DA MARTEDÌ 5 SETTEMBRE A DOMENICA 10 SETTEMBRE, LA DECIMA EDIZIONE DI FRANCAVILLA È JAZZ

Quest’anno Francavilla è Jazz (Francavilla Fontana, provincia di Brindisi) festeggia il decennale. Un traguardo importantissimo quello raggiunto dal festival, grazie al suo deus ex machina Alfredo Iaia, direttore artistico della rassegna, al costante ed encomiabile impegno culturale ed economico dell’Amministrazione Comunale di Francavilla Fontana, che investe sempre più risorse per questo fiore all’occhiello dell’estate francavillese, e al prezioso contributo degli sponsor privati che crescono numericamente di anno in anno per sostenere la kermesse. Anche la decima edizione di Francavilla è Jazz sarà all’insegna di protagonisti assoluti del circuito jazzistico nazionale e mondiale.

Piazza Giovanni XXIII, Largo San Marco e Corso Umberto I saranno le location dei sei concerti, tutti a ingresso gratuito come da tradizione, in calendario per il decennale.

Martedì 5 settembre alle 21:00 (orario d’inizio di tutti i concerti) sarà Richard Galliano New York Tango Trio, in Piazza Giovanni XXIII, ad aprire i battenti del festival. Galliano, uno fra i più grandi fisarmonicisti jazz degli ultimi cinquant’anni, calcherà il palco insieme ai formidabili Adrien Moignard (chitarra) e Diego Imbert (contrabbasso). Il trio alla testa del musicista francese presenterà Cully 2022, suo nuovo disco in cui sono presenti composizioni originali e tributi ad Astor Piazzolla. Un connubio, dunque, fra jazz e tango, ad alta intensità emozionale.

Si proseguirà il 6, a Largo San Marco, con Lisa Manosperti – “Omaggio a Mia Martini”, un caloroso tributo in chiave jazz della raffinata cantante pugliese a una fra le interpreti italiane più amate di sempre. Con lei, i talentuosi Aldo Di Caterino (flauto) e Andrea Gargiulo (pianoforte).

Il 7, in Corso Umberto I, D.U.O. Francesca Tandoi (voce e pianoforte) & Eleonora Strino (voce e chitarra), due giovani e brillanti musiciste che renderanno omaggio alla tradizione jazzistica, segnatamente al bebop, fra standard e proprie composizioni originali.

Venerdì 8, in Piazza Giovanni XXIII, sarà la volta di Enrico Pieranunzi Trio. Questa formazione diretta da uno fra i più conosciuti e acclamati pianisti jazz presenti sulla scena mondiale, completata da due eccezionali partner del calibro di Thomas Fonnesbaek (contrabbasso) e Roberto Gatto (batteria), proporrà un repertorio di sue composizioni originali unitamente ad alcuni standard della tradizione jazzistica, per un live garanzia di eccelsa qualità.

Sabato, ancora in Piazza Giovanni XXIII, Chico Freeman & Antonio Faraò Quartet: il primo, una leggenda vivente del sassofono jazz, il secondo una punta di diamante del piano jazz particolarmente osannato all’estero. A completare la sezione ritmica, due eccellenti compagni di viaggio come Makar Novikov (contrabbasso) e Pasquale Fiore (batteria). Pietre miliari (ri)arrangiate dell’immenso John Coltrane e brani originali autografati da Freeman e Faraò coinvolgeranno il pubblico in un concerto sinonimo di travolgente energia comunicativa e pura adrenalina.

Domenica 10 settembre, sempre in Piazza Giovanni XXIII, i riflettori si spegneranno con Gegè Telesforo – “Big Mama Legacy”, nuovo progetto di uno fra i più famosi cantanti jazz italiani degli ultimi quarant’anni. Accompagnato da un quintetto di giovani talenti della scena jazzistica italiana formato da Matteo Cutello (tromba), Giovanni Cutello (sax alto), Christian Mascetta (chitarra), Vittorio Solimene (organo Hammond e tastiere) e Michele Santoleri (batteria), il noto artista di origine foggiana presenterà un repertorio incentrato su un personale tributo al blues e al sound delle formazioni jazz della fine degli anni Cinquanta.

Gerlando Gatto

Per la canzone è imprescindibile la collaborazione tra cantautore e musicista: intervista con Trebbi e Petretti di Schola Romana

I lettori di “A proposito di jazz” sanno bene come alle volte amiamo invadere, pacificamente, territori altrui occupandoci di musiche che poco o nulla hanno a che vedere con il jazz. Oggi lo facciamo segnalandovi un album di grande interesse. Stiamo parlando di “diecidecimi” un concept album realizzato da Schola Romana e dedicato alla Capitale. Per farlo ne parliamo con Davide Trebbi e Edoardo Petretti responsabili primari del progetto

-Che cos’è la Schola Romana? Quali i suoi obiettivi?
“Schola Romana – risponde Davide Trebbi – è un progetto musicale, collettivo, che nasce nel 2012 e che viene presentato lo stesso anno con due concerti al Teatro Trastevere di Roma. Ha lo scopo di comporre nuova musica in vernacolo romanesco e, quando possibile, di fare anche un’operazione di recupero del passato, vale a dire anche della musica che è stata creata a Roma negli ultimi 100, 150 anni. Così, quando andiamo a prendere una canzone come “Nina si voi dormite” del 1901 composta da Romolo Leonardi e Amerigo Marino o “Barcarolo romano” scritto da Romolo Balzani e Pio Pizzicaria nel 1926 le riattualizziamo a modo nostro… ma arriviamo fino agli anni ’70 ad esempio con Stefano Rosso o Antonello Venditti che cantava in romanesco. Inoltre ci sono pezzi più “moderni” come “A Cristo” ballata politica e ironica che suona come un nostro omaggio all’autore Antonello Venditti e “Stazione Termini” di Franco Cerri cantata all’epoca in Rai da Bruno Martino; a ciò si aggiungano parecchi original tra cui, tanto per citare qualche titolo, “L’albero”, ispirato dall’attuale conflitto in Ucraina”.

-Qual è l’obiettivo finale della vostra azione?
“Cercare di fare uscire la canzone romana dallo stereotipo dello stornello, dell’osteria caciarona magari con troppo vino regalato, buttato lì così e dare una giusta dignità ad un dialetto che in Italia è molto apprezzato e che avuto molti illustri autori a partire dal Belli fino a giungere a Pascarelli e Trilussa. Ho citato Pascarella perché da lui abbiamo tratto profonda ispirazione come in “Interno 5” ispirata proprio alla prosa dello scrittore che ci porta in una casa, in un condominio come tanti, caratterizzato da umanità diverse e differenti sensibilità artistiche”.

-Parliamo del disco e questa volta mi rivolgo a Lei, Edoardo Petretti. Ho letto che Lei si interessa anche di jazz però, mi scusi, ma nel disco in oggetto di jazz ne ho sentito pochino. E’ una scelta voluta o cos’altro?
“È una scelta voluta perché a mio avviso non sempre il jazz al servizio della canzone è efficace. Per me il jazz è anche un approccio quindi cercare quello che il jazz insegna anche in altri generi musicali, cercare la sorpresa, cercare di costruire dei momenti che evadano dalla tonalità inziale e che poi ritornino alla tonalità iniziale. In alcune composizioni jazz c’è una concezione quasi rapsodica, quindi il continuo trasformarsi dell’armonia di impianto: ecco queste sono alcune mie riflessioni che io lego al mio ruolo, tornando al disco, di arrangiatore e coautore di alcuni brani. La funzione di un arrangiatore è quella di far sì che esista un equilibrio costante tra parole e musica e nel nostro caso il problema è più delicato in quanto il suono delle parole appartiene ad un suono dialettale. Prendiamo un esempio: “Stazione Termini”. E’ un brano di Franco Cerri che ho scoperto da poco e che contiene tutti gli elementi che noi cercavamo e cioè troviamo Roma, c’è il jazz, e c’è la canzone d’autore”.

-Sempre con riferimento all’album, ho trovato un elemento inconsueto ma per me positivo: la brevità. Vi eravate posti questo obiettivo sin dall’inizio o è venuto lavorando?
“Sicuramente – risponde ancora Petretti – è un obiettivo che si è concretizzato lavorando, anche se, pensando al disco precedente, è anche una sorta di attitudine del nostro lavorare insieme. È anche un mio personalissimo approccio nel senso che dal disco al concerto amo offrire un pensiero chiaro cercando di eliminare tutto ciò che può non servire ed è un lavoro molto difficile. In ogni caso ci tengo a dire che non è un’esigenza di carattere commerciale”.

Parlando proprio del mondo della canzone italiana io sono molto critico nel senso che molti di questi “campioni” che nell’arco di brevissimo tempo compaiono e poi scompaiono, hanno una carriera così breve perché o cantano male o non sanno per nulla cantare, ma in compenso si ergono a maître à penser. E il paragone con ciò che accade in Inghilterra o negli States è davvero impietoso. Qual è la vostra opinione al riguardo?
Potremmo partire – risponde Trebbi – dal lato politico e sociale del problema e al riguardo ti potrei dire che innanzitutto mancano gli investimenti soprattutto da parte dell’industria. Ora se da un lato mancano gli investimenti dell’industria, e dall’altro crollano gli investimenti sulla cultura tutta, ovviamente non puoi che scimmiottare. Se tu svuoti un Paese dall’interno a livello culturale, poi scimmiotti chi all’estero è davvero in grado di produrre qualcosa di nuovo e originale. C’è da aggiungere che la crisi è di carattere globale, non solo economico, e quindi si avverte a tutti i livelli. Per esempio: a noi piacerebbe moltissimo fare i concerti pomeridiani, della giusta durata, un’ora e un quarto, un’ora e mezza, bis e appalusi inclusi …”

-A chi lo dice…
“Ecco all’estero la musica ha un suo spazio per cui non c‘è bisogno di dire alle 21 per poi cominciare alle 22,30. Tutto ciò secondo me è anche il frutto della crisi economica. A ciò si aggiunga un ulteriore elemento: in Italia i grandi non aiutano alcuno; altrove, specialmente in Inghilterra, i grandi tirano fuori dei “piccoli” ma di grandissimo talento che lanciano sulle scene senza gelosia alcuna, anzi…Qui da noi questo non accade…complimenti tanti, ma fatti pochi”.

-In tale quadro, che ruolo gioca la critica musicale nel nostro Paese?
“Quando si parla di questo problema – risponde Trebbi – a me viene sempre in mente Bertoncelli per l’ormai famosa diatriba con Guccini sul brano “L’Avvelenata”. Il discorso è pericoloso ma non so davvero risponderti in modo costruttivo. Come al solito se mancano gli investimenti si svuota tutto e non esce alcunché di veramente interessante”.

-Torniamo al disco. Quali sono le maggiori differenze rispetto al precedente album?
“Innanzitutto – è Petretti che parla – questo è il primo vero risultato prodotto dalla collaborazione tra me e Trebbi. Una cosa è sentire un disco concepito e prodotto da due cantautori, altra cosa è un album concepito e prodotto da un cantautore e un musicista”.

-Pardon, ma perché questa differenza tra cantautore e musicista?
“Ci sono semplicemente delle caratteristiche differenti: si tratta sostanzialmente di un approccio diverso alla struttura formale di un disco, anche se nella canzone le due figure sono assolutamente indispensabili. Dal punto di vista compositivo sento una scrittura più matura, dei rischi maggiori anche se nel disco precedente c’erano anche degli intermezzi musicali di cui mi sono occupato, però la sensazione che ho ascoltando “diecidecimi” è che ci sia un connubio più completo tra musica e parola”.

-Mi incuriosisce molto questa indispensabilità tra le due figure: potrebbe spiegarsi più compiutamente? Forse vuol dire che accanto ai grandi cantautori ci sono sempre stati grandi musicisti?
“Io penso assolutamente di sì…sono pronto ad essere smentito, però la grande musica che ha fatto la storia nel nostro Paese è scaturita da questa comunione e per allacciarmi a quanto si diceva prima mancano dei musicisti formati, dei musicisti esperti che siano in grado di affiancare un artista nel momento della scrittura di canzoni. Penso a Sting, a Peter Gabriel e ritengo che senza quei musicisti che hanno orbitato attorno a questi grandi artisti forse non avremmo oggi i capolavori che tutti ammiriamo”.

-Ma non pensate che, venendo in Italia, il grandissimo Lucio Dalla potesse racchiudere ambedue le figure?
“Sicuramente sì – ci dice Petretti – ma è un unicum”.
“Io mi permetto di contraddirti – interviene Trebbi – ma in maniera molto soft affermando che molto più completo era Fossati”.

-Il disco sta ottenendo un ottimo successo come si dice di pubblico e di critica. Adesso dove andiamo?
“Siccome scrivere in romanesco è facile come per un italiano scrivere in inglese, – aggiunge Trebbi – a me piacerebbe molto portare Schola Romana a Napoli, Palermo, Bari e vedere se a livello nazionale si può portare non solo il dialetto ma quello che noi raccontiamo”
“A me – aggiunge Petretti – piacerebbe portarlo fuori dall’Italia anche se mi rendo conto che è molto più difficile”.

E con questo auspicio si chiude la nostra conversazione con l’invito ad ascoltare l’album in oggetto: ne vale la pena.

Gerlando Gatto

Danilo Blaiotta: c’è bisogno di un jazz “politico”

Tra i tanti dischi che mi arrivano, ce n’è stato uno che mi ha particolarmente colpito per la materia trattata e per come la musica fosse assolutamente pertinente con le enunciazioni dell’artista. Sto parlando di “Planetariat” inciso dal pianista e compositore Danilo Blaiotta che i lettori di “A proposito di jazz” conoscono già come raffinato commentatore avendo egli stesso scritto alcuni articoli che hanno trovato unanimi consensi.
L’album è stato registrato per Filibusta Records da un gruppo comprendente Eleonora Tosto voce recitante e voci, Achille Succi sax alto e clarinetto basso, Stefano Carbonelli chitarra e voci ed Evita Polidoro alla batteria.
Spinto dalla curiosità di capire meglio le motivazioni di Blaiotta, gli ho chiesto un’intervista e ciò che leggerete qui di seguito ne è il risultato.

– Innanzitutto un complimento nel senso che veramente di rado la musica che si ascolta nel disco corrisponde alle reali intenzioni del musicista. Nel suo caso invece la coerenza tra musica e titoli è perfetta: ascoltando il disco si immagina immediatamente ciò che voleva esprimere. Una musica “politica” nell’accezione più alta del termine.
“Sì, ha ragione. Si tratta di un disco “politico” anche se io amerei definirlo meglio un disco “sociale”. Ho avuto una frequentazione molto gratificante con il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa, il quale ha avuto un forte impatto non solo emotivo, estetico ma anche di carattere politico e sociale sul mio modo di vedere la realtà. In effetti l’ho conosciuto da piccolo, grazie alle frequentazioni della mia famiglia, mio padre in particolare, poeta e pittore. Alla sua scomparsa ho messo insieme due cose: il dolore per la sua perdita e le mie impressioni sull’attualità”.

– A suo avviso è riproponibile una sorta di “jazz politico” come quello che abbiamo registrato negli anni ’70 con i molteplici equivoci che si è portato appresso?
“A mio avviso è molto più importante oggi piuttosto che negli anni Settanta. In quegli anni si era appena usciti dal boom economico e nel mondo si registrava un certo tasso di eguaglianza che oggi ce lo sogniamo. Quindi, ripeto, oggi è molto più importante la presenza di un jazz politico o comunque di forme d’arte che vanno verso il sociale; il problema è che oggi queste denunce si fanno sempre meno. Forse si ha paura, intendiamoci più che lecitamente, di farle. Non a caso, ascoltando questo mio disco, in molti hanno sottolineato il coraggio di aver voluto parlare di certi argomenti. Probabilmente se ne sente il bisogno ma non si trova lo spazio”.

– Lei lo spazio l’ha trovato; allora perché non lo trovano anche gli altri?
“Intendiamoci: certo che si può fare; il problema è che magari non ci si vuole esporre a certi giudizi che potrebbero nuocere alla diffusione delle idee, in questo caso trasmesse attraverso la musica. A ciò si aggiunga un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”.

– Ma lei non pensa che una denuncia del genere proveniente dall’ambiente del jazz italiano , non proprio esemplare, possa risultare poco credibile?
“In che senso?”

– Io credo che una denuncia di tal fatta debba provenire da chi ha tutte le carte in regola per poterla fare; ecco a mio avviso il mondo del jazz italiano tutte queste carte in regola non le ha…
“Lei cerca di farmi dire delle cose che forse è meglio che io non dica. Il jazz italiano, come tutto ciò che accade nella nostra società negli ultimi anni, si è un po’ arreso dinnanzi allo spirito critico, si è forse imborghesito…se possiamo utilizzare questa espressione. Adesso faccio un parallelismo con la musica classica: sia in questa sia nel jazz il pubblico va lentamente scomparendo come effetto di una certa auto-ghettizzazione. Nella classica il pubblico ha di media 70-80, nel jazz magari ne ha 60 ma proseguendo di questo passo le conseguenze sono facilmente immaginabili. C’è poi un altro fattore: tutto sta diventando molto accademico; anche i jazzisti della mia generazione devono quasi difendere un fortino piuttosto che trasmettere una denuncia. La difesa del fortino produce l’implosione delle idee mentre bisognerebbe capire come entrare nella società contemporanea, certo non solo con le denunce.”

– Tutto giusto; ma una domandina semplice semplice: come se ne esce?
“Ovviamente non è una risposta facile; innanzitutto bisogna uscirne vivi fisicamente e intellettualmente. E poi bisogna uscirne politicamente, ma se non c’è cultura non c’è politica. I momenti di massima proliferazione culturale coincidevano con i periodi in cui anche l’economia andava molto bene; le due cose sono collegate. Molto spesso si associa la proliferazione culturale al denaro ma perché non provare a fare l’inverso, cioè servirsi della cultura come volano per migliorare la situazione economica di tutti. Ecco, questa è la sfida che ci attende anche perché altrimenti non credo ne usciamo, tanto per tornare alla domanda”.

– Dopo che ci siamo sfogati sul piano sociale, parliamo di musica tornando al disco. A me pare che ogni brano abbia una sua ben individuabile specificità. E’ così?
“Assolutamente sì. Intanto sono molto felice di aver suonato con questo quintetto nuovo di zecca, dopo aver prodotto in piano trio – con Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria– due dischi di stampo acustico. Questo è un disco che trascende dalle precedenti esperienze anzitutto dal punto di vista timbrico: ho composto i brani partendo dall’elettronica, affidandomi totalmente all’espressività di tale strumentazione per la scrittura, cosa mai avvenuta prima per quanto mi riguarda. E poi sono lietissimo di aver collaborato con musicisti straordinari: anzitutto la grandissima attrice e cantante Eleonora Tosto, mia partner in tante produzioni sia musicali che teatrali, e poi Stefano Carbonelli (chitarra e voci) e Achille Succi (sax alto e clarinetto basso) quest’ultimo al mio fianco in svariati progetti già dal 2011. Infine c’è Evita Polidoro che è una scoperta incredibile, una batterista straordinaria non a caso molto richiesta anche da stelle di primaria grandezza come D.D. Bridgewater e Enrico Rava. Tornando alla domanda, inizio con il far notare l’acrostico che fuoriesce dalle prime lettere degli undici brani – “Human Rights” – palese omaggio ai diritti umani. Quasi tutti i brani contengono i versi del poeta Jack Hirschman citato prima. Il mio è dunque anche un omaggio, oltre che alla sua arte, alle sue battaglie contro il capitalismo sfrenato e senza regole”.

– E per quanto concerne i singoli brani?
Il disco si apre con “Human Being” che è una sorta di ouverture; successivamente la voce di Hirschman introduce “Under Attack. Gaza” evidentemente inerente ai bombardamenti nella striscia di Gaza, seguito da “Mama Africa. Multinationals’ Hands of Blood” un omaggio all’Africa da sempre depredata dalle multinazionali. Con “A Street of Walls” ho voluto rivolgere una critica al sistema capitalistico mentre con “Nasty Angry Tyrannical Order” ho rinominato la NATO con riferimento a quel ventennio di aggressioni in Iraq e Afganistan che ha prodotto i guasti che tutti conosciamo, più di un milione di morti.  Il sesto brano è una bellissima poesia di Jack, “The Homeland Arcane” da cui ho tratto “Real Earth” , dedicato all’inquinamento ambientale, probabilmente il problema più grave e urgente del nostro pianeta; a seguire una critica all’imperialismo, “Imperialism. Unequal Feelings” (feeling diseguali). “Gino’s Eyes” è un omaggio a Gino Strada, agli occhi di questo straordinario uomo che negli ultimi tempi vedevo particolarmente stanco e sfiduciato, forse perché provato da ennesime guerre. Di certo erano anche occhi dolci: tutti gli uomini buoni hanno uno sguardo che esprime tenerezza e ciò spiega perché il brano è composto in forma di ballad. “Hiddens. A Mediterranean Requiem” vuole invece ricordare i troppi morti annegati nelle acque del Mediterraneo; poi con “Troika’s Madness. For Hellas” c’è una violenta critica a ciò che è successo nel 2015 quando la famigerata Troika sostanzialmente rovinò la Grecia e portò alla disperazione migliaia di persone…la Grecia è fondamentale per l’Europa, per l’Italia, senza di essa non ci saremmo stati tutti noi e non a caso per scrivere questo pezzo ho utilizzato la scala misolidia antica, inventata – a quanto si tramanda – dalla poetessa Saffo, che corrisponde alla moderna scala frigia nel jazz. C’è da sottolineare che ad ogni brano si accompagna una poesia di Hirschman dedicata all’argomento in oggetto. L’album chiude con “Stop!” che vuole essere un appello a far sì che non accada più tutto questo”.

– Qual è il brano cui è più affezionato?
“Cerco di capirlo io stesso ma non è facile. Non so decidermi. Quando scrivo i miei album li strutturo come fossero parte di una suite, anche se questa volta ciò non appare così chiaramente come ad esempio nel precedente. E’ comunque difficile scegliere un brano specifico all’interno di un contenitore in cui si susseguono diverse situazioni”.

– La produzione è…
“Di Filibusta Records, che mi segue fin dal primo album a mio nome. Spesso oggi si parla piuttosto male delle case discografiche. C’è da dire, però, che nella melma ci sono sì i musicisti ma anche le case discografiche in quanto sui diritti d’autore non è che si guadagni chissà quanto. Siamo tutti nella stessa barca: basti pensare che i produttori nel jazz fanno tutti un altro mestiere. Comunque qualcosa da migliorare ci sarebbe, ad esempio in SIAE: non capisco perché il diritto di autore debba essere ricompensato sulla base degli ascolti e non su un auspicabile livellamento. Secondo me l’apice di questa rovina è stato il principio dell’uno uguale uno perché se tutto è generato dal mercato siamo davvero alla fine”.

– Ancora con riferimento al disco, anche la copertina è particolarmente indovinata, del tutto pertinente con la musica.
“Sì, la copertina è molto bella: è di Aurora Parrella, una giovane pittrice e restauratrice molto brava, un olio su tela che le ho commissionato io stesso. Poi ci sono le foto di Laura Barba e voglio ringraziare molto Enrico Furzi del Recording Studio La Strada e il suo assistente Francesco Bennati, perché abbiamo fatto un lavoro egregio: questo disco non è stato semplice da registrare”.

Gerlando Gatto

La musica di Danilo Rea, libera e in movimento, come l’acqua

Si dice che nella botte piccola si conserva il vino più buono e in quel di Staranzano, piccola località di settemila anime in Friuli-Venezia Giulia, nella provincia di Gorizia, nella botte ci hanno messo appunto un delizioso e prezioso Festival dell’Acqua, con trenta appuntamenti in quattro giorni, dall’11 al 14 maggio, e di cui sentiremo sicuramente parlare a lungo (https://acquafestival.it/ ).
Tanti sono i motivi per pensare di collocare a Staranzano un concept-festival dedicato a questo prezioso elemento, principio ordinatore del mondo: in primis perché nel suo territorio s’incontrano armoniosamente le acque del mare, dei fiumi, della laguna e quindi perché non seguire il loro corso in un fluire di talk scientifici, performance teatrali, percorsi di ricerca, concerti, laboratori, eventi espositivi, escursioni e incontri letterari?
Detto fatto!
In questa prima edizione, trova spazio anche la musica jazz in una delle sue massime espressioni contemporanee: il grande pianista ed improvvisatore Danilo Rea, che si esibirà sabato 13 maggio (ore 21) alla Sala Pio X (ingresso libero su prenotazione al link: https://acquafestival.it/danilo-rea-in-concerto/ )
Di Danilo si potrebbero scrivere interi trattati, avendo egli suonato con il gotha del jazz, della classica, del pop, in una lunghissima carriera iniziata ai tempi del liceo classico con un gruppo dal bizzarro nome “Gigi sax e il suo complesso”! Celie a parte, dopo gli studi di pianoforte classico al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, un debutto nell’universo progressive rock con i New Perigeo e successivamente nel mondo del jazz, a partire dal 1975, con il Trio di Roma, Rea raggiunge una popolarità internazionale e collabora con artisti quali Chet Baker, Lee Konitz, Steve Grossman, Michael Brecker, Tony Oxley, Joe Lovano, Gato Barbieri, Aldo Romano, Brad Mehldau, Danilo Pérez, Luis Bacalov (e sono solo alcuni…) e in Italia con Mina, Pino Daniele, Claudio Baglioni, Gino Paoli, Domenico Modugno; senza dimenticare il sempervirens progetto Doctor 3, un unicum nel panorama musicale italiano per aver saputo rileggere il pop in chiave jazz con grande sapienza (Pietropaoli, Rea, Sferra, recentemente intervistati per noi da Daniele Mele http://www.online-jazz.net/?s=doctor+3 ).
A Staranzano, il pianista romano eseguirà un affascinante repertorio dedicato all’acqua, in piano solo. Comunque, trattati a parte, se desiderate scoprire chi è davvero Danilo Rea, leggete il suo bellissimo libro-biografia “Il Jazzista Imperfetto”, scritto a quattro mani con Marco Videtta (Rai Libri).

MT: parto innanzitutto con una mia curiosità personale: posto che non ho dubbi che il repertorio da te scelto e dedicato all’acqua rappresenterà – almeno per me – una “sovrapposizione sensoriale”: hai presente la sinestesia… ascoltare la tua musica e udire un colore, insomma… sensazioni così? Mi viene in mente “La Mer” di Debussy con quegli accordi che si rincorrono e gli occhi che si riempiono di tutte le sfumature del blu… e vedi il movimento ininterrotto delle onde del mare, fino a sentirlo dentro di te.

Puoi anticipare ai nostri lettori che cosa hai elaborato per raccordare l’elemento sonoro a questo elemento naturale, così prezioso per la vita sulla terra?
DR: Il tuo riferimento a Debussy mi sembra di grande ispirazione, non a caso qualche anno fa registrai per prova una improvvisazione pianistica proprio su quel brano.
Si l’acqua, la marea, il suono della pioggia, delle onde che si infrangono, è Musica! Spesso mi addormento con suoni d’acqua…
Per il concerto di Staranzano ho in mente una serie di temi come Moon River di Mancini, Wave di Jobim, Caruso e 4/3/1943 di Dalla, Sapore di Sale dell’amico Gino Paoli, per continuare con Bridge over Troubled Water di Simon e Garfunkel e tanti altri.
Vedremo come riuscirò a legarli insieme durante l’improvvisazione nel concerto stesso.

MT: la melodia è un po’ come l’acqua, va lasciata libera di scorrere perché il suo movimento è evoluzione, apertura mentale e desiderio di conoscenza. Tu sei un poeta dell’improvvisazione e conosco pochi musicisti che come te rispettano la melodia anche nel processo improvvisativo; inoltre hai creato un nuovo idioma espressivo nel piano solo. Forse il tuo segreto è che tu non suoni mai in modo auto-referenziale ma unicamente per suscitare emozioni in chi ti ascolta?
DR: si, suono per scambiare emozioni con chi mi ascolta, altrimenti non ci sarebbe motivo per suonare!
Suono giocando sempre attorno alla melodia, proprio perché nel piano solo godo di totale libertà e posso uscire dal concetto di tema e conseguente assolo.
Entro ed esco dal brano in piena libertà, come in un sogno, una cascata di note che partono sempre da un tema a me caro, forse caro anche a chi ascolta.

MT: attraverso la tua musica hai la rara capacità di raccontare storie sorprendenti; il tuo è un pianismo che, se me lo concedi, definirei antinomico… ovvero fatto di continui contrasti, dolcezza e irruenza, lirismo e carattere, il calore della passione e la precisione della tecnica e ogni qualvolta io abbia ascoltato un tuo concerto, partendo da un’idea che mi ero fatta su quello che avrei potuto sentire, puntualmente, alla fine, mi sono sempre ritrovata piacevolmente spiazzata. Passi dai Beatles a Verdi, da Chopin ai Rolling Stones, da Bernstein a De André ed è strano, perché si ha la netta impressione che quei brani siano stati composti ad hoc per il tuo pianoforte.
Cos’è? Forse la conseguenza del tuo modo estemporaneo – e mai asservito ad alcuna imposizione stilistica – di approcciarti alla musica?
DR: credo che dai contrasti esca la musica, che non esista un pianissimo senza un fortissimo e che nell’improvvisare un intero concerto ci sia bisogno di avere una capacità di regia estemporanea, in maniera tale da creare tensione e rilassamento, per calmarsi, sognare e poi ripartire al galoppo.
Un buon improvvisatore non deve accontentarsi di essere bravo nella struttura dell’improvvisazione, deve andare oltre, guardare il brano come parte di un mosaico che dura l’intero concerto, come un racconto nel quale la melodia guida le emozioni. È come se tutta la musica del mondo avesse una matrice comune, Beatles, Puccini, De Andrè, prendendo le loro melodie e suonandole al pianoforte a modo mio, nel bene e nel male, si ritrovano unite.

MT: tempo fa lessi una tua intervista dove dicevi che i grandi musicisti classici del passato erano soliti improvvisare e che tu e Ramin Bahrami (insieme hanno realizzato il meraviglioso album “Bach is in the Air – N.d.A) non vi siete limitati a rileggere Bach né l’avete toccato ma avete “aggiunto”. Vista la già incredibile complessità dell’armonia bachiana e le sue invenzioni contrappuntistiche, ci spieghi che cosa tu e Bahrami avete inteso per “aggiungere”?
DR: con Bahrami è venuto tutto naturale, grazie alla sua fiducia nelle mie improvvisazioni che lui definisce in stile Bachiano: lui suona ed interpreta la partitura originale.
In pratica abbiamo aggiunto l’improvvisazione alla partitura, cosa credo mai fatta. In genere i jazzisti hanno sempre portato la musica di Bach a tempo di swing, quindi riarrangiandola completamente…
Questa operazione è molto delicata, tenendo conto della perfezione della scrittura di Bach, ma l’abbiamo fatta nel rigoroso rispetto della musica del Maestro di Lipsia.
D’altronde Bach era un grande improvvisatore e forse non sarebbe male se i giovani musicisti classici ripristinassero nel loro corso di studi l’arte dell’improvvisazione.

MT: cosa pensi di quanti, con riferimento ad alcuni cantanti di musica leggera che hanno voluto in qualche modo rivolgersi al jazz, criticano questa scelta ritenendola opportunistica e priva di qualsivoglia motivazione artistica?
DR: rispondo che sono anni che mi criticano per questo, ma seguo il cuore; improvviso su ciò che mi piace, senza preconcetti, ovvero, intendo dire che io stesso ho avuto critiche nel senso opposto, perché amavo improvvisare su un repertorio pop… trovo invece che sia una scelta reciprocamente utile, perché c’è tanto da imparare da ambo le parti!

MT: infine, so che sei un grande appassionato di motociclette, credo di aver letto che ne possiedi una decina. Verrai nella mia meravigliosa terra di acque, vento, arte, vini e cibi eccellenti con quel mezzo?
Scherzo, naturalmente, sebbene sia convinta che tu potresti anche farlo! Ti è rimasto qualcosa delle volte in cui sei venuto in Friuli-Venezia Giulia? Ricordo vividamente le tue performance a Udine con Tavolazzi e a Grado con Biondini.
DR: verrò in treno ma spesso viaggio verso i concerti in moto.
Il contatto con l’esterno, con l’aria, con la pioggia che cambia l’odore dell’asfalto, il caldo, il freddo, li puoi godere e subire solo in moto… però sono sensazioni forti che restano dentro, come d’altronde la vostra bellissima Regione.

Marina Tuni ©

Ignasi Terraza: l’unica cosa che conta è suonare

Altro colpo grosso del nostro collaboratore Daniele Mele. Questa volta sul divano del suo immaginifico salotto rosso è seduto un artista spagnolo di assoluto livello, Ignasi Terraza. Nato a Barcellona il 14 luglio del 1962, cieco dall’età di dieci anni, ha cominciato a frequentare il mondo musicale sin da piccolo dedicandosi prima alla musica classica, poi al jazz. In veste di jazzista si è distinto sia come accompagnatore di alcune vocalist di classe sia come leader di trii e quartetti sia come elemento imprescindibile della Barcelona Jazz Orchestra.
Oltre ad essere un eccellente musicista, Ignasi è considerato un didatta tra i migliori del suo Paese insegnando oramai dal 2003 presso la Escola Superior de Música de Catalunya.
Molti i riconoscimenti prestigiosi tra cui il “best new group” award assegnatogli nel 1991 al Festival Internacional de Jazz de Guetxo come cooleader del Mitchell-Terraza Quartet guidato dal 1990 al 1993, assieme al chitarrista statunitense David Mitchell,
Da segnalare, infine, la vittoria di Terraza del 2009 alla Jacksonville Jazz Piano Competition.
*****

-Per te, Ignasi, il punto di partenza è stato la musica classica. Quanto la ritieni importante per la formazione di un musicista? E poi, come sei passato al Jazz?
“Ho iniziato come se fosse un gioco, imparando “Happy Birthday” e muovendo i primi passi sul pianoforte di mia nonna. I miei parenti mi hanno iscritto al Conservatorio, dove ho fatto il mio percorso di 8 anni in pianoforte classico, ma parallelamente ascoltavo anche musica Pop, e dopo alcuni anni mi sono avvicinato al Jazz. La musica classica mi ha dato la tecnica che si richiede per suonare a certi livelli, ma non direi che se prima non studi musica classica poi non puoi suonare Jazz, e ho esempi di tanti musicisti. Quello è stato il mio percorso, ma non è “obbligatorio”. Io direi che è importante capire cosa fai, cercare di capire a fondo la musica e non solo imparare a suonare meccanicamente”.

 -Tuttavia non sei l’unico pianista che dice che la musica classica è importante, quasi tutti sono d’accordo che è importante conoscerla.
“Sì, è vero”.

-Quindi ti piaceva anche la musica Pop. Internazionale? Tradizionale?
“Beh ero attratto dal Rock sinfonico: Genesis, Emerson Lake e Palmer… quelli erano i miei ascolti. Avevo 14 anni”.

-Essendo più giovane allora, credo fosse il giusto tipo di musica da ascoltare a quell’età.
“A quindici-sedici anni ero già orientato verso il Jazz”.

-E’ iniziato come un gioco, ma a che età hai pensato “potrebbe diventare il mio lavoro”?
“Bella domanda. Non so, mio padre ha sempre detto: “Ok puoi fare musica, ma cercati un lavoro serio” (ridono) Ho così preso una laurea in Computer Engineering, e ho lavorato come ingegnere per 5 anni. Dividevo il tempo tra le due cose, ma sentivo che volevo dedicare più tempo alla musica, volevo provare a vedere cosa sarebbe successo se avessi dedicato tutto il giorno alla musica. Da là non sono più tornato indietro. Tornando alla domanda: quando ho deciso esattamente? E’ successo negli anni, suonavo, partecipavo alle serate. Tete Montoliu, uno dei più grandi pianisti europei, era anche lui cieco e di Barcellona. Lui mi trasmetteva l’idea che quello potesse essere un lavoro serio, che ci si può provare almeno”.

-Ti ha detto questo?
“No no, lui non mi ha mai detto niente del genere”.

– Era, come si diceva, la prova vivente che si potesse fare.
“Esatto!”.

– E l’essere cieco ti ha mai creato ostacoli? Magari nel suonare con altri o davanti ad un pubblico?
“La grande limitazione è che non puoi leggere gli spartiti. E, professionalmente parlando, questo è un problema… si deve trascrivere tramite Braille prima, poi devi memorizzarlo, e tutto ciò crea un lasso di tempo molto lungo prima che tu possa suonare. Nel Jazz, anche se c’è la musica scritta, si lavora soprattutto ad orecchio. Forse è questo che mi ha fatto sentire più a mio agio con il Jazz”.

– Parliamo della tua attività come insegnante alla ESMUC, Escola Superior de Música de Catalunya. Quando hai iniziato? Com’è strutturata la lezione-tipo con Ignasi Terraza?
“Ho iniziato a dare lezioni ai tempi delle prime serate come musicista, pochi studenti privati ogni anno. Quando l’ESMUC aprì nel 2000 io ho presentato la domanda e da allora sto insegnando lì. Certe volte mi fa strano pensare che un autodidatta del Jazz possa insegnare in un Conservatorio. Durante le lezioni ascolto i ragazzi, prima di tutto, così posso capire il loro livello. Riescono a leggere molto bene e suonare passaggi tecnici molto complicati, studiano contemporaneamente classica e Jazz… ma non riescono ad improvvisare una nota. Allora io provo a dar loro questo approccio all’improvvisazione”.

– Qual è il concetto più importante che vuoi imparino da te?
“Dipende dallo studente. Al pianista classico insegno come approcciare la musica senza leggere, e come improvvisare in qualsiasi linguaggio… non solo Jazz. Quando sono già orientati verso l’improvvisazione voglio approfondire il linguaggio. E poi li incoraggio a controllare il ritmo, che è la chiave per esprimere l’improvvisazione. A volte c’è troppa attenzione sulle note, ma spesso non è importante quale nota suoni, se è suonata con un certo ritmo. E la storia del Jazz ci insegna che è importante il suono, una delle chiavi di lettura della personalità del musicista”.

– Credo che tu riesca a comunicare il tuo suono personale, negli album tuoi che ho sentito. Si sente che ami e rispetti la tradizione del Jazz, la storia e quel tipo di dialettica, ma sento anche il “suono di Ignasi Terraza”.
“Il suono personale si raggiunge dopo anni. Credo Armstrong abbia detto che sia come un “cocktail”: ognuno di noi è un bicchiere da cocktail in cui mettiamo un po’ di questo e un po’ di quell’altro. Quando sei innamorato della musica di Hank Jones, di Oscar Peterson, di Kenny Barron, senti i loro album tutto il tempo e cerchi di imitarli. Non necessariamente le note, ma il modo in cui suonano.  Così impari seguendo la direzione che Kenny Barron, per esempio, ha già segnato. Con alcuni musicisti capita di capire di chi si tratta ascoltando una sola nota. “Ecco è lui, quel tipo”. Con altri non riesco ad avere questa sensazion”e.

-Volevo chiederti del tuo album Unusual Trio, ma stamattina ho scoperto del nuovo lavoro che uscirà a breve con la cantante Pebla Niebla. Ci vuoi parlare un po’ di entrambi?
“Nell’ultimo anno son passato da lavori con cantante a lavori con altri strumentisti. Nei miei album c’è questa alternanza, il pianoforte come protagonista oppure come strumento accompagnatore sullo sfondo. Unusual Trio è un progetto che ho avuto in mente per anni, ma non ho mai trovato il momento e i musicisti per farlo. Poi durante la pandemia ho incontrato Adrian Cunningham, sassofonista, clarinettista e flautista. Ci siamo incontrati e sentiti subito a nostro agio l’uno con l’altro. Suona molto Jazz tradizionale ma anche contemporaneo, ha tutto il background classico ed è un musicista molto completo. La formazione si ispira al Benny Goodman Trio con Teddy Wilson, ma anche a Jelly Roll Morton con i suoi “bassless trio”, e a Nat King Cole senza basso. Pensavo “mi piace, ma vorrei suonare anche hard-bop o bossa nova brasiliana, mischiando le cose che di solito faccio nei miei concerti”. Perciò è stato difficile trovare un clarinettista che potesse fare tutto, e quando ho incontrato Cunningham ho pensato “ok, lui fa per me” perché è molto versatile. E’ stato sfidante, suonare il trio senza basso significa che devi essere molto sul tempo, devi essere lì presente”.

-Il batterista è Esteve Pi. Suonate molto assieme.

“Suono con Esteve dal 2008, mi sembra. O forse anche prima”.

– E cosa ci dici dell’altro album, En La Orilla Del Mundo? Non conoscevo Pepa Niebla, è davvero incredibile. Ho visto anche un video in cui canta con Andrea (Motis).
“Sì, quello è il video del nostro primo incontro. Stavamo suonando in un festival, lei ha cantato nella prima parte e noi nella seconda. E poi l’abbiamo invitata a cantare un paio di canzoni con noi. Quando abbiamo finito abbiamo detto “dobbiamo assolutamente fare qualcosa assieme”, e abbiamo iniziato a collaborare”.

-L’ho anche sentita fare scat, molto brava.
“Sì è anche una brava scatter. Ha un buona voce con un buon timbro e capacità espressiva. All’inizio lei mi disse che aveva solo registrato musica Jazz in Inglese, e mi ha detto che voleva fare qualcosa in spagnolo. Ecco perché alcune melodie dell’album sono in spagnolo”.

– Non vedo l’ora di ascoltarvi. Penso che ci stiamo avvicinando alla fine dell’intervista… c’è qualcosa che vuoi aggiungere? Magari un suggerimento per i giovani musicisti?
“Mmm… Beh, possiamo parlare molto del Jazz, ma alla fine l’unica cosa da fare è ascoltare. E’ tutto nelle registrazioni. Non perché sia sbagliato parlarne, ma alla fine l’unica cosa che conta è suonare. Potete leggere quest’intervista, ma dopo andate a sentire qualcosa”.

– E’ uno splendido messaggio per i lettori. Grazie per il tuo tempo Ignasi.
“Grazie a te”.

Daniele Mele

MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro