni dei più conosciuti e seguiti festival jazz Italiani tra i quali Gezziamoci; nel 2014 l’associazione ha ampliato la propria sfera di azione raccogliendo l’adesione di molte realtà ed apprestandosi a divenire, sul modello di quanto accade in tutta Europa, una istanza rappresentativa del jazz italiano, idonea ad operare per progetti e per lo sviluppo di idee. Aderiscono all’associazione circa 80 soci che operano in tutte le Regioni italiane, organizzando festival, rassegne, iniziative promozionali, scuole di musica.

(Redazione)

As Madalenas
Un duo di qualità

Tatiana Valle brasiliana, chitarra e voce, e Cristina Renzetti italiana, voce, sono due straordinarie musiciste che una decina d’anni fa si sono incontrate e hanno deciso di fondere i loro destini musicali. Di qui un duo che si è particolarmente distinto per l’originalità delle esecuzioni ed una certa capacità compositiva che si è particolarmente esplicitata nel loro terzo album, chiamato semplicemente “As Madalenas” . E noi le abbiamo intervistate proprio in occasione di quest’ultimo album.

– Come è nato il vostro duo? Da quali motivazioni trae origine?
“Il duo – risponde Cristina – nasce una decina d’anni fa quando io, dopo aver vissuto cinque anni a Rio de Janeiro, sono tornata in Italia mentre Tati, brasiliana, si era appena trasferita in Italia. Ci siamo conosciute in modo del tutto casuale, durante il matrimonio di un comune amico; poco tempo dopo ci siamo riviste e ci siamo messe a cantare, abbiamo trovato un’immediata sintonia che ci ha spinto ad approfondire l’intesa, dopo di ché non ci siamo più lasciate. In questi dieci anni abbiamo registrato due dischi e questo è il terzo che si chiama proprio come il nostro duo ‘As Madalenas’. La particolarità di questo album è che contiene in massima parte nostre composizioni originali e per la prima volta siamo in formazione di quintetto insieme a musicisti straordinari”.

– Qual è il filo di continuità, se c’è, tra i primi due album e quest’ultimo?
“Di sicuro – risponde Tati – in questi anni abbiamo sviluppato un suono che ci distingue e ci permette sia di continuare a rivisitare i pezzi non nostri dando continuità al mondo della ricerca, sia di scrivere i nostri pezzi e comunicare con il nostro pubblico in maniera ancora più personale, così l’anno scorso ci siamo trovate a lavorare assieme alla scrittura producendo una serie di brani a due mani che sono presenti nell’ultimo album”.

– Prima del vostro incontro che tipo di background musicale avevate?
“Io – ci dice Cristina – sono diplomata in jazz. All’inizio ho cominciato con il rock poi a diciotto anni ho conosciuto la musica brasiliana ed è stato un vero e proprio innamoramento. Io sono del’81 quindi all’epoca non c’erano Internet, Youtube…e quindi ho conosciuto questa musica attraverso un ragazzo, sono andata in Brasile e da lì è cambiato il mio mondo. Di qui la conseguenza che io oramai da venti anni canto musica brasiliana”.
“Il mio primo amore – risponde Tati – è stata la chitarra classica, ho iniziato a studiare all’età di 9 anni, poi ho provato diversi strumenti, come il violoncello, la viola d’arco, ero molto curiosa. Il contato con la mia voce è arrivato piano piano con la crescita e per fortuna la chitarra era li per accompagnare il mio canto. Sono cresciuta cantando in chiesa dove suonavo anche la chitarra elettrica, e ogni anno partecipavo al Festival di Musica di Londrina dove erano previste due settimane di full immersion in svariati master class: armonia, chitarra classica, officina di Choro e samba, con insegnanti rinomati da diverse parti del Brasile e del mondo. Molto presto ho iniziato ad avere i miei primi progetti e una intensa attività live nello stato del Paraná e Santa Catarina; suonavo dal Pop Rock alla musica celtica, ma l’amore per il mondo del samba e della Musica Popolare Brasiliana mi ha portato a intraprendere la strada del mestiere, nonostante le difficoltà dell’ambiente particolarmente maschilista della vita “boemia” e di essere la prima musicista della famiglia. Di recente ho concluso il biennio di jazz, un passo verso lo studio e un percorso che avevo lasciato indietro nei miei primi anni in Italia”.

– Voi parlate di musica brasiliana. Ma la musica brasiliana è un universo incredibilmente composito. A quale tipo di espressione brasiliana fate riferimento?
“In realtà – ci dice Cristina – la cosa bella di quest’ultimo CD è che in realtà facciamo riferimento in massima parte a brani scritti da noi. Certamente la nostra principale fonte ispiratrice è sempre la musica popolare brasiliana, quindi il nostro sound l’abbiamo costruito attorno al samba, alla musica nordestina e a certi grandi compositori. Ma, soprattutto nei due dischi precedenti, siamo andate a pescare anche autori meno conosciuti. Insomma, per essere più chiara, noi abbiamo sempre giocato non solo sulla musica brasiliana ma anche sulle traduzioni di questi pezzi in italiano o magari canzoni italiane ritmate alla brasiliana. Questo per dire che c’è sempre alternanza tra le due lingue – brasiliana e italiana – che per noi resta un elemento fondamentale del nostro linguaggio”.
“Per quanto mi riguarda – aggiunge Tati – questo amore per la chitarra si riverbera nella mia musica. Io in particolare amo molto il samba, la bossa nova, il samba jazz…e il mondo della canzone dove si possono trovare delle vere e proprie gemme. In conclusione penso che questo nuovo album ci rispecchi molto”.

– Tra i musicisti brasiliani io conosco molto bene un grande che risponde al nome di Guinga…
“Hai perfettamente ragione. Lui è un grande e noi lo conosciamo assai bene. Guinga – ci conferma Cristina – è stato lo special guest del nostro secondo album, ma la costante di questi tre nostri album è che in ognuno c’è un brano di Guinga”.
“Noi l’abbiamo omaggiato – aggiunge Tati – con un testo inserito in un suo pezzo con cui lo ringraziamo per quanto ci aveva donato. Ricordo un episodio molto significativo: una sera ero andata a sentire un house concert di Guinga con Stefania Tallini a Roma e una mia amica mi spinse a dare il nostro primo disco a Guinga che il giorno dopo, con molto entusiasmo, mi fece avere il materiale inedito di “Canção da Impermanência”, album che sarebbe stato pubblicato di lì a poco, dicendomi che potevo scegliere un brano per il disco nuovo. Mi innamorai di un pezzo, ma a questo punto si poneva un altro problema: chi suona la chitarra? Con molto coraggio abbiamo chiesto a Guinga se era disponibile e lui ha risposto subito di sì: ecco, i miracoli alle volte accadono”.

– Quest’ultimo disco non è in duo ma in quintetto. Come mai questa scelta?
“Dato il contenuto del disco, risponde per prima Cristina – ci siamo dette che per la prima volta sentivamo la necessità di una direzione artistica. Innanzitutto uno sguardo esterno sul lavoro e tutto il processo artistico che comporta la scelta dei musicisti, dei brani, per poi passare agli arrangiamenti. Al basso c’è Ferruccio Spinetti, un musicista che conoscevamo già e sognavamo di lavorare insieme; così, quando sé trattato di scegliere questa figura di produttore artistico, tutte e due abbiamo pensato immediatamente a Ferruccio perché coniuga una grande condivisione della nostra visione della musica e l’amore per la forma canzone. “Poi – aggiunge Tati – lui ama la musica minimalista come dimostra nel duo ‘Musica Nuda’, una formazione che mi piace moltissimo”.

– E gli altri due?
“Alla chitarra – risponde Cristina – c’è Roberto Taufic che è un musicista straordinario e Bruno Marcozzi “.
Bruno – interviene Tati – è un magnifico batterista con cui ho lavorato parecchio e che stimo sia come musicista sia come amico”.

Gerlando Gatto

Marco Fumo: c’è già tutto nella musica di Scarlatti

Marco Fumo – classe 1946 – è uno dei personaggi più rappresentativi del jazz made in Italy; dall’alto della sua competenza musicale, ha attraversato gli ultimi quarant’anni della storia jazzistica nazionale da assoluto protagonista nelle molteplici vesti di compositore, arrangiatore, didatta, esecutore. Come pianista è stato l’assoluto portabandiera nel nostro Paese del ragtime prima e del piano stride poi. Il tutto impreziosito dalle collaborazioni cinematografiche con personaggi quali Nino Rota e Ennio Morricone che appositamente per lui hanno scritto alcune composizioni.
Purtroppo da qualche anno Marco è affetto da alcune patologie che lo hanno allontanato, speriamo temporaneamente, dalle scene.
In tanti anni di attività non eravamo riusciti ad incontrarci; è stato, quindi, per me un vero piacere poterlo intervistare su una terrazza prospiciente l’azzurro mare di Giulianova.

Marco abbiamo quasi la stessa età. Ciò significa che abbiamo avuto il privilegio di poter assistere a tutto ciò che ha interessato il jazz italiano negli ultimi quarant’anni. Qual è la tua opinione al riguardo?
Se ti devo dire la verità, in quest’ultimo periodo seguo poco sia il mondo del jazz sia quello della musica classica. Non per una questione di puro snobismo, ma di pancia piena nel senso che tutto ciò che poteva essere detto e fatto è stato detto e fatto. Le cose nuove sono spesso difficili da ascoltare; naturalmente c’è chi tira l’acqua al proprio mulino, ma come molte cose nel nostro Paese, si tratta solo di orticelli e poi, gira gira, alla fine di veramente nuovo non c’è quasi nulla o comunque diventa molto difficile trovarlo. Comunque circa il futuro non sono preoccupato perché il mondo del jazz ha la possibilità di pescare in varie pentole e quindi, tutto sommato, troverà sempre pane per i suoi denti. La cosa che invece mi preoccupa di più è il modo in cui poi queste cose vengono gestite: c’è una sorta di riposo sugli allori da parte della maggioranza dei gestori del fatto jazzistico; molti festival, ad esempio, pescano nel bacino della musica pop il che se da un lato indica che c’è la necessità di guardare verso un certo tipo di musica soprattutto per esigenze di cassetta, dall’altro c’è modo e modo di proporla quest’altra musica. Insomma diciamo che è un mondo in movimento ma relativo”.

Ma, prescindendo dal fatto puramente musicale, non ti sembra che l’ambiente si stia burocratizzando e accentrando nelle mani di pochi le risorse pubbliche che rimangono del tutto insufficienti?
“Assolutamente sì. Diciamo che la morte di tutto è la burocrazia. Quindi qualsiasi cosa la burocrazia prenda in mano non fa altro che alimentare sé stessa”.

Tu hai alle spalle hai una carriera assolutamente straordinaria eppure, a quanto mi consta, hai ancora un sogno nel cassetto. Di che si tratta?
“Sì, in effetti, ho un sogno nel cassetto ma credo che purtroppo tale rimarrà. Ciò perché nel recente passato fatti contingenti mi hanno portato a non esercitare più dal vivo le mie uniche capacità che ho e quindi, come ti dicevo, sono convinto che rimarranno dei sogni o comunque vicino a dei sogni. La cosa che mi preoccupa di più è l’inutilità dell’agitarsi a vuoto: questo me lo suggerisce sia l’età sia l’esperienza nel senso che andando a pescare nel passato sono non una ma davvero tante, tantissime le similitudini, le ispirazioni, i modi di guardare al passato in maniera costruttiva, anche diversa, ma in maniera da riferirsi ad un passato che in qualche maniera ha già detto se non tutto, ma sicuramente moltissime cose. Non a caso l’ultimo sforzo che ho fatto in questo senso è un lavoro cui mi sono dedicato durante il periodo della pandemia: mi sono lette tutte le 500 e passa sonate di Scarlatti e ho constatato che là dentro c’è di tutto, per cui mi sono divertito a mettere vicino ad una sonata di Scarlatti un pezzo del repertorio che ho frequentato. Bene, a parte il repertorio che io ho frequentato, ho scoperto moltissime corrispondenze tra la musica di Scarlatti e le altre musiche e quindi non intendo riferirmi solo alla musica classica, ma anche al jazz, alla musica etnica, a quella cubana, insomma a tutta la musica. Scarlatti è davvero un pozzo senza fine; questo per dire che quanti si sbracciano per inventare qualcosa di nuovo, alla fine queste cose non so quanto siano in realtà nuove”.

Partendo da Scarlatti, tu hai già abbozzato un lavoro di più largo respiro che potrebbe vedere la luce?
“Sì, è vero. Avevo cominciato una ricerca attraverso cui mettere a confronto la musica di Scarlatti con quella di altri compositori per evidenziarne i punti di contatto. Così ho costituito delle coppie e volevo mettere tutto su disco in modo da dimostrare, in maniera evidente, come Scarlatti sia stato un precursore per parecchia della musica che ascoltiamo oggi”.

– Dal punto di vista mio di ascoltatore curioso, ce la faremo ad ascoltare queste coppie?
“Penso di sì. Alcune le sto già pubblicando sulla mia pagina Facebook; in particolare sei di queste otto coppie che formavano il progetto iniziale, sono già ascoltabili sulla rete. Io li ho messi in coppie ma le piattaforme non le mettono in coppia e quindi perdono molto della loro valenza iniziale. Adesso sono impegnato su diversi fronti. Innanzitutto devo capire se sarà possibile ritornare a suonare ed è un obiettivo come puoi capire per me assolutamente prioritario; ammesso che ciò sia possibile, dovrò completare le due coppie che mi mancano e pubblicare il disco completo con il discorso delle otto coppie”.

Tu hai una personalità molto variegata: di te si può dire che sei un compositore, un arrangiatore, un esecutore, un didatta… Qual è la veste che meglio ti si attaglia?
“Tutte e nessuna, nel senso che in realtà io sono tutte queste cose e nello stesso tempo non sono nessuna di tutte queste cose. Nel senso che non sono un vero didatta, non sono un vero esecutore e via discorrendo. Mi spiace non essere stato uno importante almeno per una delle cose che tu hai elencato: in buona sostanza non sono soddisfatto del lavoro svolto perché, almeno apparentemente, non ha avuto un senso compiuto”.

– Scusami, ma essendo da tempo un entusiasta del tuo lavoro, ti seguo con molta difficoltà. Che vuoi dire?
“Se fossi stato un bravo esecutore, probabilmente l’avrei fatto meglio, più approfonditamente di quanto non lo abbia fatto. Non sono uno studioso; come ti dicevo per esempio ho letto tutte le sonate di Scarlatti, vado leggendo qua e là, più che altro sono curioso ma non credo ciò basti per definirsi uno studioso. Bisogna saper scegliere un argomento e almeno per una volta cercare di approfondire il tutto”.

Consentimi di non essere d’accordo con questa tua analisi che mi pare piuttosto riduttiva. Soprattutto perché, almeno per quanto riguarda il lato esecutivo, per un certo tipo di linguaggio tu per molti e molti anni ne sei stato – e credo ne sia ancora – l’interprete principale e non solo in Italia.
“Ringrazio te e quanti la pensano come te ma anche sotto quell’aspetto ritengo di aver fatto molto meno rispetto a quelle che erano le mie capacità e le mie possibilità, perché sono stato distratto, perché – come dicevo – sono curioso e quindi mi lascio prendere da mille cose. Si, è vero, molti me lo dicono che per quanto riguarda il pianismo stride mi hanno riconosciuto questo ruolo di precursore, di esponente di primissimo piano ma io non mi sento nel ruolo. Per me era normale seguire una certa strada e scoprire i prodromi che poi si sarebbero sviluppati nel tempo”.

Tra i moltissimi episodi che punteggiano la tua attività musicale, quali sono quelli che ti sono rimasti particolarmente impressi?
“Due incontri nella mia vita artistica e non, sono stati particolarmente chiarificatori: quello con Nino Rota e l’altro con Ennio Morricone. Non a caso si tratta di due personaggi simili a me nel senso che Rota scriveva musica, musica nel senso che non si poneva il problema se si trattasse di musica leggera, classica, operistica etc… e Morricone lo stesso. Per un lungo lasso di tempo io gli sono stato particolarmente vicino nel senso che abbiamo lavorato a strettissimo contatto: lui tendeva a sminuire la sua parte cinematografica mentre secondo me ha detto molto di più nella musica da film piuttosto che in quella da lui prediletta cioè quella del compositore “serio”. Nella parte cinematografica lui era molto più immediato ed originale; ad esempio è stato il primo ad usare, ai tempi di Gianni Meccia, il rumore del barattolo che correva sulla strada come un vero e proprio elemento musicale. Insomma è stato un innovatore, un innovatore vero nel senso che persino Scarlatti non era arrivato ad immaginare qualcosa di simile. Oltretutto, checché se ne dica da parte di chi bene non lo conosceva, era un personaggio dal punto di vista umano molto accessibile, molto semplice. Naturalmente, se era punto sul vivo e si andavano a toccare certi discorsi musicali, compositivi, allora ‘se la tirava’ e faceva valere le sue cognizioni. Nino Rota era lo stesso, era il tipo che faceva gli scrutini scrivendo musica e mai perdeva il filo del discorso: era letteralmente strabiliante come riuscisse a riprendere perfettamente il discorso sia quando faceva gli scrutini sia quando conduceva un esame. Rota aveva una capacità straordinaria nello scrivere cosa che invece non era nelle corde di Morricone”.

Per concludere questa nostra piacevolissima chiacchierata, te la sentiresti di dare un suggerimento, un consiglio ai giovani che vogliano intraprendere la carriera di musicista?
“Il consiglio che davo ai miei alunni già molti anni fa rimane sempre lo stesso: voi dovete saper suonare tutto se volete fare il musicista professionista. Andiamo incontro ad un periodo in cui non è più possibile essere il pianista del ragtime, piuttosto che del bop o di Scarlatti. Bisogna saper suonare di tutto e bene”.

– Ma è difficile, molto molto difficile
“Sì ma è l’unica strada che ti assicura la possibilità di avere un lavoro stabile e ben retribuito”.

 

Gerlando Gatto

Il jazz italiano non sarà più lo stesso senza Adriano Mazzoletti

Questa volta la notizia non è giunta inattesa. Qualche settimana fa un caro amico mi aveva telefonato da Milano annunciandomi che Adriano stava molto male. Poi, il giorno prima del decesso, Anna Maria Pivato mi ha mandato un breve messaggio dicendomi le stesse cose. La mattina di ieri un brevissimo post di Guido Michelone ci informava della dipartita di Adriano Mazzoletti.
Il fatto, come dicevo in apertura, che la notizia non sia giunta inattesa, non significa che non sia stata egualmente sconvolgente dal momento che conoscevo Adriano da circa 50 anni e avevo avuto con lui un rapporto di lavoro e poi di amicizia.
In queste ore molto è stato scritto sulla figura di questo personaggio, un uomo che aveva fatto della passione per il jazz una ragione di vita (senza per questo trascurare l’amata moglie Anna Maria), un uomo che si era affermato nel panorama internazionale come uno dei massimi esperti di musica jazz, soprattutto quella italiana, un uomo che aveva portato la RAI ad essere considerata una delle migliori emittenti pubbliche in materia di jazz. Peccato che andato lui in pensione, la RAI non sia riuscita in alcun modo a far rivivere il suo lascito abbandonando del tutto il Jazz e riducendo la propria presenza in campo musicale a livelli davvero infimi. E a quanto mi risulta, almeno fino al momento in cui scrivo queste note, nessun telegiornale si è occupato della morte di Adriano, al contrario della carta stampata e della rete.

Insomma, grazie anche a tutti questi contributi, anche chi nulla sapeva di Adriano si sarà fatta un’idea abbastanza precisa di chi fosse Mazzoletti: ricordo perfettamente che quando viaggiavo all’estero e incontravo qualche musicista, organizzatore, press-agent del mondo del jazz non c’era alcuno che non conoscesse, almeno di nome, Mazzoletti.
Ciò detto piuttosto che ripercorrere le innumerevoli tappe della prestigiosa carriera di Adriano, già illustrate da altri, preferisco incentrare questo mio ricordo per l’appunto sui miei ricordi personali, sulle molte vicende che a lui mi hanno legato nel corso degli anni. Insomma vorrei parlare di Adriano anche come uomo e non solo  come personaggio pubblico dal momento che anche come uomo ho avuto la fortuna di conoscerlo abbastanza da vicino e di volergli bene.
Io ho sempre sostenuto che nella vita nulla si fa se non si è in qualche modo, aiutati, accompagnati. Ecco, Adriano per me ha rappresentato il raggiungimento di un sogno.
Erano i primi anni ’70 ed io collaboravo con il GR3 come notista sindacale ma avevo nel cuore e nella mente il desiderio di conoscere Adriano Mazzoletti e di poter lavorare con lui. Confessai questo desiderio ad un collega della redazione che mi promise di fare qualcosa. Così qualche giorno dopo mi fissò un appuntamento con Mazzoletti il quale, dopo una mezz’oretta di colloquio, mi invitò a portargli qualche scritto in modo da poter valutare la mia preparazione. Non fu un colloquio facile: Adriano sapeva essere particolarmente duro ma anche particolarmente dolce e comprensivo; comunque la settimana dopo gli portai alcuni scritti e con mia grande sorpresa mi disse che sì, potevamo tentare. Mi chiese quale fosse un personaggio che io amavo particolarmente e mi invitò a studiare una puntata sull’argomento che avremmo presentato in diretta qualche sera dopo. Ricordo perfettamente che ero emozionatissimo; quando arrivò la sera prestabilita, lui mi disse che sarebbe venuto con me in studio… e bene fece. Al momento di parlare, quando si spense la luce e restò solo una lampadina rossa a segnalare che eravamo in diretta e che probabilmente all’ascolto c’erano migliaia di persone, la voce venne meno; Adriano intervenne e salvò la trasmissione. Subito dopo mi incoraggiò dicendomi che mi aveva accompagnato proprio perché temeva una eventualità del genere, molto comune. Comunque non si ripeté più, io entrai nel gruppo di lavoro ristretto di Adriano e trascorsi alcuni degli anni più gratificanti, della mia vita professionalmente parlando; ebbi, infatti, occasione di ideare e condurre moltissimi programmi nell’ambito di “RadioUno Jazz” e di qui anche a RadioTre e Rai International. In quel periodo Adriano mi insegnò praticamente tutto ciò che c’era da sapere sul come condurre una trasmissione radiofonica, insegnamenti che ho ben serbato e che sono stati preziosi nel corso della mia carriera.
All’inizio degli anni ’80 un’altra straordinaria avventura: Adriano fece nascere in rapida successione le riviste “Blu Jazz”, “Jazz”, “Jazz, blues & around” in cui, spronati anche dall’indicibile entusiasmo di Anna Maria, tutti noi collaboratori trovammo lo spazio ideale per esprimere le nostre idee.
Finita anche questa impresa e andato in pensione, mai si è interrotto il rapporto con Adriano e Anna Maria: da amicizia singola si è trasformata in amicizia di famiglia e non è quindi un caso se la scomparsa di Adriano ha colpito profondamente anche mia moglie e mio figlio.
Ciao Adriano, sono sicuro che anche lì dove andrai riuscirai a organizzare qualche buon concerto. Un abbraccio sincero

Gerlando Gatto

Danilo Blaiotta: c’è bisogno di un jazz “politico”

Tra i tanti dischi che mi arrivano, ce n’è stato uno che mi ha particolarmente colpito per la materia trattata e per come la musica fosse assolutamente pertinente con le enunciazioni dell’artista. Sto parlando di “Planetariat” inciso dal pianista e compositore Danilo Blaiotta che i lettori di “A proposito di jazz” conoscono già come raffinato commentatore avendo egli stesso scritto alcuni articoli che hanno trovato unanimi consensi.
L’album è stato registrato per Filibusta Records da un gruppo comprendente Eleonora Tosto voce recitante e voci, Achille Succi sax alto e clarinetto basso, Stefano Carbonelli chitarra e voci ed Evita Polidoro alla batteria.
Spinto dalla curiosità di capire meglio le motivazioni di Blaiotta, gli ho chiesto un’intervista e ciò che leggerete qui di seguito ne è il risultato.

– Innanzitutto un complimento nel senso che veramente di rado la musica che si ascolta nel disco corrisponde alle reali intenzioni del musicista. Nel suo caso invece la coerenza tra musica e titoli è perfetta: ascoltando il disco si immagina immediatamente ciò che voleva esprimere. Una musica “politica” nell’accezione più alta del termine.
“Sì, ha ragione. Si tratta di un disco “politico” anche se io amerei definirlo meglio un disco “sociale”. Ho avuto una frequentazione molto gratificante con il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa, il quale ha avuto un forte impatto non solo emotivo, estetico ma anche di carattere politico e sociale sul mio modo di vedere la realtà. In effetti l’ho conosciuto da piccolo, grazie alle frequentazioni della mia famiglia, mio padre in particolare, poeta e pittore. Alla sua scomparsa ho messo insieme due cose: il dolore per la sua perdita e le mie impressioni sull’attualità”.

– A suo avviso è riproponibile una sorta di “jazz politico” come quello che abbiamo registrato negli anni ’70 con i molteplici equivoci che si è portato appresso?
“A mio avviso è molto più importante oggi piuttosto che negli anni Settanta. In quegli anni si era appena usciti dal boom economico e nel mondo si registrava un certo tasso di eguaglianza che oggi ce lo sogniamo. Quindi, ripeto, oggi è molto più importante la presenza di un jazz politico o comunque di forme d’arte che vanno verso il sociale; il problema è che oggi queste denunce si fanno sempre meno. Forse si ha paura, intendiamoci più che lecitamente, di farle. Non a caso, ascoltando questo mio disco, in molti hanno sottolineato il coraggio di aver voluto parlare di certi argomenti. Probabilmente se ne sente il bisogno ma non si trova lo spazio”.

– Lei lo spazio l’ha trovato; allora perché non lo trovano anche gli altri?
“Intendiamoci: certo che si può fare; il problema è che magari non ci si vuole esporre a certi giudizi che potrebbero nuocere alla diffusione delle idee, in questo caso trasmesse attraverso la musica. A ciò si aggiunga un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”.

– Ma lei non pensa che una denuncia del genere proveniente dall’ambiente del jazz italiano , non proprio esemplare, possa risultare poco credibile?
“In che senso?”

– Io credo che una denuncia di tal fatta debba provenire da chi ha tutte le carte in regola per poterla fare; ecco a mio avviso il mondo del jazz italiano tutte queste carte in regola non le ha…
“Lei cerca di farmi dire delle cose che forse è meglio che io non dica. Il jazz italiano, come tutto ciò che accade nella nostra società negli ultimi anni, si è un po’ arreso dinnanzi allo spirito critico, si è forse imborghesito…se possiamo utilizzare questa espressione. Adesso faccio un parallelismo con la musica classica: sia in questa sia nel jazz il pubblico va lentamente scomparendo come effetto di una certa auto-ghettizzazione. Nella classica il pubblico ha di media 70-80, nel jazz magari ne ha 60 ma proseguendo di questo passo le conseguenze sono facilmente immaginabili. C’è poi un altro fattore: tutto sta diventando molto accademico; anche i jazzisti della mia generazione devono quasi difendere un fortino piuttosto che trasmettere una denuncia. La difesa del fortino produce l’implosione delle idee mentre bisognerebbe capire come entrare nella società contemporanea, certo non solo con le denunce.”

– Tutto giusto; ma una domandina semplice semplice: come se ne esce?
“Ovviamente non è una risposta facile; innanzitutto bisogna uscirne vivi fisicamente e intellettualmente. E poi bisogna uscirne politicamente, ma se non c’è cultura non c’è politica. I momenti di massima proliferazione culturale coincidevano con i periodi in cui anche l’economia andava molto bene; le due cose sono collegate. Molto spesso si associa la proliferazione culturale al denaro ma perché non provare a fare l’inverso, cioè servirsi della cultura come volano per migliorare la situazione economica di tutti. Ecco, questa è la sfida che ci attende anche perché altrimenti non credo ne usciamo, tanto per tornare alla domanda”.

– Dopo che ci siamo sfogati sul piano sociale, parliamo di musica tornando al disco. A me pare che ogni brano abbia una sua ben individuabile specificità. E’ così?
“Assolutamente sì. Intanto sono molto felice di aver suonato con questo quintetto nuovo di zecca, dopo aver prodotto in piano trio – con Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria– due dischi di stampo acustico. Questo è un disco che trascende dalle precedenti esperienze anzitutto dal punto di vista timbrico: ho composto i brani partendo dall’elettronica, affidandomi totalmente all’espressività di tale strumentazione per la scrittura, cosa mai avvenuta prima per quanto mi riguarda. E poi sono lietissimo di aver collaborato con musicisti straordinari: anzitutto la grandissima attrice e cantante Eleonora Tosto, mia partner in tante produzioni sia musicali che teatrali, e poi Stefano Carbonelli (chitarra e voci) e Achille Succi (sax alto e clarinetto basso) quest’ultimo al mio fianco in svariati progetti già dal 2011. Infine c’è Evita Polidoro che è una scoperta incredibile, una batterista straordinaria non a caso molto richiesta anche da stelle di primaria grandezza come D.D. Bridgewater e Enrico Rava. Tornando alla domanda, inizio con il far notare l’acrostico che fuoriesce dalle prime lettere degli undici brani – “Human Rights” – palese omaggio ai diritti umani. Quasi tutti i brani contengono i versi del poeta Jack Hirschman citato prima. Il mio è dunque anche un omaggio, oltre che alla sua arte, alle sue battaglie contro il capitalismo sfrenato e senza regole”.

– E per quanto concerne i singoli brani?
Il disco si apre con “Human Being” che è una sorta di ouverture; successivamente la voce di Hirschman introduce “Under Attack. Gaza” evidentemente inerente ai bombardamenti nella striscia di Gaza, seguito da “Mama Africa. Multinationals’ Hands of Blood” un omaggio all’Africa da sempre depredata dalle multinazionali. Con “A Street of Walls” ho voluto rivolgere una critica al sistema capitalistico mentre con “Nasty Angry Tyrannical Order” ho rinominato la NATO con riferimento a quel ventennio di aggressioni in Iraq e Afganistan che ha prodotto i guasti che tutti conosciamo, più di un milione di morti.  Il sesto brano è una bellissima poesia di Jack, “The Homeland Arcane” da cui ho tratto “Real Earth” , dedicato all’inquinamento ambientale, probabilmente il problema più grave e urgente del nostro pianeta; a seguire una critica all’imperialismo, “Imperialism. Unequal Feelings” (feeling diseguali). “Gino’s Eyes” è un omaggio a Gino Strada, agli occhi di questo straordinario uomo che negli ultimi tempi vedevo particolarmente stanco e sfiduciato, forse perché provato da ennesime guerre. Di certo erano anche occhi dolci: tutti gli uomini buoni hanno uno sguardo che esprime tenerezza e ciò spiega perché il brano è composto in forma di ballad. “Hiddens. A Mediterranean Requiem” vuole invece ricordare i troppi morti annegati nelle acque del Mediterraneo; poi con “Troika’s Madness. For Hellas” c’è una violenta critica a ciò che è successo nel 2015 quando la famigerata Troika sostanzialmente rovinò la Grecia e portò alla disperazione migliaia di persone…la Grecia è fondamentale per l’Europa, per l’Italia, senza di essa non ci saremmo stati tutti noi e non a caso per scrivere questo pezzo ho utilizzato la scala misolidia antica, inventata – a quanto si tramanda – dalla poetessa Saffo, che corrisponde alla moderna scala frigia nel jazz. C’è da sottolineare che ad ogni brano si accompagna una poesia di Hirschman dedicata all’argomento in oggetto. L’album chiude con “Stop!” che vuole essere un appello a far sì che non accada più tutto questo”.

– Qual è il brano cui è più affezionato?
“Cerco di capirlo io stesso ma non è facile. Non so decidermi. Quando scrivo i miei album li strutturo come fossero parte di una suite, anche se questa volta ciò non appare così chiaramente come ad esempio nel precedente. E’ comunque difficile scegliere un brano specifico all’interno di un contenitore in cui si susseguono diverse situazioni”.

– La produzione è…
“Di Filibusta Records, che mi segue fin dal primo album a mio nome. Spesso oggi si parla piuttosto male delle case discografiche. C’è da dire, però, che nella melma ci sono sì i musicisti ma anche le case discografiche in quanto sui diritti d’autore non è che si guadagni chissà quanto. Siamo tutti nella stessa barca: basti pensare che i produttori nel jazz fanno tutti un altro mestiere. Comunque qualcosa da migliorare ci sarebbe, ad esempio in SIAE: non capisco perché il diritto di autore debba essere ricompensato sulla base degli ascolti e non su un auspicabile livellamento. Secondo me l’apice di questa rovina è stato il principio dell’uno uguale uno perché se tutto è generato dal mercato siamo davvero alla fine”.

– Ancora con riferimento al disco, anche la copertina è particolarmente indovinata, del tutto pertinente con la musica.
“Sì, la copertina è molto bella: è di Aurora Parrella, una giovane pittrice e restauratrice molto brava, un olio su tela che le ho commissionato io stesso. Poi ci sono le foto di Laura Barba e voglio ringraziare molto Enrico Furzi del Recording Studio La Strada e il suo assistente Francesco Bennati, perché abbiamo fatto un lavoro egregio: questo disco non è stato semplice da registrare”.

Gerlando Gatto