I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero e due note di classica

UNO SGUARDO ALL’ESTERO

Wolfert Brederode – “Ruins and Remains” – ECM
Questa suite per pianoforte, quartetto d’archi e percussioni, ha un preciso significato storico in quanto è stata composta da Wolfert Brederode nel 2018, in occasione del centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. Da quell’anno al 2021 quando la suite è stata registrata dal pianista Wolfert Brederode coadiuvato dal percussionista Joost Lijbart e dal gruppo d’archi olandese Matangi Quartet la composizione ha visto alcuni cambiamenti grazie alla stretta collaborazioni fra i musicisti. In effetti Brederode aveva avuto in passato occasione di collaborare sia con il Matangi Quartet sia con il percussionista presente nei suoi gruppi sin dal 2004. Lijbart è un esponente del “nuovo” jazz caratterizzato da una profonda e radicale improvvisazione ed è riuscito a portare questa cifra stilistica all’interno di composizioni che, pur privilegiando una certa ricerca melodica, non disdegnano di riservare spazi significativi all’improvvisazione. E, ad avviso di chi scrive, il pregio maggiore dell’album – e probabilmente del leader – è quello di aver saputo dare alla musica un’anima che riesce assai bene a coniugare l’espressività del pianoforte con il sound del quartetto e le capacità improvvisative di Lijbart. Ancora una volta, come fa rilevare Maria-Paula Majoor, componente del Matangi Quartet, fondamentale è risultato in sala di incisione il ruolo di Manfred Eicher, produttore nonché fondatore nel 1969 della ECM, il quale ha spinto sempre i musicisti a rimodellare la musica di modo che la transizione tra le parti improvvisate e quelle scritte fosse quasi impercettibile.

Ali Gaggl – “A Piece of Art” – ATS
Nonostante l’Austria abbia dato i natali a due grandissimi musicisti quali Joe Zawinul e Friedrich Gulda, negli ultimi anni poco conosciamo di quel che accade in quel Paese. Ben venga, quindi, l’ATS che ci presenta alcuni musicisti austriaci. Questo “A Piece Of Art” è l’ultimo album della vocalist e compositrice Ali Gaggl, vero nome Alberta Gaggl, nata il 15 Ottobre 1959 a Klagenfurt. Musicista a 360 gradi (ha studiato jazz e musica popolare al Conservatorio della città natale, specializzandosi in canto e in pianoforte oltre ad aver avviato una rilevante carriera didattica insegnando canto al Conservatorio di Trieste, alla Bruckner University di Linz e alla Summer Academy del Castello di Viktring) la Gaggl si è fatta ascoltare sia in Europa sia in Canada collaborando spesso con Kenny Wheeler e la Upper Austrian Jazz Orchestra. In quest’ultimo album, la Gaggl ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra i quali il sassofonista Wolfgang Puschnig, la Upper Austrian Jazz Orchestra – UAJO e il quartetto d’archi Koehne; in programma un repertorio assai variegato in cui accanto a sue composizioni, figurano standard come “In a Sentimental Mood” (accompagnata dal quartetto d’archi) e “God Bless The Child” con l’UAJO, forse il brano meno riuscito. Il clima che si respira ascoltando per intero l’album è quello di un solido mainstream sostenuto dall’abilità di tutti i protagonisti e specialmente della vocalist che appare perfettamente in linea sia quando è accompagnata dal solo trio di pianoforte (“Stund Up”), sia che canti con l’orchestra, sia che interpreti brani più leggeri (“C’est ci bon”), sia che si trovi immersa in un contesto ritmico più marcato come nei casi della title track e di “African Child” uno dei brani più originali dell’intero album.

Sverre Gjørvad – “Here Comes the Sun” – Losen
È con vero piacere che presentiamo al pubblico italiano questo batterista norvegese in Italia sostanzialmente ancora sconosciuto, nonostante non sia più giovanissimo (classe 1966). Il musicista di Stathelle, cittadina nel comune di Bamble nella contea di Vestfold og Telemark, viceversa è ben noto in patria avendo collaborato con alcuni musicisti di rilievo come Live Maria Roggen, Ståle Storløkken, Mats Eilertsen e Nils-Olav Johansen. In questa nuova registrazione si ripresenta alla testa del suo gruppo storico completato da Herborg Rundberg piano, Dag Okstad basso, Kristian Svalestad Olstad chitarra cui si aggiunge Eirik Hegdal ai sax nel brano che conclude l’album, “Voi River”. Questo “Here Comes the Sun” chiude un ciclo di quattro CD dedicati alle quattro stagioni, registrati sempre con i medesimi musicisti. La stagione cui si riferisce questa volta è la primavera ed in effetti la musica rispecchia abbastanza bene il clima che si respira da quelle parti a partire da marzo, aprile. E questo è un discorso difficile da capire per chi non sia mai vissuto nel Nord Europa e non sia stato testimone di quello straordinario risveglio della natura che si registra in quel periodo. Così la musica del gruppo è vivace, sostenuta da un buon ritmo, con pianista e chitarrista in primo piano a supportare le concezioni del leader che si rispecchia appieno, anche come compositore, in tutte e trenta le composizioni attraverso cui sono declinati i quattro album di cui in precedenza.

Rolf Kristensen – “Invitation” – Losen
Eccellente chitarrista norvegese, nato a Kristiansand, nel 1961, ha già ottenuto in patria numerosi riconoscimenti di pubblico e di critica soprattutto come solista del gruppo Secret Garden. In questa nuova fatica discografica, Rolf ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra cui alcuni vocalist da lui ritenuti tra i migliori del momento in Norvegia (Torun Eriksen, Hilde Hefte , Kari Iveland e Hilde Norbakken) e un altro celebre chitarrista Allen Hinds (The Crusaders, Roberta Flack, Randy Crawford, Natalie Cole)il quale, trovandosi in città durante la registrazione dell’album, accettò volentieri l’invito del leader ad unirsi al gruppo per incidere il classico di Corea “Crystal Silence” Per il resto il repertorio è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi dal momento che si tratta di brani tutti tratti dal “Great American Songbook”. Ecco quindi uno dopo l’altro alcuni classici come “Blue in Green”, la title track…per chiudere con il già citato “Crystal Silence”. Si tratta, in buona sostanza, di una sfida che Rolf ha espressamente dichiarato di voler affrontare proprio per evidenziare in che modo la sua preparazione soprattutto la sua personalità gli consentono di affrontare questi brani apportando qualcosa di personale. Obiettivo raggiunto? Difficile dirlo…nel senso che sicuramente Kristensen interpreta assai bene tutti i brani, un po’ più difficile affermare che vi apporti qualcosa di veramente nuovo.

Maja Jaku – “Soul Searching” – ATS
Maja Jaku giunta al suo quarto album da leader, ha tutte le carte in regola per affermarsi nel pur vasto panorama del jazz europeo. Può innanzitutto vantare una solida preparazione di base avendo studiato, tra gli altri, con
Sheila Jordan, Mark Murphy, Jay Clayton e Andy Bey e nel suo curriculum figura la prestigiosa collaborazione con la band fusion di Gerd Schuller “Attack”. Questo nuovo album, creato tra San Diego e Vienna, si intitola significativamente “Soul Searching” ad indicare la precisa volontà della vocalist di rifarsi alle atmosfere tipiche della Blue Note anni ’70 declinando un repertorio abbastanza variegato. Principale responsabile il compositore e trombonista Dave Scott che ha scritto 3 composizioni mentre il trombettista americano Jim Rotondi ha contribuito agli arrangiamenti degli ottoni e due composizioni sono state co-scritte dalla stessa Maja Jaku. Il gruppo è completato da Sasa Mutic piano, Dusan Simovic basso e Joris Dudli batteria.
Per chi ama questo tipo di jazz l’album risulterà sicuramente interessante; per tutti gli altri detto che la Jaku ha molte carte da giocare, in alcuni passaggi si nota una qualche incertezza, una non perfetta padronanza della materia musicale che si può spiegare con la giovane età nella consapevolezza che in un futuro non lontano le cose non potranno che migliorare. Tra gli otto brani in programma particolarmente interessante “Be Real” mentre in “God Bless The Child” si apprezza una bella intro del trombettista Jim Rotondi. Un’ultima notazione: vi abbiamo presentato due vocalist austriache e ambedue hanno messo in repertorio quest’ultimo brano, scelta che non comprendiamo appieno data la difficoltà di interpretare al meglio una partitura entrata oramai nell’immaginario collettivo.

Keith Jarrett – “Bordeaux Concert” – ECM
Ascoltando album come questo si riaccende il rammarico per l’impossibilità di ascoltare nuove imprese di colui che a ben ragione può essere considerato uno dei massimi pianisti del secolo scorso. Questa volta Jarrett viene ripreso durante un concerto svoltosi all’Auditorium dell’Opera National di Bordeaux il 6 luglio del 2016, nell’ambito di quel tour europeo che aveva portato l’artista ad esibirsi, tra l’altro, a Budapest, Vienna e Monaco. Venendo a quest’ultimo album, dobbiamo confessare che recensirlo è impresa davvero ardua in quanto su Jarrett molto, moltissimo è stato scritto e “Bordeaux Concert” non fa altro che ribadire tutto ciò che già si conosceva. Vale a dire un artista straordinario sotto le cui dita il pianoforte assurge a vertici difficilmente raggiungibili. Jarrett suona con straordinaria lucidità e quindi con pieno controllo della materia sonora che si sviluppa seguendo una logica ben precisa, non ardua da individuare specialmente per chi ben conosce Jarrett. Ecco quindi la sua capacità di suonare frasi già conosciute ma in modo totalmente nuovo grazie soprattutto alla costante ricerca di nuove cellule melodiche. Quindi non è certo un caso che la stampa internazionale abbia accolto l’album con grande rilievo sottolineando a più riprese sia il carattere intimistico della musica sia la bellezza delle parti estese che si collocano in una dimensione altra lontana dallo spazio e dal tempo. Da sottolineare come l’album è declinato attraverso tredici parti senza titolo ma numerate con cifre romane, parti che si allacciano perfettamente l’una all’altra pur nella diversità d’ispirazione sì da costituire un lungo straordinario, entusiasmante e commovente discorso sonoro.

Jean-Charles Richard – “L’ètoffe des reves” – La Buissonne
Come l’album “Canto” più sopra recensito, anche questa nuova produzione del sopranista e baritonista Jean-Charles Richard può definirsi ‘jazz da camera’, ove con tale definizione si intenda riferirsi ad una musica organicamente costruita con pochi mezzi e soprattutto scritta con sobrietà ed eleganza. Oltre al sassofonista nell’album è possibile ascoltare il pianista Marc Copland, la vocalist Claudia Solal e il violoncellista Vincent Segal. E a nostro avviso è proprio Copland, unitamente al leader, a conferire una precisa cifra stilistica all’intero album declinato attraverso undici composizioni. I due dialogano sempre con empatia disegnando atmosfere che sembrano collocarsi al di fuori del tempo e dello spazio, una dimensione in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono; si ascolti, ad esempio “Giverny” o “Desquartes”… anche se in realtà queste caratteristiche si evidenziano in tutte le esecuzioni. Eccellente anche la prestazione della vocalist Claudia Solal moglie del sassofonista e figlia del celebre Martial; Claudia interpreta con pertinenza “Ophélie Death” (in cui si mette in musica i versi dell’Amleto) e la “Title track” (con testo tratto dalla Tempesta shakespeariana) ambedue porte in inglese e “Ophélie” (con versi di Rimbaud) cantata viceversa in francese.
Ma questi rimandi alla letteratura attraversano un po’ tutto l’album così come i richiami a musicisti di altre epoche quali Olivier Messiaen, Igor Stravinsky, Claude Debussy. L’album si chiude con “Weeping Brook” un pezzo di bravura del leader al sax baritono.

Steve Tibbets – “Hellbound Train: An Anthology” – ECM 2CD
Le antologie non figurano in cima alle nostre preferenze…a meno che non si tratti di qualcosa di particolare. Ed è proprio questo il caso dal momento che si tratta di un tributo riservato ad un artista tanto originale quanto riservato. Molti anni sono passati da quel lontano 1977 quando Steve pubblicò il suo primo album ma l’artista ha sempre tenuto fede a quelle che sin dall’inizio sono state le direttrici su cui ha impostato la propria ricerca: i continui riferimenti etnici, impiego di una strumentazione del tutto particolare ivi compresi i nastri magnetici, l’alternarsi di momenti estatici ad altri molto più terreni. In repertorio 28 brani tratti dagli album che l’artista ha realizzato per l’ECM in un lungo lasso di tempo. Ovviamente molti i musicisti che si ascoltano accanto al polistrumentista leader, ma la musica ruota sostanzialmente intorno a Steve che suona la chitarra, il dobro (o chitarra resofonica), la kalimba e le percussioni. Due le notazioni che si possono fare per rendere più agevole l’ascolto: la sequenza dei brani non è cronologica e i brani scelti rispecchiano assai bene la multiforme personalità del leader. Molti sarebbero i brani da segnalare all’attenzione del lettore, ma andremmo ben oltre i limiti che riserviamo ad ogni recensione per cui basti sottolineare come i curatori sono riusciti a tracciare un ritratto esaustivo dell’artista.

DUE NOTE DI CLASSICA

Margherita Porfido – “Da Gesualdo a Piccinni – Musicisti del Sud Italia dal 1500 al 1700) DiG 2 CD
Margherita Porfido – “Margherita’s Miniatures” – DiG
In questi due album, editi da DiG (Digressione) abbiamo l’opportunità di ascoltare e ammirare una delle più complete clavicembaliste italiane. Nata ad Altamura, Margherita Porfido comincia a studiare musica sin da giovanissima diplomandosi in pianoforte e clavicembalo. A partire dal 1983 si dedica completamente allo studio del clavicembalo soprattutto con riferimento alla musica Rinascimentale-Barocca ed a quella contemporanea, prediligendo il repertorio solistico e di solista con orchestra.
Nel primo album, “Da Gesualdo a Piccinni”, impreziosito da un esauriente libretto vergato da Alessandro Zignani, scrittore, musicologo e germanista di grande spessore, possiamo ascoltare una serie di brani che risultano assolutamente indispensabili per capire a fondo la musica tra ‘500 e ‘700 del meridione d’Italia. Il repertorio, infatti, comprende tra l’altro la “Canzon francese del principe” di Gesualdo Da Venosa, la “Salve Regina” di Rodio, composizioni di Giovanni Salvatore, Giovanni Maria Trabaci, i balli e le danze di Antonio Valente e Bernardo Storace, fino alle “Tre Sonate e Una Toccata” di Niccolò Piccinni. In buona sostanza si tratta di uno straordinario viaggio attraverso le note che ci conduce alla scoperta, o forse sarebbe meglio dire alla riscoperta, di autori purtroppo non particolarmente eseguiti ma che risultano fondamentali per lo sviluppo della musica colta nel nostro Paese.
Diverso il secondo CD, “Margherita’s Miniatures”, in cui la clavicembalista affronta un repertorio variegato, molto diverso dal precedente, con autori non accademici, e con l’ausilio di un artista proveniente da altri ambiti quali Pino Minafra alla tromba e al didgeridoo. Ad onta di queste discrepanze, l’album mantiene una sua ben precisa unità di fondo data dal clavicembalo della Porfido che riesce ad interpretare tutte le partiture con maestria dimostrando come anche uno strumento oggettivamente “antico” possa misurarsi con linguaggi moderni. Ecco quindi che si parte con le “Danze popolari romene di Béla Bartok per approdare a “Les fastes de la grande et ancienne MXNXSTRXNDXSX” di François Couperin, in cui si ascolta il jazzista Pino Minafra al didgeridoo. In mezzo ancora un autore classico come Erik Satie ma soprattutto esponenti della musica moderna quali Eugenio Colombo, Fred Van Hopve, Keith Tippett, Livio Minafra, Michel Godard, Daniel Pinkham, Nino Rota e Gianluigi Trovesi. Ed è proprio al confronto con questi ultimi che si manifesta in tutta la sua bravura la Porfido che riesce ad adattare il suo strumento alle necessità espressive dei vari brani senza che gli stessi perdano un’oncia dell’originario fascino. Particolarmente suggestivo “Romeo e Giulietta” di Nino Rota anche per la presenza di Pino Minafra alla tromba, musicista che, come sottolinea Ugo Sbisà nelle note che accompagnano l’album, proprio in veste di trombettista si fa desiderare oramai da lunga, troppo lunga, pezza

Valentin Silvestrov – Maidan – ECM
Il significato di questo album va ben al di là del fatto squisitamente musicale in quanto si inserisce a pieno titolo nella più drammatica vicenda che il mondo sta vivendo dopo la Seconda guerra mondiale. Valentin Silvestrov, nato nel 1937 a Kyiv, è considerato il compositore più significativo in Ucraina e queste registrazioni, effettuate nel 2016 dal Kyiv Chamber Choir diretto da Mykola Hobodych, durante un concerto tenuto presso la cattedrale di San Michele, nella capitale ucraina, ne sono la palese testimonianza. La sua è una musica sobria, riflessiva, che rispecchia perfettamente l’anima di un popolo nel tentativo perfettamente riuscito di coniugare le cose semplici della vita con il senso più profondo della bellezza del mondo e degli umani sentimenti. In tal senso Silvestrov è sempre rimasto una sorta di cronista in musica della storia della sua terra. Ed è proprio in questo senso che l’album assume quella valenza di cui in apertura. In effetti il compositore, dopo i moti ucraini del 2004 (noti come la Rivoluzione arancione) e le proteste di Maidan (Majdan Nezaležnosti – Piazza Indipendenza, la piazza centrale di Kiev capitale dell’Ucraina) contro l’influenza russa nel 2014, si è rivolto più apertamente a temi politici e religiosi. Di qui una serie di pezzi raccolti sotto l’insegna “Maidan-2014”, per coro a cappella. (Il suo tredicesimo movimento è la “Preghiera per l’Ucraina”). Adesso la situazione per Silvestrov si è fatta davvero pesante: poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha dovuto lasciare la sua città natale e vive a Berlino da allora. Parallelamente dopo l’inizio della guerra, la musica di Silvestrov viene eseguita spesso al di fuori dell’Ucraina ottenendo sempre grandi successi di pubblico e di critica e portando la fama dell’autore a vertici mai raggiunti in precedenza. Dal punto di vista squisitamente artistico, la musica si fa apprezzare particolarmente per come riesce ad esprimere atmosfere assai diverse transitando da momenti corali maestosi ad altri in cui sembra prevalere una sensazione di dolorosa partecipazione, ad altri ancora in cui si avverte una grande dolcezza. Di qui anche le diverse strutture del coro che ora si avvale solo di alcune sezioni, ora interviene per intero nella sua maestosità, altre volte ancora si affida ad alcune voci soliste. Insomma, un piccolo capolavoro che va ascoltato con il massimo rispetto.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Un disco (jazz) per dopo l’estate…

Segnadisco per sette, come le note, album di altrettante label (elencate qui in ordine alfabetico). Li segnaliamo in un panorama jazzistico più che qualificato, estraneo al can can estivo perché relativo a musica che non si esaurirà col deporre ombrelloni e sdraio e alle prime cadute delle foglie dagli alberi. Ecco allora una possibile Top Seven, una Jazz Parade che sottoponiamo al vaglio del lettore.

Trio Kàla – “Indaco Hanami” – Abeat Records

Fra le novità 2021 della Abeat spicca “Indaco Hanami” del Trio Kàla, album inciso presso Artesuono destinato a lasciare il segno nel corrente anno discografico. Per caratura dei musicisti, la pianista Rita Marcotulli, il contrabbassista Ares Tavolazzi e il batterista Alfredo Golino, anzitutto. Perchè dagli studi di registrazione di Stefano Amerio è ancora una volta uscito un prodotto di fattura impeccabile, in cui mixaggio e masterizzazione sono fasi finali determinanti del processo produttivo che porta al cd. Ma soprattutto la musica, in parte originale – come i due brani introduttivi della Marcotulli (“Indaco”, “Bobo’s Code”) oltre a “ Dialogues” scritto a sei mani dal trio ed a “Cose da dire” – che si congiunge ad un quinterno di cover imbellettate con sopraffino gusto jazzistico. Oltre a “Quando” e “ Napule è” di Pino Daniele, alla beatlesiana “Lady Madonna” vi figura, di Randy Newman, “I Think It’s Going To Rain” anche questa arrangiata con sapienza in confezione per standard trio. Anche nella conclusiva “Romeo and Juliet” di Nino Rota il sensuale groove della tastiera ci riporta in mente il dubbio che il sesso del pianoforte sia femmina tanto l’immedesimazione della Marcotulli col suo suono appare organica, di una strana solarità attenuata dall’indaco.
Il trio, questo trio nella fattispecie, ne rafforza la “visibilità” per chi, nell’ascolto, immaginasse di trovarsi al di qua della “quarta parete”, col pensiero astratto da quelle note e da quelle linee improv- visative.

Luigi Bonafede – “Lokas” – Caligola Records.

Certo jazz fa pensare all’alta moda, per eleganza, stile, alchimia nel creare senza demolire la lezione dei grandi maestri. E quando il brand è griffato Luigi Bonafede, musicista ben piazzato nel ranking dei pianisti jazz, allora c’è da aspettarsi l’uscita di album come “Lokas”, su etichetta Caligola Records, ospite la vocalist di origine caraibica Dawn Mitchell, un cd dedicato alla cantante Anna Lokas, a sei anni dalla sua scomparsa. Il jazzista piemontese, che si esibisce in una formazione più che testata, una sorta di “think tank” musicale di esperti strumentisti con Gaspare Pasini al sax alto e soprano, Marco Vaggi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria, dà vita ad un mood di ampio respiro e di freschezza rigenerante, gravitante in più J Zones, fra swing e be/hard bop, attraverso vari format, dalla ballad (“She”, “Wake Up”) allo spiritual (“Silently”), dall’elettronico (“Curse of Pan”) al latin (“Running of my Way”), dal modaleggiante (“Lokas”, “Flash”) al climax vocalese (“Looking Around”) in genere con prati e praterie per gli steps improvvisativi lasciati scoperti dal pianoforte. Come avviene in “Balance”, in apertura, allorchè sotto la voce bluesy della Mitchell, compare, inconfondibile, il Logo Bonafede.

Javier Girotto, Vince Abbracciante – “Santuario” – Dodicilune

Capita che il jazz sia un pensiero triste che si suona… quando incontra il tango. Capita che il tango riscopra inedite possibilità di sviluppo lirico e melodico… quando due strumenti come un sax soprano o baritono o un quena flute si sovrappongono alle armonie rese da una fisarmonica ed inseguono la partitura di un choro.  Capita tutto ciò quando ad imbracciarli quegli strumenti sono due jazzisti latini completi e creativi come Javier Girotto e Vince Abbracciante, ambedue in diverso modo legati al DNA piazzolliano. “Santuario” è l’album Dodicilune che racchiude al meglio, artisticamente parlando, questa esperienza che ancora una volta unisce Puglia e Argentina su un filo sonoro che corre e scorre da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico in direzione sud, con Tavoliere e Ande rispettivi capolinea. Tra le cose più belle del disco il pedale introduttivo di “Santuario degli animali”, il barocco girovagant e “tono su tono” di” “Fugorona”, l’atmosfera pastorale di “Ninar”, la metrica “spezzata” da contrattempi in “Trama della Natura”, il pathos intimo di “En Mi”, la melodia andante di “2 de Abril”, l’articolato fraseggio tanguero in “Fuga a Sud”, il “Pango” più tango del compact, la avviluppante tessitura accordale di “Aramboty”. E, a chiusura sipario, “Soprano” e “L’ultima chance”, degno suggello del lavoro del duo prodotto dalla label leccese.

Andrea Rea Trio – “El Viajero” – Filibusta

L’album “El Viajero” (Filibusta) “registra” un Andrea Rea Trio in gran spolvero. Intanto il pianista campano vi esplicita una notevole verve sia interpretativa che esecutiva nonché attrezzi compositivi di prim’ordine nei tre brani a sua firma, “Dillo”, “Tales of Freedom” e “El Viajero”. Lo caratterizzano una robusta forza negli “ostinati” mentre il tocco sui tasti ne rivela uno spanish heart che spiega anche l’adozione di un termine ispanico come titolo del disco.L’anima latina sta anche alla base della scelta di un brano di Hamilton De Hollanda in tracklist esattamente “Capricho de Espanha” nonché “Milonga Gris” di C. Aguirre ed è condivisa dai musicisti del combo, il contrabbassista Daniele Sorrentino e il batterista Lorenzo Tucci (nel cd Losen “Impasse” del 2018 il drummer era Marcello De Leonardo). Ma il “viaggiatore” Rea nel proprio personale errare si sposta anche su territori differenti, ed eccolo alle prese con “The Man Who Sold The World” di David Bowie e “Till There Was You” di M. Wilson districarsi con il solito estro, la consueta abilità e l’immancabile inventiva fra paesaggi sonori pop e jazz ad origliare i suoni del mondo da riprodurre sul pianoforte. Non sarà un caso se il brano forse più intenso fra gli otto totali ci pare “En la Orilla del Mundo” di M. Rochas, reso celebre da Charlie Haden e Gonzalo Rubalcaba, che è poi quello in cui il gruppo si trasforma in 4et arricchito dall’inclusione qualificata di Giacomo Tantillo alla tromba.

Livio Minafra, Eugenia Cherkazova – “Round Trip Apulia Balkans” – Incipit/Egea.

Si era appena intravisto Livio Minafra in veste di autore di manuali didattici (120 finestre sull’improvvisazione. Teoria e pratica dell’Improvvisazione libera e idiomatica, Timoteo, 2020) che lo si ritrova di lì a poco nei consueti panni di musicista, nell’album “Round Trip Apulia Balkans”, in duo con la fisarmonicista greco-ucraina Eugenia Cherkazova, su marchio Incipit, distribuito da Egea. Le otto registrazioni sono state effettuate in tre festival pugliesi, Wanda Landowska 2018, Euterpe Festival 2018 e Talos 2019, kermesse appena tenutasi a metà luglio di quest’anno nella cornice di Ruvo di Puglia. L’ affacciata sui Balcani – confessa il pianista nelle liner notes – risale ai 13 anni, al primo ascolto del “tempo 7/8. Era l’Along Came Jazz Festival di Tivoli e l’Italian Instabile Orchestra eseguiva uno speciale arrangiamento di “Ergen Deda” del bulgaro Petar Liondev”. Quel suono fu una folgorazione! Da allora l’Adriatico, propaggine del Mediterraneo, è stato visto e vissuto dal Nostro come una semplice piattaforma d’acqua, non una barriera, che connetteva due sponde marine e due catene montuose, appunto i Balcani con l’Antiappennino apulo-garganico. La musica, l’improvvisazione, anche in questo compact, risente dello spostamento del bari/centro dal cuore afroeuroamericano in direzione indoeuropea, con tutto quanto ciò comporta. Anzitutto nel repertorio che comprende tarantelle di Rossini e Kircher oltre ad una ruvese, una “Danza Tartara” ideata dal pianista come del resto altre composizioni (“Lacrime Stelle”, “Zefiro Torna”, “Boomerang”) unitamente a un “Mix Tartar” a firma congiunta con N. Marziale e C. De Leo. E poi nell’interpretazione mutuante e mutante, senza cesure né diaframmi al fluire dei suoni anche nei momenti di ralenty melodico e ritmico. La fisa è a dir poco esemplare nell’assecondare e nel sostituirsi ad un pianoforte a volte metamorfizzato in cymbalon rumeno. Il progetto, inserito nel circuito concertistico di Puglia Sounds, si inquadra in una visione non centrica ma circolare della storia della musica.

EMAB Connection – “Unsaid” – Nusica.org

Unsaid degli Emab Connection, il titolo non inganni, è album di fitto dialogo strumentale, di jazz il cui “dire” è composto di segni, interplay comunicante, interfacciarsi frontale e laterale, feeling inten- so nel duettare e dettare cadenze, modulare timbri, levigare suoni. Il 4et, nato sull’asse adriatica Emilia-Abruzzo dei componenti e cioè Manuel Caliumi all’alto sax, Giulio Gentile al piano e Fender Rhodes, David Paulis al contrabbasso e Luca Di Battista alla batteria, conia una musica ricca di espressioni, frasi, costrutti liberi ed originali anche quando, come in “So- liloquy”, il “non detto” potrebbe sembrare lasciar spazio alla meditazione personale sulla collettiva, cioè a quella che scava e scova verità nascoste nella propria identità creativa. Ed il gruppo anche nelle altre sei tracce originali del compact si dimostra coeso nel perseguire l’obiettivo di una musica che ricuce eloquentemente impressioni ed atmosfere nell’omaggiare tutto ciò che è tacito.

Costanza Alegiani – “Folkways” – Parco della Musica

Le strade del folk sono in/finite?
E chi, nello specifico, si ritrova ancora a calcare le orme di maestri come Woody Guthrie o Bob Dylan? E poi, stante l’attualità di poeti ancora oggi pop(ular) come Lee Masters o la Dickinson, che spazio (r)esiste per chi si cimenti in lyrics a loro ispirate? Una risposta, non caduta nel vento, la suggerisce la vocalist Costanza Alegiani con l’album “Folkways”, prodotto da Parco della Musica Records, label della Fondazione Musica per Roma, distribuito da Egea Music. La cantante ci offre una misticanza sonora di traditional, composizioni originali e cover dei mitici folksinger soprariportati, denotando doti di originalità e sensibilità vocale già evidenziate nei due precedenti dischi a propria firma, “Fair is Foul and Foul is Fair” del 2014 e “Grace in Town” del 2018 con il batterista Fabrizio Sferra. Stavolta il suo progetto punta a comprovare come uno dei possibili percorsi per il folk born in U.S.A., forse il più energizzante, sia proprio il jazz. Ed in tale ottica si muovono gli altri musicisti che partecipano al lavoro, il sassofonista Marcello Allulli all’opera anche con apparati elettronici come il contrabbassista Riccardo Gola. Il tutto viene integrato dagli apporti degli ospiti, il chitarrista Francesco Diodati in tre tracce e il menzionato Sferra in quattro delle nove tracce complessive.
Ne vien fuori un florilegio multicolore di note in cui la voce affiora e riaffiora lasciando spesso fiato al fiato, il sax, aprendo sovente varchi al “battito” alla ritmica, per poi riprendere scena e microfono da cui far trapelare echi della Mitchell e della Baez nel lasciar sfilare una ideale galleria di personaggi letterari reali e immaginari.
Per la cronaca l’album, presentato in giugno alla Casa del Jazz di Roma, era stato anticipato dalla pubblicazione dei due singoli “It Ain’t My Babe” e “When I Was A Young Girl”.

Jazz sì… ma col fischio! Cenni di whistling story

Risentendo alla radio le risposte di fischiettio collocate nel brano sanremese “Viceversa” di Francesco Gabbani, son venuti in mente frammenti di passato e presente di questo “strumento” un po’ Cenerentola che è il fischio.

All’inizio risalendo mnemonicamente, a proposito di favole, al ritornello di “Impara a fischiettar”, la “Whistle While You Work” del film “Biancaneve e sette nani” del 1937,
confluito poi – come “Someday My Prince Will Come” della stessa pellicola – in contesti “maggiorenni” quale ad esempio il 45 giri del 1961 di Piero Umiliani, seguendo cioè la scia di tante canzoni disneyane, già patrimonio dell’umanità giovanile, divenute adulte, “Whistle While You Work” assumeva nel titolo finalità didattica e divulgative a favore di questo strumento non costoso, facile da trasportare e, come la voce, tipicamente umano (In parallelo a quei virtuosi che hanno la capacità di produrre suoni da parti del corpo, Nana Vasconcelos con la cassa toracica, Demetrio Stratos con il canto difonico, in grado di articolare armonici composti di due o tre note).
Il fischio, forse per una strana “triste” leggiadria non scevra dai richiami “aulici” degli antichi aulos, ha un proprio indiscusso fascino. Si associa ad altri contesti come lo yodeling ed è tipico di musiche etniche anche primitive oltre che di musicisti e gruppi contemporanei, vedansi in Italia Vasco Rossi (“Vivere”), Litfiba (“È il mio corpo che cambia”), Lucio Dalla (“Com’è profondo il mare”), il mitico Lucio Battisti (“Umanamente uomo: il sogno”); e, a livello internazionale, gli Scorpions (“Wind of Change”), Bob Sinclair (“World, Hold On”), OneRepublic (“Good Life”), Maroon 5 (“Moves Like Jagger feat. Christina Aguilera”), Flo Rida (“Whistle”) e persino nell’attacco di “Sofia” di Alvaro Soler.

Lucio Dalla

Il fischio ha avuto risalto nel cinema con la colonna sonora di “Per un pugno di dollari”, di Sergio Leone, simbolo maximum del fischio-western e grazie alla Whistle Song resa celebre da Kill Bill di Quentin Tarantino, rielaborata di recente dalla sassofonista salernitana Carla Marciano nell’album “Psychosis”, della Challenge, dedicato al compositore Berhard Herrmann.

Altri esempi-modello la marcetta militare fischiettata, soundtrack del film “Il ponte sul fiume Kway” di David Lean del 1957 e la più recente performance, in “Loro 2” di Sorrentino, di Elena Somaré, una eccellenza italiana e al femminile della “disciplina”, degna erede di Alessandro Alessandroni, storico maestro del fischio in spaghetti-western. E, dato che la Somaré è nell’Italia del jazz, la migliore ‘fischiatrice’, vale forse la pena dedicarle qualche parola in più.

Elena Somaré

Nata a Milano in una famiglia in cui l’arte è di casa, dopo aver studiato fotografia dal 2007 inizia a dedicarsi alla musica per fischio melodico e studia per due anni armonia e ritmica con il maestro Lincoln Almada. Dal 2007 al 2011 collabora con l’orchestra di Massimo Nunzi Nel 2011 incide il suo primo CD, colonna sonora della Mostra multimediale “Il Fischio Magico” alla Casina di Raffaello di Roma. In questi anni avviene l’incontro con il jazz per merito – come racconta la stessa Somaré – di Ada Montellanico che la invita sul palco dello storico Alexanderplatz di Roma a fischiettare qualche brano. Nell’aprile 2016 esce il suo secondo disco, “Incanto”, dedicato alla melodia napoletana dal 1500 ad oggi. Nell’aprile del 2018 ecco il suo terzo album “Aliento” distribuito da Audioglobe e dedicato alla musica sudamericana.

Insomma anche l’Italia, con la Somaré, fa parte di tutto un mondo che ruota attorno a questo settore “sibilante”. Basta guardare i video disponibili su youtube di varie World Whistling Championships per rendersene conto. Lì si trova una forte presenza di materiali classici.

Elena Somaré

E il jazz whistling? Intanto il blues offre vari esempi possibili a partire dal fischio corposo del pianista nero Whistlin’ Alex Moore a quello “orchestrato” in “Whistler’s Blues” di Milton Orent con Mary Lou Williams e la Frank Roth Orchestra (archive.org/details/78). Nel campo della soul/black music svetta l’inarrivabile Otis Redding in “Sittin’on The Dock of the Bay”.

Uno specialista del fischio jazz è stato Ron McCroby unitamente al clarinettista Brad Terry ed è da segnalare il melodioso canto di Muzzy Marcellino. Gran successo fra i jazzisti ha raggiunto Bobby McFerrin con “Don’t Worry, Be Happy”, precisando che il fischio è solo un esempio del suo vasto repertorio vocale (speech, trumpet like, falsetto, scat, body percussion, beatboxing, twang, qualità operistica; cfr. Marco Fantini, “Le voci di McFerrin”: magia o prestigio? vocologicamente.blogspot.com – vocologicamente.blogspot.com).

BobbyMcFerrin

In Europa vanno citati il vocalist francese Henry Salvador, quello di “Siffler en travaillant” (“Whistle While You Work”) e l’armonicista belga Toots Thielemans, inimitabile nella sua “Bluesette”, unitamente agli italiani Antonello Salis e Livio Minafra i quali spesso sogliono usare il fischio concatenato al tema od alla impro di tastiera o fisarmonica. La procedura è grossomodo quella di Keith Jarrett che doppia con la voce il pianoforte, di George Benson che si sovrappone come un octaver alla chitarra e, in passato, di Slam Stewart che soleva duplicare con la voce la linea del contrabbasso: il “comando” dal cervello, nel prevedere i suoni prodotti, li sdoppia su due binari e cioè strumento e voce (o fischio) che diventa una sorta di eco sincronizzata, un secondo canto unisonico.

Toots Thielemans

L’effetto, anche col fischio, è piacevole. Del resto Giacomo Puccini, in “Madama Butterfly”, ha dimostrato che persino a bocca chiusa si può intonare musica di grande bellezza! Chissà, forse sta arrivando la rivincita di questo strumento “di dentro”, che non va preso in mano come una conchiglia, un fischietto, un sonaglio, un’ocarina, un piffero, strumenti più accreditati causa la loro materialità. In un’epoca di tecnologie di alterazione canora tipo vocoder et similia il recupero esteso di questa tecnica vocale potrebbe valere come occasione per un più generale imparare a fischiettar. C’è infatti un ritorno abbastanza diffuso a tale forma flessibile di comunicazione primordiale che risale a San Francesco d’Assisi, ai crociati che diramavano ordini per gli arcieri, agli abitanti di La Gomera, nelle Canarie, che usano il silbo gomero, antico linguaggio fischiato tipico di quest’Isola dei fischi celebrata dal film di Corneliu Porumboiu del 2019. Darwin insegna. Si confida che il fischiettare continui a fiorire, come uno spontaneo “fenomeno” di normalità, da sorgente sonora che nasce dalla congiunzione delle labbra, massa fluida che diventa tono, suono dal cortile di casa, come quello di mio padre che chiamava i familiari fischiando le prime note di “Summertime”. Un suono cangiante che può dar l’idea di nullafacente, malinconico, malandrino e tentatore, approvazione, buonumore, meraviglia, allegria, aiuto, fatica, utile ai pastori erranti per ordinare al gregge il percorso così come per i mandriani nella prateria nell’orientare le bestie affidate loro. Il fischio è dunque un forte segnale comunicativo, chi sta sulle sue e se ne infischia è colui che “non fa il fischio”. E se il fischio nelle orecchie è stridio fastidioso, il fischio melodico è invece sentimento incantatore, sibilo che diventa musica, jazz quando va oltre la melodia e inventa note che tagliano in tutta libertà l’aria col proprio soffio leggero.

Amedeo Furfaro

Talos, un festival a sud-est del mondo

La musica ha una qualità: può migrare senza incorrere nel freno di frontiere, muri, fili spinati. Può cioè spostarsi liberamente ed, in alcuni casi, trovare l’accoglienza più calda.
Ecco. Il Talos Festival suggerisce quest’idea, di una rassegna aperta e inglobante per arti musica danza e in genere spettacolo. Il tema principale resta quello delle bande, grazie alla cui folta presenza, per citare Mascagni, la Puglia è una terra benedetta da Dio. E Pino Minafra, condirettore con suo figlio Livio della kermesse, da combattivo pronipote del mitico Talos qual ė, ha affermato che si sta finalmente concretizzando un importante traguardo legislativo regionale per la tradizione bandistica per come emerso nello specifico convegno interno alla manifestazione (che ha ospitato peraltro la presentazione del libro di Ugo Sbisá, “Puglia: le etá del jazz”).
Le bande hanno una tradizione forte nella regione – un paragone possibile le fanfare che eseguivano Sousa negli USA di inizio novecento – che risulterebbe di denominazione d’origine (non) protetta se non esistessero iniziative come quella ruvese la cui mission è tenerle in vita, consolidarle, rilanciarle.
Alle bande è stata, come da consuetudine, riservata un’ampia vetrina nella settimana di anteprima (1-5 settembre) a base di concerti, masterclass, flash mob, mostre fotografiche (Talosart a cura di Raffaele Puce), laboratori coreografici.
Talos è ancora La Melodia, La Ricerca, la Follia. Ma il tema sottotraccia rimane quello della rivendicazione della ricchezza artistica del territorio che si estende attorno a Ruvo verso varie latitudini e longitudini.

La notte della tammurriata offerta da Enzo Avitabile con i Bottari di Portico, che ha inaugurato a piazzetta Le Monache la sezione internazionale del Festival (6-9 settembre), va in tale direzione, in cui Suono Parola Danza si incontrano, per come statuito dal leader, profeta della ‘disamericanizzazione’, pur mantenendo l’influsso di black music (slang e tamburi compulsivi richiamano il rap); ed omaggiando, alla sua maniera, il Chain Of Fools di Aretha Franklin con lo stesso spirito devoto con cui rinnovare il canto accorato di Terra Mia di Pino Daniele. Il sassofonista di Soul Express ha maturato una propria poetica di “Paisá” che è sintesi profetica di linguaggi, come il griko, e ritualitá afro/mediterranee, rafforzate da collaborazioni come con la cantante palestinese Amal Murkus e col francese Daby Tourè, immortalato nel documentario ” Enzo Avitabile: Music Life” (2012) di Jonathan Demme: tutto nel segno della condivisione-senza/divisione e del recupero unitario e identitario di comuni radici ritmiche, sonore, idiomatiche.

Ed anche quando, poche ore prima, si esibiva, nello spettacolo Notturni, il trio italo-franco-austriaco composto da Livio Minafra al piano (degno di sviluppi il suo fischio che raddoppia le note della mano destra, alla Salis), Michel Godard a tuba e serpentone e Roland Neffe a vibrafono e marimba, la cifra stilistica era di quel taglio, con una musica leggera, variante, emotiva, inerpicantesi su immaginari Balcani con affacciata su New Orleans ma anch’essa radicata nella vasta area sull’asse tirreno/jonio/adriatica.
Sulla traccia dell’album Campo Armonico (Quinton) vi si è costruita la dimensione scenica dell’Adagio alla Finestra di giovani ninfe e mature driadi che, affacciate sulla corte della Pinacoteca d’Arte Contemporanea-ex Convento, gesticolano acclamano chiacchierano, bocche della verità e follia maldicente, tarantolata, mentre lasciano scivolar giù brandelli di carta, vox populi (o vox dei?) nella visione dell’ideatore Giulio De Leo che “ribalta il luogo comune teatrale e letterario del balcone come simulacro del femminile”.

Giorno 7 il vento dell’est ci porta in direzione Egeo, verso la Grecia di Xenakis e Vangelis, sulle ali del pianoforte di Sakis Papadimitriou, giá visto alla prima edizione del festival di Noci nel 1989. Ed ancora in spolvero nel prodigarsi nella ricerca modale di echi classici, agli albori del pensiero occidentale, fino al I secolo a.c., e riportare in vita aforismi, epitaffi, odi poetiche grazie al canto di Georgia Sylleou, incorniciato dalle figurazioni coreutiche di De Leo e Compagnia Menhir, con l’apporto di interpreti diversamente abili. Titolo della coreografia ‘Passionale’, dove il gesto, privo di illusioni estetiche, è strumento di relazione, vicinanza, ascolto.

Poi la zolla musicale indoeuropea tracima ancora verso oriente, sulle rotte di Marco Polo, fino all’India di Trilok Gurtu. Il percussionista, con un set strumentale che è un arsenale, si esibisce in un “solo” in cui prevalgono tablas e voce, in una congiunzione meditativa trasmessa agli spettatori che partecipano, a fine concerto, all’ esecuzione creando collettivamente un bordone tipo tampoura con un riff ripetuto ad accompagnare il musicista sul palco. Il cui sargam recita il ritmo, lo melodizza. E dà il meglio di sé quando si trasforma in un intona rumori concreti, creando vibrazioni da un secchio d’acqua, agitando oggetti, soffiando nel microfono per generare echi apocalittici, bacchettando cose per scovarne risonanze, in una sfida alle leggi dell’acustica quasi fosse un Cage venuto dall’Asia più tradizionale.

Est, est ancora est con The Bulgarian Voices “Angelitas”, polifonia di schietta matrice popolare, la loro, resa attraverso il sapiente gioco delle sezioni soprano-mezzosoprano-alto-contralto che si intrecciano e si riuniscono in accordi inconsueti per noi, talora misteriosi da decifrare, in cui pesa l’ utilizzo dei quarti di tono proprio della musica folklorica. Applauditi i canti a dispetto e quelli a risposta ma soprattutto bissata, su richiesta di un pubblico divenuto maggioranza bulgara, una originalissima versione di Bella Ciao.

Le due giornate finali hanno registrato la produzione La notte delle bande con Pino Minafra & La Banda, diretta da Michele Di Puppo, in repertorio Rossini, Bellini, vari autori fra cui compositori bandistici pugliesi, e con la partecipazione fra gli altri del poeta Vittorino Curci. Una formazione eccellente, sicuramente da “esportare”.

In pinacoteca poche ore prima era stato presentato il disco Sincretico (Dodicilune) del fisarmonicista Vince Abbracciante con Alkemia 4et nonché In The Middle, atelier coreografico curato da Sanna Myllylahti su musica del contrabbassista Giorgio Vendola oltre a Giardini famigliari, con commento sonoro affidato alla tromba di Giuliano De Cesare, con la danzatrice Mimma Di Vittorio in bella evidenza.
Nell’ultima serata la performance dei Fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso, seguita da Ciclopica, dei salentini di BandAdriatica diretta da Claudio Prima, con brani del nuovo album Odissea (Finisterrae), ha chiuso in bellezza il palinsesto dopo le sonorizzazioni di Nicola Pisani e Michel Godard sulle figure di Arcipelago.

È tutto, da Ruvo di Puglia, la cittå del “Jatta”, il Museo; la città del “Jezz”, meticcio con sponde a Levante oltre che con i Sud del mondo.

Amedeo Furfaro

Livio Minafra e Simona Calipari le magie del piano, le suggestioni della voce

 

Cosenza, 5 luglio.

La cornice ė quella sontuosa di Villa Rendano, già magione di famiglia del grande Alfonso, compositore e concertista di livello europeo al quale ė dedicato il teatro lirico di tradizione bruzio. Pianista. E cosa di più azzeccato aprire la kermesse della Fondazione Giuliani che copre i giovedì di luglio, secondo tradizione consolidata, con un pianista? Magari non classico, come Livio Minafra, secondo la scelta del direttore artistico Rino Amato, fatta nel senso di premiare giovani artisti e innovazione. Peraltro in linea col sostegno di Siae e Mibact all’iniziativa.

Quella di Minafra ė una musica di scambio e contaminazione, ricca di echi orientali, di contenuti minimalistici, dai rimandi etnici, definirla jazzistica può starci ma per certi versi è definizione limitativa. Certo ė che l’improvvisazione, l’istantaneità ne rimangono le travi portanti. Nella serata, la brezza che stempera i 36 gradi all’ombra del dì, non fa che sollecitare e solleticare l’attenzione del numeroso pubblico disposto nelle due ali del giardino, divise da una palma che sembra un collo alla Modigliani.

Si parlava di innovazione. Bene. Il giovane Livio si è presentato armato di loop station, con lo scopo dichiarato di decuplicare i suoni della tastiera.

A partire dal brano Madre Stella, con un quattromani digitale, destinato e moltiplicare le armonie in modo graduale, con l’ausilio di ritmi elettronici. Il crescendo che ne risulta è uno stratificarsi di tracce che si sviluppano in progress, talora rientranti nel solco blues, talaltra sforanti nell’hard bop, mentre si adagiano, intrecciati sulle varie piste, accordi-melodie-riff che il loop sfodera ed itera a iosa.

C’è spazio nel set anche per un balafon del Burkina Faso che una volta imbracciato e “loopizzato” genera armonie popolari di grande suggestione min/africana.

A seguire, con la lira calabrese suonata da Gabriele Macrì, il clima musicale affonda le radici nelle onde del Mediterraneo; sono correnti indoeuropee, passate attraverso Persia, Grecia, Balcani, arabe soprattutto – come nel brano Le mille e una notte – fino a quella terra calabra che un tempo veniva chiamata Italia.

Infine appare, chioma da Medusa, Simona Calipari con un canto che arricchisce il grumo di cromatismi e atmosfere cangianti, quasi nuvole al vento, fra Sole/Luna (titolo del concerto) e raggi … di note dal palco.

Footprints di Shorter con lei diventa una sorta di nenia messapica che trova nell’approccio modale l’anello di congiunzione con il jazz contemporaneo, più netto nella interpretazione che la vocalist dà di Drake, ancora scritto dal pianista.

Ed è infine Cieli, fra le composizioni originali per piano solo, quella che meglio rappresenta l’eclettismo sintetico tipico del pianismo di Minafra.

Piace immaginare lo spirito di Alfonso Rendano che, svegliatosi di soprassalto prima della mezzanotte, scenda giù dalle stanze del Museo e appaia benevolmente incuriosito da questo strano musicista che ha osato portare nella sua residenza una mercanzia levantina di trucchi, scatole magiche e un sacco carico di diavolerie techno e strumenti arcaici di mondi lontani o forse vicini più di quanto non si immagini: per far musica sui tasti, ancora una volta, come una volta.

 

Amedeo Furfaro

 

Pino Minafra e la banda di Ruvo di Puglia al Teatro “La Seine Musicale” di Parigi

Vorrei iniziare questo 2018 condividendo con i lettori di “A proposito di jazz” una bellissima notizia: la banda di Ruvo di Puglia diretta da Pino Minafra insieme al figlio Livio e (nella parte classica e tradizionale) a Michele Di Puppo, suonerà domenica prossima – 14 gennaio – in quel di Parigi, al Teatro “La Seine Musicale”, per concludere la rassegna “Ilot la France et l’Italie”.

Più volte, in questo stesso spazio, ho avuto modo di sottolineare l’importanza della bande di paese, non solo come fucina di nuovi talenti, ma anche – e forse soprattutto – come elemento di conservazione dell’identità di una comunità, di un luogo… per non parlare di quanto le bande siano state importanti per la nascita e lo sviluppo del jazz.  In questo ambito oramai da molti anni un ruolo di primissimo piano è ricoperto dal musicista pugliese Pino Minafra che ha cercato in ogni modo di portare all’attenzione degli appassionati e delle pubbliche autorità l’importanza della banda. Di qui il progetto “La Banda” che nasce nel 1993 proprio per cercare di salvare dall’oblio una grande tradizione musicale tipica del Sud Italia che ha prodotto un suono originale e unico al mondo. L’intento del compositore e trombettista ruvese è stato da un canto quello di documentare su supporto sonoro la tradizione musicale classica della banda – arie d’opera, marce sinfoniche e musiche della settimana santa – dall’altro quello di proiettare la banda nel suono contemporaneo, facendola confrontare con i linguaggi musicali più innovativi grazie alla presenza di compositori e solisti di valore internazionale. Il percorso trasversale fra “Tradizione e Innovazione”  fatto dalla Banda di Ruvo di Puglia, ospite dei più importanti festival europei di jazz, musica classica e contemporanea – Londra (Queen Elisabeth Hall), Parigi, Donaueschingen, Monaco di Baviera, Saalfelden, Graz, Les Mans, Lille, Huddersfield, Kendal, Brighton, Basingstoke, Munster, Berlino e altri – ha pienamente dimostrato l’attualità e la freschezza di questo suono caldo, vivo e generoso, ancora tutto da esplorare oltre che proteggere.

Nel 2012, un grandissimo musicista e compositore come David Byrne, fondatore dello storico gruppo Talkin’ Heads, dichiarò di essere stato ispirato, per la realizzazione del disco Love This Giant con la cantante St. Vincent, proprio dal suono della banda, e in particolare dall’ascolto di un disco di «una banda che suonava su una facciata musica operistica e sull’altra jazz e musica di Nino Rota», verosimilmente corrispondente alla Banda di Ruvo di Puglia diretta da Pino Minafra e al doppio “Traditional Italian Banda / Banda And Jazz” (Enja, 1997). Insomma un’iniziativa meritevole e non a caso l’Unesco ha riconosciuto il fenomeno delle Bande al Sud Italia come Patrimonio Immateriale Mondiale dell’Umanità.

A conferma del tutto il concerto di cui in apertura. In scaletta convivranno la Sivigliana di Adolfo Di Zenzo, celebri arie di Giuseppe Verdi, Georges Bizet, Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi, Vincenzo Bellini, Giacomo Puccini, Gioacchino Rossini, Giuseppe Verdi, alcune colonne sonore di Nino Rota e il brano originale Pinocchio firmato da Livio Minafra.

La Banda è attualmente composta da Vincenzo Mastropirro, Francesco Di Puppo (flauto), Dominga Damato (oboe), Angelo Giodice (clarinetto piccolo), Giambattista Ciliberti, Leonardo Cattedra, Vito Di Cintio, Gianluigi Caldarola, Giuseppe De Michele, Rocco Di Rella, Vincenzo Di Puppo, Giuseppe Dicorato (clarinetto), Nicola Puntillo (clarinetto basso), Massimo Cianciaruso (sax soprano), Paolo Debenedetto (sax alto), Francesco Loiacono (sax tenore), Michele Marzella (sax baritono), Simone Lovino, Vito Vernì, Vito Lamanna (corno), Vito Francesco Mitoli, Luciano Palmitessa, Pino Minafra (tromba), Luciano Pischetola, Biagio De Michino (trombone), Emanuele Maggiore, Vincenzo Bucci (flicornino), Antonio Cicerone (flicorno soprano), Salvatore Barile (flicorno tenore), Nicola Valenzano (flicorno baritono), Giuseppe Scarati, Pasquale Di Muro, Sebastiano Lamorte, Michele Cantatore (tuba), Vincenzo Mazzone, Giuseppe Tria, Simone Salvatorelli e Tommaso Summo (percussioni), Livio Minafra (fisarmonica).