A CASA DI MONSIEUR SAX

  • Sax and the city

Il sax fu costruito nel 1840 dal belga Antoine-Joseph (meglio conosciuto come Adolphe) Sax. L’inventore era nato nel 1814 a Dinant, nella provincia vallona di Namur, località nativa del filosofo Davide di Dinant dove oggi sorge la preziosa Maison de Monsieur Sax (il museo, qui ritratto nelle foto di Franco Cozza, è sorto nella sua casa natale) manco a dirlo in rue Adolphe Sax.  La città, non lontana dall’abbazia di Leffe, racconta visivamente del proprio figlio illustre anche attraverso i megasassofoni installati sul ponte sul fiume Mosa. Degne iniziative per un personaggio che merita nei dizionari musicali una nota biografica a sé stante e che ad oggi conta una bibliografia notevole (ad es. cfr. DEUMM, Utet, 1984, Il Lessico IV, sub voce, e quanto a sitografia cfr. theoperaticsaxophone.com, note sub voce).  Sax, ancora giovane, si era trasferito a Bruxelles per studiarvi flauto e clarinetto e per seguire l’attività paterna di costruttore di strumenti.  Portatosi poi a Parigi, vi aveva brevettato l’invenzione del sax, partecipando all’ Esposizione del 1844 (alcune fonti sottolineano la presentazione ufficiale dello strumento alla Expo Universale del 1855). Si era agli albori di quello che, nel volume “Le sax” del 1955, M. Perrin definisce “Période Stagnante”, durato fino al conflitto del 1915/18, caratterizzato da una diffusione del sax in più ambienti militari.  Dopo l’iniziale “presa in carico” del sax dall’esercito francese Sax si era applicato nel perfezionare e ideare altri strumenti come il saxhorn, vicino al flicorno. In Italia la sua prima apparizione avveniva a Firenze, nel 1848, ad opera del clarinettista Giovanni Bimboni. Nel 1857 Sax era nominato professore di saxofono al Gymnase Musical di Parigi. Nonostante i numerosi riconoscimenti ottenuti, la sua attività avrebbe chiuso i battenti dopo varie vicissitudini anche causategli da concorrenti.  La sua morte, nella Ville Lumière, è datata 1894.

  • Dal “fronte” militare al versante classico.

Si diceva di un’epoca di fortune non fluenti per il saxofono. Peraltro, anche se associato alla musica di fanteria, la sua bella “pasta sonora” aveva incuriosito Rossini ed era stato “attenzionata” da Halèvy (Teatro all’Opèra di Parigi, 1852), Meyerbeer, Donizetti. Altrettanto avevano fatto autori classici come Kastner (varie trascrizioni di brani sinfonici e operistici) e Berlioz, suo ardente sostenitore (si veda il “Traitè d’instrumentation”) nonché Massenet, Delibes, Chabrier.
Oltre all’Europa, per quanto riguarda gli U.S.A., sul finire dell’800 lo strumento registrava un analogo utilizzo a livello bandistico militare. E’ il caso delle orchestre di fiati di John Philip Sousa e di Patrick Gilmore con le quali suonò Edward Abraham Lefebvre (1835-1911), “il Paganini del sassofono” (cfr.saxforum.it/I pionieri del sax). “Decisiva sarà l’azione dell’americana Elise Hall: a partire dal 1900 questa sassofonista e mecenate impone lo strumento negli Stati Uniti, commissionando partiture in particolare a Debussy, Caplet, Schmitt, d’Indy, Gaubert e Hurè” (cfr.  Bru Zane Mediabase.com, Risorse digitali sulla musica romantica francese, Il sassofono dal 1842 agli inizi del novecento).

  • Fiato al jazz

Il sax stava prendendo strade i cui esiti difficilmente monsieur Adolphe avrebbe potuto prevedere.  Stava gradualmente “mutando pelle” di strumento da fanfara a strumento “aperto” allargante il raggio d’azione a teatri e sale da concerto, per poi brillare nella folgorante “saxophone craze” negli anni Venti.  C’è chi crede – scrivono Francois e Yves Billard – che nella microstoria del sax, intestina alla più generale storia del jazz, si configuri  un’evoluzione lineare  secondo cui  “Coleman Hawkins e, a minor titolo, Lester Young  dominerebbero il mondo del sax tenore negli anni trenta. Verso la metà degli anni Quaranta la nuova rivoluzione interna al jazz, il bebop, mette in primo piano un altro sassofonista, stavolta un altista, Charlie Parker” (cfr. Entrèe des saxophones, “Les Cahiers du Jazz”. Saxophones, 9, 1996).  In realtà gli inizi, per quanto tardivi, anche sulla spinta di parate e orchestre ambulanti. risalgono all’epoca del New Orleans. Dal N.O. provenivano Sidney Bechet e Barney Bigard (quest’ultimo, nel ’19, suonò il tenore nell’orchestra jazz di King Oliver). E comunque prima di Hawkins (e Johnny Hodges) andrebbe segnalato Frankie Trumbauer , antesignano del cool (e Benny Carter).  A livello di orchestre quella di Fletcher Henderson (con cui, fra gli altri, suonò Ben Webster) aveva assegnato ad una sezione di cinque sax “un’unità omogenea ed autonoma capace di dialogare a mò di solista con il resto dell’orchestra” (cit.). Va precisato, fra le righe, che dai ruggenti Twenties ad oggi si è ad un secolo e passa di storia del sax jazzistico visto che, ad esser precisi, era stato John Joseph ad immetterlo in una formazione jazz già nel 1914.  Nei ‘30s, quelli della swing-era, aveva inizio, scrive ancora Perrin, la fase “ragionata” del sax quella, cioè in cui negli organici di grandi bandleader come Whiteman o Ellington si stabilizzavano le sezioni di sax con innalzamento del livello di abilità e bravura dei solisti mentre, con Benny Carter e Louis Jordan, si evidenziava la figura del sassofonista-bandleader!
Scrive Geoff Dyer in “Natura morta con custodia di sax” ((Instar, 1993) che “era stato Hawk a fare del tenore uno strumento jazz, a definirne il carattere: corpulento, stentoreo, imponente”. E, in effetti, anche guardando ai ‘40s e al bebop si constata l’ulteriore affinarsi dei modi di esecuzione-interpretazione e di sperimentazione di sonorità funzionanti da trait d’union spesso virtuosistico fra ispirazione ed espressione, anima e tecnica, per un suono identitario da adattare ai vari stili che si sarebbero avvicendati anche nella seconda parte del Novecento, con cool, free, jazz-rock, hard-bop, fusion a seguire.   Un manuale come “The Jazz Handbook” di Barry McRae (Longman, Uk, 1987), censendo secondo prassi le figure per blocchi decennali, riporta nel secondo novecento le schede di  John  Coltrane, C. Adderley, O. Coleman, Davern, Dolphy, Getz, Griffin, Konitz, McLean, Mulligan, Pepper, Rollins, R. Scott, Sims (nei ’50s);  Jarman e Mitchell dell’AEoC, Ayler, Gato Barbieri, Braxton, Hill, Kirk, Lacy,  Sanders,  Shepp, Surman, Turrentine, G. Washington (nei ’60s);  Bluiett, Blyte, S. Coleman, Garbarek, Lake, Murray, E. Parker, Pine, Rivers, Threadgill, Shorter (nei 70/80s). Si tratta di un’elencazione che ovviamente andrebbe integrata ed aggiornata inserendo almeno i vari Desmond, Gordon, Woods, Hemphill, Braxton, Henderson, D. Redman, Ware, Cohn, Farrell, Brecker,  Zorn,  Berg, Grossman, Garrett,  B. Marsalis, Lovano, Sanborn, J. Carter, J. Redman, K. Washington … magari optando per una suddivisione per “appartenenza” stilistica e non solo per collocazione temporale. Sono inoltre da  rilevare le diramazioni di sassofonisti sul territorio compresi i latinoamericani (D’Rivera…), gli africani (Dibango…), gli europei  (da Lars Gullin a Portal, Doneda, Coxhill, Breuker e, dopo Mobiglia, fra gli italiani “storici”, Schiano, Genovese, Basso, Maestri, Urbani, Oddi…) con relativa “nidiata” di nipoti e pronipoti musicali; e le ramificazioni in generi come la musica da ballo (v. in Italia il caso esemplare di Fausto Papetti) così come nella  popular, nel r&b e soul e nello stesso pop internazionale in cui  si sono affermati solisti quali  Dick Parry e Candy Dulfer.

  • Cent’anni di “saxitudine”

Dal secolo romantico al secolo breve. Si è accennato al ruolo del sax nella musica moderna nella prima parte del novecento quando un musicista quale Debussy componeva la “Rapsodie for saxophone and orchestra” e Ravel lo inseriva nel “Bolero” ma anche fuori dalla Francia si contano compositori come Villa Lobos e Glazunov per l’uso di quella strumentazione in propri lavori (cfr. Luca Mozzillo, Il sassofono è davvero uno strumento classico? musyance.com). Dicasi analogamente di Webern (Quartetto op. 22 per cl. Sax, v, pf), di Stravinskij e del suo “Ebony-Concerto”  del 1945, dei lavori di respiro jazzistico di Gershwin (“Rapsody in Blue”, 1924; “Porgy and Bess”, 1935).  Quantomeno degni di citazione sono, dal secondo dopoguerra in poi, musicisti contemporanei come Luciano Berio, Betsy Jolas, Anatol Vieru e altri che hanno continuato a pensare musica per/con saxofono. Non sassofono, come sottolineava nel 1993 Livio Cerri, nel saggio “Discussioni sul jazz”, “per non tradire la memoria dell’inventore dello strumento”.  Una buona ragione per non disperdere dalla radice lessicale del termine il riferimento a chi seppe costruirlo così ibrido e sensuale e nel contempo intimo o risonante, nervoso o compassato a seconda di che musica comunicare.  Un oggetto sonoro che ne ha fatta di strada da quando, nel 1875, il Grande Dizionario Universale di Pierre Larousse lo aveva definito inferiore  al clarinetto  “per la qualità e l’ampiezza del suono”! E che, in mano a musicisti straordinari, si è piazzato sulla parte di podio per anni occupata dalla tromba, a far da bandiera alla musica jazz. A vanto, ancora post mortem, di chi ne animò il corpo con un soffio vitale.

Amedeo Furfaro

Max De Aloe chiude alla grande la tre giorni di Teramo

Si è chiusa nel migliore dei modi la tre giorni dedicata all’Accordion Spring Fest, la seconda edizione del Festival della Fisarmonica, promosso dal Conservatorio statale di Musica ‘G. Braga’ di Teramo: dopo il mio intervento, abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare Max De Aloe, armonicista tra i migliori in assoluto e non solo a livello nazionale. Per chi scrive è stato davvero un piacere in quanto De Aloe è da sempre uno dei miei musicisti preferiti, uno di quelli che quando possibile vado sempre a sentire accompagnato da moglie e figlio anch’essi sinceri estimatori dell’artista. Con quello “strumentino” come lo chiama lui (vale a dire l’armonica cromatica) riesce a toccare le corde più intime di chi lo ascolta senza ricorrere a espedienti in qualche modo sopra le righe. Insomma nessuna spettacolarizzazione ma solo voglia di raccontare e raccontarsi. Così anche in questa occasione teramana Max si è espresso come al solito con grande intensità in una performance piuttosto breve (meno di un’oretta) ma egualmente pregna di contenuti. E, almeno per quanto mi riguarda, ho avuto anche l’occasione di ascoltarlo per la prima volta alla fisarmonica.

Introdotti con gusto e quel pizzico di autoironia che spesso contraddistingue Max, si è ascoltato un programma in cui spiccavano due brani, ambedue celeberrimi: “In a Sentimental Mood” e “Besame Mucho”.

“In a Sentimental Mood” venne composto da Duke Ellington nel 1935 e registrato con la sua orchestra nello stesso anno; il testo venne aggiunto successivamente da Irving Mills e Manny Kurtz. Da allora il pezzo è stato inciso centinaia di volte tra cui ricordiamo quella eseguita da Ellington con John Coltrane. Ma l’esecuzione probabilmente più riuscita è quella originale che comprende assoli di Otto Hardwicke, Harry Carney, Lawrence Brown e Rex Stewart.

Questo per dire che affrontare un brano del genere con la sola armonica a bocca è impresa da far tremare le vene ai polsi; ebbene De Aloe l’ha eseguito con grande partecipazione trasportandoci indietro nel tempo, quando sulla parola “jazz” non c’erano molti equivoci.

Identico discorso per l’altro pezzo, “Besame Mucho”, una canzone scritta nel 1940 dalla messicana Consuelo Velázquez prima del suo ventiquattresimo compleanno. Secondo ciò che racconta la stessa Consuelo Velázquez la canzone fu composta prima ancora che lei desse il primo bacio. Rapidamente divenne una delle canzoni più popolari del XX secolo, tanto che nel 1999 venne riconosciuta come la canzone in lingua spagnola più cantata e registrata e forse la più tradotta in altre lingue. Ancora una volta De Aloe ha saputo renderla al meglio riuscendo a trasmettere le tante emozioni che il brano può regalare.  Accanto a queste due perle Max ha presentato “Far from Heaven (di Elmer Bernstein) dal film “Far from Heaven” e tre sue composizioni – “Deep Blue”, “A Sort of Dance” e “Ul Giuan Marcora” –  quest’ultima eseguita con verve e una buona dose di umorismo, alla fisarmonica.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

Kossiga Antropocene – Che forma ha un pianeta d’improvvisazioni libere?

Kossiga Antropocene – Che forma ha un pianeta d’improvvisazioni libere?
Una recensione del free jazz hardcore dei Kossiga che funge da violenta lama per tagliare una questione che non invecchia mai riguardo la forma e l’improvvisazione, permettendoci di fare una breve biopsia sullo stato di salute dell’improvvisazione libera contemporanea.

Se esistesse nel mondo un cannocchiale talmente lungo da poter ammirare il passato e guardare alla storia del nostra pianeta, dall’antropocene ad oggi, potremmo scorgere un lungo filo conduttore che ha intessuto l’umanità da quando ha iniziato a creare e manipolare gli oggetti. Il concetto di forma è il filo d’Arianna citato, qualcosa di così potente da aggrovigliarsi con gli altri milioni che compongono la nostra realtà. Questa permette alla grafite delle nostre matite di tracciare dei solchi su un foglio che possono circonvolgersi in uno spazio reale come nei ritratti, o in uno immaginario creato dalla nostra fantasia. Possiamo notare una ricorrenza quasi archetipica di alcuni modi attraverso cui si manifesta la forma, parlo di giustapposizioni, accostamenti armonici, contrasti, simmetrie e lascio al lettore completare la lista per non scrivere un fastidioso ecc… Pensiamo a quanto le figure ci condizionino anche nel nostro piccolo quotidiano: una nuvola informe e passeggera può diventare nella nostra mente un cane o una gazzella. Questa esperienza è chiaramente qualcosa di soggettivo, ma teniamo a mente come la ricerca della forma sia invece qualcosa di puramente oggettivo. Nella musica il discorso non fa eccezione, sotto la doccia canticchiamo motivetti di un ritornello di otto battute e in un momento di noia percuotiamo le ginocchia imitando un groove di batteria costruito su due battute, non importa quanto veloce lo facciamo, tanto l’autobus che stiamo aspettando non arriverà prima! L’idea di ciclicità e ripetizione in musica sono due approcci primordiali che sintetizziamo schematicamente all’interno di una battuta, generando quindi una forma.
Questa pomposa riflessione dai toni di uno psicologo gestaltista che parla d’arte è necessaria per parlare di quelle musiche in cui la forma viene messa in discussione. Il disco Antropocene dei Kossiga, uscito nel novembre 2022 per l’etichetta Superpang è un album che a mio parere restituisce un possibile spaccato del rapporto tra improvvisazione libera nel jazz odierno e le sue forme. Dal primo ascolto si percepisce una forte impronta free jazz, tuttavia è possibile scovare un elenco di influenze, scomodando il punk, il prog, la noise, l’hardcore e altre etichette in una tiritera di generi affibbiati. Sottolineo come sia importante parlare di influenze siccome lo spirito del jazz è sempre stato quello di arricchirsi sia di stimoli sonori esterni, che provengono dal contesto in cui l’artista vive, sia di quelle pulsioni interne derivate dalle proprie esperienze: un mix che ha reso questa musica sempre al passo coi tempi e affascinante. Possiamo leggere questo atteggiamento musicale nel duo di Alessandro Cartolari (sax baritono) e Andrea Biondello (batteria), infatti provengono da un retroterra jazz, dove l’improvvisazione libera simboleggia soltanto la cuspide di una lunga amicizia che trova base solida già in Tesa Musica Marginale (2004) del gruppo Anatrofobia. La formazione sax e batteria non è una novità nel free jazz, il rimando più old school che mi viene in mente è sicuramente l’album Interstellar Space (registrato nel 1967 ma pubblicato nel 1974) di John Coltrane e Rashied Ali dove la flessibilità ritmica del batterista di Philadelphia si concilia con il bisogno espressivo dell’ultimo Coltrane, un Apollo 11 che ci porta oltre la luna, esplorando il resto del sistema solare. Se Interstellar Space ci lancia in un viaggio nello spazio, l’album dei Kossiga ci riporta al nostro pianeta. Infatti, l’Antropocene è il periodo geologico attuale della Terra e il videoclip di lancio dell’album, a cura di Cinzia Bertodatto, parla apertamente dello stato in cui riversa. La tracklist si compone di sette brani registrati in presa diretta presso il Rubedo Recordings di Torino per mano di Manuel Volpe. Ogni pezzo si chiama Modulo, una parola che lega indissolubilmente il mondo musicale a quello architettonico, un’armoniosa congiunzione che da forma a un pianeta d’improvvisazioni.
Seguendo la scia della metafora geometrica possiamo immaginare una piattaforma triangolare in cui troviamo tre modi di guardare a come i due improvvisatori costruiscono la loro forma. Un palco inusuale per struttura, dove al primo angolo ci sono brani come Modulo 11, Modulo 5 e Modulo 7. Questi ci offrono un breve assaggio del significato di Modulo, ovvero una figura, in questo caso musicale, che viene contornata e fa da base ossessiva e ripetitiva. In questi tre brani si percepisce questo eterno ritorno della figura iniziale, ma la particolarità sta nel modo in cui essa muta, evolvendosi in maniera inaspettata. Se Modulo 11 è una linea molto dritta in tal senso, già in Modulo 5 si nota una sorta di gaussiana in cui minuto dopo minuto il suono degenera arrivando a un climax del sax con un timbro granulare e rumoristico che implode su se stesso, lasciando infine spazio a un silenzio dipinto dai colpi delle bacchette sui piatti che rallentano fino a sparire. Modulo 7 è una spirale dalla potenza centrifuga, veniamo spinti tramite un tempo vorticoso fuori dal centro, verso i margini con un intermezzo rallentato scandito da colpi secchi, simili ai drop nel metal in cui il pubblico sarebbe legittimato a fare headbanging. Come ogni vortice il tutto ripiomba nel caos. Modulo 1 invece ci guida in un’altra espressione di forma, quella che si plasma nel dialogo tra due strumenti: la voce dell’interplay. I due personaggi in scena si muovono in un chiacchierare che crea un movimento tensivo di allontanamento e avvicinamento tra due linee che nel loro separarsi creano delle distanze acusticamente percettibili, simili a un contrappunto distinto, mentre nel loro avvicinarsi creano delle frenetiche masse sonore. Non dissimile dal modo in cui Modulo 3 ci presenta il rapporto dialogico nelle improvvisazioni libera, ma qui la batteria si riserva il ruolo di un pittore che crea uno sfondo puntillistico su cui si muovono le figure del sax rispetto alla collisione di pennellate di Modulo 1.

In questi due casi risalta all’udito la ferocia con cui si crea una tensione che spinge i corpi dei musicisti quasi al limite, volando su un tempo un tempo schizofrenico. Da un lato abbiamo il suono del sax baritono con le note che vengono aggredite, riverberate, saturate e distorte, un urlo grave che sembra provenire da uno strumento fatto di ruggine, un effetto timbrico che viene sostenuto dalla batteria con le continue e ossessive rullate, gli accenni di blast beat, i groove spezzati e quei colpi violenti sui piatti dal bordo fino alla campana. Le atmosfere piene di momenti sospesi e silenzi in cui la mente può deviare verso la contemplazione non sono assenti in quest’album. In Modulo 9 e Modulo 15 lo spazio si riempie di suoni onirici che crescono e svaniscono nel nulla grazie al sax che si alterna ai rumori feltrati della batteria che sfiora con delicatezza i piatti e piega le pelli su cui vibrano degli ululati lontani. In Modulo 9 il tempo si annulla in un pulviscolo di suoni rendendo impercettibile qualsiasi forma in quasi tutto il pezzo, ma costruendo un climax tensivo che porta a un finale denso, ma in Modulo 15 è l’opposto. In quest’ultimo possiamo udire dei vaghi echi di swing che scompaiono con la stessa velocità con cui appaiono, in un percorso di lenta ma continua dissoluzione sia delle figure che della dinamica. Il suono scivola verso un luogo lontano e nebbioso dove ogni figura che prima ci appariva definita diventa sfumata e dei contorni ormai non resta che una vaga sagoma.
In ognuno dei tre approcci con cui i Kossiga parlano il linguaggio dell’improvvisazione rimane lampante come la forma emerge sempre nel momento in cui esiste uno spazio e un tempo in cui ci muoviamo, non importa se sia stabile o meno. Ci piace raccontare come Il free jazz sia uno di quei capisaldi di espressione di massima libertà, la fuoriuscita anarchica da ogni schema e regola, nonostante non sia vero; il che non toglie magia alla musica, anzi! I Kossiga sono l’esempio di come la free form non è veramente free nel risultato, ma in quanto frutto di un modo di pensare che è libero. Cartolari e Biondello con Antropocene riescono a rimandare a una loro prospettiva personale di forma libera modulo dopo modulo. Io stesso scrivendo queste parole sono vittima della ricerca di una forma, ho provato a capire perché i moduli fossero tutti dispari e mancasse il numero 13. Mi piace tuttavia lasciare alla recensione dei margini definiti, ma privandola di alcuni tasselli piuttosto che darne una spiegazione. In sintesi, questa maledetta forma è ovunque e non c’è via di fuga, nemmeno “facendo le cose a caso” come alcuni sostengono… o almeno nel nostro pianeta, dall’antropocene ad oggi, semplicemente non ci siamo ancora riusciti.

Alessandro Fadalti ©

Aurora, Fortuna, Naima e Isabel Con “LEI SI CHIAMERA’” Giusi Mitrano canta di donne migranti e violenza di genere

Quattro nomi di donne, quattro possibili vite. In “Lei si chiamerà”, Giusi MITRANO, racconta, cantando, la speranza di vivere in un modo senza più violenza sulle donne: quelle subite da chi fugge da terre martoriate alla ricerca di una vita migliore o da chi le subisce nel silenzio delle mure domestiche. Il brano uscirà il 25 novembre in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ad accompagnare le note della canzone, il video realizzato da Daniele Chariello – Zork Digital Planet di Buccino, dove alle immagini dei musicisti si alternano quelle di bambini intenti a giocare sulla battigia con l’acqua del mare, altro simbolo forte di libertà. Bambini nei quali la Mitrano ripone la speranza di un futuro migliore. A fare da corona alla voce della Mitrano i musicisti del Sincretico, formazione nata nel 2011, composta da Bruno Salicone al pianoforte, Aldo Vigorito al contrabbasso, Giulio Martino al sassofono soprano e Luca Mignano alla batteria.

E’ un brano scritto di getto durante il primo lockdown – spiega Giusi MITRANOE’ la storia di questa giovane donna fuggita da un campo profughi in Libico dopo aver subito ripetute violenze fisiche e psicologiche. Riuscita a scappare dai suoi aguzzini, raggiunge Lampedusa. E qui, dopo aver partorito, muore. Ascoltai questa storia durante un telegiornale e ne rimasi scossa. Tanto che scrissi il testo di getto e ora finalmente è pronta per essere cantata”.

Nel testo, quattro nomi di donna: Aurora, Fortuna, Naima e Isabel scandiscono i passaggi e diventano significato e significante della narrazione del brano scritto dalla Mitrano. Aurora rappresenta l’alba, la speranza riposta in un domani migliore. E questo nome è dedicato a tutte quelle donne fuggite dai loro paesi alla ricerca di una vita dignitosa. Il velo che benda la Dea e la casualità di essere nate libere, ecco il significato di Fortuna. Naima, straordinaria ballad che John Coltrane dedicò alla moglie e sulle cui note, anni dopo, Jon Hendricks scrisse un testo dedicato alla donna come simbolo di amore, bellezza e vita, è dedicato alla giovane madre morta dopo il parto a Lampedusa. Infine Isabel è dedicato a tutte quelle giovani bimbe costrette a diventare troppo presto mogli e donne.

MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro