I nostri CD. Dal minimalismo di Bärtsch alla fusion degli Yellow Jackets

a proposito di jazz - i nostri cd

Nik Bärtsch’s Mobile – “Continuum” – ECM 2464
ContinuumProva impegnativa questa del pianista svizzero Nik Bärtsch alla testa del suo gruppo “Mobile” con Sha clarinetto basso e clarinetto contrabbasso, Kaspar Rast e Nicolas Stocker batteria e percussioni, e il quintetto d’archi Extended costituito da Etienne Abelin e Ola Sendecki violini, David Schnee viola, Solme Hong e Ambrosius Huber cello. E già dall’organico si capisce abbastanza bene in quale orbita si muova il gruppo: una ricerca che cerca di coniugare il jazz da un lato con la musica colta contemporanea europea, dall’altro con il minimalismo di marca statunitense. In effetti Nik Bärtsch può vantare approfonditi studi di Conservatorio, anche se, ad onor del vero, in questo “Continuum” l’influenza predominante sembra essere quella del minimalismo americano. Di qui una musica incentrata sovente sulla reiterazione di minuscole celle melodiche che mutano pelle in modo quasi impercettibile. Il tutto sorretto da un robusto impianto ritmico che dimostra come Nik conosca assai bene anche il linguaggio jazzistico. Elemento, questo, che si riscontra anche nel brano conclusivo, “Modul 8_11”, che a tratti – ma solo a tratti – sembra quasi virare verso un andamento ritmico funky, Di impronta più nettamente cameristica sono, invece, “Modul 12”, “Modul 18” e “Modul 60” ; “Modul 44” – il brano più lungo dell’ album – è introdotto da un bel gioco di spazzole per poi svilupparsi su un ostinato eseguito dal pianoforte mentre in “Modul4” il gruppo insiste troppo sulla riproposizione del medesimo gruppo di note. Tra gli esecutori, oltre il leader, una nota particolare la merita Sha, compositore, sassofonista e clarinettista ; classe 1983, Sha ha studiato presso la Jazz School di Lucerna avendo come insegnanti Don Li, Sujay Bobade , Bänz Oester e lo stesso Nik Bärtsch; in questo album suonando con perizia il clarinetto basso, non ha minimamente fatto rimpiangere l’assenza del contrabbasso. Insomma un album ben costruito, ben studiato e altrettanto ben suonato… anche se alle volte il gioco della reiterazione può indurre nell’ascoltatore una certa stanchezza, cosa che andrebbe assolutamente evitata.

Carla Bley – “Andando el Tiempo” – ECM 2487
Andando El TiempoDi recente ci siamo occupati degli ottanta anni di questa straordinaria e geniale artista che torna a stupire il mondo del jazz con questa sua ultima produzione. Coadiuvata da
Andy Sheppard al sax tenore e soprano e dal compagno di vita e di musica Steve Swallow al basso, Carla evidenzia ancora una volta quanto sia ampia la sua capacità compositiva e come sia ancora fresco ed entusiasmante il suo pianismo. E la cosa , ad onor del vero, non stupisce più di tanto ove si tenga presente che i tre collaborano oramai da tanti anni nulla perdendo dell’originario entusiasmo, anzi aggiungendo sempre qualcosa in termini di empatia. Per averne conferma basta riascoltare “Trios” inciso qualche anno dalla stessa formazione e confrontarlo con questo “Andando el Tiempo”: i tre, se possibile, dimostrano di conoscersi ancora meglio e di saper dialogare su livelli di quasi perfezione, anche perché questa volta le composizioni sono tutte nuove. In effetti l’album ha una genesi particolare dal momento che la Bley ha scritto la musica rispondendo al preciso invito di Manfred Eicher , patron della ECM, di realizzare un disco che raccontasse una storia. Ecco quindi ‘Sin Fin’, ‘Potacion de Guaya’ e ‘Camino al Volver’ (i tre brani attraverso cui si articola la suite che da il titolo all’album) a fotografare il recupero dalla dipendenza dalle droghe di un amico della Bley. Di qui l’uso del ritmo di tango, come espressione di pathos, per evidenziare la caduta e la lotta. ‘Naked Bridges/Diving Brides’ è il regalo di nozze per il matrimonio di Andy Sheppard, influenzato – ammette la stessa Bley – dalla poesia di Paul Haines, librettista di Carla per opere precedenti tra cui ‘Escalator Over The Hill’, e dalla musica di Mendelssohn la cui marcia nuziale viene esplicitamente richiamata . Infine ‘Saints Alive!’ racconta la Bley – è ‘un’espressione usata da vecchie signore sedute sotto il portico nel fresco della sera, mentre si scambiano pettegolezzi particolarmente succosi’, clima reso perfettamente dal dialogo raffinato ed elegante tra Steve Swallow e dapprima il piano della Bley e successivamente il sax di Andy Sheppard. Ma, come si accennava in precedenza, è tutto l’album ad essere caratterizzato da questo dialogo fra i tre che producono un jazz da camera in cui il pianismo così misurato, quasi minimale si coniuga alla perfezione con il lirismo dei sassofoni di Sheppard mentre Swallow si incarica di cucire il tutto con l’enorme carica di swing, alle volte sotterranea ma sempre ben presente che scaturisce dal suo basso elettrico. Il tutto senza che minimamente si avverta la mancanza della batteria.

Wolfert Brederode Trio- “Black Ice” – ECM 2476
Black IceWolfert Brederode al piano, Gulli Gudmundsson al contrabbasso e Jasper van Hulten alla batteria sono i protagonisti di questo interessante album registrato nel luglio del 2015 all’Auditorium dello Studio RSI di Lugano. In effetti si tratta di un trio abbastanza atipico in quanto è costituito da due olandesi (il pianista-leader e il batterista) e un islandese (il contrabbassista); la collaborazione tra Brederode e Gudmundsson data oramai da molti anni passando dal free alla musica per teatro mentre l’innesto del batterista è piuttosto recente, non a caso “Black Ice” è il primo album inciso da questa formazione dopo i due precedenti CD in casa ECM registrati da un quartetto sempre guidato dal pianista ma comprendente Claudio Puntin (clarinetti), Mats Eilertsen (contrabbasso) e Samuel Rohrer (batteria). Quali le differenze tra i due contesti? A nostro avviso la formula del trio valorizza meglio le raffinatezze del pianismo di Wolfert, la sua capacità di delineare un’atmosfera facendo ricorso solo a poche note, il suo controllo della dinamica, il suo senso melodico ben supportato da una capacità di armonizzazione non comune, il suo tocco così delicato e deciso allo stesso tempo: non a caso ha conseguito i masters degree sia in piano classico sia in piano jazz al Royal Conservatory dell’Aia. Prima avevamo accennato alla lunga collaborazione tra Brederode e Gudmundsson e se ne ha l’ennesima dimostrazione già a partire dal brano d’apertura, “Elegia”, in cui il contrabbasso sottolinea al meglio le invenzioni melodiche di Wolfert mentre Jasper van Hult si dimostra innesto quanto mai felice riuscendo a trovare immediatamente una felice intesa con i compagni di viaggio. In repertorio 13 brani scritti da Brederode eccezion fatta per “Conclusion” di Gudmundsson, tutti intrisi di un profondo lirismo; difficile citarne qualcuno in particolare anche se particolarmente ci ha colpiti “Cocoon”, impreziosito da uno splendido assolo di Gulli Gudmundsson.

Greg Burk – Clean Spring” – SteepleChase 33124
clean-springStatunitense di nascita ma italiano (romano) d’adozione, Greg Burk è artista le cui doti, a nostro avviso, non sono state ancora valorizzate come meriterebbero. E che si tratti di un fior di musicista lo evidenzia a tutto tondo quest’album registrato dal vivo al Teatro Marchetti di Camerino per la prestigiosa SteepleChase nel marzo del 2015. Greg affronta la prova del piano-solo declinandola attraverso quattordici tracce tutte di sua composizione ad evidenziare anche una felice vena compositiva. Greg conosce a fondo lo strumento e lo utilizza in tutta la sua ampiezza con una perfetta indipendenza tra le due mani e un fraseggio fluido, scattante sorretto sempre da pertinenti armonizzazioni. Il tutto guidato da una forte idea di base: ricercare la modernità attraverso l’improvvisazione e la sperimentazione restando, però, in qualche modo ancorato alla tradizione. Di qui una ricerca affatto personale che lo ha portato ad ottenere quei brillanti risultati che si possono apprezzare in quest’ album. Ecco quindi l’omaggio contemporaneamente ad uno dei suoi grandi maestri e alla forma blues in “Blues For Yusef Lateef” mentre in altre tracce come, ad esempio, “A Simple Question” , “Four Reasons”, “Ionosphere” appare evidente la prevalenza dell’improvvisazione. La vena melodica emerge forte in brani quali “Solo una camminata”, “Serena”, “Amore trovato”, lo splendido “Tonos” mentre la title tracke è un delizioso bozzetto caratterizzato da una forte carica ritmica. “Escher Dance” è una sorta di enciclopedia di tecnica pianistica con una continua serie di variazioni tonali e con la mano destra di Burk che vola velocissima sulla tastiera. Il disco si chiude con “Not Forever” un brano di largo respiro in cui si ascolta, tra l’altro, una citazione di “NatureBoy”.

Danielsson, Neset, Lund – “Sun Blowing” – ACT 9821-2
sunblowingIl trio composto da sax tenore, basso e batteria non è certo una novità nel mondo del jazz ma è una formula sempre vincente soprattutto se ad interpretarla sono musicisti quali Marius Neset al sax tenore, Lars Danielsson al basso e Morten Lund alla batteria a costituire una sorta di internazionale scandinava essendo rispettivamente norvegese, svedese e danese. L’idea della registrazione è stata di Morten Lund che ben conosceva gli altri due anche se in realtà il trio si è trovato a registrare in studio senza mai aver suonato assieme. Insomma una scommessa vera e propria che è stata vinta grazie alla brillantezza strumentale di tutti e tre i musicisti e di quell’alchimia che alle volte si crea senza una specifica ragione se non la gioia di suonare assieme. In effetti alle prese con un repertorio di otto brani scritti dai tre con l’aggiunta di “The Cost Of Living” di Don Grolnick, i tre dimostrano di trovarsi a meraviglia: il disegno degli spazi è ottimale così come le improvvisazioni dei singoli che ben si inseriscono nel tessuto complessivo disegnato da batteria e contrabbasso. Comunque, a nostro avviso, una menzione particolare la merita il sassofonista Marius Neset, a suo agio in tutti i brani, e in grado di elaborare un linguaggio, un fraseggio che pur prendendo le mosse dal connazionale Jan Garbarek riesce poi a risultare personale e caratterizzato da un sound ricco, pieno, a tratti potente a tratti dolcemente espressivo: lo si ascolti particolarmente in “Salme” una sua composizione e a nostro avviso uno dei brani meglio riusciti dell’intero album.

Jack DeJohnette/Ravi Coltrane/Matthew Garrison (NO) – “In Movement” – ECM 2488
inmovementQuesto album, almeno per il celebrato batterista, ha una valenza che va ben al di là del fatto squisitamente musicale e che viene esplicitata dallo stesso DeJohnette in una breve nota di copertina: “Matthew – spiega Jack – è il mio figlioccio e ha trascorso molti anni con la mia famiglia durante la sua fanciullezza e Ravi l’ho conosciuto sin da quando era un bambino così lo considero come se fosse un mio figlio”. Senza contare che Jack , nel passato, ha avuto modo di suonare con i padri di ambedue questi giovani musicisti. Non è quindi un caso che l’album si apra con “Alabama” un celebre brano di John Coltrane. Ma non è questa la sola dedica dell’album: ecco quindi “Blue In Green” di Miles Davis e Bill Evans, “Serpentine Fire”, in onore di Maurice White, fondatore degli Earth, Wind and Fire (e ancora una volta Jack ha suonato con tutti e tre questi artisti), “Two Jimmys” in onore di Jimi Hendrix e Jimmy Garrison, mentre “Rashied” è dedicato al batterista Rashied Ali. Insomma un repertorio ricco di riferimenti storici che non possono passare inosservati. Occorre sottolineare come questo trio sia enormemente migliorato nel corso degli anni: lo avevamo ascoltato in concerto nel 2014 e fu una serata insoddisfacente, tanto per usare un eufemismo. I tre apparivano completamente sconnessi, come se mai avessero provato prima di quella serata. E’ stato, quindi, un vero piacere sentire questo album in cui, viceversa, i tre evidenziano un’empatia straordinaria. Il leader, impegnato sia dietro i tamburi e percussioni elettroniche sia al pianoforte, detta i tempi delle esecuzioni e Matthew Garrison al basso elettrico è in grado di seguire gli input del laeder a disegnare un tappeto armonico-ritmico in cui si inserisce perfettamente Ravi Coltrane, positivo con tutti e tre i sassofoni utilizzati: tenore, soprano e sopranino. Il risultato è notevole: DeJohnette è quel grandioso musicista che non ha certo bisogno di ulteriori presentazioni; qualche parola in più è necessaria per i suoi partners: Garrison dimostra di avere un senso compiuto dello spazio entro cui muoversi mentre Ravi ha elaborato un sound molto personale anche al sopranino. I brani sono tutti notevoli con una menzione particolare per le due ballad composte da DeJohnette, “Lydia” dedicata alla moglie e “Soulful Ballad” in cui DeJohnette suona il suo primo strumento, vale a dire il pianoforte. Per chi, viceversa, predilige i climi infuocati, il pezzo forte è costituito da “Rashied” un duetto al fulmicotone tra batteria e sopranino.

Duke Ellington – The Complete Newport 1956 Concert – Essential Jazz Classics 55687 – 2 CD
Thew complete newportRecensire questo doppio CD è impresa quanto mai facile: sarebbe sufficiente dire che si tratta di uno dei migliori jazz festival mai organizzati (basti confrontarne i programmi con quelli odierni; oltre Ellington c’erano Louis Armstrong e Buck Clayton) e che l’orchestra registrata il 7 luglio del 1956 è una delle migliori in assoluto che mai abbia calcato i palcoscenici del jazz. In effetti in quegli anni la big band del Duca era in forma smagliante, impreziosita da solisti che davvero hanno fatto la storia del jazz quali, tanto per fare qualche nome, Clark Terry, Quentin Jackson, Jimmy Hamilton, Johnny Hodges, Paul Gonsalves, Harry Carney, per non parlare della straordinaria sezione ritmica costituita dallo stesso Ellington al piano, Jimmy Wood o Al Lucas al contrabbasso e Sam Woodyard alla batteria. Così abbiamo l’opportunità di riascoltare alcune interpretazioni che sono rimaste memorabili come ad esempio l’assolo con 27 chorus di Paul Gonsalves al sax tenore in “Diminuendo and Crescendo in Blue”. Ma il pregio di questa nuova edizione non consiste solo nel riproporre la versione integrale dello storico concerto del ’56. Sono aggiunte le tracce registrate in studio due giorni dopo lo show e l’intera session realizzata in studio nel marzo dello stesso 1956 nonché alcune tracks molto rare tratte da una trasmissione radiofonica a New York tre mesi prima del concerto a Newport.

Fats O – “On Tape” – jazzhaus 123
OnTapeDisco divertente e curioso questo “On Tape” che vede protagonista ‘fatsO’, un ensemble colombiano la cui musica trae evidente ispirazione dal blues così come dal jazz e dall’hard rock: Disco curioso, dicevamo, ed in effetti da musicisti provenienti dalla Colombia, e in modo specifico dalla sua capitale Bogotà, ci si aspetterebbe musica latina nell’accezione più completa del termine. Ed invece ecco questo settetto capitanato da Daniel Restrepo bassista dalla buona tecnica ma soprattutto vocalist dotato di una voce roca e suadente al tempo stesso; accanto a lui una ricca front line con i clarinettisti e sassofonisti Daniel Linero, e Elkin Hernandez, Cesar Daniel Caicedo al sax alto , Pablo Beltran al sax tenore, mentre la sezione ritmica è completata da Santiago Jiménez, chitarrista di formazione classica e Cesar Morales alla batteria con l’aggiunta, quale special guest, dell’alto-sassofonista Daniel Bahamon in “Crying Out”. In repertorio dieci tracce tutte firmate, parole e musica, da Daniel Restrepo che, alla già citata sapienza interpretativa, accoppia una felice vena compositiva. In effetti le sue creazioni disegnano atmosfere molto variegate: così, ad esempio, si passa dallo swingante e allegro “Hello” che apre l’album alla più dolce “It’s Getting Bad” a evidenziare le doti di Santiago Jimenez alla chitarra; dal clima vagamente fusion e malinconico di “Crying Out” in cui il leader duetta con un clarinetto (onestamente non sappiamo da chi imboccato) strumento tipico della tradizione boliviana e chiuso da un bell’assolo di Daniel Bahamon al sax alto, al rock-blues spigoloso e piuttosto duro di “Out of control”; “Pimp” è forse il brano più jazzistico dell’intero album con in bella evidenza la batteria di Cesar Morales e la front line di fiati cui fa seguito il blueseggiante “Movie Star”. “Oye Palo” si caratterizza per essere l’unico brano in cui Restrepo ha fatto ricorso alla lingua spagnola e di conseguenza a stilemi che si rifanno chiaramente alla musica folkloristica boliviana. L’album si chiude con “I’ll Be Fine” , ancora un saggio di bravura di Restrepo come vocalist che in questa occasione richiama, almeno a parere del vostro cronista, il Joe Cocker dei tempi migliori; significativa anche la performance del chitarrista Santiago Jimenez.

Michael Formanek, Ensemble Kolossus – “The Distance” – ECM 2484
TheDistanceImpresa davvero colossale, tanto per citare il nome dell’ensemble, questa intrapresa dal bassista californiano Michael Formanek alla testa di un vasto organico di ben diciotto elementi tra cui non mancano nomi di spicco quali Ralph Alessi , Kris Davis , Oscar Noriega, Chris Speed, Mark Helias che dirige la band anche nei concerti e qualche sorpresa come ascoltare Tim Berne al sax baritono. Insomma un ensemble davvero stellare per una musica che senza dubbio costituisce uno dei non molti capolavori registrati in questi ultimi anni. Le composizioni di Formanek sono di ampio respiro, illuminate da variabili colori orchestrali, da una certa carica di swing anche se alle volte sottotraccia, da un alternarsi di tensione e distensione, da una struttura solida al cui interno i vari solisti trovano la possibilità di esprimere le proprie potenzialità. E’ il caso dello stesso leader sempre straordinario al contrabbasso, ma altresì di molti altri musicisti che con le loro performances riescono a caratterizzare alcuni momenti della lunga suite, “Exoskeleton”, attraverso cui si articola l’album aperto dai sei minuti della title tracke , inusuale preambolo della suite stessa: così, ad esempio, il trombonista Ben Gerstein e la chitarrista Mary Halvorson costituiscono il fulcro su cui ruotano, rispettivamente, la terza e la quinta parte della suite. Ma i momenti più interessanti sono quelli in cui l’orchestra si esprime a pieno organico , compatta, solida…fino al pirotecnico finale in cui ascoltiamo un’improvvisazione collettiva straordinaria per inventiva e allo stesso tempo rispetto della forma: un equilibrio davvero difficile da raggiungere in situazioni del genere.

Allan Harris – “Black Bar Jukebox” – Love Records 233921
Black Bar JukeBoxNato il 4 aprile 1956 a Brooklyn, il vocalist, chitarrista, e compositore Allan Harris può vantare, tra l’altro, numerosi awards tra cui il New York Nightlife Award for “Outstanding Jazz Vocalist” – vinto per ben tre volte – il Backstage Bistro Award for “Ongoing Achievement in Jazz,” e l’ Harlem Speaks “Jazz Museum of Harlem Award.” Il titolo di questo nuovo album è quanto mai esplicativo: attraverso la menzione del jukebox, Harris intende rendere omaggio a tutta una serie di grandi artisti del passato più o meno recente, anche modificando in qualche modo i suoi punti di riferimento. In effetti prima Harris veniva considerato una sorta di straordinaria sintesi di Nat King Cole, Frank Sinatra e Tony Bennett mentre in quest’ultima realizzazione, sotto la guida del produttore Brian Bacchus (lo stesso di Gregory Porter) allarga il suo raggio d’azione includendo in repertorio brani jazz, R&B, country, blues, soul, e musica latina, sia con pezzi originali sia con composizioni di James Moody, Lester Young, Elton John e Bernie Taupin, Rodgers e Hart, Kenny Rankin e John Mayer a disegnare un mosaico tanto variegato quanto affascinante. Alla testa di un sestetto con il batterista Jake Goldbas, il bassista Leon Boykins, il pianista/tastierista Pascal Le Boeuf, con l’aggiunta in veste di special guests del percussionista Samuel Torres e del chitarrista Yotam Silbersteinadd, Allan Harris evidenzia come il suo talento sia rimasto immutato nel corso degli ani. La bellezza della voce caratterizzata da un registro che oscilla tra tenore e baritono e la capacità di interpretare con assoluta padronanza e pertinenza brani tra loro così diversi sono doti proprie solo dei grandi artisti: si ascolti con quanta disinvoltura Allan passi da pezzi quali “I Got A Lot Of Livin’ To Do”, o “Lester Leaps In” un classico di Lester Young trasformato da Eddie Jefferson nel vocalese “I Got The Blues”, o lo swingante “Love’S The Key” tutti di chiara impostazione jazzistica, a “Catfish” di impronta latineggiante, al funky-soulful di “Take Me To The Pilot” un hit di Elton John e Bernie Taupin…fino al sorprendente “Daughters” di John Mayer in cui Allan suona la chitarra acustica disegnando atmosfere che in qualche modo si riallacciano alla mitica Motown.

Stan Kenton – “The Stuttgart Experience” – SWR 457
The Stuttgart ExperienceLa leggenda del cosiddetto progressive jazz, Stan Kenton, guida una delle più celebri, innovative ma allo stesso tempo controverse formazioni che abbiano illuminato le scene jazzistiche internazionali. L’orchestra è qui registrata durante un concerto tenuto a Stoccarda il 17 gennaio del 1972: La band è infarcita di nomi importanti quali, tanto per citarne qualcuno, Ray Brown, Fred Carter, Richard Torres, e soprattutto il batterista John van Ohlen… oltre naturalmente allo stesso leader al piano. In quel periodo la band attraversava un momento particolarmente felice e aveva introdotto in repertorio alcuni nuovi brani che si possono ascoltare nell’album in oggetto quali il latineggiante “Malaga” di Bill Holmann , un nuovo arrangiamento della “Rhapsody in Blue” ad opera dello stesso Holmann e il brano portante della colonna sonora del film “Love Story” scritto da Francis Lai . Ebbene, a distanza oramai di molti anni, forse si possono abbandonare le polemiche e riconoscere che, al di là dei gusti personali, Stan Kenton fu un grande musicista e che le formazioni da lui dirette erano organici di grande spessore, in grado di interpretare anche le partiture più ostiche senza alcuna difficoltà apparente. Anche la band che si ascolta a Stoccarda è semplicemente poderosa: Kenton , come al solito, ama agire sulle masse sonore, sovrapponendole o allineandole nel tentativo, rivelatosi comunque utopistico, di fondere in un unicum jazz e musica classica. Di qui un flusso sonoro imponente, costante che si riversa sull’ascoltatore con un sound che è divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica delle orchestre kentoniane. Tra i brani presenti nell’album due ci hanno particolarmente colpiti soprattutto per la bontà degli arrangiamenti e la qualità degli interventi solistici: “Rhapsody in Blue” arrangiato da Bill Holman e impreziosito da Chuck Carter nell’occasione al sax baritono e “Intermission Riff” con un centrato assolo del bassista John Worster.

Golfam Khayam, Mona Matbou Riahi – “Narrante” – ECM 2475
NarranteDue straordinarie artiste iraniane, Golfam Khayam alla chitarra e Mona Matbou Riahi al clarinetto, hanno formato il “Naqsh Duo” decidendo di proseguire all’estero i propri studi musicali ma restando in qualche modo legate alle proprie tradizioni. Di qui una musica davvero personale, sotto molti aspetti affascinante, raffinata anche se di non facilissima lettura per un pubblico occidentale poco abituato ai microtoni, ai ritmi, ai cicli improvvisativi propri della musica orientale. Questo “Narrante” costituisce il loro debutto in casa ECM ed è la prima volta che un album prodotto da Manfred Eicher viene edito contemporaneamente in Europa e in Iran. Il repertorio è declinato su nove tracce originali delle due musiciste alla ricerca di un contatto tra oriente e occidente. Evidentemente qui siamo ben lontani da quel che si intende per jazz anche se, ascoltando con attenzione l’album, sembra potersi rinvenire qua e là una pratica improvvisativa certo non sconosciuta alle due. In effetti dal punto di vista tecnico-strumentale Golfam e Mona sono preparatissime, tanto per usare un eufemismo, per cui possono benissimo abbandonare la pagina scritta per addentrarsi in territori sconosciuti ed uscirne senza problema alcuno. Il loro tocco è straordinario, la visione musicale sempre coerente, l’intesa profonda: basta ascoltare un qualsiasi brano per rendersi immediatamente conto di come le due si conoscano alla perfezione intrecciando le loro voci strumentali in un dialogo fitto, incessante. In precedenza accennavamo a come il duo non intenda distaccarsi completamente dalle proprie tradizioni e lo dimostra il fatto che alcuni dei brani si richiamano esplicitamente a tale passato: così, ad esempio, la title tracke trae ispirazione dal Guati , una cerimonia di guarigione del Baluchistan caratterizzata da figure ritmiche ripetitive e scale pentatoniche mentre “Lacrimae” evidenzia l’influenza delle tradizioni improvvisative canore del Kurdistan. (altro…)

Bozzolan: il lavoro ha trovato posto fuori Italia

Luigi Bozzolan Novarajazz5_(1) con Jonny ed Henrik Wartel- Emanule Meschini PH

Luigi Bozzolan è personaggio ben conosciuto dai lettori di “A proposito di jazz”. Diverse volte ne abbiamo parlato sottolineando come Bozzolan sia giustamente considerato elemento di primo piano dell’improvvisazione pianistica made in Italy. Grazie ad una solida preparazione di base, Luigi fa parte di quella non estesa cerchia di musicisti che concepisce il jazz come forma espressiva al di là di qualsivoglia regola, alla ricerca di un io profondo che si intende comunicare con la musica, e lo fa con una onestà intellettuale oggi non troppo comune. Ma ciò non sarebbe sufficiente a farne un artista di livello: in realtà Bozzolan coniuga questa sua dote morale con una straordinaria valenza pianistica supportata da lunghi anni di studio, di apprendistato e da una rara capacità di saper cogliere qualsivoglia stimolo per costruire assolo degni di essere seguiti con la massima attenzione. Di recente, quasi a suggello di una sua lunga esperienza in Svezia, ha svolto attività didattica in Lapponia e lo abbiamo quindi intervistato nella triplice veste di artista, “studente” e didatta in quel di Svezia.

-Tu sei uno dei pochissimi musicisti che, invece di andare negli States, ha deciso di trascorrere un periodo della sua vita in Scandinavia, per la precisione in Svezia. Perché hai fatto questa scelta?
“La mia avventura con la Svezia e’ iniziata nel 2010. Da una decina di anni ero già molto affascinato da alcuni “suoni” del Nord Europa, in modo particolare ho iniziato a pensare ad una diversa idea di trio e di jazz ascoltando l’ EST Trio nei fine anni ’90. Sin dall’ inizio è stata un’attrazione istintiva, di pancia, che poi negli anni a seguire ha trovato molte spiegazioni logiche e razionali. Per molto tempo, la Svezia, quei suoni, quel modo di fare musica è rimasto solo un desiderio, un sentore che lì stesse succedendo qualche cosa di più vicino alla mia identità musicale. Non pensavo di certo ad una partenza né tanto meno ad un trasferimento , ero ancora troppo immerso nelle mie cose a Roma. Nel 2010 ho capito che era il momento giusto per lasciare gli ormeggi romani e fare sul serio. Ero appena rientrato in Italia da una lunga tournée in Sud America con Eugenio Colombo, la più bella e sconvolgente esperienza musicale della mia vita. Dopo il tour misi a fuoco di cambiare profondamente il mio percorso umano ed artistico; a farmi fare il salto, poi, fu una chiacchierata illuminante con il mio amico pianista e compositore Cesare Saldicco…da lì a poco la mia destinazione è stata Gothenburg, dove ho conseguito un Diploma di Laurea di primo livello in Improvisation nel 2012…ma è stato solo l’inizio di un radicale cambiamento.
Dalla partenza del 2010, successivamente alla laurea sono andato e tornato diverse volte, valigie fatte e disfatte, traslochi, molte le valutazioni e le indecisioni, ma di base tutto il vissuto in terra svedese mi continuava a dare feedback positivi.
Il 2013 è stato in qualche modo l’anno del rientro in Italia. Ho iniziato a far domande tanto nei Conservatori Italiani quanto presso Scuole di Musica Scandinave ed Europee, forse da qualche parte qualcosa mi diceva che non era del tutto finita con la Svezia. Nell’ Ottobre 2014 è arrivata “la chiamata”, per ricoprire una posizione come docente di Pianoforte presso la Kulturskola di Gällivare, una piccola cittadina nella Lapponia Svedese. Sono ripartito”.

-Sei già in grado di tracciare un bilancio di questa tua esperienza?
“Oggi ho un contratto a tempo indeterminato come docente di strumento.
Se mi guardo indietro nel 2010 devo dire che da quando ho messo piede per la prima volta in Svezia, in cinque anni, ho fatto passi da gigante. Sono partito con la classica valigia con lo spago, niente in mano, solo istinto. Ci sono stati momenti non privi di difficoltà, periodi di indecisioni, ripensamenti, scelte capitali. Il processo di trasferimento (o vera e propria emigrazione nel mio caso) non è facile e rapido, bisogna essere motivati e pronti con una certa dose di competenze umane e professionali. Il viaggio continua, non amo fare i bilanci, hanno il sapore di qualche cosa che si è concluso; la strada è decisamente ancora aperta ad ogni possibilità, sempre. Posso dire di aver fatto bene a prendere quell’ aereo, forse fra vent’anni guardandomi indietro mi renderò conto davvero di cosa è successo!”.

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Tommy Flanagan nelle “Overseas sessions”

EP tommy Flanagan Overseas sessions 2

Lo confesso. È la passione per la musica, i dischi e il collezionismo a orientare i miei spostamenti e decidere delle mie vacanze. Così seguendo il flusso migratorio del vinile pregiato mi sono ritrovato nella Svezia centrale tra boschi e laghi, a metà strada tra Göteborg e Stoccolma, per la fiera più freak del mondo. Ogni anno a giugno, in occasione del solstizio, come per celebrare un rito pagano, venditori e collezionisti di tutto il mondo si radunano in riva a un lago, montano le tende e, approfittando delle ventiquattro ore di luce al giorno, comprano e vendono ininterrottamente LP, 45 giri e in generale qualsiasi cosa che possa riprodurre un suono. I prezzi vanno su e giù a seconda del tasso alcolico del momento e l’affare lo fa chi regge meglio il mix tra birra e vodka.
In questo contesto fuori dal mondo e dal tempo, mentre cercavo di accaparrarmi qualche raritá che arricchisse la mia collezione, improvvisamente mi sono accorto di Tommy Flanagan che mi sorrideva. Era un ragazzo giovane un po’ stempiato, in giacca e cravatta, con barba e baffi e l’occhio vispo di chi ha giá capito tutto della vita. Flanagan mi guardava dalla copertina di due dei tre rarissimi extended play (dischi 7″ a 45 giri multi traccia) editi dall’etichetta svedese Metronome. Nel terzo EP, che completa la serie, il pianista è invece immerso nei suoi pensieri, con un filo di fumo che sale dalla sigaretta tenuta elegantemente tra indice e medio della mano destra. Foto non posate ma rubate per strada da Bengt H. Malmquist, fotografo ufficiale della Metronome, il cui vero sogno era quello di diventare un chitarrista jazz. Il suo contributo alla storia della musica, invece, lo avrebbe dato attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, tramandandoci i visi felici degli artisti americani di passaggio in Svezia, così come quelli dei grandi jazzisti svedesi, da Lars Gullin ad Arne Domnerus, da Bergt Hallberg a Rolf Eriksson.

Marco Giorgi
per www.red-ki.com

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Anders Jormin: l’importanza del suono nel jazz svedese

Colpo grosso dalla Svezia: il nostro corrispondente, Luigi Bozzolan, ha intervistato per noi il grande contrabbassista Anders Jormin, uno dei personaggi oggi più in vista del jazz internazionale. Ecco qui di seguito domande e risposte. (GG)
Anders Jormin2Anders, tu sei uno dei più importanti ed influenti  musicisti di Jazz moderno della scena scandinava. Ci daresti una panoramica della tua carriera dagli esordi fino ad oggi?

E’ una lunga storia…mio padre era una pianista di Jazz. Io ho ascoltato sui dischi il Jazz degli anni ‘50 sin dall’infanzia e suonavo a casa standard jazz con mio padre ogni sera. Ho iniziato a suonare prima su una batteria fatta in casa, poi sono passato al basso elettrico ed infine al contrabbasso. Mi sono Diplomato molto giovane presso l’Accademia di Musica (Goteborg ndr) studiando anche pianoforte classico e seguendo un percorso didattico molto stimolante e versatile nei generi. Dopo di che ho iniziato a maturare una lunga serie di esperienze musicali davvero incredibili. Ho avuto il privilegio di collaborare con alcuni dei più grandi musicisti mondiali, sarebbe impossibile citarne alcuni ed escluderne altri. Sarò sempre grato di aver suonato e registrato con Elvin Jones, Don Cherry, Joe Henderson; incredibili musicisti di Jazz che non sono più con noi…sono sempre concentrato sul presente, ma a volte le persone ed i colleghi mi ricordano tutte le cose magnifiche alle quali ho preso parte in passato!”.

Da qualche anno il Jazz contemporaneo scandinavo inizia ad imporsi al pubblico Italiano; questo grazie anche a qualche eccelente Label come ECM ed ACT. Mi riferisco in particolare all’EST trio, Bobo Stenson Trio, Jon Balke e…Anders Jormin. Cosa pensi riguardo questo crescente fenomeno culturale?

La situazione della Musica Improvvisata in Scandinavia è stata da sempre molto buona. Già 40 anni fa i musicisti avevano la possibilità di esplorare nuovi linguaggi musicali ispirandosi al Jazz americano senza necessariamente copiarlo, piuttosto sviluppando nuovi approcci  all’improvvisazione, includendo nuovi elementi musicali. La politica dei paesi scandinavi ha sempre supportato la musica improvvisata in maniera concreta e l’Improvvisazione qui è considerata una vera e propria forma d’Arte…non a livello della musica classica, comunque sempre più supportata e promossa. I musicisti emergenti cosi sono stati messi nelle condizioni di poter lavorare professionalmente nonostante le possibilità di esibirsi fossero sempre limitate in aree piccole come i Paesi scandinavi. Le scuole di Musica godono di una buona reputazione. Il fatto che i Paesi  si trovino in un area relativamente limitata e concentrata ha fatto si che i pochi musicisti abbiano potuto creare un atmosfera familiare fra loro, dove c’è una facilità a partecipare e collaborare a progetti reciproci ed a sperimentare  con curiosità anche attraversando barriere di generi e di stili che in altri Paesi sono insormontabili. Tutto questo, a mio avviso, ha profondamente sviluppato una qualità nella nostra concezione di musica…ci sono molte spiegazioni…ECM ed ACT (ed altre labels) hanno divulgato chiari e definiti aspetti della nostra musica. Anche altre realtà di musica improvvisata contemporanea hanno dato vita a nuove etichette e molti incredibili musicisti scandinavi possono essere cosi ascoltati ovunque”. 

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I nostri CD. L’arte di Stan Getz in un grande album del ‘55

Non c’è alcun motivo particolare per scrivere questo articolo se non il piacere che abbiamo provato nell’ascoltare un disco jazz… anche se poi, in tempo reale, una triste notizia ha quasi motivato, a posteriori, questo nostro scritto.

L’incisione che ci ha strappato dalla nostra “apatia letteraria” è Stan Getz in Stockholm, registrata il 16 dicembre del 1955. Getz era reduce da un periodo di convalescenza trascorso in Nord Africa dove si era ripreso dagli effetti congiunti di una pleurite e di una polmonite che aveva buscato, incredibilmente, in piena estate, poco dopo la registrazione al Radio Recorders di Los Angeles  delle tracce che sarebbero poi confluite in East of the Sun – The West Coast Sessions (19 agosto 1955). I medici gli avevano prescritto l’astinenza dal sassofono e Getz non aveva toccato il suo strumento per ben quattro mesi. Rientrato dall’Africa il musicista si era recato a Copenhagen dove aveva incontrato Norman Granz che lo aveva convinto a registrare un disco per la sua etichetta. Detto – fatto. Pochi mesi dopo vedeva la luce uno splendido 33 giri. Sulla copertina vediamo un Getz giovanissimo, appena ventottenne, salutare dalla scaletta di un aereo della SAS, il braccio destro teso in aria, nella mano sinistra il sassofono dentro la sua custodia parzialmente coperto dall’impermeabile che ha sul braccio. L’impressione è quella che stia salutando la Svezia alla sua partenza, dopo aver lasciato un segno tangibile della sua arte, piuttosto che all’arrivo. Ma questa è solamente un’impressione che lascia il tempo che trova. Un’altra immagine ci viene immediatamente in mente: è quella di un elegantissimo Stan Getz in giacca chiara e pantaloni bianchi insieme al pianista Jan Johanson, inserita all’interno del documentario Trollkarlan sullo sfortunato pianista svedese. I due erano sorridenti il ritratto della gioia giovani, belli, con tutte le possibilità che il futuro avrebbe aperto davanti a loro. Giovani Dei con il fuoco della musica dentro.

Marco Giorgi
per
www. red-ki.com

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Jan Johansson il trollkarlan del jazz svedese

Jan Johansson

Jan Johansson

A conferma del crescente consenso raccolto da “A proposito di jazz” nel nostro ambiente, salutiamo con particolare entusiasmo l’ingresso nel ristretto novero dei nostri collaboratori di Marco Giorgi, nome illustre ben noto agli appassionati di jazz per le sue numerose collaborazioni con testate nazionali di primaria importanza. Particolarmente significativo questo “esordio” con un pezzo dedicato ad uno dei giganti del jazz europeo che rischia di cadere nel dimenticatoio.

Marco Giorgi
www.red-ki.com

Söderhamn è una cittadina di circa 12 mila abitanti della Svezia orientale, la cui maggiore attrattiva è Oskarsborg, una torre costruita nel 1895 sulla cima di una collina che domina il centro cittadino. Il monumento celebra la visita del re Oscar II che in realtà non mise mai piede in città. La tranquillità della popolazione fu turbata nel 2003 quando l’amministrazione locale e il  National Public Art Council Sweden decisero di trasformare il vecchio Apoteks Park nel Jazzparken, arricchito da una moderna istallazione. Su una larga superficie circolare coperta di ghiaia furono inseriti dodici piccoli pozzetti riempiti di biglie di vetro. Nel corso dell’inverno il sole che si riflette sulle biglie scioglie la neve e riscalda chi si trova nelle vicinanze. D’estate i raggi del sole rimbalzano sulla superficie di vetro e creano giochi di luce visibili anche a distanza (http://www.ebbamatz.com/folio_img.asp?id=90&typ=txt).

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