MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro

Pharoah Sanders – Un amore più supremo dell’amore supremo

Per cosa ci piacerebbe essere ricordati dopo la nostra morte? Solo a sentire questa domanda si materializzano ambienti rumorosi di bocche che in un flusso infinito recitano un monologo adornato di fantasticherie intime ed infinite, oppure risme di fogli bianchi che vengono incisi da penne fino a finire l’inchiostro, sfogliandoli freneticamente fino a creare una sorta di testamento immaginario da dedicare al mondo; o magari nessuna risposta, una pausa a cui non seguirà alcuna nota: il vuoto. Pensare all’oltre mondo è umanamente comune, l’abbiamo fatto tutti e immaginare quale memoria lasceremo di noi è un tema caldo. Una volta che si spengono le luci del nostro palco gli spettatori si alzano, cominciano a mettersi in fila i tuoi dolci affetti, conoscenti, colleghi, amici e parenti che non vedono l’ora di scrivere un epitaffio d’amore da dedicarti. L’unico dispiacere è che qualunque discorso propinato finisce in una damigiana da cui tracannano i provetti poeti fino ad affogare. Tutti alzano il gomito in questo rituale di auto terapia per affrontare la morte, mentre tu, che dovresti essere il diretto destinatario di ogni poesia recitata al brindisi, non potrai mai ascoltare quello che gli altri hanno da raccontare di te stesso. Quindi ha davvero senso spedire una lettera a un morto? No, meglio scrivere per quelli che restano, perché creare memoria è più importante che rispondere agli ipotetici capricci di un defunto, difatti lui non può nemmeno ribattere e dir la sua a meno che i medium non diventino avvocati e notai degli spiriti dell’aldilà.
Questo preambolo ci pone nell’ottica di ricercare quale sia l’approccio migliore per raccontare post mortem una vita musicale così intensa di significati ed eterogenea come quella di Pharoah Sanders. Un musicista del suo calibro è un poliedro complesso, in ogni angolo si rispecchia una storia che differisce per prospettiva ma si interseca per eventi. Immaginando di voler camminare sopra questa gigantesca forma geometrica ci si renderebbe presto conto che per coglierne il centro, quindi il nucleo e la sua anima, non si può solo camminare a zonzo senza farsi domande, serve un aiuto. Un album potrebbe essere la grande guida che ci serve per non perderci.

La guida che voglio proporre è un Lost Record del Live in Paris del 1975, pubblicato e restaurato dall’etichetta discografica Transversales Disques. Sébastien Rosat, co-fondatore dell’etichetta, mi ha spiegato in un breve scambio di mail che l’album è stato come ritrovare un tesoro; già dal primo ascolto si capiva quanto fosse una performance straordinaria. La Transversales Disques ha compiuto in primis un lavoro di restauro sul materiale ritrovato nel 2017 nel caveau di Radio France e a impreziosire l’esperienza c’è la minuzia per la ricerca di fotografie scattate per quella performance. Proprio quando le ricerche stavano per arrivare a un punto morto ci ha pensato la fortuna a fargli ritrovare una foto del concerto in “Jazz Hot” Magazine per mano della fotocamera di Christian Rose che ha fornito un rullino pieno di splendide istantanee dell’evento, arricchendo un’edizione discografica rara e unica; sicuramente realizzata con quel tipo di passione che solo gli amanti del jazz riescono a mettere in ciò che fanno nella vita. Questa storia ci catapulta in una prospettiva romantica nei confronti dell’album, ma diventa un antipasto ricco di proteine per affrontare il viaggio che propongo, ma soprattutto è funzionale a un piccolo gioco di prestigio: usare l’album del concerto come incipit, cercando di rovesciare la classica prospettiva della biografia al servizio della musica, seguendo piuttosto il flusso sonoro del live e quello degli eventi in ordine cronologico. Questo processo permette di trasformare quel poliedro di cui parlavo, attraverso la scomposizione e ricomposizione in una nuova forma, quella plasmata dalle note del sassofono di Sanders il 17 novembre del 1975 al Grand Auditorium nello studio 105 della Maison de la Radio.

Love is Here part I/part II
Il seguente brano potrebbe essere tanto un inedito quanto un arrangiamento improvvisato estremamente articolato di Love is Here To Stay, fatto sta che troverà pubblicazione per la prima volta in un album del 1978 Love Will Find a Way, accompagnato dalla splendida voce della cantante Phyllis Hyman. Il fatto che sia stato eseguito nel 1975 a Parigi, per venir poi pubblicato solo tre anni dopo, lo rende un esempio calzante del processo creativo del faraone. Sanders non è il tipico musicista con la matita pronta in mano a calcare il pentagramma, il punto di partenza è sempre quello dell’improvvisazione da cui si generano idee e motivi, dispiegandosi in una cosiddetta forma estesa (approccio tipico nell’estetica free), ma in questo caso è più corretto chiamarla Suite, come lui la concepiva: improvvisazioni molto lunghe ma divise in due parti. Andando oltre il contesto, quello che sentiamo di primo impatto è un forte senso energico da parte di tutto il gruppo a partire dal pianismo percussivo di Danny Mixon, alla batteria serrata di Greg Bandy in cui si inserisce l’ostinato basso di Calvin Hill, talmente intenso che sembra di poter sentire le dita della pelle levigarsi su quelle corde e infine il sassofono tenore di Sanders, che comincia con un lirismo e una dolcezza ingannevole nell’eseguire il tema. Un inganno perché nei primi minuti qualcuno potrebbe soltanto dire che è molto bravo, ha una tecnica solida ma non fuori dal comune al suo strumento; tuttavia, man mano che passano le battute ci si accorge presto di cos’abbia di così particolare da catturare ogni orecchio. La sensazione è che l’ancia venga strozzata e la campana d’ottone vibri ad altissima magnitudo, con un fluire rapidissimo di raggruppamenti di note in scala che assomigliano quasi a un glissando, altre volte si sofferma su ritmi irregolari arrivando fino a dei sovracuti urlanti, lo screaming come lo definivano alcuni, che però in Sanders si fonde a uno stile che è in parte erede del sassofonismo di Coltrane. A partire dall’album Soultrane (1958), il critico Ira Gelter in un articolo su Down Beat dello stesso anno, chiama Sheets of Sound questo approccio al sassofono. Viene da stupirsi pensando a come Sanders sia un musicista in grado di essere così aggressivo e dolce allo stesso tempo mentre suona, ma in questa duplicità passano in mezzo molti stati d’animo, ci si rende conto abbastanza in fretta di quanto la sua palette espressiva sia più complessa e variegata rispetto a quella manciata di note del tema all’inizio del brano. L’effetto è seducente, ci sentiamo lentamente magnetizzati, solo dopo solo, brano dopo brano mentre veniamo accompagnati dalla direzione di queste energie in gioco. La forza è talmente trascinante anche nel solo di pianoforte per fare un esempio, in cui ascoltiamo giochi di simili intenzioni gestuale tra registri e intensità esecutiva; percepiamo quindi una coesione tipica di quei musicisti che riescono a entrare nella misteriosa dimensione dell’Interplay.

Udin&Jazz 2008 – ph Luca A.d’Agostino

Farrell Tune
Se quella sera tra il pubblico ci fosse stato un ascoltatore casuale di jazz, trascinato di peso in quell’auditorium da un amico a sentire per la prima volta un concerto di Sanders, potrebbe essersi chinato di lato durante i primi applausi per sussurrare con stupore ed entusiasmo al suo vicino di posto: “Che figata oh! Ma scusa, chi è questo Sanders?”. Farrell “Pharoah” Sanders rientra tra quei jazzisti che in quegli anni hanno vissuto storie di vita simili tra esordi e scelte intraprese, curiosamente tutti sono arrivati ad incontrarsi e a collaborare nell’ambito della cosiddetta new thing: sono nati e cresciuti in ambienti di ghetto delle grandi città o negli stati periferici dell’America, hanno scoperto l’amore per il jazz o attraverso la musica della messa afroamericana o con la band delle High School, infine hanno creato una propria formazione o hanno tentato di piazzarsi a fianco di qualche nome grosso. La città natale di Sanders è Little Rock in Arkansas, uno stato dove i locali per suonare sono divisi come in una scacchiera, quelli per i bianchi e quelli per i neri, in questi ultimi era il rhythm and blues con i suoi ritmi molto ballabili e le note piacenti a far da padrone, un genere che ha fatto da palestra negli anni giovanili di molti jazzisti dell’epoca. Questa condivisione di destini simili è forse uno dei motivi per cui tutti questi musicisti free riuscivano a entrare così fortemente in connessione gli uni con gli altri; mi riferisco a persone del calibro di Archie Shepp, Albert Ayler, Ornette Coleman, Billy Higgins, Don Cherry e Cecil Taylor… Però, volendo scavare più a fondo su chi sia Farrell Sanders dovremmo allontanarci un minimo da meri dati storiografici e rivolgerci al diretto interessato. In merito è interessante quello che emerge in una delle interviste più semplici e umane che lui abbia mai fatto, quella realizzata da Nathaniel Friedman per il New Yorker nel gennaio 2020. Le risposte di Sanders non sono prolisse, arrivano dritte al punto. Quello che emerge è una persona perfezionista nel suo esperire la musica. Nel suo periodo di grande attività con la Impulse! capitava di rifare dei take, nonostante nelle registrazioni di musica a improvvisazione libera è piuttosto raro, in quanto la direzione sonora che si stava creando non gli piaceva tanto. Scherzo beffardo però vuole che poi, andando a riascoltare quei take appena interrotti, si divorava le mani quando si accorgeva -troppo tardi – di quanto fosse bello ciò che stava succedendo. Anche ad album completato la storia non cambiava, riascoltava le sue stesse opere già pubblicate e trovava continuamente passaggi e note al loro interno dove poter redarguirsi esclamando “potevo farlo meglio”. Con Impulse! Gli capitava di dover registrare anche due o tre album all’anno, però questo non frenava il suo perfezionismo, perché esso si lega anche alla ricerca di novità: si nota infatti come in ogni album di quel periodo c’è un perenne tentativo di rinnovarsi. Non passava molto tempo prima che considerasse invecchiata un’idea musicale, a tal punto che quando alla veneranda età di 79 anni parla della ricerca di un suono che lo renda soddisfatto, ammette di non averlo ancora trovato. Arriva a confessare come in realtà non sia mai esistito un singolo album dove fosse pienamente compiaciuto del suono ottenuto. In un altro aneddoto racconta un dettaglio che ci fa capire quanto fosse esasperato questo atteggiamento nei confronti della ricerca del suono: consumava scatole e scatole di ance, le provava tutte scegliendole e buttando via quelle che non suonavano giuste. Questa ricerca ossessiva del nuovo spiega come mai la sua discografia sia stilisticamente variegata, non sopporta l’idea di doversi ripetere quando suona, non vuole mantenere quell’approccio burocratico nei confronti della musica tipico di certi suoi colleghi… Il paradosso, però, è che quando ascolta la musica di questi ultimi ne rimane affascinato dalla bellezza e si chiede cosa stiano usando per suonare così bene. Ulteriore dettaglio che ci fa capire al meglio chi è e la sua musica è certamente la sua attrazione per i paesaggi sonori, sin da piccolo gli piaceva sentire il rumore delle cose e cita alcuni esempi come il cigolio delle macchine vecchie per strada, il rumore delle onde, i treni che sfrecciano sulla ferrovia, gli aeroplani che decollano.  Questo atteggiamento lo ha portato sempre a cercare di trasformare i suoni brutti, che lo ammaliavano, in belli in qualche modo. Il tassello mancante a questa sintesi della sua umanità sta in un’altra intervista; quella del 1995 per la rete televisiva BBC, dove ci fa capire come lui suonerebbe qualsiasi cosa cercando di trasformarla in qualcosa di bello, spiegando come lui sia una persona che non ha scopi al di fuori di voler semplicemente esprimersi. Questo brano lo rappresenta al meglio, pensandoci, un semplice tema porta in stile Rhythm and Blues dove la sua ripetitività diventa invisibile in quanto non più un centro d’attrazione musicale grazie ai musicisti che improvvisano con grande libertà e tutto suona così fresco e nuovo ad ogni passaggio; un trucco apparentemente semplice, ma in realtà molto difficile da padroneggiare.

The Creator Has a Masterplan / I Want To Talk About You
The Creator Has a Masterplan è quasi certamente il brano più iconico di Pharoah, in questo live possiamo sentirlo in una versione ridotta con un taglio dell’introduzione e della prima sezione dal carattere lento e contemplativo. Comincia direttamente dalla seconda sezione, la più rapida, mantenendo quello scambio tra momenti frenetici e feroci con lo stile aggressivo di Sanders. A questo segue uno dei più classici degli standard jazz come I Want To Talk About You di Billy Eckstine. Sembra strano che questi due brani possano essere messi vicini, ma restituiscono un’immagine della sua visione musicale ed estetica di vita, ci permettono di capire quanto due persone con cui ha collaborato negli anni ’60 lo abbiano segnato e influenzato nel mestiere del musicante: Sun Ra e John Coltrane. Sanders nel 1962 arriva a New York, una metà che ha lo stesso sapore italiano del classico “vai a Milano, lì c’è tutto”. Sempre nell’intervista per il New Yorker spiega come sia arrivato nella grande mela facendo l’autostop, con un portafoglio vuoto di verdoni ma pieno di verde… speranza, cimentandosi in una vita da senzatetto pur di respirare l’ossigeno dei quartieri dove si suonava il jazz più sperimentale e spinto. Inizialmente cerca di arraffare i soldi per poter mangiare in ogni modo, addirittura donando il sangue per appena diciassette dollari, ma il flusso degli eventi lo trasporta nel luogo giusto al momento giusto. Uno dei lavori più stabili che ha avuto era il cuoco e una sera al Greenwich Village viene notato da Sun Ra che lo vorrà nella sua Arkestra, questa fu l’occasione per compiere il primo balzo da sogno americano del jazzista. Suonare nel 1964 con l’Arkestra, sicuramente una formazione così folle e rivoluzionaria come il suo capo, non poteva che ispirarlo nelle sue avventure seguenti. Ci sarebbe un sacco da scrivere su come Sun Ra abbia praticamente gettato le basi per l’estetica cosmica e meditativa del jazz che verrà di lì in poi, ma tralasciando discorsi su possessioni aliene rivelatrici di verità sull’esistenza dei terrestri e del cosmo, basti sapere un dettaglio utile a questa narrazione, Sun Ra era affascinato sin da piccolo alla cultura egizia, da quando in televisione aveva assistito al ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Proprio attraverso la cultura egizia una buona fetta degli afroamericani di quell’epoca cominciano il cosiddetto esodo di ritorno verso la Madre Africa e l’Islam. Questo ci porta a capire come mai Sun Ra rinominerà Faraone il suo amico e collega Farrell Sanders, è quindi impossibile slegare questa esperienza quando pensiamo all’immagine di Pharoah con il suo vestiario che ci fa intendere come quell’eredità dell’Arkestra sia diventata parte di lui. Il Creatore ha un piano superiore, riprendendo il concetto islamico di unicità del Tawhid e questa idea spiega come il flusso abbia guidato Pharoah fino a quel punto. Questo piano superiore però non è di certo ancora arrivato alla sua realizzazione, perché l’anno dopo la storia di Sanders si incrocia con quella di Coltrane nell’album Ascension. I due già avevano stretto amicizia quando si erano incontrati in California nel 1959. Nel ’58 Sanders si iscrive all’Oakland Junior College in California per studiare arte e musica, portando avanti la sua passione per la pittura, tuttavia non smette di suonare. Porta a termine un affarone, baratta il suo clarinetto con un sassofono d’argento che a sua volta scambierà con un vecchio modello di tenore come ha sempre voluto. In quella California, dove per suonare nessuno fa questioni sul colore della pelle, incontra John Coltrane. Il loro rapporto viene spesso condito da grandi discorsi mistici, ma sia Coltrane sia Sanders ne parlano con la semplicità di due migliori amici che raccontano l’uno dell’altro. Erano entrambi molto silenziosi, non avevano molto da dirsi, ma quando erano vicini si capivano con qualche sguardo o frase breve. Un episodio che spiega al meglio la profondità del loro rapporto sta di nuovo in quel perfezionismo a volte assillante di Sanders, chiedeva spesso durante le sessioni se il suo suono andasse bene, se le sue note erano giuste o cozzassero, ma Coltrane non rispondeva quasi mai. A furia di insistere però un giorno Coltrane esordì con un semplice “Sì va bene così, tu continua a soffiare”. Poche parole, a dimostrazione di quanto John conoscesse bene l’indole di Sanders. Nelle note di copertina dell’album Live At Village Vanguard Again, leggiamo invece un discorso più lungo – ripreso da Nat Hentoff – di Trane che recita: «Pharoah è un uomo di grandi risorse spirituali. È sempre alla ricerca della verità. Cerca di permettere al suo spirito di guidare le sue azioni. È un uomo che ha, oltre al resto, energia, onestà mentale e che va dritto all’essenza delle cose. Mi piace moltissimo la forza con cui suona. Inoltre, è uno degli innovatori e io mi considero fortunato per il fatto che si sia dimostrato disposto ad aiutarmi, a far parte del nostro gruppo». Hanno due personalità simili nella vita, ma si colmano nelle loro differenze, questo punto sfugge spesso quando si parla erroneamente di come e cosa Sanders abbia ereditato del sassofonismo di Coltrane. La verità è che le loro sonorità sono complementari ed è per questo che assieme suonavano così bene, si inseriscono in un rapporto dialettico, infatti, Sanders è tra i pochi musicisti che sono rimasti fissi nel quintetto di Trane fino alla morte nel ‘67. Tutto questo discorso ci fa capire come in fondo non c’è nulla di così mistico nel rapporto tra loro due, è vero che erano delle persone profondamente spirituali ma ciò non vuol dire che fossero dei santoni invasati di parole ispiratrici e religiose come spesso li si dipinge. Da un lato Coltrane arrivava a chiudersi in camera e disegnare linee nel circolo delle quinte o creare scale usando sequenze numeriche matematiche, mentre Sanders aveva un poderoso istinto a guidarlo quando imboccava l’ancia, tuttavia, dopo ore e ore a fare improvvisazioni libere, come racconta lo stesso Sanders, i due si concedevano di divertirsi suonando qualche standard e alcune ballad. In tal senso, a mio parere, un pezzo come I Want to Talk About You, ci rivela molto sull’influenza di Coltrane su Sanders, più di quanto non lo facciano album come Tauhid, Karma, Summun Bukmun Umyun, Jewels of Thought o andando più in là negli anni, Elevation.

Love is Everywhere

Pharoah Sanders – Udin&Jazz 2008 – ph Luca A. d’Agostino

L’ultimo brano riporta alla memoria una frase che disse un altro dei suoi amici con cui collaborò per anni, il pianista Lonnie Liston Smith, che in un’intervista con Chris Parkin racconta cosa significasse suonare con Sanders: «Sembrava che cantasse più note contemporaneamente e proprio in quel periodo stavo cercando di tirar fuori nuove potenzialità dal mio pianoforte a coda, suonando con l’avambraccio per ottenere un suono più potente. Ho chiesto a Pharoah: “Come fai ad avere questo suono?” Lui mi ha risposto; “Ma anche tu suoni come se avessi più di dieci dita!”. A lui piaceva spingersi sempre oltre il limite». Questo discorso di spingersi oltre il limite mi ha sempre ispirato e fa riflettere su quello che è il discorso che voglio portare in chiusura di quest’album. È innegabile e stupefacente come in dieci anni e una dozzina di album Pharoah Sanders sia diventato un musicista completo già a metà degli anni ’70. Quel bisogno di ricercare la verità e rinnovarsi non gli permettono di frenarsi, non è sufficiente ciò che ha già fatto e la sua spinta creatrice lo porta in più direzioni negli anni a venire. Per un periodo, sul finire degli anni ’70, torna indietro nella musica, abbandonando l’estetica spirituale, riabbracciando musiche più vicine alla tradizione blues come l’Hard Bop o riesplorando il Modal stile West Coast. Arriva nel 1994 a viaggiare in Marocco dove conoscerà la musica Gnawa e registrerà The Trance of Seven Colors con Mahmoud Guinia. Sanders cambia spesso etichetta nel corso della sua carriera, incidendo per dieci etichette diverse, suonando con ogni musicista di ogni estrazione in virtù di quel processo di trasformazione di cui abbiamo parlato. Non si può non restare affascinati da una spinta propulsiva alla creazione come la sua, talmente potente che nel 2021 ritorna in studio dopo lungo tempo registrando Promises, un album con il producer britannico Floating Points e la London Shymphony Orchestra. Il suo sassofono ha ormai raggiunto gli ottant’anni suonati, ascoltandolo riconosciamo subito il suo stile; eppure, ci appare un’altra volta come qualcosa di nuovo mentre veniamo trasportati nel suo mondo con quei nove movimenti attorno allo stesso motivo, racchiudendo forse il migliore album del jazz del ventunesimo secolo. Mi piace pensare che alla fine della sua vita sia riuscito a trovare almeno in quell’album quella sonorità perfetta, senza macchie, quella che con certezza può affermare che gli piace, senza rimuginarci sopra, quella che, in sintesi, ha sempre voluto trovare, ma quanta ironia se pensiamo come un anno prima in quella intervista con Friedman dice di non aver ancora trovato! Questo “ancora” è carico di significato ora che ci ripenso. Il suo voler superare certi limiti e andare oltre è d’obbligo per compiere un viaggio musicale come il suo, si potrebbe pensare che questi continui cambiamenti, che di lustro in lustro ha fatto, derivino da una forza di spirito, ma questa voglia di superare i limiti da sola non basta a spiegare la sua anima. Orientarci alla ricerca di essa facendo una lista di questi cambiamenti nella sua vita ci porta verso l’infinito, fino a diventare un oceano dove, da qualunque parte indichi la bussola, navigheremmo senza ritrovare più la terra ferma. Bisogna prendere fiato, fare il punto e trarre una conclusione prima di disorientarsi. Love is Everywhere mi ha permesso proprio di fare questo: gettare l’ancora in una destinazione precisa. Questo pezzo ha all’interno un chant (caratteristica che manterrà in molti suoi brani, specie dalla collaborazione con il cantante Leon Thomas in poi) e invita il pubblico a recitare con lui questo canto, come in una messa. Questo rituale ci permette di trascendere dal sentiero che abbiamo percorso ascoltando l’album. Vediamo finalmente il poliedro nella sua nuova forma e abbiamo scavato abbastanza da trovarne il nucleo? Forse sì! L’anima che guida questa voglia di sfondare muri e superarsi sta in un dettaglio solo apparentemente trascurabile, rileggendo la sua discografia e soffermandoci sui titoli di alcuni brani possiamo notarlo abbastanza in fretta. Love is Here, Love is Everywhere, o brani con titoli omonimi all’album come Love in Us All (1974), Love will find a way (1977), Welcome to Love (1991), Crescent with Love (1994)… in cui l’amore viene suonato come qualcosa di energico e movimentato dandoci una visione allegra e positiva del sentimento o, al massimo, dove manca l’elemento del ritmo incalzante c’è quello contemplativo; in netto contrasto con il dolore e il lamento perpetuo che troviamo nel resto del mondo jazz, catapultandoci in una dimensione più drammatica, melensa, nostalgica, enigmatica e ignota: What is this thing called love, You don’t know what love is, In a Sentimental Mood, There will never be another you e tanti altri. La domanda iniziale dell’articolo trova risposta, ecco che il nucleo si disvela davanti ai nostri occhi: ciò che Sanders ci ha lasciato è amore, che si esprime da noi stessi verso tutte le cose che ci circondano e da esse fa ritorno a noi. Oserei dire che avendo superato certi limiti sia addirittura un amore ancora più supremo di quello che Coltrane cantava nel 1960 in A Love Supreme. Quanto meno, questa è la forma dello spirito che ho visto io esplorando il mondo di Farrell Pharoah Sanders.

Alessandro Fadalti

Il Jazz per l’Ucraina in Italia e nel mondo

La musica non è un’arma spuntata. Ma non è “inoffensiva” nel senso che può diventare veicolo di messaggi forti – pensiamo a brani come “Imagine” di John Lennon o “Russians” di Sting –  in grado di influenzare le coscienze di intere fasce di popolazioni.
E non è semplice psicologismo (di massa) tant’è che anche in ambito militare si riconosce quanto sia importante il “morale della truppa”.
Può essere inno pacifista come il famoso “Mettete dei fiori nei vostri cannoni” dei Giganti e i tanti brani dell’epopea hippie ma può tramutarsi anche in un aiuto concreto. Ed è quanto di fatto sta avvenendo in un Occidente dove lo stesso jazz ha iniziato a mobilitarsi. Con qualche distinguo, però, non del tutto secondario che si sta manifestando nel nostro Paese. In effetti consentitemi di nutrire qualche ragionevole dubbio sulla perfetta coincidenza tra l’indire manifestazioni di sostegno e condividere appieno le sofferenze del popolo ucraino. Dubbio determinato da quanto leggo in questi giorni da varie fonti: invece di condannare senza se e senza ma le azioni di Putin, si comincia il discorso con i soliti “sì, ma, allora gli USA, il Libano, la Libia, l’Afghanistan, l’Iraq… e chi più ne ha più ne metta”. Il tutto non tanto e non solo per capire le cause dell’attuale guerra (cosa che si potrebbe benissimo fare ad ostilità concluse) quanto per giustificare se non per appoggiare pienamente Putin nel nome di vecchi slogan che sognavamo sepolti dalla storia e che invece riaffiorano sulla scorta di un “anti-atlantismo” più vivo che mai. Ma tant’è!
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, aggiungo che la redazione intera di “A Proposito di Jazz” ritiene di dover attestare la propria vicinanza alle vittime di questa guerra ripugnante, per riprendere le parole di Papa Francesco. Lo facciamo scrivendo. Computer e strumento musicale non saranno armi, d’accordo. Ma possono arrivare a trasmettere parole, suoni, emozioni, sentimenti. Là dove le armi non arriveranno mai.
Ma torniamo alle tante iniziative di cui in apertura. Fra le tante significative storie da segnalare quella di Tetyana Haraschuk, batterista jazz che vive a Winnipeg in Canada, dove si è trasferita qualche anno fa coi suoi genitori. Lei è nata a Kiev, e in Ucraina ha ancora tanti parenti minacciati dalla guerra. Alcuni di loro sono riusciti a passare il confine e rifugiarsi in Polonia, ma la situazione non è semplice nemmeno lì. Così lei è partita per incontrarli e condurli definitivamente in salvo.

Dal canto suo Tamara Usatova, cantante jazz e soul da oltre 15mila visualizzazioni su Youtube, nata in Ucraina da padre russo e madre ucraina, ha raccontato la lacerazione che sta vivendo in questi giorni. Perché anche lei, come molte persone russe, ha l’impressione di essere nel mezzo di una guerra civile. Per questo ha organizzato dei concerti a Milano con un doppio obiettivo: raccogliere fondi a sostegno del popolo ucraino e creare un ponte che avvicini i due Paesi in ostilità.
Ancora: in Gran Bretagna si è svolto il Concert for Ukraine grazie alla arpista di origine ucraina Alina Bzhezhinska, la quale nell’occasione ha dichiarato che “l’Ucraina è sempre stata un Paese europeo; ha persone straordinarie che vogliono vivere in pace e armonia con il resto del mondo”. Centrando, con tali affermazioni, il perché della reazione dell’Europa al conflitto, concorde ed unitaria come mai era stata in precedenza in situazioni più o meno assimilabili avvenute in territorio europeo. Le ha fatto eco Dave Wybrow, direttore del Cockpit, struttura teatrale sempre aperta alle battaglie ideali e antitotalitarie.

Giungono notizie sul sostegno all’Ucraina anche dagli U.S.A. In particolare il 18 marzo si è svolto a NYC “10,000 Tones for Peace”, un concerto cui hanno partecipato artisti del calibro di Oliver Lake, William Parker, Matthew Shipp, Frank London, Joe Morris, Marty Ehrlich, Melvin Gibbs… e altri. Notevole anche il contributo della Utah Jazz Foundation che ha stanziato fondi per l’accoglienza dei profughi ucraini.

E in Italia? Da noi lo scorso 13 marzo, la Midj, associazione musicisti italiani di jazz ha promosso “Italian Jazz 4 Peace”, una giornata di concerti on line e dal vivo per raccogliere fondi in favore delle popolazioni colpite dal conflitto. L’evento solidale, organizzato in collaborazione con Unchr Italia, l’Agenzia Onu per i rifugiati, è basato sul presupposto che “la musica unisce popoli, culture, persone. Da sempre il jazz è incontro e scambio, estemporanea espressione artistica che riflette la realtà del momento”. Ai vari coordinamenti regionali è stato assegnato il compito delle iniziative in loco per il cui riscontro rinviamo alle varie cronache di spettacoli.
Giovedì 17 marzo 2022 il Conservatorio di Milano ha ospitato presso la Sala Verdi il concerto dell’Orchestra Nazionale Jazz dei Conservatori italiani: gli studenti dei Conservatori si sono esibiti insieme per la pace in Ucraina nel concerto Kings of Pop in Jazz a sostegno del progetto Emergenza Ucraina #HelpUkraine della Fondazione Avis, guidati da Pino Jodice (nella doppia veste di direttore e arrangiatore) e con la voce di Cinzia Tedesco.
Buone nuove anche da Bergamo: la Fondazione Teatro Donizetti e Bergamo Jazz hanno aderito alla raccolta fondi promossa da Fondazione Cesvi con l’iniziativa “Emergenza Ucraina”: in occasione dei concerti, il pubblico ha così potuto effettuare donazioni destinate alla popolazione colpita dal conflitto.
Tra le iniziative locali da segnalare , infine, quella svoltasi a Palermo dove il 26 marzo scorso, al Real Teatro Santa Cecilia, l’Orchestra Jazz Siciliana – Fondazione The Brass Group, sposando l’appello dell’assessore regionale turismo, sport e spettacolo, Manlio Messina, ha dato vita allo spettacolo BRASS and FRIENDS for UKRAINE. Sono stati raccolti 6.000 euro, devoluti alla raccolta fondi promossa dalla Croce Rossa Italiana per il popolo ucraino, Oltre all’Orchestra, sono saliti sul palco molti artisti tra cui Flora Faja e Diego Spitaleri.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Molte le novità dall’Italia e dall’estero

Massimo Barbiero – “Woland – Omaggio a ‘Il maestro e Margherita’” – Autoprodotto
Massimo Barbiero, batterista e percussionista, è senza dubbio uno dei musicisti italiani più coerenti e originali, senza che, a tutt’oggi, abbia ottenuto i riconoscimenti che merita. Anche questo suo ultimo album si inserisce nell’ambito di quelle produzioni di qualità cui l’artista ci ha abituati oramai da molti anni. L’organico è un trio con Eloisa Manera al violino ed al violino elettrico a cinque corde e Emanuele Sartoris al pianoforte. In repertorio dieci brani che sostanziano un omaggio a “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, uno dei più importanti lavori del Novecento letterario, e “Woland” è uno dei nomi germanici del Diavolo, ed è anche il nome (in russo Воланд) di uno dei personaggi chiave di questo romanzo. Quindi un concept album in cui la sapienza compositiva di Barbiero trova ancora una volta il modo di esplicarsi appieno, anche se questa volta il carico compositivo è ripartito egualmente fra i tre artisti. Ammesso e non concesso che sia ancora importante definire ciò che si ascolta, incasellarlo in una cornice predeterminata, ebbene con la musica di questo album tutto ciò non è possibile. Non è jazz propriamente detto, non è musica colta nell’accezione del termine ma una sorta di percorso tra culture musicali diverse, alle volte molto diverse. E sta proprio qui la bravura dei musicisti che nulla concedono al facile ascolto riuscendo comunque a conquistare l’attenzione dell’ascoltatore sin dal brano d’apertura, “Abadonna” di Massimo Barbiero, in cui violino e pianoforte quasi si inseguono su un terreno accidentato che taluni hanno voluto accostare ad atmosfere impressioniste. In “Margherita”, sempre di Massimo Barbiero, è soprattutto il violino, ben supportato dal tappeto ritmico disegnato dal leader, a dettare le atmosfere del brano, questa volta più leggibili e narrative, in cui si avvertono echi sia di Vivaldi sia di Paganini. Di livello anche la suite in tre parti, di undici minuti, “Suite dei tre demoni” di Eloisa Manera, sempre in bilico fra scrittura ed improvvisazione, come del resto l’intero disco. La conclusione è affidata ad una composizione di Sartoris, “Pilato, potere temporale”, in cui il pianismo dell’autore si evidenzia in tutta la sua essenzialità, ben lontana da qualsivoglia esibizionismo.

Francesco Bearzatti / Carmine Ioanna – “Favolando” – artesuono 186
Carmine Ioanna, fisarmonicista d’origine irpina, e Francesco Bearzatti, sassofonista e clarinettista cresciuto nella provincia friulana, sono i “responsabili” di questo godibile album. Il titolo riflette la predilezione dei due artisti per raccontare, attraverso la musica, storie, in questo caso specifico ‘favole’. Il sodalizio nasce due anni or sono sulla base della comune volontà di improvvisare divertendosi e questa caratteristica si coglie appieno ascoltando l’album, declinato attraverso composizioni dei due artisti, un brano tratto dalla tradizione dell’Azerbaijan e tre improvvisazioni espressamente dichiarate come tali. Neppure per un attimo si avverte la sensazione che l’uno voglia prevaricare l’altro ma, sottolinea Ioanna, – siamo “due persone che si amano, si completano, non si sovrappongono mai perché vanno nella stessa direzione”. “Soprattutto c’è, secondo me, – ribadisce Bearzatti – una bella mescolanza di ego, nel senso che non c’è nessuno che sovrasta l’altro”. Una musica, quindi, che ci consegna due artisti in grado di improvvisare costantemente, mai perdendo il bandolo della matassa, anzi continuando a sviluppare un discorso sempre coerente e con tale intensità da non far rimpiangere la mancanza degli altri strumenti. Sassofono e fisarmonica, nella mani dei due artisti, riescono a produrre una massa sonora spesso di tipo orchestrale che si inserisce in una atmosfera davvero magica, “da favola” per riportarci al titolo dell’album, in cui si avvertono echi della musica popolare così come del jazz, della musica contemporanea, della world music. Il tutto, sottolinea ancora Bearzatti, per aprire delle piccole brecce, non già per fare musica di massa, e per puntare al grande pubblico.

Black Coffee & Martine Thomas – “Once Upon A Time” – Caligola 2273
Ecco un album raffinato, oserei dire in alcuni momenti sofisticato, in cui si privilegia senza remora alcuna la ricerca della bella melodia. Di qui un repertorio che spazia da alcuni temi cari agli appassionati di jazz (uno per tutti “My Favorite Things”), alla canzone francese, rappresentata da ben quattro titoli (“Et maintenant” di Gilbert Bécaud, “Ne me quitte pas” di Jacques Brel, “L’hymne à l’amour” di Edith Piaf e “La Bohème” di Charles Aznavour), dalla black music (“I Can’t Help It” di Stevie Wonder e Susaye Greene) ad esplicite reminiscenze blues (“Butterfly” di Herbie Hancock)… alle atmosfere vagamente brasiliane di “The Island” di Ivan Lins, Marilyn e Alan Bergman,… con l’aggiunta di due intermezzi strumentali “End of Chapter One e Two”. A cucinare questa gustosa ricetta sono la cantante americana di origini haitiane Martine Thomas che attualmente vive a Zara, coadiuvata dai Black Coffee, il trio croato costituito da Renato Švorinić, bassista e leader, dal pianista Ivan Ivić e dal batterista Jadran Dučić, cui si aggiungono come special guests Daniele di Bonaventura, bandoneon, presente solo in “Et maintenant”, e Massimo Donà, la cui tromba si ascolta in quattro tracce. Vista la varietà dei brani si potrebbe temere una certa disomogeneità dell’album. Invece “Once Upon A Time” mantiene una sua intrinseca coerenza derivante dal come il gruppo approccia la materia: innanzitutto la ferma volontà di rispettare le linee melodiche dei vari pezzi cui si aggiungono i sapidi arrangiamenti di Renato Švorinić e Ivan Ivić. E il discorso appare quanto mai evidente soprattutto nei quattro pezzi francesi interpretati con gusto ed eleganza dalla Thomas e impreziositi da arrangiamenti mai banali. In questo senso particolarmente apprezzabile è anche la versione di “I Can’t Help It” con un centrato assolo di Ivić al piano elettrico.

Felice Clemente – “Solo” – Crocevia di suoni 018
Affrontare la registrazione di un album per sole ance è impresa quanto mai difficile da cui sono usciti indenni solo alcuni grandissimi personaggi quali Sonny Rollins, Steve Lacy, Lee Konitz, Anthony Braxton. In questo album ascoltiamo un artista italiano, Felice Clemente, che usa sax tenore, sax soprano e clarinetto, in una registrazione effettuata nella chiesa settecentesca di Montecalvo Versiggia il 15 e 16 novembre del 2019. La scelta della location non è stata casuale o indifferente: in effetti, come acutamente sottolinea Paolo Fresu nelle note che accompagnano l’album, la dimensione armonica di un solo di sax e clarinetto si esplica nella magia dei rimandi di echi e riverberi, che traggono spunto dalla navata e dalle arcate di una chiesa o di una basilica. Quasi a dimostrare quanto il fitto dialogo tra gli strumenti e il luogo che li accoglie sia frutto di un “antico matrimonio che appartiene alla storia dell’uomo”. Ecco quindi come, grazie anche ad una presa di suono eccellente, sia possibile apprezzare in tutta la loro bellezza queste architravi sonore rette da echi, riverberi che solo in un ambiente come quello di una chiesa (ovviamente con caratteristiche particolari) sarebbe stato possibile ottenere. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile se non ci fosse stata anche e soprattutto la valentia di Felice Clemente compositore, arrangiatore, esecutore di grande raffinatezza che ha voluto disegnare un percorso non facile attraverso un repertorio che parte da un classico del jazz, “Harlem Nocturne” di Hearle Hagen per concludersi con una libera improvvisazione, passando attraverso tre sue composizioni originali, e brani di Branford Marsalis, Godard, Morricone, Nuzzolese, Di Gregorio, Javier Perz Forte e Bach.

Cordoba Reunion – “Sì” – abeat 214
Ecco un altro gradevole album firmato Cordoba Reunion, ovvero il prestigioso quartetto costituito da musicisti tutti nativi della stessa città, Cordoba, ma residenti in paesi diversi (Francia, Italia e Argentina): Javier Girotto ai sassofoni, Gerardo Di Giusto al piano, Gabriel “Minino” Garay percussioni e batteria e Carlos “El Tero” Buschini basso e guembri. Registrato a Milano nel marzo del 2019, l’album contiene undici tracce di cui nove firmate dagli stessi membri del gruppo e due da Julien Lourau un sassofonista francese classe 1970. Come già nei precedenti album, “Argentina Jazz” del 2004 e “Sin lugar a dudas” del 2008, il gruppo si muove su direttrici molto ben individuabili: uno straordinario mix tra tanghi, milonghe e chacareras da un lato, jazz, improvvisazione, sperimentazione dall’altro. Evidentemente una impresa così difficile può essere intrapresa con un minimo di possibilità di successo solo se ad affrontarla sono musicisti che coniugano una spiccata personalità individuale con una capacità di rapportarsi ai compagni d’avventura. Ebbene i quattro musicisti in oggetto possiedono ambedue queste doti essendo tecnicamente molto ferrati ma allo stesso tempo capaci di condurre il discorso musicale sulla base di una profonda empatia. Risultato: un latin-jazz assolutamente coinvolgente che risponde ad un progetto musicale in cui la ricchezza ritmica della musica argentina, seppur ancorata al ricco patrimonio folklorico del Paese, dimostra come la stessa non sia solo tango e milonga, ma molto, molto di più.

Fausto Ferraiuolo – “Il dono” – abeat 212
La genesi di questo album viene esplicitata dallo stesso leader laddove afferma da un canto che il progetto è nato dall’incontro con Jeff Ballard conosciuto molti anni addietro durante una masterclass a Siena, dall’altro che “Il dono” è per lui quello dell’incontro, per cui “donare o ricevere sono due aspetti dello stesso gesto”. Gesto che si concretizza in questo album in cui il musicista napoletano, ben sostenuto da Aldo Vigorito al basso, suo ‘storico’ compagno d’avventure musicali, e dal già citato Jeff Ballard alla batteria (particolarmente importante la sua militanza nel trio di Brad Meldhau), presenta undici brani tutti di sua composizione, eccezion fatta per “O Impro Mio” (Ferraiuolo-Vigorito-Ballard), “Improtune” (Ferraiuolo-Vigorito-Ballard) e “Somebody Loves Me” (George Gershwin). I pezzi originali, per esplicita ammissione dello stesso pianista, sono dedicati alle persone a lui più care. La caratura dell’album appare evidente sin dal primo brano, “Fire Island”: i tre si muovono su un piano di assoluta parità ritagliandosi spazi appropriati (ad esempio in questo brano possiamo già gustare un preciso e gustoso assolo di Aldo Vigorito). Nasce da qui una musica che si inscrive nell’alveo del jazz canonico, con improvvisazioni serrate (particolarmente azzeccata quella sulla falsa riga di “O sole mio” trasformato in “O impro mio”), scambi trascinanti, ricerca di suadenti linee melodiche (particolarmente apprezzate da chi scrive quelle di “4 Septembre” e “C’est tout”) mentre in “Baires” specie nella parte finale si avverte una certa influenza ‘tanguera”. Infine “Improtune” si avventura su terreni contigui al free per tornare ad atmosfere più consuete con la convincente interpretazione del gershwiano “Somebody Loves Me”.

Tommaso Gambini – “The Machine Stops” – Workin’ Label 37
Ecco un’altra prima discografica: protagonista il chitarrista Tommaso Gambini torinese ma newyorkese di adozione, alla testa di un gruppo ad organico variabile composto dai suoi abituali collaboratori Manuel Schmiedel al pianoforte, Ben Tiberio al contrabbasso e Adam Arruda alla batteria cui si aggiungono l’alto sassofonista olandese Ben Van Gelder, il tenor sassofonista e compositore americano Dayna Stephens, il clarinettista Jacopo Albini e la flautista Anggie Obin. In scaletta sette brani tutti firmati dal chitarrista, e riferiti al racconto omonimo dello scrittore inglese Edward Morgan Forster del 1909, racconto che paradossalmente sembra avere molti punti di contatto con la tragica realtà di oggi. Forster parla di una Macchina inventata dall’uomo che prende il sopravvento sulla nostra stessa volontà; sostituite i termini Macchina con Virus e il gioco è fatto. Quindi, almeno sulla carta, si tratta di un concept album. Ma, come al solito in questi casi si pone l’interrogativo: è riuscita la musica a tradurre in suoni tali concetti? Francamente non del tutto; non ho sentito quel clima, cupo, drammatico che forse meglio si sarebbe attagliato alla situazione di cui sopra. Ad onor del vero, il brano d’apertura, anche grazie all’inserto parlato tratto dal volume in oggetto, riflette bene il clima dello stesso ma nei brani successivi è come se l’atmosfera si addolcisse e quindi la tensione si allentasse. Comunque, onestamente, non ho letto il racconto per cui potrebbe darsi che anche i successivi pezzi riflettano in qualche modo i contenuti dello scritto. Ma tutto ciò è abbastanza irrilevante in quanto poco toglie alla valenza dell’album che risulta apprezzabile: Gambini scrive bene, arrangia altrettanto bene e come chitarrista si è fatto ampiamente conoscere collaborando con jazzisti quali Antonio Sanchez, George Garzone, Miguel Zenon e non si lavora con personaggi del genere se non sei più che bravo.

Erroll Garner – “Octave” – Mack Avenue 02
Erroll Garner è sicuramente uno dei giganti della musica jazz. La “Octave Remastered Series”, prodotta da Peter Lockhart e Steve Rosenthal, continua a riproporre alcune delle perle di questo straordinario pianista. Questo ultimo album include nove pezzi tratti da tre album “That’s My Kick” registrato nel 1967 con Milt Hinton basso, Herbert Lovelle e George Jenkins batteria, José Mangual e Johnny Pacheco congas, Wally Richardson e Art Ryerson chitarra; “Up In Erroll’s Room” del novembre dello stesso 1967 con Ike Isaacs basso, Jimmie Smith batteria, Jose Mangual congas featuring “The Brass Bed”; e “Feeling Is Believing” del 1969 con Wally Richardson chitarra, Joe Cocuzzo, Jimmie Smith e Charlie Persip batteria, Jose Mangual congas, Jerry Jemmott e George Duvivier basso. Per chi conosce il jazz, credo bastino solo queste note per comprendere come si tratti di musica di assoluta livello, registrata quando il pianista di Pittsburgh stava vivendo uno dei suoi tanti momenti positivi. In particolare i brani contenuti nell’album ci mostrano un Garner alla testa di formazioni diverse ma che sempre sono in grado di seguire con partecipazione le idee del leader, il cui pianismo, smagliante, mai conosce un attimo di stasi, di indecisione. E siamo sicuri che anche l’ascolto di questo album aprirà una dialettica, a mio avviso del tutto inutile, tra chi considera Garner un assoluto genio musicale (ed io sono tra questi) e chi invece lo valuta pianista di eccellente tecnica ma troppo dedito a inutili virtuosismi.

Giulio Gentile / Emanuela Di Benedetto – “There’s no Place Like Home” – artesuono 192
Album d’esordio per il pianista Giulio Gentile e la vocalist Emanuela Di Benedetto che da giovani appassionati di musica Jazz, hanno poi studiato al dipartimento Jazz del Conservatorio “Luisa D’Annunzio” di Pescara. Il duo nasce nel 2012 e si fortifica attraverso la partecipazione a numerosi festival, tra cui “MuntagninJazz”, “La Settimana Mozartiana”, il “Castelbuono Jazz Festival”, la rassegna “Sabato in Concerto Jazz” per “Archivi Sonori”. Presto arrivano anche i primi riconoscimenti come il Premio “BEST BAND” al “Bucharest International Jazz Competition 2016”, l’affermazione al “Premio Marco Tamburini 2016” per la sezione band mentre nel 2017 sono vincitori del “Premio Nazionale delle Arti” sezione Jazz tenutosi a Milano Logico, quindi, che si giungesse a questo primo album il cui organico è completato dal batterista Marcello Di Leonardo, dal bassista Luca Bulgarelli, dal sassofonista Manuel Trabucco e dal flicornista Jorge Ro. In repertorio otto brani con musica di Gentile e testi della vocalist. Tenendo conto che si tratta di una ‘prima’ assoluta, l’album presenta note positive riscontrabili soprattutto nella bella intesa tra voce e pianoforte, nella delicatezza dei temi proposti, nella eleganza con cui si manifesta l’amore per la musica e nell’attenzione con cui si guarda alla realtà di oggi. Ecco quindi un omaggio alla città di New York da parte di una giovane donna, una dichiarazione d’amore verso una natura che si vorrebbe più tutelata, un grido di dolore per la lontananza dell’amato/a, un ritratto dell’emigrazione ricco di poesia.

Dimitri Grechi Espinoza – “The Spiritual Way” – ponderosa 147
Nel panorama musicale internazionale Dimitri Grechi Espinoza si è oramai ritagliato uno spazio ben preciso grazie alla sua ricerca che conduce oramai da tempo e che si sostanzia nel progetto Oreb, il monte dove Mosé incontrò Dio. E credo basti questo solo elemento per capire la dimensione in cui opera il sassofonista. Anche questo suo ultimo lavoro, intitolato “The Spiritual Way” per la Ponderosa Music Records, si inserisce, dunque, in quella ricerca che attraverso la musica conduce all’estasi. In particolare in questo terzo volume di Oreb, Dimitri affronta il tema delle virtù spirituali, dando eco e risonanza a uno scritto della tradizione cinese che delinea un percorso di ascesi interiore. Il tutto espresso, ovviamente, attraverso una musica la cui particolarità può essere facilmente percepita se solo la si ascolti con un minimo di attenzione e cuore aperto. In compagnia del suo fido sax tenore, Dimitri ha inciso questo album nel febbraio del 2019 in una località del tutto particolare come il Battistero di Pisa di San Giovanni in Piazza dei Miracoli, un luogo che data la sua particolare acustica è risultato fondamentale per la riuscita dell’impresa. Ed in effetti l‘artista pone a base della sua ricerca anche il rapporto fra suono e spazio-sonoro e il suo significato spirituale. Il suono del sax si staglia stentoreo, preciso, nitido, straordinariamente coinvolgente, ricco di riverberi, che richiama altri grandi del passato primo fra tutti il John Coltrane nella versione più intimista e spirituale. Così il sassofonista ci trascina in un mondo “altro”, un mondo in cui noi tutti avremmo forse voglia di rifugiarci dato il terribile momento che stiamo attraversando.

Hiromi – “Spectrum” – Telarc 0081
Vulcanica, tecnicamente fortissima, semplicemente straordinaria: questi gli apprezzamenti che critici e pubblici di tutto il mondo hanno rivolto a Hiromi Uehara una delle più talentuose protagoniste della nuova scena jazz internazionale. La pianista giapponese (classe 1979) si è messa in luce già da bambina e durante tutti questi anni non ha fatto altro che studiare, suonare, studiare e suonare affinando una tecnica davvero strepitosa e migliorando notevolmente anche l’interpretazione. Queste doti vengono tutte in luce in questo album per solo piano registrato in Giappone nel settembre del 2019. E’ interessante sottolineare come questo sia solo il secondo CD registrato dalla Hiromi per piano solo dopo “Place to Be” del 2009 a conferma di quanto l’artista sia attenta a misurare le proprie capacità. E così “Spectrum” si segnala come una delle migliori prove della pianista che si conferma non solo strumentista in possesso di una conoscenza profonda della tastiera, capace di padroneggiare diversi linguaggi, ma anche interprete raffinata, attenta ad ogni aspetto della sua performance. Hiromi accarezza letteralmente ogni tasto dello strumento, dando a ciascuna nota un suo peso specifico cosicché l’esecuzione raggiunge livelli di profondità non facilmente eguagliabili. Cosa che si nota sia nei brani originali, sia nei pezzi già famosi come “Blackbird” di Lennon-McCartney, “Rhapsody in Various Shades of Blue” ovvero “Rhapsody in blue” corredata da varie interpolazioni, alcune originali altre tratte da “Blue Train” di John Coltrane e “Behind Blue Eyes” di Pete Townshend. Splendida la chiusura affidata ad un melodico “Sepia Effect”.

Karabà – “Viola” – emme record 1916
“Viola” è il secondo album dei Karabà, al secolo Alessandro Casciaro al pianoforte e compositore dei brani, Alberto Stefanizzi alla batteria e Stefano Rielli al contrabbasso.
Il gruppo si muove con grande intesa cementata dal fatto che i tre suonano assieme dal 2016 essendo riusciti, cosa non sempre scontata, a fondere le proprie forti personalità in un unicum assolutamente credibile. Anche perché Karabà si tiene ben lontano da sterili sperimentazioni muovendosi su terreni prettamente jazzistici, senza se e senza ma, un jazz indubbiamente moderno ma che nulla dimentica degli insegnamenti del passato. Il tutto agevolato, se non determinato, dalla buona penna di Alessandro Casciaro compositore di otto brani (su nove); l’unico pezzo non originale è “Tonight Tonight” che chiude il disco; si tratta di un riarrangiamento per piano solo del celebre brano degli Smashing Pumpkins che grazie all’estro di Alessandro Casciaro prende nuovo lustro, senza nulla perdere dell’originario fascino. Tornando alle composizioni di Casciaro, le stesse se da un canto esaltano la forza del collettivo, dall’altro offrono ad ognuno dei musicisti la possibilità di esporre appieno le proprie potenzialità. Così, sulla scorta di melodie ben disegnate e di armonizzazioni ricercate, Casciaro ha modo di esporre il suo pianismo sempre essenziale, ben sostenuto da una sezione ritmica affiatata, precisa e, come già detto, capace di prendere in mano il filo del discorso. I brani sono tutti gradevoli anche se personalmente ho preferito “Parco bello luogo” per gli espliciti richiami al bebop grazie soprattutto ad un poderoso assolo di Stefano Rielli e “Primavera 19” per la delicatezza della linea melodica.

Riccardo Morpurgo- “Kaleidoscopic” – artesuono 184
Morpurgo, Maier, Ricci – “” – Palomar records 58
Il pianista Riccardo Morpurgo è presente in due titoli usciti di recente.
Nel primo è alla guida del Mandala Trio completato da Alessandro Turchet al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, vale a dire una delle più affiatate e valide sezioni ritmiche che il jazz italiano possa vantare. Il nome del gruppo è di per sé indicativo: il termine “mandala” si riferisce alle culture buddiste e induiste, e si tratta di immagini geometriche usate per trovare l’equilibrio, l’essenza del proprio essere. Ecco, partendo da queste premesse il trio si avventura in un percorso piuttosto accidentato, declinato attraverso dieci composizioni dello stesso Morpurgo. L’intento è quello di trovare un equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione dal momento che, per esplicita ammissione dello stesso pianista, i tre alternano momenti di assoluta coerenza ad una struttura data a momenti in cui si svincolano da qualsivoglia legame e si lanciano in improvvisazioni totali. Evidentemente i momenti più interessanti sono proprio questi in cui Morpurgo e compagni si lasciano andare con risultati eccellenti sia per la bravura del leader sia per quella compattezza ed intesa batteria-contrabbasso cui prima si faceva riferimento. Quindi un disco non facile ma di sicuro interesse.
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Nel secondo album – “Mesmer” – Morpurgo è ancora in trio ma con Giovanni Maier al contrabbasso e Pietro Ricci alla batteria; l’album esce per la ‘Palomar records’ una piccola etichetta fondata e curata da Giovanni Maier, che lavora esclusivamente in autoproduzione e con tirature limitate. Questo “Mesmer” è dedicato quasi totalmente alle musiche di Paul Motian in quanto sei delle composizioni presentate sono del batterista (la settima è invece di Charlie Haden). Il risultato è più che eccellente data da un canto la valenza delle composizioni che lumeggiano al meglio la capacità di scrittura di Motian spesso non adeguatamente valorizzata, dall’altro la capacità del trio di renderle proprie e quindi di reinterpretarle in modo personale ma pertinente. Si parte con “Psalm” title track dell’omonimo album registrato nel dicembre 1981 dal gruppo comprendente Paul Motian, Bill Frisell alla chitarra, Joe Lovano al sax tenore, Billy Drewes ai sax tenore e alto, Ed Schuller al basso e si chiude con “Mesmer” tratto dall’album “Garden of Eden” del 2004. Per tutta la durata dell’album i tra si muovono quasi con cautela, rifuggendo da qualsivoglia esibizione di bravura tecnica e affidandosi molto all’interpretazione. Di qui una musica suggestiva, misurata, spesso eseguita per sottrazione senza che però venga compressa l’abilità individuale. Si ascolti ad esempio il magnifico duetto basso batteria in “Morpion” tratto dall’album “One Time Out” (Blue Note 1987).

Marius Neset, London Sinfonietta – “Viaduct” – ACT 9048-2
Il sassofonista norvegese Marius Neset (Bergen 1985) si ripresenta al pubblico del jazz alla testa del suo gruppo anglo-scandinavo (Ivo Neame piano, Jim Hart vibrafono, marimba e percussioni, Petter Eldh basso, Anton Eger batteria e percussioni) con il robusto supporto della London Sinfonietta, complesso di ben 19 elementi diretta da Geoffrey Paterson con cui Neset, sempre per la ACT, aveva già inciso nel 2016 l’album “Snowmelt”. Neset è a ben ragione considerato uno dei migliori jazzisti delle nuove generazioni tanto che la rivista Downbeat lo considera non solo uno dei più eccitanti artisti jazz del momento ma anche un musicista di straordinaria preparazione tecnica dotato altresì di una felice vena compositiva. Doti, queste, che risaltano evidenti anche da quest’ultimo album, contenente un paio di suite intitolate rispettivamente “Viaduct part 1” in 6 capitoli e “Viaduct part.2” in 4 elementi. Originariamente commissionata per il concerto d’apertura del Kongsberg Jazz Festival nel 2018, “Viaduct” ha offerto a Neset la fantastica opportunità di mostrare le molteplici facce del suo stile, così composito, ricco di richiami, colorito e soprattutto capace di convogliare numerosi input provenienti da fonti diverse. Il suo sassofono è sempre preciso, con un sound potente sia al tenore sia al soprano, che richiama sia il migliore Brecker sia il grandissimo Garbarek, capace di dettare le atmosfere che si respirano per tutta la durata dell’album. Certo, la bravura di Neset come sassofonista è indubbia, ma non sarebbe stata sufficiente a determinare la bontà dell’album se non fosse stata declinata attraverso le dieci composizioni originali dello stesso Neset che riescono a coniugare il jazz propriamente inteso, ricco quindi anche di improvvisazione, con la musica classica contemporanea.

Enrico Pieranunzi – “Frame” – Cam J 7955 2
Enrico Pieranunzi è musicista colto e in quanto tale ‘aperto’ verso tutte le altre forme artistiche. Nel passato, anche recente, ne abbiamo avuto prova evidente riscontrando la sua profonda predilezione per il cinema e le colonne sonore. Si ricordi, ad esempio, il concerto organizzato il 20 febbraio scorso dall’Ambasciata d’Italia e dall’Istituto di Cultura Italiana a Washington in occasione del centenario della nascita di Federico Fellini, con Enrico Pieranunzi, accompagnato da Luca Bulgarelli al basso e da Mauro Beggio alla batteria, impegnato in un repertorio interamente dedicato alle colonne sonore del maestro romagnolo. In questo album l’interesse del pianista romano è rivolto alle arti figurative: immaginatevi una galleria d’arte in cui sono esposti i capolavori di Pollock, Hopper, Picasso, Paul Klee, Rothko, Matisse e Mondrian; Enrico si sofferma dinnanzi ad ogni quadro e disegna, in splendida solitudine, con le note del pianoforte o alla celesta, un affresco da inserire in una ipotetica ‘cornice’, “Frame” per l’appunto. L’effetto è quanto meno intrigante: Pieranunzi non si smentisce e la sua arte pianistica rifulge sempre luminosa sia che si avventuri in stupefacenti e trascinanti avventure magari con illustri partner d’oltre oceano, sia, come in questo caso, che si rivolga di più al suo coté intimista regalandoci una serie di bozzetti che illustrano meglio di mille parole le sue riflessioni determinate dai pittori sopra citati. Un’ultima considerazione: capita sempre più spesso che la data di pubblicazione di un disco sia di molto posteriore alla sua incisione; ad esempio questo album è stato registrato nel 2012 ma pubblicato solo nel febbraio di questo non felicissimo 2020.

Andreas Schaerer, Hildegard Lernt Fliegen – “The Waves Are Rising, Dear!
Già altre volte, questa testata si è occupata di Andreas Schaerer sottolineandone le innumerevoli virtù e la capacità di interpretare più parti in commedia dal momento che la sua arte gli consente di fare non solo ciò che hanno fatto i più grandi vocalist del jazz, ma di esibirsi come “beatboxer”, di imitare vari strumenti e di improvvisare con uno scat inventivo e trascinante. Questa volta lo svizzero di Berna si presenta alla testa del suo gruppo “Hildegard Lernt Fliegen” il più creativo e originale progetto musicale che la Svizzera abbia potuto offrire in questi ultimi anni. In effetti una performance del gruppo è sempre qualcosa di straordinario dal momento che è difficile stabilire se si tratti di un concerto jazz, rock, rap, di cabaret, di musica da circo (si ascolti, ad esempio il brano d’apertura “Dripping Pint”) con incursioni sempre misurate anche nel mondo dell’elettronica. Ad assecondare le acrobazie vocali di Andreas cinque solisti di eccellenza quali il trombonista e tubista Andreas Tschopp, i sassofonisti Matthias Wenger e Benedikt Reising (che si ascoltano rispettivamente anche al flauto e al clarinetto basso), il bassista Marco Muller e Christoph Steiner alla batteria e alla marimba. Il tutto rinforzato, purtroppo in un solo brano “Embraced By The Earth” dalla presenza del celebrato fisarmonicista francese Vincent Peirani e dalla intensa voce di Jessana Némitz. Così la musica scorre impetuosa, tutt’altro che banale, lontana da qualsivoglia piacevolezza superficiale in cui l’ascoltatore è coinvolto nella sua totalità, mente e corpo, emozione e intelletto. Da questo punto di vista è difficile scegliere in particolare qualche brano anche se personalmente ho maggiormente apprezzato il già citato pezzo in cui si ascoltano anche Peirani e la Némitz e il brano di chiusura “Love Warrior: Part I-IV” che si muove su coordinate più spiccatamente jazzistiche.

Ian Shaw – “Integrity” – abeat 01
Il cantante, pianista e songwriter inglese Ian Shaw è considerato, insieme a Mark Murphy e Kurt Elling, uno dei migliori cantanti jazz di sesso maschile di tutto il mondo. Lo evidenziano i tanti riconoscimenti ottenuti in questi anni: miglior Vocalist Jazz ai BBC Jazz Awards nel 2007 e nel 2004, e nomination nella categoria Miglior Vocalist del Regno Unito ai JazzFM Awards nel 2013… In questo album Ian è accompagnato da un trio italiano composto da Alessandro Di Liberto al piano, Tommaso Scannapieco al basso ed Enzo Zirilli alla batteria. In programma accanto ad alcuni grandi classici ‘leggeri’ come “People”, cavallo di battaglia di Barbara Streisand dal film “Funny girl” del 1964 (arrangiato per l’occasione da Di Liberto), e “Smile” di Charlie Chaplin arrangiata da Enzo Zirilli, ecco alcuni standards del jazz tra i meno battuti come “Use me” di Bill Withers che chiude l’intero disco. In tutti i brani risalta evidente il ruolo svolto dagli strumentisti che riescono a intessere un tappeto ritmico-armonico in cui si inserisce con assoluta pertinenza la voce di Ian Shaw che, dal canto suo, evidenzia una maturità espressiva non comune. Di solito quando si ascolta un disco il cui leader è un cantante (indipendentemente dal sesso) la formula è quella del vocalist con accompagnamento. In questo caso la situazione è completamente diversa in quanto il gruppo appare perfettamente coeso e si muove all’unisono dando ad ognuno la possibilità di mettersi in evidenza. Certo, Ian Shaw è la stella dell’album e la sua prestazione è assolutamente all’altezza dei suoi precedenti album che hanno giustificato, nel tempo, i riconoscimenti cui in apertura si faceva riferimento. I brani sono tutti notevoli con una preferenza, del tutto personale, per il celeberrimo “Smile” di Charlie Chaplin.

Djime Sissoko, Djama Djigui – “Kabako” – Caligola 2272
Tutti conosciamo Baba Sissoko; ebbene Djime è il di lui nipote che vive a Bamako in Mali. Come si dice buon sangue non mente e anche questo artista è degno della massima attenzione. Si badi bene, però: la sua musica non è quella sorta di jazz fortemente contaminato dall’Africa che ha reso famoso Baba; qui siamo sul terreno della musica africana, meglio maliana, lontana da qualsivoglia contaminazione e proprio per questo di grande fascino. Djime si presenta alla testa del suo gruppo, “Djama Djigui” una formazione assolutamente particolare in quanto composta da fratelli, cugini, vicini che sono cresciuti assieme, discendenti della grande famiglia dei Griot Sissoko, tra cui ovviamente il più volte citato Baba. L’album, oltre della maestria del leader al ngoni (strumento a corda proprio dell’Africa occidentale) e al tama (strumento a percussione sempre dell’Africa occidentale) e dello straordinario affiatamento del gruppo, si avvale della splendida voce della moglie di Djime, Aichata Bah. Oltre a quella di Aichata, si possono altresì ascoltare le voci di Baba in “Ma Kono Djarabi” e in “Djumara Djeli”, di Sadibuou Kanté in “Djuku Ya Magnie” e di Samba Tourè in “Anka Miri”, tutti in veste di ospiti. Particolarmente significativo il brano che chiude l’album,”Tama solo”, in cui Djime Sissoko evidenzia tutto il suo virtuosismo per l’appunto al tama. “Kabako”, oramai l’avrete già capito, ci conduce in un meraviglioso viaggio attraverso il Mali grazie alla sua musica che affonda le proprie radici nella tradizione di quella terra.

Warren Wolf – “Reincarnation” – Mack Avenue1169
L’ afroamericano Warren Wolf, anche attraverso i suoi quattro precedenti album pubblicati per la Mack Avenue tra il 2005 e il 2016, si è affermato come uno dei migliori vibrafonisti degli ultimi anni e in questa nuova incisione ha chiamato accanto a sé giovani sideman e alcuni veterani. Con lui ecco quindi Brett Williams al Fender Rhodes ed al pianoforte, Richie Godds al basso elettrico e su “Livin’ the Good Life” al contrabbasso, Mark Whitfeld su due brani alla chitarra, Carroll “CV” Dashell III alla batteria ed alle percussioni e due cantanti che si alternano: Imani-Grace Cooper e Marcellus “bassman” Shepard. L’album è sostanzialmente incentrato sul R&B, sul soul e su una fusion di qualità, mentre dal punto di vista dell’ispirazione, il fattore dominante è l’amore declinato attraverso le sue mille sfaccettature; è lo stesso Wolf a chiarirlo: “Questo è un album sull’amore e la musica che mi fa stare bene – spiega Wolf – A questo punto della mia carriera, volevo solo dimostrare che posso essere versatile ed esprimermi in molti stili diversi”. Così ad esempio “For Ma” è dedicato alla madre, Celeste Wolf, deceduta nel 2015, “Sebastian e Zoë” è un delicato omaggio ai suoi due bambini più piccoli, mentre “Come And Dance With Me” è stata scritta per la moglie che è una ballerina. Da quanto sin qui detto, risulta evidente come l’album riuscirà particolarmente gradito a quanti amano la black music nella sua accezione più ampia. Tuttavia, ad opinione del vostro recensore, uno dei pezzi meglio riusciti è “Sebastian and Zoe” in cui Shepard , con espliciti riferimenti a Barry White, dialoga con Imani-Grace Cooper facendo rivivere quelle atmosfere che hanno segnato per molti di noi gli anni ’70.

“Laura Avanzolini Sings “Laura Avanzolini Sings Bacharach” è il nuovo disco pubblicato dalla cantante Laura Avanzolini per Dodicilune Dischi” è il nuovo disco pubblicato dalla cantante Laura Avanzolini

Laura Avanzolini pubblica il suo nuovo lavoro per Dodicilune Dischi, nella collana editoriale Koinè. ” Laura Avanzolini Sings Bacharach” è il titolo del disco dedicato al songbook di Burt Bacharach, uno dei più intriganti e geniali autori di canzoni del nostro tempo, canzoni rese immortali dall’interpretazione di voci straordinarie come Dionne Warwick, Aretha Franklin, Barbra Streisand, Luther Vandross.

I dieci brani scelti dalla cantante (Anyone Who Had a Heart, Close to You, The Look of Love, Wives and Lovers, That’s What Friends Are For, I’ll Never Fall in Love Again, The April Fools, I Say a Little Prayer, Raindrops Keep Fallin’ on My Head, Baby It’s You), sono stati arrangiati da Michele Francesconi appositamente per il settetto che si può ascoltare nel disco. La voce di Laura Avanzolini è affiancata da Giacomo Uncini (tromba e flicorno), Antonangelo Giudice (sax tenore e clarinetto), Paolo Del Papa(trombone), Walter Pignotti (chitarra e banjo), Tiziano Negrello (contrabbasso), Michele Sperandio (batteria).
«In questi ultimi anni molti musicisti jazz si sono dedicati alla rilettura di materiale di provenienza pop, operazione spesso rivelatasi poco produttiva e soprattutto rischiosa», sottolinea Gianna Montecalvo nelle note di copertina. «In queste contaminazioni spesso la percezione è quella di ascoltare progetti forzati nell’intento di “sembrare jazz” e di avere come effetto una riduzione della forza espressiva ed evocativa della melodia della canzone pop. Confrontandosi con i brani di Burt Bacharach, si può aggiungere altro a ciò che appare già perfetto? La risposta è in questo lavoro che “profuma” di sincera espressività jazz e forte di una serie di elementi: gli arrangiamenti eleganti, moderni ed ispirati del bravissimo Michele Francesconi, una sezione ritmica solida e compatta, una vivace sezione fiati che costituisce il vero tappeto armonico e contrappuntistico del disco su cui si muove la voce flui da, sicura, intensa di Laura Avanzolini. Ogni brano meriterebbe una attenta analisi sul “come” ogni melodia sia stata enfatizzata, valorizzata dal continuo intreccio della voce con i fiati e dall’attento, funzionale e variegato comping della chitarra», prosegue la Montecalvo. «Ascoltate con attenzione l’intro vocale percussiva di Wives and Lovers, il dialogo della voce con i fiati nell’esposizione del tema e il lungo interludio con gli scambi unisono voce-tromba e voce-trombone (il bravissimo Paolo Del Papa) dove Laura si distingue per la cura dei suoni vocali orchestrali. Il lirismo di Michele Francesconi si afferma prepotente nel bellissimo ed inaspettato corale di That’s What Friends Are For, concepito come ponte tra le due esposizioni del tema ed ancora l’ironica I Say a Little Prayer preceduta dal solo di batteria di Michele Sperandio, o ancora l’intensa esposizione tematica di Raindrops Keep Fallin’ On My Head con la chitarra di Walter Pignotti, l’intro di contrabbasso di Tiziano Negrello in The Look of Love impreziosito dalla verve di Giacomo Uncini sull’ostinato background dei fiati e della voce e le numerose e belle sortite improvvisative di Antonangelo Giudice al sax tenore. La grana vocale di Laura Avanzolini è di rara bellezza, sincera e rassicurante, vicina alla tradizione e nello stesso tempo moderna e lontana da un certo manierismo di molte giovani jazz vocalist. Un disco da ascoltare e riascoltare più volte e da applaudire (spero) in molti live.»

Laura Avanzolini, classe 1985, si avvicina giovanissima alla musica grazie allo studio del pianoforte e della chitarra, per poi approdare allo studio del canto e del jazz con Martina Grossi. Diplomata con il massimo dei voti e la lode in Canto Jazz al Conservatorio “Gioacchino Rossini” di Pesaro sotto la guida di Bruno Tommaso, ha studiato al Biennio di Canto Jazz del Conservatorio “G. Martini” di Bologna con Diana Torto. Parallelamente studia inglese e spagnolo grazie alla laurea in “Comunicazione Interlinguistica Applicata”, conseguita presso la Sslmit di Forlì. Approfondisce l’universo della voce grazie al Corso Universitario di Alto Perfezionamento in Vocologia Artistica. Ha studiato con Roberta Gambarini, Rachel Gould, John Taylor, Joey Blake, Maria Pia De Vito, Cristina Zavalloni, Amy London, Cinzia Spata, Sheila Jordan, Cameron Brown. Insegna canto jazz presso il Conservatorio “J. Tomadini” di Udine. Insegna canto jazz presso i corsi pre-accademici del Conservatorio “B. Maderna” di Cesena (Fc). Ha inciso “Skylark” (Zone di Musica, 2013), insieme a Michele Francesconi, Giacomo Dominici e Marco Frattini. Dal 2011 collabora con la Colours Jazz Orchestra diretta dal M° Massimo Morganti, con la quale ha inciso il disco “Quando Mi Innamoro In Samba” (Egea, 2013). Dal 2014 collabora con Fabio Petretti e Daniele Santimone, con i quali ha inciso “I’m all smiles”, uscito nel 2016 per l’etichetta Dodicilune. Nel 2016 ha inciso “Songs” in duo con Michele Francesconi: il disco raccoglie i brani presentati nella lezione-concerto “Vi racconto una song” ed è stato pubblicato da Alfa Music nel 2017.

“Laura Avanzolini sings Bacharach” è distribuito in Italia e all’estero da Ird e nei principali store on line da Believe Digital.

Nei luoghi storici della suggestiva città di Gubbio torna il Festival Jazz Gubbio No Borders

Nella città ducale di Gubbio dal 17 agosto al 1 settembre 2019 si terrà la 18esima edizione del Festival jazz  Gubbio No Borders.
Organizzato dall’Associazione Jazz Club Gubbio con la direzione artistica di Luigi Filippini, la manifestazione è divenuta uno degli eventi più attesi dell’estate umbra, con una notevole affluenza di pubblico e ospitando ogni anno grandi esponenti del jazz nazionale. Protagonisti di questa edizione 2019 saranno sicuramente i luoghi storici della Città grazie alla preziosa partnership con il Polo Museale dell’Umbria: il Palazzo Ducale, antica residenza estiva di Federico da Montefeltro, luogo dalla straordinaria bellezza rinascimentale che spicca nell’architettura prevalentemente medievale di Gubbio, il suggestivo Teatro Romano che risale al 20 a.c., il Cortile della Società Generale Operaia di Mutuo Soccorso del Palazzo Benvenuti nel quartiere San Martino, il più antico della Città. Varie ere storiche esaltate architettonicamente che svettano sul paesaggio naturalistico di Gubbio, luogo dal fascino irresistibile che ogni anno richiama nell’Alta Umbria migliaia di turisti.
Fondamentale il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia che ha finanziato l’alta qualità di questa 18 esima edizione, che presenta in cartellone nomi illustri tra cui il pianistaDanilo Rea, il trombettista Fabrizio Bosso, il sassofonista Javier Girotto, il batterista Lorenzo Tucci e il bassista Massimo Moriconi.

Dopo il grande successo e il tutto esaurito dello scorso anno, con studenti provenienti da tutta Italia, tornano le No Borders Masterclass dirette da Leonardo Radicchi e Andrea Angeloni, che si sono distinte sia per l’illustre corpo docenti formato da alcuni tra i jazzisti di punta del panorama nazionale, tra cui Francesco Diodati, Cristiano Arcelli e Gabriele Evangelista, sia per l’elemento distintivo della didattica strutturata in lezioni individuali, che consente ad ogni studente una esperienza personalizzata sulle singole esigenze di apprendimento e perfezionamento.
Il programma completo è presente al link http://www.facebook.com/nobordersmasterclass
Per info e iscrizioni (costo agevolato fino al 15 giugno): masterclass.noborders@gmail.com – tel. 342.6858424 oppure 334.8534002.

Riconosciuto a livello nazionale, il Gubbio No Borders negli anni ha portato nella Città di Gubbio tanti protagonisti del panorama jazz italiano e internazionale.
Quest’anno ad aprire la manifestazione, sabato 17 agosto alle 21.30 nella splendida cornice del Teatro Romano, sarà Danilo Rea, uno dei pianisti più amati in Italia in ambito jazz e pop: lo hanno voluto accanto a sé celebri artisti come Mina, Gino Paoli, Pino Daniele, Domenico Modugno, Claudio Baglioni, Fiorella Mannoia, Riccardo Cocciante, Renato Zero, Gianni Morandi e Adriano Celentano. Il suo talento lo ha portato ad affermarsi anche sulla scena internazionale suonando in tutto il mondo al fianco dei più grandi nomi del jazz come Chet Baker, Lee Konitz, Steve Grossman, Phil Woods, Michael Brecker, Joe Lovano, Gato Barbieri, Brad Mehldau, Michel Camilo e il Premio Oscar Luis Bacalov.
Insieme al trio completato dal noto contrabbassista Ares Tavolazzi e dal batterista Ellade Bandini, Rea interpreterà con il suo inconfondibile stile melodico alcuni brani celebri – tra cui alcune “perle” dei Beatles, e darà prova della sua grande raffinatezza come improvvisatore.

Mercoledì 21 agosto alle 21.30 nel celebre Palazzo Ducale di Gubbio un altro appuntamento con i grandi del jazz italiano: il batterista Lorenzo Tucci, il trombettista Fabrizio Bosso, il sassofonistaJavier Girotto e l’hammondista Luca Mannutza. Quattro musicisti d’eccezione e molto amatidal grande pubblico: Lorenzo Tucci ha suonato in tutto il mondo collaborando con i migliori musicisti jazz contemporanei (tra cui Tony Scott, George Garzone, Mark Turner, Emmanuel Bex, Danilo Rea, Enrico Pieranunzi, Enrico Rava, Stefano Di Battista, Dado Moroni, Rosario Giuliani); l’acclamato Javier Girotto è il fondatore degli amatissimi Aires Tango, e Fabrizio Bosso è uno dei trombettisti di punta della musica italiana: più volte è stato invitato a calcare il palco del Festival di Sanremo insieme aSergio Cammariere, Nina Zilli, Simona Molinari e Raphael Gualazzi,e si è esibito nelle location più prestigiose a livello internazionale sia come solista insieme a grandi direttori d’orchestra come Wayne Marshall o Maria Schneider, sia con la London Symphony Orchestra, sia con formazioni a suo nome.
Il bellissimo Palazzo Ducale ospiterà anche il concerto di mercoledì 28 agosto, sempre alle 21.30: sul palco Massimo Moriconi, una vera e propria icona della musica italiana, e “the new voice talent” Emila Zamuner, con il progetto “Duets” che celebra le canzoni tratte dal songbook americano ed italiano, esaltando la maestria musicale dei due musicisti.
Celebre bassista di Mina, con cui ha inciso ben 34 album, Massimo Moriconi è uno dei musicisti più richiesti in Italia.Oltre ad aver vinto il referendum nazionale di Guitar Club come miglior contrabbassista e come miglior bassista di sala di registrazione, si è aggiudicato anche il referendum della rivista “Chitarre” come miglior bassista jazz-fusion. Nella sua carriera ha registrato oltre 350 dischi, e si è interfacciato con autentici miti tra cui Chet Baker, Billy Cobham, e Lee Konitz. In Italia conta moltissime collaborazioni tra cui quelle con Armando Trovajoli, Lelio Luttazzi, Fabio Concato, Fiorella Mannoia e Franco Califano.

Sarà il quartiere storico di San Martino, ubicato nel cuore della Città, ad ospitare l’ultimo concerto dell’edizione 2019 del Festival: domenica 1 settembre alle 21.30 nel Cortile della Società Generale Operaia di Mutuo Soccorso si terrà il concerto “No BordersMeet Up” con i 9 docenti delle No BordersMasterclass: i chitarristi Francesco Diodati e Paolo Ceccarelli, i sassofonisti Cristiano Arcelli e Leonardo Radicchi, il trombonista Andrea Angeloni, il contrabbassista Gabriele Evangelista, la cantante Marta Raviglia, il batterista Marco Valeri, il pianista Alessandro Giachero. Insieme a loro, si esibiranno gli studenti delle Masterclass.

Info e biglietteria: Associazione Jazz Club Gubbio: tel. 347.8283783 – 075.9220693.

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Facebook: Gubbio No Borders – No Borders Masterclass
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