Ciao Dino “gran signore del jazz”

Se n’è andato anche lui dopo una vita straordinaria, dedicata alla musica: all’età di 94 anni ci ha lasciati Dino Piana uno degli artisti che ha contribuito in primissima persona con il suo trombone a scrivere la storia del jazz italiano. Anni attraversati con straordinaria raffinatezza, leggiadria, gentilezza. In effetti si può benissimo essere grandi musicisti senza per questo essere particolarmente simpatici: bene Dino Piana ha invece rappresentato quel che nel mondo “normale” si intende “Un vero signore”.

E per un momento lasciamo da parte i suoi meriti musicali per soffermarci sul Piana uomo: l’ho conosciuto parecchi anni fa ed una volta ho avuto l’onore di ospitarlo nel salotto di casa mia, assieme al figlio Franco, per una interessante chiacchierata sullo stato di salute del jazz italiano. L’ho sempre trovato, oltre che di una innata ed invidiabile eleganza, sempre disponibile, cortese, con il sorriso sulle labbra, bendisposto verso tutti… e soprattutto contento della vita di musicista. Talmente contento che queste qualità le ha trasmesse al figlio Franco, anch’egli persona e musicista di assoluto livello, al quale vanno le più sentite condoglianze mie personali e di tutta la redazione di “A proposito di jazz”… senza dimenticare la compagna di una vita che l’ha sempre sostenuto in questa innata passione.
Passione che si può ben riassumere in una frase che Dino pronunciò nel corso di un’intervista rilasciataci nel 2010: «Ti posso dire che io vivo la performance sempre allo stesso modo, e cioè, quando io vado a fare un concerto sono in uno stato… di follia. È una follia, una gioia, che diventano quasi un… un malessere, ecco». E per quei quattro o cinque che non conoscono Dino Piana, cerchiamo di riassumere in poche righe una carriera di oltre sessant’anni… Dino inizia il suo cammino nel 1959 quando si presenta al concorso radiofonico “La coppa del Jazz”, mettendosi immediatamente in luce come solista. Quindi entra nel quintetto Basso-Valdambrini e nelle orchestre radiofoniche e televisive, continuando l’attività jazzistica. Nella sua lunga carriera prende parte a numerosi festival nazionali ed internazionali fra cui: Comblain-la-Tour, Lugano, Berlino, Lubiana, Nizza… nonché a numerosi concerti per la RTF a Parigi, per la RTB a Bruxelles, per l’UER di Stoccolma, Oslo, Barcellona, Londra, Copenaghen. Ovviamente, sono  innumerevoli le collaborazioni con straordinari musicisti quali, tanto per fare qualche nome, Chet Baker, Frank Rosolino, Slide Hampton, Kenny Klarke, Charles Mingus, Pedro Iturralde, Paco de Lucia, George Coleman, Kay Winding, con il quale ha inciso il disco “Duo Bones”. Suona nelle Big Band di Thad Jones, Mel Lewis, Bob Brookmeyer. Il 12 maggio 1993  si esibisce in una reunion del sestetto “Basso-Valdambrini” alla Town Hall di New York.
Parallelamente, molti sono i dischi in cui è possibile ascoltarlo, sia come leader sia come side man; tra gli ultimi: “Reflections” a nome Dino & Franco Piana Ensemble e soprattutto “Al gir dal bughi” (il giro del Boogie) registrato nel 2019.
Ciao Dino chissà quante belle orchestre troverai lassù.

Gerlando Gatto

Enrico Rava: lo scrittore friulano Valerio Marchi intervista il grande trombettista

Lo scorso 23 giugno, alla rassegna “Borghi Swing” by Udin&Jazz, organizzata da Euritmica e Comune di Marano Lagunare, in provincia di Udine, Enrico Rava avrebbe dovuto esibirsi con la sua tromba e il suo flicorno assieme a Francesco Diodati (chitarra), Gabriele Evangelista (contrabbasso) ed Enrico Morello (batteria). Purtroppo, per cause di forza maggiore (un’indisposizione dell’artista), il concerto è stato annullato. Crediamo comunque di far cosa gradita pubblicando l’intervista che Rava ci ha concesso qualche giorno prima, augurandoci di cuore di poterlo rivedere presto in Friuli Venezia Giulia. (Valerio Marchi)

-Maestro, che rapporto ha con il Friuli?
«Bellissimo! A parte il fatto che mia moglie ha origini di Sacile, sono amico di musicisti friulani straordinari: da U.T. Gandhi a Francesco Bearzatti, ma anche Mirko Cisilino – che reputo il trombettista italiano più interessante, e che fra l’altro non è solo trombettista – e poi Giovanni Maier… Non solo, ma in Friuli nacque uno dei gruppi che più ho amato e che è durato di più: gli Electric Five, di cui fecero parte anche Gandhi, che ne era la colonna portante, e Maier. Poi ho altri cari amici, ad esempio Checco Altan ad Aquileia, e mi piacciono infinitamente la natura e il cibo».

Trova florido il panorama jazzistico del nostro territorio?
«Sì, ma sia per questa che per altre regioni italiane che hanno un’attività molto viva, avviene spesso che ciò che si sviluppa da una parte – mi riferisco sempre al jazz – rimane più o meno lì. Anche in Calabria, in Sardegna o in Sicilia, ad esempio, ci sono eventi notevoli e musicisti giovani e fantastici che meriterebbero una fama ben più larga. Si può avere un successo strepitoso a Udine o a Palermo, per capirci, ma poi…»

-E lei come si spiega questo fenomeno?
«Non so, forse abbiamo ancora un retaggio dell’Italia dei Comuni, molte cose fanno molta fatica a varcare i confini. Gli unici luoghi che fanno più notizia a livello nazionale sono Milano e Roma, ma ciononostante nel nostro Paese manca, di fatto, un vero e proprio centro: come, ad esempio, Parigi per la Francia, Londra per l’Inghilterra o New York per gli USA, dove tutto ciò che avviene in quegli Stati in qualche modo si convoglia lì: vai lì e prima o poi conosci tutti».

-La sua fortuna infatti fu proprio quella di vivere a New York da giovane.
«Assolutamente sì. I dieci anni trascorsi a New York, a partire dai miei 24 anni in poi, sono stati fondamentali».

-Il Seminario che lei tiene da tanti anni a Siena sopperisce in qualche misura all’inconveniente tutto italiano di cui abbiamo appena parlato?
«È almeno l’occasione per conoscere musicisti strepitosi che altrimenti, forse, non conoscerei mai, a meno di non fare un continuo “Grand Tour” per l’Italia… e infatti quasi tutti i miei gruppi sono nati dall’esperienza di Siena. Tornando ai musicisti friulani, lo stesso Giovanni Maier lo conobbi lì; fu lui a farmi conoscere U.T. Gandhi e poi nacquero gli Electric Five».

-Il Friuli, e più in generale il Friuli Venezia Giulia e l’Italia, potrebbero avere dunque un maggior numero di celebrità internazionali?
«Abbiamo qualche jazzista italiano “iconico”, fra cui il sottoscritto, ma per tanti altri musicisti, giovani e meno giovani, in Friuli come altrove, è difficilissimo agguantare quello spazio che meriterebbero; così, da un certo punto di vista, essi rimangono sempre “promesse per il futuro” pur essendo realtà ben concrete e di qualità. Per non parlare delle formidabili musiciste!».

-In effetti il largo pubblico, al di là di nomi di primissimo piano come quelli di Rita Marcotulli o Stefania Tallini, non conosce molto del versante femminile.
«Già, ma emergono ragazze – Anaïs Drago, Evita Polidoro, Francesca Remigi, Sophia Tomelleri, solo per citarne alcune – che suonano benissimo, sono davvero eccezionali e ottengono anche riconoscimenti importanti. Ma di loro finalmente si inizia a parlare, e con la novità che portano si smuovono le acque e i media, il che ci aiuta a non cadere nella routine».

-E per lei la routine, a quasi 83 anni, rimane la principale nemica: giusto?
«Certo! La mia fortuna è di non essermi mai adagiato. Ho sempre bisogno di sorprese, da parte chi suona con me e da me stesso: per questo occorre che i componenti del mio gruppo abbiano una visione della musica vicino alla mia e la capacità di ascoltare, di comunicare quasi telepaticamente con una visione comune, con piena fiducia reciproca: quando tutto funziona bene, ognuno dà e riceve ciò di cui c’è bisogno per la creazione musicale. Senza rinunciare al proprio ego, ma senza prevaricare.

-Molte cose impreviste possono accadere, dunque, durante un concerto?
«Sì, la mia musica è molto libera. Io do una cornice, un canovaccio all’interno del quale ognuno è veramente libero, e quando c’è quella piena fiducia reciproca di cui parlavo tutto può svilupparsi al meglio, prendendo anche strade impensate. Non faccio mai una scaletta. Decido un primo pezzo, decido da dove si parte, poi dove vada a finire il concerto non lo so, perché dipende da tanti fattori: il suono, l’amplificazione, l’acustica, il pubblico, come stiamo noi, e così via…».

-Sembra facile… anzi no.
«Infatti non è facile. Ma per me non c’è nulla di peggio che sentire suonare un gruppo, anche di altissimo livello, che si limiti però ad una esibizione in cui ciascuno fa vedere la propria abilità senza costruire veramente assieme, senza quel legame perfetto che nasce dal collegamento diretto fra il nostro universo spirituale e l’equilibrio universale, fra la nostra armonia interiore e quella dell’universo. È una cosa difficile da spiegare, forse può far ridere qualcuno, ma è così. La musica non è matematica, è magia: ed è per questo che, nonostante l’età, continuo a suonare invece che dar da mangiare agli uccellini al parco».

-Una magia che il Covid ha alquanto limitato… Lei come ha vissuto il lungo periodo di pandemia?
«Il primo periodo bene: ho letto tantissimo – amo molto leggere – e ho riposato, mi sono esercitato, ho studiato lo strumento… (chi volesse approfondire può cliccare qui per leggere l’intervista di Gerlando Gatto a Rava, contenuta nel libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” n.d.r.). Poi durante l’estate ho suonato di nuovo parecchio dal vivo, sinché è cominciato il secondo periodo di pandemia che, anche a causa di alcuni acciacchi, ho vissuto molto peggio: come diceva Moravia, il problema dell’età non esiste, il vero problema sono le malattie dell’età… Anche di recente, per un serio problema di salute, ho dovuto rimanere tre mesi senza poter suonare; poi, dopo la convalescenza, mi sono esercitato un paio di settimane e la prima cosa che ho fatto è stata quella di registrare un CD – peraltro venuto benissimo – con il grande pianista americano Fred Hersch».

-E questo CD quando uscirà?
«A settembre».

-Diceva del suo amore per la lettura; ma lo stesso vale anche per l’ascolto della musica, di tutta la musica e non solo il jazz, giusto?
«Certo. Apprezzo moltissimo, ad esempio, i Rolling Stones, oppure i Queen, per non parlare dei Beatles… ma potrei continuare. Tutti geniali, incredibili. E questo vale anche per altri generi di musica e di interpreti».

Ci dispiace un po’ per gli uccellini al parco, ma speriamo proprio che debbano aspettare ancora a lungo…

Valerio Marchi

UN BALLO IN MASCHERINA

U.S.A. : Riccardo Muti, sul podio davanti alla Chicago Simphony Orchestra, si è rifiutato di modificare il termine “negri” nella concertazione di “Un Ballo in maschera di Giuseppe Verdi”. La frase incriminata è “s’appella Ulrica l’immondo sangue dei negri”.  Siamo d’accordo col Maestro. Di questo passo la Aida potrebbe essere sbianchettata e così il violento Otello, mentre Carmen la zingara di Bizet la si finirà per definire nomade.
L’anno scorso a Londra si era pensato di censurare pezzi di Madama Butterfly in base all’accusa di “colonialismo” (Pinkerton, turista sessuale? ) da parte del critico Roger Parker. Una provocazione che aveva suscitato molta eco e per contro rivendicazioni italiane della intoccabilità pucciniana.

Se si desse il la a tali “ristrutturazioni” si andrebbe a porre mano a “L’alfier nero” di Arrigo Boito, alla goffaggine dei turchi rossiniani, alla ilarità dell’Idolo cinese di Paisiello con la satira del napoletano sul trono di quel paese. Ma dai, non coltiviamo il talebano che è in noi con la scusa della cancel culture e del politically correct!
Un certo odore di fondamentalismo “linguistico” era stato avvertito nella stessa musica americana dove qualcuno aveva definito offensivo il “Negro dialect” della gershwiniana “Porgy and Bess”.

E dire che vari jazzisti di colore hanno ripreso temi dal film “Orfeu Negro”!
Il razzismo non si combatte creando un “cappotto” al vocabolario, (d/epurandone le parole, istituendo apartheid per i testi di lavori dell’ingegno storicamente dat(at)i.
Sarebbe ovviamente diverso se un certo linguaggio venisse usato oggi, in un contesto radicalmente diverso, dove certe forzature espressive non sono auspicabili. Nel caso della messinscena lirica è ormai ammessa ogni innovazione ma non ci si chieda, per carità, di attualizzare il capolavoro verdiano intitolandolo “Un ballo in mascherina”!

Amedeo Furfaro

Cos’è che luccica sul grande mare? È GradoJazz 2021 – dal 17 al 24 luglio a Grado (Go)

di Flaviano Bosco –

Lasciandoci alle spalle mesi davvero difficili e  guardando al prossimo futuro, la prima cosa che ci meritiamo è una bella vacanza “sole e mare” che ci faccia dimenticare le brutture della galera del lockdown: i locali chiusi, gli schermi dei computer, la claustrofobia nelle nostre case e il continuo bombardamento a tappeto di brutte notizie. Ora basta! L’unico obbligo per almeno quindici giorni deve essere quello di non dimenticare a casa l’olio solare, cappellino e occhiali da sole.
Dopo le giornate sul bagnasciuga per ritemprarci, servirebbe una sostanziosa, quotidiana dose di musica, il farmaco migliore per cancellare le nostre passate ubbie.
Sembra un’utopia, un luogo da sogno, una cosa del tutto irreale, ma un posto così esiste davvero: è l’isola che c’è.
Grado, la perla dell’Adriatico, da tre anni ospita quello che, per qualità e bellezze artistiche, può essere considerato uno dei più importanti festival Jazz dell’estate italiana.
Dobbiamo solo lasciarci affascinare dalle sue suggestioni, abbandonandoci ai suoni, alla brezza, alla risacca e al paesaggio ineguagliabile tra la luminosa laguna e il cielo che l’isola d’oro ci regala.
Non sono certo parole da ufficio di promozione turistica, Grado non ne ha quasi bisogno grazie alle sue bellezze e alla sua storia millenaria; poche altre spiagge possono annoverare antiche vestigia romane e basiliche paleocristiane con magnifici mosaici a pochi metri dalla sabbia dorata. Grado Jazz con la sua magia si inserisce perfettamente in questo contesto e anche qui non serve sforzarsi troppo in persuasioni occulte o trovate di marketing, basta dare un occhiata ai nomi degli artisti sul cartellone.
Cominciamo dal calibro più rilevante che ci permette attraverso la sua arte immortale e le parole delle sue canzoni di introdurci alla rassegna. Nemmeno Paolo Conte avrebbe bisogno di tante presentazioni, in realtà, ma non ci si stanca mai di dire che senza di lui in Italia il jazz non esisterebbe nemmeno. Sono state le sue canzoni a contrabbandare nella musica cosiddetta leggera e leggerissima gli accordi e i ritmi dello swing che la tradizione musicale italiana aveva contribuito a creare già nell’epoca dei pionieri della musica degenerata (Nick La Rocca, cornettista di origine siciliana, con la sua Original Dixiland Jazz Band fu il primo ad utilizzare il termine che dal 1918 definisce il genere). Certi capivano il Jazz, l’argenteria spariva, ladri di stelle di Jazz, così eravamo noi, così eravamo noi.
Con la sua orchestra di 11 elementi, l’avvocato di Asti dietro i suoi baffi e con le dita sulla tastiera, celebra ancora i 50 anni della sua Azzurro emblema della canzone italiana propriamente detta e universalmente conosciuta. Il programma di Grado Jazz sembra costruito a partire dai gusti di Conte: dal main stream del songbook classico afroamericano, alla musica brasiliana fino alle suggestioni della musica orientale e ancora dal pianismo più classico e sognante fino alle trombe levigate.
Si esibirà il 24 luglio in un luogo il cui nome da solo evoca le atmosfere e l’alchimia della sua poetica in musica: Parco delle Rose. Sembra fatto apposta per lui e le sue canzoni: sulla riva del mare, alla luce lunare, al ritmo delle onde che si infrangono placide sulla sabbia, non mancherà di certo nemmeno un gelato al limon… mentre un’altra estate passerà. Libertà e perline colorate. Ecco quello che io ti darò…
Dee Dee Bridgewater. È proprio tra le rose che sarà accolta anche una delle più splendide signore del Jazz, dalla grazia e dalla dolcezza impareggiabili unite ad una potenza vocale e ad una presenza scenica davvero sbalorditive. Sul palco delle Rose, il 18  luglio, presenterà, in esclusiva, il suo nuovo progetto musicale accompagnata da giovani talenti e dalla sua solita verve: Ma cos’è la luce piena di vertigine, sguardo di donna che ti fulmina, Come-di, come-di.

Brad Meldhau. Prodigio del pianoforte, ha smesso già da un po’ di essere quell’eterno enfant prodige della tastiera che riempiva le pagine dei rotocalchi. Meldhau si è lasciato alle spalle quell’immagine pubblica di ragazzotto americano evolvendosi in un musicista raffinatissimo, dalle doti interpretative rare e dal prezioso virtuosismo. Si presenta il 19 luglio con il suo leggendario trio che fece furori in tutto il mondo negli anni novanta e che ancora oggi non ha perso la voglia di sperimentare tra post rock, jazz fino alle allucinate visioni bibliche espresse dal leader nel misticheggiante album Finding Gabriel: Io sono qui, sono venuto a suonare, sono venuto ad amare e di nascosto a danzare…

È dedicata alla musica brasiliana una delle serate più attese della rassegna (17 luglio) che da anni presenta le novità più interessanti e la tradizione classica di quell’universo di suoni. A far da guida al pubblico un vecchio amico del festival Max De Tomassi di Radio 1 Rai (media partner ufficiale di GradoJazz, assieme a Radio 3 Rai e Rai FVG), conduttore di Stereo Notte e  già autore della trasmissione Brasil, oggi in Stereo Notte, che ha fatto conoscere al nostro paese le bellezze della musica Carioca.
Potremo ascoltare così la suadente voce di Mafalda Minnozzi Ambasciatrice della canzone italiana in Brasile e il contrario, nelle sue interpretazioni degli standard della Bossa Nova riletti attraverso il Jazz contemporaneo di New York che hanno trovato la sintesi nell’acclamato album Sensorial (2019).

Altro grosso calibro del festival in salsa piccante brasiliana è Ivan Lins che ha messo il proprio sigillo da decenni sul jazz mainstream contemporaneo del paese sudamericano. La sua vena romantica e morbida gli ha permesso di collaborare sia con gli scatenati cubani Irakere sia con il crooner confidenziale Michael Bublè portando nuovamente la musica brasiliana sul palcoscenico internazionale.
Il 21 luglio è la volta di Enrico Rava & Danilo Rea, un duo di autentici colossi della musica italiana. A ottant’anni suonati, è proprio il caso di dirlo, il trombettista triestino-piemontese può considerarsi il padre nobile dell’attuale scena musicale italiana per quanto riguarda gli artisti più ricercati. Se si guardano i componenti dei gruppi che nei suoi sessant’anni di carriera ha incrociato e lanciato si può affermare tranquillamente che li ha disegnati tutti lui soffiando nella sua tromba. Non da meno Danilo Rea che ha attraversato la storia della musica d’arte italiana dal progressive fusion più raffinato dei New Perigeo nei primi anni ‘80, passando per i favolosi Doctor 3, fino alle numerosissime collaborazioni con la creme della musica pop italiana da Mina a Celentano, da Domenico Modugno a Renato Zero e Claudio Baglioni.
David Bowie sarà omaggiato dal progetto musicale di un altro gigante del jazz di casa nostra. Paolo Fresu, con la sua straordinaria band che si avvale dell’incantevole voce di Petra Mangoni, rileggerà le meraviglie del Duca Bianco il 22 luglio. Forse non molti sanno che il battesimo musicale di Bowie avvenne nei Jazz club di Londra nei quali si faceva felicemente trascinare dal fratello. Fu questo che lo spinse a prendere lezione di Sassofono contralto, come dichiarò: Quello strumento divenne per me un emblema, un simbolo di libertà. Da allora non ne fece più a meno fino all’ultimo capolavoro Blackstar che al di là dei generi può essere considerato un’opera d’avanguardia. Fresu rilegge quella straordinaria avventura musicale attraverso la propria arte promettendo fuochi artificiali e che We can be heroes, Just for one day, We can be all us Just for one day.
Saltando ancora dall’altra parte del mondo, Grado Jazz offre ai suoi spettatori una serata interamente dedicata ai tesori musicali dell’Asia che in modo trasversale incontrano i suoni di derivazione afroamenricana. Ad aprire le danze, anzi i canti, il 23 luglio, le voci diplofoniche e triplofoniche degli Huun Huur Tu, maestri del canto laringeo degli sciamani della tundra siberiana e delle steppe mongole. Chi avesse familiarità con le spericolate arditezze della vertiginosa vocalità del compianto Demetrio Stratos può farsi una lontana idea delle meraviglie che proporranno questi musicisti che si accompagnano con gli antichi strumenti della loro tradizione.
All’Asia anteriore appartiene il mondo cui si ispira il giovane ma già acclamato pianista Tigran Hamasyan. Di origine armena ha un’idea totalmente mistica della musica come ricerca di spiritualità assoluta e trascendenza che possiamo associare liberamente al lavoro di ricerca interiore e di riflessione religiosa intrapreso da Brad Meldhau di cui dicevamo. L’arte dell’armeno è stata paragonata alla psicomagia di Alejandro Jodorowsky, quindi il Parco delle Rose deve prepararsi a qualcosa di inaudito dalla bellezza cristallina e straniante.
I manicaretti offerti da Grado Jazz non finiscono certo qui. Gli appassionati si troveranno come bambini in gelateria davanti a tutte quelle vaschette che promettono talmente tanta delizia da non saper quasi scegliere.
Al variegato all’amarena nel nostro giochino infantile potremmo associare la fantastica mostra del fotografo Luca A. d’Agostino e dell’AFIJ sui trent’anni di Udin&Jazz, matrice della rassegna gradese con immagini che restituiscono le emozioni di decenni di concerti (dal 17 al 24 luglio all’ex Cinema Cristallo).

Al gelato al caffè corrisponde il Black Water Music concerto all’alba davanti al mare di Claudio Cojaniz da assaporare nella luce del mattino (18 luglio).
Al sapore tutti frutti sarà decisamente la fanfara urbana Bandakadabra, che per le strade di Grado farà sentire i propri ottoni così come nella tradizione più autentica del Jazz.

Allo stesso modo, al fresco sapore di agrumi saranno le granite in musica distribuite negli angoli più suggestivi della città dal sassofono di Daniele D’Agaro o dalla tromba di Mirko Cisilino.
Necessariamente un gelato al limone servirà alla fine dell’escursione sulla Jazz Boat (20 luglio) attraverso la laguna accompagnati dalla migliore musica dal vivo e dalla degustazione di prodotti tipici di mare e dalle bollicine delle vigne friulane.
Black come il cioccolato più fragrante e goloso sarà il tributo alla fantastica voce soul di Aretha Franklin: Respect! Di Elena Vinci, Joy Jenkins & Michela Grilli (20 luglio).
Aristocratica zuppa inglese e malaga per i classici Standard interpretati dall’Ensemble Jazz del Conservatorio Tartini di Giovanni Maier (21 luglio, prima di Rava/rea).
Sapori sperimentali e d’avanguardia per la band di Michelangelo Scandroglio, giovane e intraprendente contrabbassista toscano tutto Pan di stelle e cacao al peperoncino (22 luglio prima di Fresu).
Un tripudio di creme colorate per i Laboratori musicali per bambini di PraticaMenteMusica e allora via libera a dolci scorpacciate in musica per i più piccoli al sapore di Puffo, gianduia, amarena, liquirizia e pistacchio. Tutte proposte che non sono per niente solo eventi collaterali ma deliziosi dessert che rendono le giornate di Grado Jazz ancora più sfiziose e colorate.
Ormai l’abbiamo capito, a Grado Jazz sarà un’estate torrida e affascinante con duemila enigmi nel jazz, ah non si capisce il motivo, nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche, Arrivederci all’Isola d’oro sotto la luna del Jazz.
Il programma dettagliato lo trovate nella web-gelateria www.euritmica.it !

Flaviano Bosco

Musica senza barriere: esce “Blu” del professore d’orchestra e multistrumentista Igor Caiazza

Sabato 15 maggio esce con Abeat Records “Blu”, l’album di Igor Caiazza, illustre professore d’orchestra che ha collaborato in Europa con i più grandi direttori come Muti, Abbado, Boulez, Maazel, Barenboim e Dudamel, e con compagini importanti come l’Orchestre de l’Opéra National de Paris, Orchestra e Filarmonica del Teatro Alla Scala, Orchestre National De France, Wiener Symphoniker, Philhamonia Orchestra di Londra, Mahler Chamber Orchestra.

Compositore e arrangiatore, percussionista classico e jazzista, Igor Caiazza ha scritto questo album con un grande desiderio di libertà rispetto ai rigidi canoni delle classificazioni tra i generi musicali. E, da un’aulica perfezione insita nell’essere musicista classico, è scaturita una ricerca gioiosa di un sound aperto, teso alla comunione tra i diversi stili e alla condivisione con l’ascoltatore.
Per colmare quel distacco emotivo che soprattutto i generi più colti e di nicchia impongono tra musicista e pubblico, Caiazza ha fortemente voluto accanto a sé grandi esponenti del jazz italiano, tra cui il trombettista Fabrizio Bosso e il sassofonista Javier Girotto: raffinati interpreti che sanno parlare direttamente all’anima di chi li ascolta. Le 8 composizioni presenti in “Blu” – disponibile in streaming e nei digital store al link https://backl.ink/146071115 – hanno indubbiamente una struttura jazzistica, contengono improvvisazioni e sono interpretate da jazzisti, ma l’aspetto è quello della canzone, di una musica più popolare, influenzata altresì dalla classica e da tutti i generi che accompagnano la vita di Igor Caiazza.

La carriera sinfonica di altissimo livello e le molteplici collaborazioni con grandi artisti come Bobby McFerrin, Placido Domingo, Lang Lang, Stefano Bollani, Mika, Zucchero, Elio, Andrea Bocelli, hanno influenzato il suo approccio alla musica.
Nel suo ensemble – completato dagli eccellenti Giacomo Riggi (Harpejjj), Gabriele Evangelista (contrabbasso), Amedeo Ariano (batteria), Carlo Fimiani (chitarra), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violino), Valentina Del Re (violino), Livia de Romanis (violoncello) – ha voluto riportare la concezione orchestrale della collettività, dove la performance individuale è utile soltanto in funzione dell’insieme. Così, dominando l’impulso di protagonismo, la musica diventa il reale centro dell’attenzione.
“Sono un percussionista, e quindi multistrumentista per definizione. Mi sento a disagio se etichettato o associato a uno strumento musicale in particolare – un vibrafono, una marimba, una batteria – cerco piuttosto di condividere la musica e le mie composizioni a prescindere dal
mezzo, e anzi se possibile preferisco utilizzare ogni volta uno strumento diverso.”

Dopo le esperienze discografiche in ambito orchestrale con Decca, Sony, Deutsche Grammophone e RAI arriva l’album “Blu” e dunque il sodalizio con una delle etichette di spicco del panorama jazz: Abeat Records.
“Il più freddo dei tre colori primari, il Blu domina il senso dell’udito, è il simbolo dello spazio, dell’armonia e dell’equilibrio. Rappresenta il mare, il cielo, il ghiaccio, è il colore della grande profondità e spinge all’introspezione, alla sensibilità, alla calma.”

Fabrizio Bosso: trumpet
Javier Girotto: soprano sax
Igor Caiazza: vibraphone
Giacomo Riggi: harpejji, melodica, e.piano
Gabriele Evangelista: double-bass
Amedeo Ariano: drums
Featuring Carlo Fimiani (guitar), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violin), Valentina Del Re (violin), Livia de Romanis (cello)

Recorded at LoaDistrict Studio, Roma Sound Engineer: Andrea Cutillo
Mixing: Andrea Cutillo at Auditorium Novecento, Napoli Mastering: Bob Fix

CONTATTI
www.igorcaiazza.com
Ufficio Stampa (Italy): Fiorenza Gherardi De Candei – www.fiorenzagherardi.com
email: info@fiorenzagherardi.com – tel. +39.328.1743236
Label: http://www.abeatrecords.com/catdetail.asp?IDprod=354

Luca Aquino “Gong”, con le tavole di Paladino e i testi di Terruzzi: RomaJazz rompe il Digiuno da spettacoli dal vivo Imposto dalla pandemia con le dirette dal Parco della Musica

Quando in redazione abbiamo ricevuto il comunicato stampa del RomaJazz Festival, 44a edizione, con l’annuncio che i concerti, per ovvi motivi, si sarebbero tenuti live ma in streaming… beh, devo confessare di aver arricciato il naso!
#jazzforchange è il claim scelto per questa edizione. E il cambiamento è epocale, nel senso che se l’adattamento è la chiave di ogni trasformazione, ecco che il direttore artistico Mario Ciampà deve aver fatto suo il concetto di “ottimismo della volontà” per allestire un intero festival in “virtual mood”, in questi difficili tempi di pandemia.
Devo dire che per una giornalista del mio stampo, un’Artemide sempre a caccia di emozioni vive e costantemente alla ricerca di percorsi sinestetici e di suggestioni, un concerto non in presenza rappresentava una bella incognita… quale sarebbe stato il mio approccio a questa modalità? Forse, l’unico modo sarebbe stato quello di considerare la realtà virtuale come mezzo di comunicazione, un ponte attraverso il quale vivere l’esperienza, focalizzando la mia attenzione sugli stimoli provenienti da questo scenario, semplicemente lasciandomi andare… senza pregiudizio alcuno.
Scorrendo il programma, il concerto che più ha solleticato la mia curiosità è senza dubbio quello del trombettista beneventano Luca Aquino, che il 17 novembre presentava in live streaming HD, in anteprima mondiale, il suo progetto “Gong. Il Suono dell’ultimo Round”, dedicato ai grandi personaggi della boxe mondiale, con il suo trio formato da Antonio Jasevoli alla chitarra elettrica, Pierpaolo Ranieri al basso e un ospite specialissimo: il franco-ivoriano Manu Katchè alla batteria, un’autentica leggenda che annovera tra le sue collaborazioni Jan Garbarek, Joe Satriani, Peter Gabriel, Joni Mitchell, i Pink Floyd, i Dire Straits, Sting, Pino Daniele, Stefano Bollani… e l’elenco potrebbe continuare.
A completare la rosa dei protagonisti di questo spettacolo multimediale, le opere visive inedite di Mimmo Paladino, tra i principali esponenti della Transavanguardia italiana, e i testi di Giorgio Terruzzi, valente giornalista sportivo e scrittore.
Le storie dei boxeur raccontate sono quelle di Primo Carnera, Muhammad Ali, Sugar Ray Robinson, Nicolino Locche, Carlos Monzon e Mike Tyson.

Il canovaccio dello spettacolo è molto semplice ma di grande impatto e si snoda attorno alle storie, anche personali, di questi miti dello sport. Le musiche originali accompagnano immagini d’epoca dei match più significativi affrontati dai protagonisti, le loro vittorie e le loro pesanti sconfitte, dai primi anni del ‘900 con il gigante di Sequals, Primo Carnera, per arrivare fino ai nostri tempi con il racconto dell’epopea di “Iron” Mike Tyson.
Sul ring virtuale dell’Auditorium Parco della Musica scorrono sul grande schermo le forme stilizzate ed evocative di Paladino, potenti nella loro essenzialità: sfondo blu notte e tratto bianco. È evidente, da parte del Maestro, la ricerca del segno, in un perfetto equilibrio tra significato e significante inserito in un processo digitale di smaterializzazione del ritratto in megapixel… Il Maestro non è nuovo a queste contaminazioni, mi riferisco all’imponente installazione “I Dormienti” composta da cinquanta sculture in terracotta – venti coccodrilli e trenta uomini – collocati nel 1999 nella undercroft della Roundhouse di Londra, con gli interventi musicali (sebbene sia parecchio riduttivo classificarli come “interventi musicali”) di Brian Eno.
Il talento nella scrittura di Giorgio Terruzzi traspare anche in questi racconti di vite da film quasi sempre senza happy ending… La struttura delle storie è reticolare e consequenziale ed ogni parola confluisce verso un apogeo che spesso, per contro, corrisponde alla fase discendente della carriera e della vita di questi grandi uomini.

Primo Carnera

La prima narrazione è dedicata ad uno dei miei conterranei più famosi: Primo Carnera, il colosso dai piedi d’argilla (due metri per 120 kg!) un guerriero leale, un’anima gentile e un uomo di carne e di valori profondamente radicati, che Aquino ha saputo rappresentare in musica attraverso una ballata dall’andamento solenne, che quasi pareva di udire sul palco il passo cadenzato e greve del gigante… La tromba di Luca ha un impatto timbrico onirico, evocativo e lui ha un’abilità pazzesca nel saper “ascoltare” l’ambiente in cui suona, addomesticando riverberi al servizio del suo strumento.
Le tessiture ritmiche di Manu Katchè sono, ad ogni esibizione, una lezione di sagacia tattile mista ad un’incredibile scioltezza nei movimenti e ad un timbro delicato ma incisivo. Il batterista franco-ivoriano accarezza le pelli, sfiora i piatti, il suo drumming è un dono prezioso che lui elargisce sempre in punta di sorriso. Seducente!
Il secondo round dispiega una delle figure più iconiche del ‘900: Muhammad Ali, nato Cassius Clay nel 1942. “I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione”; invero, queste celebri parole del boxeur sono applicabili non solo ai campioni dello sport…

Muhammad Ali

Ali era leggenda, un’icona per i diritti degli afro-americani, un esempio di coraggio contro ogni convenzione, “The Greatest” ricevette persino la medaglia presidenziale della libertà, tra le massime onorificenze negli Stati Uniti. Sul ring sembrava un danzatore, era aggraziato, come il brano che accompagna le immagini d’antan: un pezzo lento con la chitarra di Jasevoli dai toni vagamente arabeggianti e il basso di Ranieri protagonista con una linea originalissima, che riunisce armoniosamente aspetti ritmici e melodici; bello lo slide. Il finale molto free è assolutamente in linea con il personaggio a cui il brano è dedicato!
L’estrosa Cadillac rosa del 5 volte campione del mondo dei pesi piuma Sugar Ray Robinson irrompe idealmente sulla scena. Sugar, quello delle epiche sfide con Jake La Motta (il Toro Scatenato di De Niro nell’omonimo film!) era nato nel 1921, ballava il tip tap nei Teatri di Broadway, suonava la batteria e la tromba nei locali jazz… e tirava in palestra: un tipo decisamente eclettico! La musica che lo descrive è dolce come lui, un dio della grazia, e inizia con bel giro di chitarra Fender intorno alla quale s’inseriscono man mano gli altri strumenti. Katchè fa sentire la sua presenza ma con un’inarrivabile leggiadria, un motore ritmico che gira in perfetta simbiosi con i compagni di palco. I cambi inaspettati di tempo, le sfumature jazz-fusion, un bel solo di basso e un volo di trilli della tromba di Aquino, che nel finale passa al flicorno, rendono l’ascolto di questo brano particolarmente avvincente.
“El intocable” Nicolino Locche, mostro sacro, assieme a Monzon, della noble art in Argentina (ma la famiglia era di origini sarde), era un vero e proprio grillo, maestro della schivata e molto incline alla trasgressione (fumava continuamente, anche un minuto prima di salire sul ring!) Morì a 66 anni – i polmoni… ça va sans dire – con un palmares di 136 incontri, di cui 117 vinti, 5 persi e 14 pareggi. Aquino, in scena da solo, ci mette momentaneamente in knock-down con la sua tromba midi e una loop machine con cui crea un tappeto di suoni sui quali ricama con flicorno, djembè, egg shaker… un’azione sonora totale e un’interazione molto ben calibrata tra acustico ed elettronico.
È di questi giorni la notizia che Mike Tyson torna sul ring il 28 Novembre, a 54 anni e dopo ben 15 anni di inattività; combatterà contro Roy Jones.
Iron Mike si porta dietro la nomea di essere il più pericoloso e violento pugile della storia: un cattivo soggetto, per nascita, ceto, destinazione… tante le sue vittorie ma anche squalifiche, accuse di stupro, carcere, botte, morsi (ricordate l’orecchio di Evander Holyfield che Tyson quasi mozzò, sputandone un pezzo sul tappeto e che gli costò la sospensione della licenza da pugile?), una vera e propria Gigantomachia la sua, un gigante solo contro tutti. L’opinione pubblica contro, pronta a giudicare, ad etichettarlo come un animale, senza chiedersi mai quali demoni interiori abbiano albergato in lui che, al contrario del dàimon socratico, lo hanno fatto sprofondare in una spirale distruttiva. E dopo tre mogli e otto figli (una di essi, Exodus, morta a 4 anni) Mike si rialza un’altra volta, forse dopo aver finalmente imparato il valore di una carezza.
Musicisti ora tutti sul palco per un insieme musicale molto mobile, con cambi di tempo, passaggi di tonalità e stacchi, connotato da una linea di basso molto efficace, dove il chitarrista – davvero bravo – esprime una marcata vena fusion e Katchè ci ricorda ancora una volta quanto sia un fuoriclasse, eseguendo in scioltezza le più articolate figure ritmiche, come nel suo solo dove il piede sulla cassa percuote a una velocità tale da trasformarsi nel becco di un picchio rosso su un tronco d’albero!
Il crescendo finale è corale, sulla scia della chitarra entra il flicorno minimalista di Luca Aquino, totalmente disinteressato ai fraseggi virtuosi ma cercando piuttosto l’essenza del suono. È un jazz palpitante, che scalcia e ripudia stilemi banali e dove un ballabile valzer vira improvvisamente in un incalzante ritmo latineggiante.
A questo punto, un applauso agli ingegneri del suono non è solo doveroso ma ampiamente meritato. Bravi! Ho trovato invece meno azzeccate le scelte della regia video: per l’amor del cielo, si vedeva benissimo, fin nei minimi particolari… ma forse, quello che non ha funzionato, a mio avviso, è proprio questo, i continui cambi di campo delle telecamere, i numerosi primi piani, non mi hanno fatto vivere il live come avrei sperato, ovvero facendomi dimenticare di non essere nella platea del teatro…
Nel corso dei saluti finali, Luca ammette quanto non sia facile suonare senza lasciarsi condizionare da file e file di poltrone vuote, in una dimensione quasi irreale.
Chissà se ciò gli avrà ricordato le atmosfere dello splendido concerto tenuto con il suo trio italiano e la Jordanian National Orchestra a Petra, l’antica città Rosa della Giordania, patrimonio dell’umanità UNESCO e considerata una delle sette meraviglie del mondo moderno; ovviamente quella romana non sarà stata un’esperienza così mistica ma ugualmente  surreale ed intensa.
Chiudo citando quelle che mi sembrano le parole più adatte alle sensazioni provate dopo aver sperimentato anche questa nuova pratica di ascolto, imposta dalla pandemia.
Sono del trombettista statunitense Jon Hassel: “gran parte del mondo percepisce la musica nei termini di un flusso che avanza, basandosi su dove la musica va e cosa viene dopo. C’è però un’altra angolatura: l’ascolto verticale, che consiste nel sentire quel che accade al momento”.
ps: il Digiuno Imposto che ho citato nel titolo di questo articolo è anche quello di un libro di poesie uscito nel 2000 in Germania, per i tipi di Matthes&Seitz Verlag di Monaco di Baviera, illustrato da Mimmo Paladino.

Marina Tuni

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Giorgio Enea Sironi (ufficio stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma) per la collaborazione e Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini per le immagini presenti nell’articolo.