I nostri CD

I NOSTRI CD

a proposito di jazz - i nostri cd

Jon Balke Siwan – “Hafla” – ECM
A distanza di tanti secoli ancora sopravvive il mito di Al-Andalus ovvero di quella Spagna medievale musulmana, in cui sotto la guida di colti principi arabi, musulmani, ebrei e cristiani vivevano tutti insieme senza distinzione alcuna di razza e/o di religione. Ecco, questo mito viene ora riattualizzato dalla musica di Siwan, il collettivo musicale transculturale e trans-idiomatico guidato dal tastierista e compositore norvegese Jon Balke, giunto al suo terzo album dedicato alla materia in oggetto. Questa volta uno accanto all’altro troviamo un musicista kemençe turco (Derya Turkan), un maestro iraniano del tombak (Pedram Khavar Zamini), un batterista norvegese di aperte vedute (Helge Norbakken), una nutrita sezione di archi specialisti del barocco guidata da Bjarte Ejke e una cantante algerina, Mona Boutchebak, che interpreta testi e di Wallada bint al-Mustakfi, la principessa omayyade di Cordoba dell’XI secolo e di altri poeti a lei contemporanei quali Ibn Zaydun (1003-1071, suo appassionato amante)  e Ibn Sara As-Santarini (1043-1123). L’album non si presta ad un semplice ascolto né tanto meno ad una facile lettura. Si tratta di musica complessa, caratterizzata da un contesto in cui le parole hanno un peso spesso importante, e da un inusuale impasto sonoro determinato dalla coesistenza di strumenti che appartengono a mondi culturali diversi. Il leader tenta di assemblare il tutto con l’ impegno e la passione che gli sono propri, anche se il risultato non sempre è dei migliori.

Flavio Boltro, Fabio Giachino – “Things to Say” – Cam Jazz
Suonare in duo è sempre molto impegnativo, forse più della prova in solitario. Il fatto è che quando ci si esibisce in due occorre che i musicisti si conoscano molto bene e riescano così a precedere le intenzioni l’uno dell’altro sì da assicurare alla musica una fluidità che non conosce intoppi. Ecco, tutto ciò lo si ritrova in questo album interpretato da due grandi jazzisti italiani. Flavio Boltro (classe 1961) è artista oramai maturo che ha raggiunto una perfetta padronanza dello strumento il che gli consente di evidenziare un bel suono, pieno, ricco supportato da un fraseggio mai fine a se stesso e da una indubbia capacità di intonare suadenti linee melodiche. Giachino (classe 1986) è un pianista che ha conquistato pubblico e critica grazie ad uno stile raffinato in cui sottile ironia e padronanza della dinamica si coniugano mirabilmente, il tutto declinato con una personale dimensione dello spazio (lo si ascolti in “Prelude to Salina”). In programma un repertorio tutto composto da original a firma soprattutto di Fabio Giachino il che conferma vieppiù la maturità di questo pianista. Di qui una musica che scorre fluida caratterizzata spesso da notevole intensità emotiva e soprattutto da una perfetta intesa tra i due musicisti che, pur proveniendo da ambienti diversi, riescono a fondere le loro esperienze in un unicum raffinato. Ed è una sensazione che si percepisce immediatamente sin dall’ascolto del primo brano in programma, “Piccola Nina” di Flavio Boltro, sino a quel “Spicy Blues” ancora di Boltro che chiude l’album.

Avishai Cohen – “Naked Truth” – ECM

Tra le stelle di primaria grandezza che rifulgono nel panorama jazzistico internazionale, un suo posto di rilievo ce l’ha sicuramente il trombettista israeliano Avishai Cohen. Registrato negli Studios La Buissonne a Pernes-les-Fontaines nel Sud della Francia, nel settembre del 2021, sotto la produzione ECM, l’album ci consegna un Cohen sotto certi aspetti inediti. Abbandonate le atmosfere “elettriche” del precedente album, il trombettista si consegna al suo pubblico in estrema sincerità, con una musica tutta giocata sul coté dell’intimismo e declinata attraverso otto parti di una lunga suite intitolata “Naked Truth” e da un brano conclusivo, “Departure”. Avishai suona con la perizia che ben conosciamo ma è l’atmosfera generale dell’album che, come si diceva, lo proietta in una luce diversa. Perfettamente coadiuvato da Yonathan Avishai al piano, dal bassista Barak Mori e dal batterista Ziv Ravitz, il leader disegna una sorta di percorso che si snoda coerentemente quasi illustrando vari stati d’animo. Così si passa da pezzi di chiara impronta crepuscolare a frammenti in cui la tromba pare schiarirsi e aprirsi ad orizzonti più rosei fino a sfiorare il clima tipico delle ballad.
Da sottolineare come, accanto al leader, suona uno splendido Yonathan Avishai il cui pianoforte si pone come autentico alter-ego del leader prendendo egli stesso in mano il pallino del discorso (si ascolti al riguardo la convincente Part.V).
Come si accennava, il disco si chiude con la poesia “Departure”, dell’autrice israeliana Zelda Schneurson Mishkovsky (1914.1984), recitata dallo stesso Cohen sul tappeto strumentale degli altri musicisti.

Claudio Cojaniz – “Orfani” – Caligola

Poeta della tastiera. Così mi sento di definire Claudio Cojaniz dopo l’ascolto di questo bell’album registrato nell’aprile del 2021 a Treviso dall’oramai rodato quartetto del pianista completato da un sempre straordinario Alessandro Turchet al contrabbasso (a mio avviso uno dei migliori bassisti italiani), Luca Colussi alla batteria e Luca Grizzo percussioni. In repertorio sette composizioni dello stesso Cojaniz. Conosco Claudio oramai da tanti anni ma francamente non so dire con precisione a quali “orfani” si riferisce. Orfani di cosa? Di chi? Personalmente ho avvertito, comunque, nella musica di Cojaniz una sorta di dolore di fondo, di grande malinconia come se l’artista volesse farci riflettere sui tanti guai che in questo momento affliggono l’umanità. Certo, non ci si riferisce alla guerra ché l’album è stato inciso prima, ma resta egualmente la sensazione di un disagio, di un modo di vedere una realtà che non ci piace più di tanto. Ecco, penso che in questo caso il riferimento al blues, non tanto come struttura, ma come musica che rispecchia uno stato d’animo, sia assolutamente presente. E la cosa non stupisce più di tanto ove si tenga presente da un canto la lunga militanza di Cojaniz nell’ambito del jazz (il suo pianismo è ancora una volta coerente, del tutto idoneo alle sue volontà espressive), dall’altro i frequenti richiami africaneggianti che il musicista ha già fatto nei precedenti lavori. Insomma un artista che dimostra, ancora una volta, una profonda conoscenza del linguaggio jazzistico non solo dal punto di vista musicale ma anche da ciò che questo linguaggio ha rappresentato – e ancora oggi rappresenta – per le popolazioni di colore negli States…e non solo.

Lorenzo De Finti Quartet – “Mysterium Lunae” – Losen

Strano ma vero, un quartetto italiano che incide per una etichetta norvegese e non è la prima volta dato che il pianista Lorenzo De Finti ha già inciso per la Losen altri due album. Ma veniamo a quest’ultimo “Mysterium Lunae” registrato a Torino nei primi tre giorni del luglio 2021. Per quest’ultima fatica discografica, il gruppo si è arricchito di un prestigioso elemento, il trombettista e flicornista Alberto Mandarini unanimemente considerato musicista a 360 gradi. A completare il gruppo Stefano Dall’Ora al basso e Marco Castiglioni alla batteria. In programma sei brani firmati congiuntamente da De Fanti e Dall’Ora. De Finti è musicista di larga esperienza avendo suonato in orchestre sinfoniche, nella celebrata Instabile Orchestra e accanto a Paolo Conte in molte tournées. Ciò gli ha permesso di elaborare un proprio stile caratterizzato da un sound originale e dalla capacità di scavare a fondo in ogni composizione per trarne ogni possibile implicazione. E tutto ciò si evince dall’ascolto dell’album in oggetto che si apre con la composizione forse più interessante, “Mysterium Lunae”, che si richiama espressamente all’antica metafora per cui un oggetto freddo può diventare fonte di bellezza riflettendo, però, una luce più grande proveniente da qualcos’altro. Ecco quindi questo vero e proprio richiamo alla speranza, sentimento che nel corso della pandemia (periodo in cui è stato registrato il CD) purtroppo è andato quasi perso. Ma i quattro non si limitano a focalizzare uno stato d’animo ché l’album prosegue con una serie di atmosfere cangianti grazie all’attento uso dei colori e delle dinamiche che appaiono già patrimonio consolidato del quartetto.

Joey DeFrancesco – “More Music” – Mack Avenue
Non c’è dubbio alcuno che tra quanti suonano ancora oggi l’organo Hammond Joey DeFrancesco sia tra i più bravi. Ma il nostro non si limita a maneggiare con maestria l’organo dal momento che suona bene anche la tromba, il sax tenore, le tastiere e il piano. E ce ne dà prova in questo album in cui presenta undici composizioni (ben dieci a sua firma) in cui, accompagnato da una ritmica composta da Michael Ode alla batteria e Lucas Brown chitarra, organo e tastiere, si diverte ad evidenziare il suo multistrumentismo. E lo fa già in apertura interpretando alla tromba il brano “Free” che, a scanso di equivoci, nulla a che vedere ha con il free jazz. Eccolo ancora alla tromba nel blues “Where to Go”, mentre nelle due ballads, “Lady G” ed “Angel Calling”, si misura con il sax tenore… ma tutto ciò non sarebbe stato sufficiente senza un brano cantato… e voila “And If You Please”, cosicché in alcuni brani l’Hammond B3 viene suonato da Lucas Brown, anch’egli polistrumentista di assoluto livello. Da quanto sin qui detto risulta abbastanza evidente come tutto l’album sia all’insegna della gioia di suonare, di poter eseguire senza tema di essere criticati la musica che piace. Certo, se ci si dovesse poi chiedere in quale veste preferiamo Joey, la risposta non può che essere una ed una sola: all’organo Hammond di cui DeFrancesco rimane uno straordinario interprete, capace di trarre dallo strumento tutta una serie di nuances, di sfumature che pochi altri sanno imitare.

Kit Downes – “Vermillion” – ECM
Dopo i suoi due precedenti album per ECM, “Dreamlife of Debris” del 2019 e “Obsidian” del 2017 in cui suonava un organo da chiesa a canne, il musicista inglese Kit Downes si ripresenta alla testa di un classico piano-trio coadiuvato dallo svedese Petter Edh già ammirato nel trio di Django Bates al contrabbasso e il britannico James Maddren alla batteria. In realtà al momento della registrazione di questo album, i tre si conoscevano già bene avendo suonato assieme sotto l’insegna di Trio Enemy. Questo “Vermillion” risente molto della formazione musicale del leader: abituato a frequentare quasi indistintamente territori classici, moderni e jazzistici, il pianista infonde alla sua musica uno spirito affatto particolare che la pone piuttosto lontana da ciò che normalmente si immagina debba essere un trio di jazz. In effetti qui non troviamo una continua pulsazione ritmica, né linee melodiche facilmente identificabili ma un flusso costante di musica tutta giocata su toni meditativi. Ovviamente – Evans insegna – non c’è alcuna gerarchia fra i tre strumenti che dialogano su un piano di assoluta parità alla ricerca di un’espressività interiore che mai viene meno. Di qui la sensazione, non si sa bene quanto veritiera, che la scrittura la faccia da padrona sull’improvvisazione. Insomma una sorta di viaggio introspettivo declinato attraverso dieci composizioni di pianista e contrabbassista e la cover di Jimi Hendrix, “Castles Made of Sand” tratto da “Axis: bold as Love” del 1967che chiude meravigliosamente l’album.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Il trombettista Mathias Eick è uno di quei musicisti che mai ti delude. Ogni suo album è una summa di quel che oggi dovrebbe rappresentare, a nostro avviso, la figura del jazzista, vale a dire un musicista che pur conoscendo perfettamente la tradizione, volge lo sguardo al futuro. E lo fa con la piena consapevolezza dei propri mezzi espressivi. Ingredienti, questi, che si ritrovano appieno in “When We Leave” registrato a Oslo nell’agosto 2020 da un organico piuttosto ampio guidato da Mathias Eick (nell’occasione anche alle tastiere) e completato da Andreas Ulvo al piano, dal bassista Audun Erlien, da Hakon Aase violino e percussioni, dai due batteristi e percussionisti Torstein Lofthus e Helge Andreas Norbakken e dal chitarrista Stian Carstensen il cui apporto risulta tutt’altro che secondario. Come abbiamo già avuto modo di apprezzare nei suoi precedenti lavori, la musica di Eick si mantiene su atmosfere intimiste, malinconiche, declinata attraverso il fitto colloquio dei musicisti che sembrano aderire perfettamente a quelle che sono le linee guida dettate dal leader. Di qui una insieme di linee melodiche sempre riconoscibili, un perfetto controllo del ritmo ben supportato da una sezione quanto mai precisa ed efficiente, ed un gioco sulle dinamiche che spesso si fa apprezzare per la sua originalità. Tra i vari strumentisti precedentemente citati, da sottolineare ancora una volta la prova del violinista Hakon Aase che oltre ad eseguire spesso il tema all’unisono con la tromba del leader, si produce in pregevoli assolo. Ma il fulcro di tutto è sempre lui, Mathias Eick il cui strumento si staglia sempre preciso, puntuale, così come le sue capacità compositive dato che tutti i brani dell’album sono dovuti alla sua penna.

Antonio Flinta – “Secrets of a Kiri Tree” – Autoprod.
Sono passati circa due anni da quando, discutendo con Antonio Flinta, gli chiesi come mai non si fosse ancora cimentato al piano-solo dopo una intensa carriera. Antonio mi rispose che l’avrebbe fatto solo se si fosse sentito pronto. Il momento è arrivato ed ecco questo “Secrets of a Kiri Tree” in cui il pianista cileno ci spinge a guardarci nel profondo, a riscoprire quel che abbiamo dentro, anche se per farlo probabilmente abbiamo bisogno di qualcuno che si spinga in tal senso. E per ottenere tale scopo Flinta sceglie un repertorio tanto vasto quanto difficile. Ecco quindi Paco de Lucia con “Cancion de amor”, accanto a George Fragos (“I Hear a Rhapsody”), la straordinaria Violeta Parra (“Gracias a la vida”) assieme al gigante del jazz Thelonious Monk (”’Round Midnight”) il tutto completato da tre originals di Antonio. A nostro avviso il meglio dell’album lo si ritrova nelle composizioni dello stesso pianista. Scevro da qualsivoglia preoccupazione se non quella di lasciarsi andare al proprio istinto, Flinta inanella una serie di improvvisazioni davvero notevoli in cui mai si perde il filo del discorso tanto è solida la base su cui l’artista costruisce i suoi edifici musicali. Così risulta quanto mai arduo distinguere le parti improvvisate da quelle scritte, ammesso poi che la cosa abbia un minimo di importanza. Così il pianismo di Flinta scorre fluido sicuro, lucido, essenziale, mai sovracaricato di orpelli inutili e pur tuttavia sempre in grado di incuriosire l’ascoltatore. Quanto agli altri brani, abbiamo particolarmente apprezzato la versione di “Gracias a la vida” che conserva intatta la sua dolce e malinconica linea melodica.

Tord Gustavsen – “Opening” – ECM
Ancora un piano-trio questa volta di marca norvegese. A costituirlo sono infatti il pianista Tord Gustavsen, il contrabbassista Steinar Raknes (responsabile anche di un sapiente e sobrio uso dell’elettronica) e il batterista Jarle Vespestad ovvero tre dei migliori musicisti che il panorama jazz norvegese possa oggi offrire. E il risultato è in effetti di grande rilevanza. Certo non scopriamo in questa sede lo straordinario talento del pianista, ma fa immenso piacere constatare come uno dopo l’altro tutti i lavori di Tord si mantengano su un livello di assoluta eccellenza. In programma, questa volta, dodici brani di cui nove a firma del leader cui si aggiungono un brano traditional e due pezzi firmati rispettivamente da Geir Tveitt – figura centrale del movimento culturale norvegese negli anni ’30 – e da Egil Hovland, compositore classico che si formò studiando tra gli altri con Aaron Copland e a Firenze con Luigi Dallapiccola. E da queste poche note si può già comprendere quanto ampio sia l’universo musicale di riferimento di Gustavsen e quindi dell’intero trio. Di qui una musica saldamente ancorata al patrimonio norvegese, e nordico più in generale. Ecco quindi la rivisitazione, già al secondo pezzo, di un brano abbastanza celebrato in Svezia, “Visa från Rättvik” (Vista dalla città di Rättvik), già inserito da Jan Johansson – uno tra i più grandi pianisti svedesi di cui Gustavsen ha dichiarato di sentire l’influenza – nell’album del 1964, “Jazz pa Svenska”, album che all’epoca vendette la stratosferica cifra di 250.000 copie. Gustavsen stravolge il pezzo rendendolo praticamente suo e lo stesso fa per tutta la durata dell’album mai offrendo musica banale o scontata. Si ascolti, ad esempio, il suo modo di intendere il tango in “Helensburgh Tango”, lontano che più non si potrebbe dalle atmosfere tipiche tanguere. Splendida la versione di “Var Sterk, Min Sjel” assolutamente rispettosa dell’originale del già citato Egil Hovland.
Roberto Laneri – “Musica finta / Blue Prints” – Da Vinci Classics
Roberto Laneri – “South of No Border” – Black Sweat Records
Il polistrumentista Roberto Laneri si ripresenta con due album registrati rispettivamente nel 1998 e in un arco temporale che va dal 2014 al 2018. Ma procediamo con ordine. “Musica finta / Blue Prints”, registrato come si diceva nel 1998 ma pubblicato solo nei primi mesi del 2020, va inquadrato correttamente grazie al sottotitolo “A Study in Metamusicology”. Si tratta, cioè, di un album assai complesso, di lettura difficile, in cui Laneri – come egli stesso afferma, suonando al sax soprano alcuni rags di Scott Joplin ha provato ad introdurre dei cambiamenti nel testo, dapprima minimi, poi sempre più articolati, fino ad arrivare alla composizione di pezzi autonomi e paralleli, da suonarsi assieme ai pezzi originali. “L’effetto di questa estremizzazione – aggiunge Laneri – è paragonabile alle prospettive impossibili di Escher, oppure ai disegni tridimensionali generati al computer, dai quali possono emergere immagini complementari eppur assai diverse da quelle immediatamente apparenti”. Fin qui le premesse metodologiche. Ma il risultato musicale? Laneri presenta composizioni originali, unite a quelle di Schumann, Schubert ma anche Joplin e Jelly Roll Morton. Quindi linguaggi differenti ricondotti ad unità per una sorta di opera di ampio respiro divisa in cinque capitoli. Per questa impresa Laneri (sax soprano, sampling e sound treatment) ha chiamato accanto a sé la pianista Maria Jolanda Masciovecchio e Alan Ferry come spoken voice.
“South of No Border” (come si diceva registrato tra il 2014 e il 2018 ma anch’esso pubblicato poche settimane fa) vede Roberto Laneri (clarinetto, clarinetto basso, sax sopranino, sax soprano e alto, didjeridoo, shruti box, voce e percussioni) alla testa di un gruppo comprendente Giuppi Paone voce, Raffaela Siniscalchi voce, Eleonora Vulpiani chitarra, Luigi Polsini contrabbasso e Laugi Marino zarb. Contrariamente al primo album, in questo caso il repertorio è come una sorta di finestra affacciata sulle musiche del mondo. Ecco, quindi, dopo l’apertura affidata alle melodie orientaleggianti di “Malia” (scritta da Laneri), il choro brasiliano “Tico-Tico no fubá” (scritto da Zequinha de Abreu nel 1917, accanto al bolero cubano “Contigo En La Distancia” scritto dal cantautore César Portillo de la Luz quando aveva 24 anni nel 1946, il tutto impreziosito da 4 original del leader. A confronto con un tale repertorio, Laneri dà ancora una volta prova non solo della sua indiscussa preparazione tecnica ma anche della profonda conoscenza del panorama musicale internazionale. Le sue interpretazioni risultano, quindi, assolutamente pertinenti: traendo feconda ispirazione da svariate tradizioni, riesce a produrre una sintesi che non conosce confini geografici grazie ad una concezione visionaria della musica senza barriere. Insomma un disco originale nella concezione e nell’esecuzione.

Roberto Magris – “Match Point” – JMood /
Roberto Magris – “Duo & Trio” – JMood
Tra i musicisti che riescono a conservare un alto livello delle proprie produzioni, lavorando in ambedue le sponte dell’Atlantico, c’è sicuramente il pianista Roberto Magris di cui segnaliamo due nuove uscite. Il primo – “Match Point” – registrato a Miami l’8 dicembre del 2018, è stato a ben ragione considerato da critici statunitensi come uno degli album più interessanti pubblicati negli ultimi mesi.  “Match Point” vede il pianista triestino alla testa di un quartetto dai mille colori completato dal cubano Alfredo Chacon al vibrafono e percussioni, dal batterista Rodolfo Zunica proveniente dal Costa Rica e dallo statunitense Dion Kerr al basso. In repertorio otto brani equamente divisi tra composizioni dello stesso Magris e brani di giganti della tastiera quali Richard Kermode tastierista americano, noto soprattutto per essersi esibito con Janis Joplin, Malo e Santana, McCoy Tyner, Thelonious Monk, Randy Weston. Da quanto sin qui detto è già possibile avere un’idea della musica che Magris ci propone, una musica che, saldamente ancorata alla produzione, presenta quel tocco di “latino” che impreziosisce il tutto. Al riguardo basti ascoltare “Caban Bamboo Highlife” di Randy Weston, uno dei jazzisti preferiti da Magris, con Chacon e Zuniga in grande evidenza.
In “Duo & Trio” Magris adotta una formula diversa esibendosi in sei brani in duo con il sassofonista Mark Colby e in cinque pezzi in gruppo con Elisa Pruett al basso, Brian Steever alla batteria mentre Pablo Sanhueza alle congas  è presente solo in “Melody for C” di Sonny Clark e “Samba Rasta” di Andrew Hill. Per il resto i compositori visitati da Magris fanno parte dell’Olimpo della musica quali Elmo Hope, Bernstein, Ray Noble, Shuman, Kurt Weill; il tutto completato, come al solito, da alcune composizioni dello stesso Magris. L’ascolto dell’album lascia pienamente soddisfatti per almeno due ordini di motivi: innanzitutto la straordinaria maestria di Roberto Magris che, dall’alto della sua immensa preparazione pianistica, affronta con estrema disinvoltura partiture assai diversificate tra di loro (eccolo intimista e toccante in “Old Folks”, classico nell’accezione più completa del termine in “Cherokee”, trascinante improvvisatore in “Melody for C”); in secondo luogo per la scelta di collaboratori sempre di livello. Da segnalare, in questa occasione il lavoro del sassofonista Mark Colby che sia al tenore sia al soprano evidenzia una forte personalità scevra da qualsivoglia intento di stupire chi ti ascolta.

Dino & Franco Piana Ensemble – “Reflections” –Alfa Music

Attualmente l’ensemble diretto dalla premiata ditta “Dino & Franco Piana” è una delle migliori formazioni del jazz attuale. Ciò anche perché nel suo ambito, oltre ai citati leader, figurano artisti di grande spessore quali la pianista Stefania Tallini, il bassista Dario Deidda e il batterista Roberto Gatto. In quest’ultima fatica discografica il gruppo è affiancato dalla B.i.m. Orchestra mentre il repertorio comprende dieci brani di cui ben sei composti da Franco Piana (altresì flicornista e arrangiatore del gruppo), altri due original dovuti rispettivamente a Lorenzo Corsi e Stefania Tallini e due standard, “Skylark” di Hoagy Carmichael e “Embraceable You” di George Gershwin. Il progetto nasce durante il lockdown dalle riflessioni dei due leader che hanno focalizzato l’attenzione sulle molteplici possibilità d’espressione che i vari organici possono offrire. Di qui il far ricorso, per ogni brano, ad un organico diverso. Si inizia così da “Skylark”, suonato dal trombone di Dino Piana in solo, passando poi a brani in duo – trio – quartetto – quintetto – sestetto, fino ad arrivare ad arrangiamenti per quartetto d’archi (B.i.m. Orchestra), 4 flauti, piano e flicorno. Come le precedenti prove dei Piana, anche questo album entra di diritto tra i migliori album di jazz italiano pubblicati negli ultimi mesi in quanto la bellezza dei temi è supportata e valorizzata da arrangiamenti ben strutturati e altrettanto ben eseguiti da una formazione che presenta anche individualità di tutto rispetto. Senza dimenticare i due leader – di cui comunque spesse volte abbiamo tessuto le lodi – bisogna sottolineare l’apporto di Stefania Tallini che si conferma jazzista a tutto tondo capace sia di sviluppare suadenti linee melodiche sia di imporre un ritmo preciso e coinvolgente (la si ascolti in “D and F”). Ma la citazione di questo brano è solo un esempio ché tutto l’album merita di essere ascoltato.

Valentina Ranalli, Enrico Pieranunzi – “Cantare Pieranunzi” – Alfa Music
Enrico Pieranunzi Quintet – “The Extra Something” – Cam Jazz
Quasi contemporaneamente sono usciti due pregevoli album che vedono impegnato Enrico Pieranunzi. Nel primo – “Cantare Pieranunzi” – il pianista romano si presenta nella triplice veste di leader dello Youth Project (con Giuseppe Romagnoli al basso, Cesare Mangiocavallo alla batteria e Giacomo Serino alla tromba), compositore e arrangiatore. Il tutto al servizio della vocalist Valentina Ranalli. La genesi dell’album è assai particolare e ce la illustra lo stesso Pieranunzi nelle note che accompagnano il CD: in buona sostanza “Cantare Pieranunzi” è il frutto della tesi di laurea in canto jazz presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma di Valentina Ranalli che ha presentato un lavoro incentrato su pezzi del pianista, cui ha aggiunto le parole in italiano, inglese, francese e napoletano. Incuriosito dall’iniziativa e dopo aver ascoltato la vocalist, Pieranunzi decide di mettere il tutto su disco e bene ha fatto dal momento che l’album è di assoluto livello. Le undici tracce contenute nell’album sono interpretati dalla Ranalli con sincera partecipazione dialogando intensamente con il pianoforte di Enrico: si ascolti, ad esempio, “You Know”. Ma è tutta la performance della cantante che convince e che fa ottimamente sperare per il suo futuro; fra i pezzi da segnalare “Suspension points” fatto di poche note ma di tanta emozione, e “Persona” in cui la Ranalli si trova particolarmente a suo agio esprimendosi nella lingua della sua terra, il partenopeo.
Completamente diverso il secondo album – “The Extra Something” – registrato live il 13 e 14 gennaio 2016 al Village Vanguard da un quintetto che vedeva il pianista romano in compagnia di Diego Urcola tromba e trombone (semplicemente straordinario nella title tracke), Seamus Blake sax tenore (particolarmente convincente in “Atoms”), Ben Street basso e Adam Cruz batteria. E per quanti seguono il jazz non c’è bisogno di altre parole per sottolineare il valore assoluto della band. Valore assoluto che si evidenzia in tutto il repertorio, sette brani tutti composti dal pianista. Pieranunzi, come spesso gli capita, è in uno stato di grazie e conduce il gruppo con mano sicura, del tutto consapevole dell’intesa che ha raggiunto con i compagni di viaggio. Dal punto di vista compositivo non scopriamo certo oggi il suo senso della struttura che mai l’abbandona, per cui se consideriamo tutti questi elementi si capisce bene perché il ben noto Brian Morton abbia incluso Enrico tra “i più significativi musicisti contemporanei”. Nelle note di copertina Pieranunzi dedica espressamente questo terzo CD Live at The Village Vanguard a Lorraine Gordon in memoriam, senza la quale né questo né i precedenti due si sarebbero potuti realizzare. Ricordiamo per inciso che il pianista romano è forse l’unico musicista italiano nella veste di leader ed uno dei pochissimi europei ad aver suonato nel leggendario jazz club a forma di diamante aperto da Max Gordon nel 1935 al 178 Seventh Avenue South di Manhattan.

Serena Spedicato – “Io che amo solo te” – Dodicilune

Non sempre la bellezza della confezione corrisponde alla bontà del contenuto. In questo caso, la Dodicilune ha realizzato qualcosa di eccellente affidando alla vocalist Serena Spedicato (utilizzata anche come splendida voce narrante) un repertorio per noi italiani impossibile da dimenticare, all’interno di una confezione sobriamente elegante. In realtà Serena Spedicato e lo scrittore Osvaldo Piliego avevano dato vita a questo loro progetto originale come concerto/spettacolo con la regia di Riccardo Lanzarone, che solo successivamente è approdato alla forma libro/cd. Così la Dodicilune ci presenta un prezioso libretto, con la grafica di Marina Damato, autrice delle foto con Maurizio Bizzochetti, e i testi inediti di Osvaldo Piliego che accompagnano dodici brani tra i più belli e rappresentativi del cantautorato italiano, rielaborati in una forma nuova grazie agli arrangiamenti del fisarmonicista Vince Abbracciante coadiuvato da Nando Di Modugno (chitarra classica) e Giorgio Vendola (contrabbasso). Le canzoni proposte appartengono tutte alla cd. “scuola genovese” vale a dire Luigi Tenco, Fabrizio De André, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Umberto Bindi, Bruno Lauzi. In buona sostanza tutto il lavoro ruota attorno ai cantautori che sono cresciuti e si sono formati in quel di Genova, ove sul finire degli anni Cinquanta si sviluppò un movimento culturale e artistico che rivoluzionò il mondo della canzone italiana. Ed è proprio questo clima che si respira ascoltando l’album. Molte le positività del lavoro: le centrate interpretazioni della vocalist che evidenzia una musicalità ed una sensibilità non comuni, i testi intelligenti che aiutano (soprattutto i più giovani) a capire ciò che si ascolta, ma soprattutto gli arrangiamenti di Vince Abbracciante che oramai non ne sbaglia una. Misurarsi con dei veri e proprio mostri sacri della musica non è certo impresa facile: ebbene il fisarmonicista ha affrontato l’impresa con passione e professionalità regalandoci degli arrangiamenti che, senza alcunché togliere al fascino originario, hanno rivestito i brani di una patina jazzistica pertinente ed affascinante. Ovviamente più che positiva anche l’apporto di Nando Di Modugno e Giorgio Vendola per un album di sicuro rilievo.

Andrés Thor – Hereby – Losen
Siamo veramente grati alla norvegese Losen Records per la possibilità che ci offre di far conoscere al pubblico italiano dei veri e propri talenti che, non avendo ancora raggiunto fama internazionale, difficilmente raggiungono le nostre platee. E’ il caso del chitarrista islandese Andrés Thor che, giunto al suo settimo album da leader, si presenta al pubblico alla testa di un trio completato dall’altro islandese Magnús Trygvason Eliassen batteria e dal francese Nicolas Moreaux contrabbasso. Quello di Thor è un fraseggio molto personale, pulito, chiaro, senza alcuna pretesa di sperimentalismo o di sensazionalismo. La sua idea di guidare il trio si avvicina molto alla lezione impartita da Bill Evans con Scott LaFaro. Quindi una formazione che si muove su basi paritetiche in cui ognuno può improvvisare ed esprimere la propria personalità all’interno di una cornice ben delineata dalle nove composizioni tutte a firma dello stesso Thor. Da un punto di vista prettamente chitarristico, Thor è chiaramente ispirato da tre grandi esponenti della chitarra jazz – Jim Hall, John Scofield e Pat Metheny – mentre sotto un profilo più generale tra i suoi maggiori interessi figurano rock band come i Led Zeppelin e i Doors nonché Jimi Hendrix e John Coltrane. Come si nota un universo di riferimento assai ampio che Thor dimostra di aver assorbito molto bene soprattutto nel modo in cui costruisce le sue composizioni, dotate tutte di un eccellente senso architettonico e ben arrangiate. Da sottolineare che mentre nei primi sette brani Andrés utilizza la chitarra elettrica, negli ultimi due imbraccia lo strumento acustico senza che ciò influenzi minimamente l’omogeneità dell’album.

Mark Turner – “Return From The Stars” – ECM
Registrato a New York nel novembre del 2019, questo album vede impegnato un quartetto piano-less guidato dal sassofonista Mark Turner e completato da Jason Palmer alla tromba, Joe Martin al contrabbasso e Jonathan Pinson alla batteria. L’album si inserisce in quella nuova corrente musicale che si allontana molto dal jazz mainstream per inserirsi in ciò che si può definire “musica moderna” tout court. Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi: si tratta ancora di jazz? Lasciamo ad altri la risposta a questo inutile quesito per soffermarci su un altro interrogativo molto più pregnante: si tratta di musica di qualità o no? La risposta non può che essere positiva: si, si tratta di musica di qualità dal momento che risponde ad alcuni requisiti facilmente individuabili. Intendiamo riferirci, innanzitutto, alla natura delle composizioni: Turner scrive benissimo, con perfetto senso delle proporzioni, lasciando ad ognuno dei suoi collaboratori il giusto spazio pur essendo comunque in condizione di ricondurre il discorso ad unità; il tutto corroborato dalla capacità di creare una omogeneità di fondo. Ma ciò sarebbe stato inutile se ad interpretare queste complesse partiture non ci fossero stati dei musicisti completi, preparati. Si ascolti, ad esempio, con quanta pertinenza il trombettista segua il leader nelle sue escursioni o di come il batterista riesca ad inserire il suo drumming nelle complesse trame disegnate dal leader mentre il basso non perde un colpo nel supportare il ritmo del gruppo. Insomma un disco tutto da gustare, per palati raffinati.

Cristina Zavalloni  – “Parlami di me” – Egea

“Parlami di me” è il suggestivo titolo di questo nuovo album dedicato alle musiche di Nino Rota, all’anagrafe Giovanni Rota Rinaldi, scomparso nel 1979 e a ben ragione considerato, a livello mondiale, uno dei massimi esponenti dei compositori che hanno dedicato la loro vita al cinema. Basti ricordare le colonne sonore di quasi tutti i film di Fellini nonché le colonne sonore del Padrino e Il padrino – Parte II vincendo, per quest’ultimo, il Premio Oscar alla migliore colonna sonora. Evidentemente il connubio tra jazz e musiche da film non è certo una novità eppure ogni nuovo album del genere va ascoltato con la massima attenzione data la delicatezza della materia. In effetti estrapolare tale musiche dal contesto per cui sono nate e farne un qualcosa a sé stante è impresa tutt’altro che banale. A cimentarsi con questo difficile compito è ora una delle nostre migliori vocalist, Cristina Zavalloni, accompagnata da quattro musicisti di assoluto livello quali Gabriele Mirabassi al clarinetto, Cristiano Arcelli al sax soprano (nonché responsabile degli ottimi arrangiamenti), Massimo Morganti al trombone e Manuel Magrini al pianoforte, cui si aggiunge il ClaraEnsemble, sestetto costituito da flauto, contrabbasso, due violini, viola e violoncello. Un organico, quindi, piuttosto ampio che si attaglia perfettamente sia alla voce della Zavalloni sia agli arrangiamento di Arcelli. La vocalist entra quasi in punta di piedi nell’universo di Nino Rota, ma subito dopo se ne appropria, lo fa suo e lo reinterpreta con chiavi sempre originali pur nulla perdendo dell’originario fascino. Così riascoltiamo alcune perle del Maestro che hanno stupendamente accompagnato le immagini volute dai più grandi registi italiani da Fellini a Visconti, da Wertmuller a Zeffirelli…Il repertorio dell’album si completa con l’unica canzone scritta integralmente, dalla Zavalloni, “Prova tu”, che si integra perfettamente nel discorso generale portato avanti da “Parlami di me”.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

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B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.

I NOSTRI CD. Il jazz italiano omaggia Morricone

Cari amici, prima di andare in vacanza, “A proposito di jazz” vi propone una serie di album, italiani e stranieri, che vale la pena ascoltare. E si comincia con tre eccellenti CD dedicati al cinema.

Stefano Di Battista – “Morricone stories” – Warner

Questo del sassofonista Stefano Di Battista è il primo dei tre album dedicati al cinema che viene ospitato nella nostra abituale rassegna discografica. L’album è particolare in quanto Di Battista, ben coadiuvato da Fred Nardin al pianoforte, Daniele Sorrentino al contrabbasso e il fantastico André Ceccarelli alla batteria, dedica questa sua ultima impresa discografica a Ennio Morricone, uno dei più grandi musicisti italiani degli ultimi tempi, al quale era legato da profonda e sincera amicizia. E lo fa nel modo migliore, vale a dire tralasciando i brani più noti, quelli che tutti conosciamo, per far ricorso ad alcune vere e proprie perle del Maestro che purtroppo non sempre godono di grande popolarità. Così l’unico brano universalmente conosciuto è “Metti una sera a cena” dall’omonimo film del 1969 diretto da Giuseppe Patroni Griffi, con Lino Capolicchio e Florinda Bolkan magnifici interpreti. Di Battista ce lo ripropone in una versione swingante in cui il sassofonista si produce in uno degli assolo più riusciti dell’intero album, che nulla toglie all’originaria bellezza del pezzo. Toccante, così come l’originale, “Tema di Deborah” da “C’era una volta in America” mentre in “Gabriel’s Oboe” da “Mission” Di Battista sostituisce il suo sax soprano all’originario oboe, con risultati straordinari nel mantenere sempre e comunque l’originaria bellezza della scrittura ‘morriconiana’. E questa sorta di devozione si avverte anche nel modo in cui la musica viene eseguita: niente muscolose esibizioni di bravura, niente arrangiamenti particolarmente sofisticati, insomma nessun escamotage per stupire l’ascoltatore, ma solo il piacere di suonare una musica evidentemente amata e profondamente vissuta. Splendida, e come poteva essere diversamente, anche l’interpretazione di “Flora” un pezzo che Morricone scrisse appositamente per Di Battista. Il disco è stato preceduto dai tre singoli “Peur sur la ville” (uscito il 29 gennaio), “Cosa avete fatto a Solange?” (uscito il 26 febbraio) e “Gabriel’s Oboe” (uscito il 19 marzo).

Marco Fumo – “Il mio Morricone” – Oradek

Ecco il secondo album dedicato a Morricone, firmato da Marco Fumo che more solito si esprime in solitudine. Anche questa volta la scelta dei brani è ben meditata: per la successione dei brani è stato scelto l’ordine cronologico mentre per i contenuti è lo stesso Fumo a venirci incontro nelle note che accompagnano l’album. Così i quattro preludi (“Cane bianco”, “Star System”, “Metti una sera a cena”, “Indagine”) e le quattro canzoni (“Il deserto dei tartari”, “Le due stagioni della vita”, “Got mit Uns” “Il potere degli angeli”) più “Nuovo cinema Paradiso” sono stati scelti in quanto da sempre fanno parte del repertorio di Fumo così come “scelta obbligata” è stata anche quella di “Rag in frantumi”, scritto da Morricone nel lontano febbraio 1986 ed espressamente dedicato proprio a Marco Fumo. Interessante sottolineare come Fumo mai abbia inciso le musiche di Morricone avendole, invece, eseguite spesso dal vivo (eccezion fatta per il già citato “Rag in frantumi” presente in vari album del pianista). Insomma un CD profondamente sentito, a dimostrazione di come Morricone fosse amato anche dai suoi colleghi e di quanto profondo, in particolare, fosse il legame che intercorreva tra Morricone e Fumo. “Questo – conclude le sue note Marco Fumo – è quello che sento e posso fare, dal cuore”. Dal punto di vista prettamente musicale, lo stile di Fumo è oramai riconoscibile: una assoluta conoscenza della letteratura pianistica – in particolar modo jazzistica – un sound fresco ma incisivo frutto di una solida preparazione di base, doti interpretative non comuni. Così, sotto le sue sapienti mani, i brani di Morricone rivivono letteralmente imponendosi all’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto.

Renzo Ruggieri, Mauro De Federicis – “Ciak” – Vap

Il terzo album in qualche modo dedicato al cinema è questo “Ciak” che vede impegnati Renzo Ruggieri alla fisarmonica e Marino De Federicis alla chitarra. Si tratta di un duo ampiamente collaudato che ha già inciso un album, “Terre” (2008), e che si è esibito con successo in Finlandia e Austria, oltre che in diversi festival italiani. Adesso tornano a presentarsi al pubblico del jazz con questo nuovo album composto da cinque brani per un totale di circa ventisette minuti di musica comunque di eccellente qualità. Il fatto è che Renzo Ruggieri si è oramai imposto all’attenzione del pubblico internazionale come uno dei migliori fisarmonicisti non solo italiani e può vantare una certa parsimonia nell’entrare in sala di registrazione: tutti i suoi album conservano uno standard qualitativo molto elevato grazie al fatto che Renzo decide di incidere un disco solo se ha qualcosa da dire. Dal canto suo Mauro De Federicis può esibire una preparazione di base di assoluto rispetto e una continua frequentazione con l’olimpo del jazz testimoniato dalle collaborazioni con nomi prestigiosi quali Dee Dee Bridgewater, Paolo Fresu, Bob Mintzer, tanto per fare qualche esempio. In questo album, dedicato al cinema, i due hanno scelto di eseguire due composizioni originali e tre brani di assoluto spessore come “Il postino” di Luis Bacalov, Riccardo Del Turco e Paolo Margheri, “La gita in barca” di Piero Piccioni e “Speak Softly Love” di Rota tratto da “Il Padrino”. Una scelta coraggiosa non fosse altro che per aver tralasciato quel Morricone cui viceversa sono dedicati i due precedenti album. Particolarmente interessante il modo in cui i due attualizzano le atmosfere proprie di giganti del cinema dedicando loro due brani, “De Niro” (Marino De Federicis) e “Fellini” (Ruggieri). Comunque il pezzo che più mi ha toccato è stato “Il Postino” il cui originario pathos è stato perfettamente riproposto. E devo dire che in questo tipo di riletture Ruggieri è davvero un maestro: basti dire che ogni qualvolta lo ascolto eseguire “Caruso” mi è difficile contenere la commozione.

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Claudio Angeleri – “Music from the Castle of Crossed Destinies” – Dodicilune

Conosco e apprezzo oramai da molti anni Claudio Angeleri e non credo di sbagliare di molto se affermo che questo album è uno dei migliori che il pianista bergamasco abbia prodotto nel corso della sua oramai lunga carriera. A coadiuvarlo in questa ennesima fatica un gruppo di eccellenti musicisti: Giulio Visibelli (sax soprano, flauto), Paola Milzani (voce), Virginia Sutera (violino), Michele Gentilini (chitarra elettrica), Marco Esposito (basso elettrico), Luca Bongiovanni (batteria, percussioni) e, nel brano “Two or three stories”, Gabriele Comeglio (sax alto). Oltre al celebrato “Round about Midnight” di Monk, l’album consta di otto composizioni dello stesso Angeleri liberamente tratti dal breve romanzo fantastico “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino. “L’idea di realizzare un nuovo progetto intorno alla letteratura di Italo Calvino – afferma lo stesso Angeleri – scaturisce da un invito del MIT Jazz Festival di Musica Oggi al Piccolo Teatro di Milano nello scorso novembre 2019. Lo spettacolo è stato poi replicato a gennaio al Blue Note, per essere messo in scena a luglio alla rassegna che ha significato la ripresa dal vivo dopo il lockdown a Bergamo”. E di certo bisogna avere una fervida immaginazione e soprattutto molto coraggio per trasporre in musica la scrittura non facile e mai banale di Italo Calvino. Di qui una musica ricca di colori in cui non sempre è facile distinguere le parti improvvisate da quelle scritte. Una musica in cui i vari strumenti diventano essi stessi voci narranti sì da rappresentare, – spiega ancora Angeleri – “per il loro carattere sonoro specifici personaggi”. Come si evince da queste poche note un compito davvero difficile che solo un musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, in possesso di una solida preparazione non solo come strumentista, poteva pensare di intraprendere e di traghettare alla meta con successo.

Nik Bärtsch – “Entendre” – ECM

Per chi ancora non conoscesse questo straordinario pianista e compositore svizzero, ecco un’ottima occasione per colmare questa lacuna. Nel panorama jazzistico internazionale oggi Bärtsch è personaggio imprescindibile tale e tanta è l’importanza che man mano va assumendo grazie anche ad alcune produzioni discografiche di eccellente livello. E’ questo il caso di “Entendre” declinato attraverso sei originali tutti composti da Nik e tutti eseguiti al piano solo. Lo stile dell’artista è assolutamente personale in quanto risultato da molti anni di continue sperimentazioni in cui Bärtsch ha cercato – e trovato – una soddisfacente sintesi tra jazz, minimalismo, poliritmie. Molti dei brani (quasi tutti intitolati Modul + numero, secondo consuetudine di Bärtsch) sono già stati presentati in altri album ma il pianista li rivisita apportando modifiche non di poco conto. Così ora tralascia precedenti climi jazz-rock per affidarsi unicamente alle sonorità dello strumento, ora si affida al giuoco minimalista alla ricerca con grande personalità di sottili variazioni timbriche. Il tutto completato da straordinarie capacità interpretative che portano l’artista a misurarsi anche sul piano dell’espressività. Si ascolti con attenzione l’apertura di “Modul 5” già proposto in “Llyrìa” (2010): la ricerca spazio-temporale in cui Bärtsch inserisce il suo pianismo è assolutamente straordinaria e mai conosce un attimo di stanca pur articolandosi su poche note che comunque delineano un quadro ben preciso. L’album si chiude con lo splendido “Déjà-vu, Vienna”, il pezzo più breve di “Entendre” (5:15), dal vago sapore impressionistico e dalla riconoscibile linea melodica elemento non certo usuale nelle concezioni di Bärtsch.

Enzo Carniel, Filippo Vignato – “Aria” – Menace

E’ davvero un piacere presentare questi due giovani straordinari musicisti che ancora non sono molto conosciuti dal pubblico italiano, ma la cui collaborazione era forse scritta negli astri dal momento che ambedue sono nati nel 1987. Enzo Carniel è un pianista francese dedito allo studio dello strumento sin da giovanissimo; sale agli onori della cronaca nel 2019 quando incide, con il gruppo House Of Echo, l’album ‘Wallsdown’. Filippo Vignato è a ben ragione considerato l‘astro nascente del trombonismo jazz italiano; anch’egli ha cominciato a studiare musica sin da bambino (a dieci anni) e oggi può vantare uno stile e una tecnica assolutamente personali. Ad onta delle difficoltà notoriamente insite in un duo, soprattutto se due artisti si cimentano per la prima volta in un organico del genere, questo “Aria” evidenzia una profonda empatia, un’intesa che trova la sua ragion d’essere nell’idem sentire dei due musicisti. Così il dialogo si svolge su binari sicuri anche se non banali, mai dando così all’ascoltatore l’impressione del ‘già sentito’ o peggio ancora di moduli predefiniti. Il risultato è un sound del tutto particolare determinato anche dall’uso del Fender Rhodes e dei sintetizzatori, la visione di un universo musicale multicolore, in cui i due artisti improvvisano continuamente essendo perfettamente in grado l’uno di capire le intenzioni dell’altro, in un susseguirsi si input, di stimoli, di processi creativi che si susseguono senza soluzione di continuità. Il tutto impreziosito da una riuscita ricerca sulle linee melodiche che costituiscono l’ossatura stessa dell’intero repertorio, otto brani tra cui spicca per intensità emotiva “Aria” la composizione che apre l’album in acustica per chiuderlo in versione elettronica. L’album, uscito il 16 aprile scorso per l’etichetta franco-giapponese Menace è stato anticipato da due singoli: la title-track Aria uscito il 5 febbraio e Babele uscito il 10 marzo.

Vittorio Cuculo Quartet – “Ensemble” – Wow Records

Lo stato di maturità del jazz italiano è dimostrato, seppur ce ne fosse ancora bisogno, dal proliferare di nuovi talenti. Tra questi c’è senza dubbio alcuno il ventisettenne sassofonista romano (alto e soprano) Vittorio Cuculo al suo secondo album. Il titolo è determinato dal fatto che il quartetto capitanato da Cuculo incontra i sassofoni della Filarmonica Sabina “Foronovana” con risultati eccellenti ma di cui parleremo tra poco. Il quartetto comprende, altre al leader, Danilo Blaiotta al pianoforte, Enrico Mianulli al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e in veste di special guest Lucia Filaci che interpreta con coraggio e bravura la cover di “Brava”, il pezzo di Bruno Canfora portato al successo da Mina. Il resto del repertorio è costituito da sei brani standard appartenenti alla tradizione jazz frutto della verve compositiva di alcuni grandi quali Charlie Parker, Errol Garner, Juan Tizol, Thelonius Monk, Rogers & Hart e due composizioni originali di Roberto Spadoni. Ciò detto vediamo più da vicino la musica proposta. Si tratta di un jazz mainstream che si rifà chiaramente agli stilemi del bop e dell’hard-bop interpretato con efficacia dal gruppo nel suo complesso che ben si amalgama con i fiati della Filarmonica, dando vita ad un sound particolare. Ovviamente sempre in primo piano il leader che data la scelta del repertorio comunica apertamente l’intento di volersi confrontare con un certo tipo di jazz sebbene avvalendosi di nuovi arrangiamenti, firmati da Riccardo Nebbiosi, Mario Corvini, Roberto Spadoni e Massimo Valentini. Ora che un giovane musicista scelga di suonare bop, ci sta tutto…ci mancherebbe altro. Solo che ci piacerebbe ascoltare Cuculo anche in contesti diversi in cui magari le eccelse capacità tecniche non sono poi così fondamentali.

Joe Debono Quintet – “Acquapazza” – Anaglyphos

Dino Rubino alla tromba e al flicorno, Rino Cirinnà al sax tenore, Joe Debono al pianoforte, Nello Toscano al contrabbasso e Paolo Vicari alla batteria sono i componenti del Joe Debono Quintet. Prodotto dall’etichetta discografica Anaglyphos Records e supportato da Malta Arts Fund – Arts Council Malta, la tracklist del CD è formata da otto composizioni originali del pianista, e da “Innu Lil San Guzepp”, un inno di San Giuseppe composto dal compositore maltese Carlo Diacono all’inizio del ventesimo secolo. In un momento come l’attuale, in cui il jazz si sta praticamente frammentando in moltissimi rivoli, in cui non sempre è facile trovare tracce di un passato anche se non remoto, questo album ci riporta in piena atmosfera jazz, senza equivoci di sorta. Il linguaggio di tutti è perfettamente in linea con le migliori tradizioni della musica afro-americana senza per ciò peccare di pedissequa imitazione. Ottima la ricerca sul sound come dimostra l’impasto sonoro determinato dalle parti suonate all’unisono da sassofono e tromba, sempre ben sostenute da una eccellente sezione ritmica. E al riguardo non si può non sottolineare da un canto la conferma a livelli straordinari di un musicista come Dino Rubino (che forse molti non lo sanno ma suona benissimo anche il pianoforte) e la rapida ascesa di Paolo Vicari batterista giovane ma già in possesso di una buona tecnica. Ovviamente più che positivo l’apporto di Rino Cirinnà sassofonista di vaglia e di Nello Toscano contrabbassista siciliano tra i più validi a livello nazionale. Bisogna comunque dare atto a Joe Debono, pianista e compositore maltese, di aver saputo costituire un quintetto capace di produrre un jazz elegante, raffinato, con un repertorio assolutamente confacente alle caratteristiche dei singoli musicisti. Si ascolti al riguardo “Gigi”, brano dolcissimo introdotto dallo stesso Debono e ben sviluppato dai fiati.

Alessandro Deledda – “La linea del vento” – Le Vele

Undici brani originali declinati attraverso una interpretazione per piano solo. Con questo album Alessandro Deledda, jazzista sardo che abita a Perugia, abbandona la strada tracciata in precedenza sia con l’elettro-jazz di “Conception & Contamination” del 2011 assieme a Simone Alessandrini, sax e Mirko Ferrantini, dj, ritmiche, sia con il CD del 2014, “Morbid Dialogues” in cui era alla guida di un quartetto di chiara impronta jazzistica con Francesco Bearzatti al sassofono, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria. Infatti questa volta si presenta al pubblico nella duplice veste di compositore (il repertorio è tutto da lui scritto) ed esecutore. Il risultato è apprezzabile: le composizioni sono ben strutturate, con una bella linea melodica, e inserite in un ambito in cui le sensazioni più intimiste sembrano prevalere sul resto. Non a caso alcuni titoli – “Ginevra”, “Sulla strada di casa tua”, “L’Aquilone”, “Gino e l’ulivo” – sembrano riferirsi ad esperienze direttamente vissute dal musicista. Così ad esempio “Madreterra” è un esplicito omaggio alla terra natia mentre “Ginevra”, afferma Deledda, “è la storia di una cagnolina, chiamata Ginevra che ritrova nella sua nuova famiglia il suo sorriso, abbandonato nel bosco con le sue fragilità, per andare a vivere fedele una nuova melodia”. Dal punto di vista esecutivo lo stile pianistico di Deledda rifugge sia da qualsivoglia sperimentazione sia da passaggi particolarmente complessi e arditi per frequentare terreni più aperti alla comprensione, in cui i riferimenti al jazz si mescolano con quelli alla popular music.

Massimo Donà – “Magister Puck” – Caligola

A solo un anno da “Iperboliche distanze”, ecco tornare sulle scene discografiche il filosofo–trombettista Massimo Donà (nell’occasione anche chitarrista e rapper), alla testa di un ampio organico in cui spiccano i nomi del sassofonista Michele Polga e del batterista Davide Ragazzoni, quest’ultimo unico musicista presente, insieme al leader, in ogni traccia del Cd; in un solo brano (“E chi no”) è possibile ascoltare anche Francesco Bearzatti. Questo nuovo album, “Magister Puck”, si sostanzia, quindi, di colori, atmosfere assai diversificate pur mantenendo una sua coerenza di fondo. Ecco, quindi, in apertura “Topi in terrazza” di chiara impronta funky così come “Tagology” che non a caso presenta quasi lo stesso organico del pezzo di apertura con, oltre al leader, Michele Polga al sax tenore, Maurizio Trionfo alla chitarra, Stefano Olivato basso e clavinet, Davide Ragazzoni batteria, assente, quindi, Bebo Baldan al sintetizzatore. Più influenzato dal pop, seppure di classe, “I’m in Love” impreziosito dalla voce di Paola Donà e con un bell’assolo, vagamente davisiano, del leader. Anche “Magister Puck’s Theory” sembra seguire le orme del precedente “I’m in Love” prima di trasformarsi in un incalzante rap dal testo significativamente ironico. Nel brano decisamente più lungo dell’intero album, “E chi no”, si rinnova la collaborazione tra Massimo Donà e David Riondino che frutti succosi aveva già dato nel precedente album dello stesso trombettista, “Iperboliche distanze”, dedicato alla figura del grande filosofo veneto Andrea Emo. Il disco si chiude con una registrazione del 1989, “Irrisoluzione cromatica”, ad opera di un sestetto di chiara derivazione davisiana post ’69.

Cettina Donato, Ninni Bruschetta – “I siciliani – Vero succo di poesia” – Alfa Music

Pochi anni fa ero stato fin troppo facile profeta nel prevedere che Cettina Donato sarebbe divenuta una delle punte di diamante del jazz mady in Italy. Ciò perché sin dall’inizio l’artista messinese mostrava una completezza straordinaria essendo allo stesso tempo, pianista preparata, compositrice assai feconda, capace direttrice anche di grosse formazioni. Il tutto è ben compendiato in questo ultimo album in cui si fortifica quella stretta collaborazione che oramai va avanti da qualche tempo tra Cettina e l’attore, regista anch’egli siciliano, Ninni Bruschetta. I due sono reduci dai successi teatrali de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, i quali, dopo aver interpretato un testo di impegno civile servendosi solo di voce e pianoforte presentano adesso il volto poetico e letterario dell’isola. Di qui l’album “I siciliani”: otto pezzi originali scritti dalla Donato con testi dello scrittore siciliano Antonio Caldarella scomparso nel 2008, interpretati da un gruppo con Dario Cecchini (clarinetto basso, sax soprano e baritono), Dario Rosciglione (contrabbasso e basso elettrico), Mimmo Campanale (batteria e percussioni) con l’aggiunta degli archi della B.I.M. Orchestra e dell’attrice e cantante Celeste Gugliandolo (che interpreta “Le siciliane”). Tutti gli altri brani sono affidati alla voce spesso roca e graffiante di Bruschetta che si amalgama in maniera straordinaria con il pianismo della Donato e più in generale con il sound dell’ensemble. Come sottolineato in apertura, la Donato trova quindi terreno fertile per evidenziare tutte le sue capacità, di strumentista, di compositrice, di arrangiatrice e di direttrice d’orchestra, in un alternarsi di atmosfere che forse solo un siciliano doc può capire sino in fondo. Una musica che sottolinea alcune peculiarità di una terra tanto straordinaria quanto ancora oggi ben difficile da vivere.

Ganelin, Kruglov, Yudanov – “Access Point” –Losen Records

Ecco un trio di assoluto livello internazionale composto da Slava Ganelin al pianoforte, tastiere, live electronics e percussioni, Alexey Kruglov sax alto e soprano, Oleg Yudanov batteria e percussioni, vale a dire tre dei migliori esponenti del free jazz russo. Quindi un organico non usuale caratterizzato dalla mancanza del contrabbasso, impegnato in un repertorio di sei brani interamente scritto dai tre. Registrato il 13 novembre del 2017, l’album rappresenta uno dei migliori esempi di free jazz realizzato in Europa in quest’ultimo decennio. La cosa non stupisce più di tanto ove si consideri la statura artistica del russo Ganelin già noto al pubblico del jazz per il suo fantastico trio con Tarasov e Chekasin. Questa volta a completare il trio sono due altri jazzisti ma il risultato finale non cambia granché. Nato nel 2012 il trio frequenta il terreno della libera improvvisazione in cui non esistono strutture predefinite che viceversa si creano nel momento stesso in cui si suona, quindi in quello strettissimo lasso di tempo che passa dall’idea musicale all’esecuzione. Quasi inutile sottolineare come la musica sia caratterizzata da una forte energia creativa che trova in Ornette Coleman il suo nume tutelare e che mai conosce un attimo di stanca con i tre musicisti che riescono a ritagliarsi spazi appropriati alle loro grandi possibilità. Il clima generale dell’album è perfettamente disegnato sin dal primo brano, quando dopo una sorta di introduzione a tempo lento il sassofonista prende in mano le redini del gruppo e si lancia in una trascinante improvvisazione, seguito a ruota da Ganelin mentre Yudanov sorregge il tutto con precisione; a circa 2:40 Ganelin si sostituisce a Kruglov mantenendo un clima incandescente che non muta quando a circa tre quarti dell’esecuzione Kruglov passa al sax soprano. E sarà poi questa l’atmosfera che si respirerà durante tutto l’arco dell’album.

Vijay Iyer – “Uneasy” – ECM

Nato ad Albany da genitori indiani di etnia dravidica Tamil, Vijay a cinquant’anni viene giustamente considerato uno dei migliori pianisti jazz oggi in esercizio. Considerazione conquistata grazie ad un talento cristallino e ad una personalità molto forte che è riuscita a coniugare un profondo sapere extra-musicale (è laureato in matematica e fisica alla Yale, insegnante ad Harvard, esperto in psicologia cognitiva con specifico riferimento alla capacità psico-fisica di relazionarsi ai vari linguaggi musicali) con una straordinaria dedizione alla musica essendo giunto al ventiquattresimo disco da leader, senza considerare le moltissime composizioni eseguite anche da formazioni non jazzistiche. In questo “Uneasy” Vijay suona in trio con Linda May Han Oh, contrabbassista di origine malese ma cresciuta in Australia e poi negli States e Tyshawn Sorey alla batteria, personaggio ben apprezzato sia nella musica classica sia nel jazz. In repertorio dieci composizioni tutte scritte dal pianista eccezion fatta per “Night and Day” di Cole Porter e “Drummer’s Song” di Gery Allen. Il clima nel cui ambito si muove Iyer è quello bop e post-bop, quindi un jazz sanguigno che si rifà alle radici più autentiche della musica afro-americana e che proprio per questo necessita di una profonda conoscenza della materia. Conoscenza che sicuramente non manca nel bagaglio dell’artista, il cui pianismo si svolge solido per tutta la durata dell’album validamente supportato da batteria e contrabbasso precisi e propositivi nella loro costante azione. Non si esagera affermando che tutti i brani meritano un attento ascolto anche se lo standard “Night and Day” si fa particolarmente apprezzare per come l’artista riesce a personalizzare il brano senza alcunché perdere né dell’originaria riconoscibilità né tanto meno della sua splendida linea melodica. Particolarmente interessante anche “Entrustment, brano di profonda suggestione, intimista, a chiudere nel modo migliore un album assolutamente consigliato.

Sinikka Langeland – “Wolf Rune” – ECM

Il Kantele è lo strumento tipico della musica folkloristica finlandese e Sinikka Langeland è specialista di questo strumento nonché cantante folk di Finnskogen, la « foresta finlandese » norvegese. In questo sesto album targato ECM, Sinikka, diversamente da altri album, si appalesa in splendida solitudine utilizzando ben tre tipi di kantele, a cinque, a quindici e a trentanove corde, facendoci così apprezzare le innumerevoli sfaccettature dello strumento. Nella maggior parte dei brani Sinikka si esprime anche vocalmente, il tutto ad elaborare un’espressività che questa volta nulla ha da spartire con il linguaggio jazzistico, restando, comunque, sulla scorta di un’estetica che nella ECM ha trovato la sua più completa estrinsecazione. Insomma una musica tutta giocata su melodie ampie, ariose, spesso evocative, alle volte venate da quella sorta di dolce malinconia che attraversa le atmosfere nordiche. Una profondità d’ispirazione che caratterizza oramai le realizzazioni della Langeland, ispirazione che specie se, come chi scrive, conosci quei luoghi, non può non toccarti nel profondo. Dal punto di vista testuale, Sinikka ha tratto ispirazione da molte fonti: ecco quindi il drammaturgo Jon Fosse accanto al filosofo e mistico del tredicesimo secolo Meister Eckhart… e ancora il poeta norvegese Olav H. Hauge. In tale contesto suggerire un brano in particolare è impresa quanto mai ardua anche se la title track appare degna di particolare attenzione: brano molto delicato ed intimista racconta l’inverno, ovvero quello stato della natura in cui tutto pare fermarsi prima del risveglio primaverile. Per raccontarci tutto ciò l’artista alterna l’archetto al pizzichio delle dita sullo strumento e chiude il brano con la sua voce che si alza stentorea sull’accompagnamento strumentale.

Giovanni Maier, Massimo De Mattia – “Tilt – Improvised Concerto for Flute and Chamber Orchestra” – Artesuono

Ecco una preziosa realizzazione della Artesuono concepita per festeggiare la sua duecentesima produzione discografica: un cofanetto in edizione limitata di 300 copie, numerate a mano, contenente un CD audio, le tavole con le partiture pittoriche realizzate da Giovanni Maier, e le foto delle registrazioni scattate da Luca D’Agostino.
L’album è stato registrato dal vivo al teatro Revoltella di Trieste il 19 e 20 giugno 2019 durante il festival “Le Nuove Rotte del Jazz 2019”. Ora, al di là della bellissima confezione, la musica che viene proposta è di altissimo livello essendo stata concepita ed eseguita da due dei nostri migliori improvvisatori quali il flautista Massimo De Mattia e Giovanni Maier quest’ultimo nelle vesti anche di conduttore dell’organico comprendente musicisti e allievi del Conservatorio ‘G. Tartini’ di Trieste: Angelica Groppi, Rachele Castellano e Giovanni Dalle Aste (Viola), Simone Lanzi (Contrabbasso), Iva Bobanović (Chitarra classica), Piercarlo Favro (Chitarra), Anna Talbot (Arpa), Luigi Vitale (Vibrafono, Percussioni). Qui siamo nel campo della totale improvvisazione: la prassi esecutiva è quella della “conduction” per cui Maier fornisce agli esecutori una serie di comandi che fanno evolvere il flusso musicale in un senso piuttosto che in un altro. Certo questa tecnica produrrebbe frutti amari se non ci fossero artisti in grado di ben interpretarla: ecco Massimo De Mattia credo che sia in senso assoluto uno dei migliori del nostro Paese; improvvisatore dotato di una eccezionale musicalità è in grado di assorbire nella propria musica (e gliel’ho sentito fare personalmente) l’inaspettato cinguettio di un uccello così come il risuonare delle campane. Notevole anche il ruolo del vibrafonista Luigi Vitale che alterna un ruolo da solista a quello di rinforzo dell’orchestra. Partendo da queste premesse è facile capire come l’album, per chi sa ascoltare con orecchie e mente ben aperte, è da gustare nella sua interezza.

Michael Mantler – Coda, Orchestra Suite – ECM

Album davvero particolare questo di Michael Mantler, che si inserisce nel solco tracciato dal precedente album “Jazz Composer’s Orchestra Update” osannato dalla critica internazionale. Questa volta Mantler compie un’operazione ancora più audace; sceglie, nell’ambito della sua larga produzione, alcuni brani che considera particolarmente significativi e li riarrangia in forma di suite per farli eseguire da un’orchestra comprendente musicisti jazz e classici. Così i brani che ascoltiamo provengono dai seguenti album: “13 and ¾”, “Cerco un paese innocente”, “Alien”, “Folly Seeing All This”, “For Two” e “Hide And Seek”. Il risultato è semplicemente spettacolare grazie anche ai solisti di vaglia presenti in orchestra: Maximilian Kanzler acclamato come uno dei migliori giovani percussionisti e vibrafonisti del momento; il chitarrista Bjarne Roupé, membro fondamentale della Mantler’s Chamber Music and Songs Ensemble; il pianista austriaco David Helbock che a soli 37 anni è già un’icona della scena jazz europea… per non parlare dello stesso leader che si fa apprezzare, more solito, come eccellente trombettista. A tutto ciò si aggiunga la preziosa opera dell’Orchestra nel suo insieme (ben 26 elementi) e si avrà un quadro più preciso del perché si è definito spettacolare l’esecuzione di questa compagine. Tra i membri dell’orchestra da segnalare la presenza della croata violoncellista Asja Valcic che aveva già collaborato con Mantler nell’incisione dell’album “Jazz Composer’s Orchestra Update”. Coda è stato registrato al “Vienna’s Porgy & Bess Studio” nel settembre del 2019, e missato presso gli studi La Buissonne in Francia.

Mike Melillo – “In Free Association” – Notami

Il pianista americano Mike Melillo pubblica il suo nuovo album “In Free Association”, tratto da un radio-concerto effettuato nella primavera del 1974 in quartetto con Roy Cumming (contrabbasso), Glenn Davis (batteria) e Harry Leahey (chitarra). Essendo oggi impossibile ammirare ancora questo gruppo data la dipartita di Harry Leahey, l’ascolto di queste registrazioni, finora inedite, risulta ancora più interessante. La genesi del combo viene riassunta brevemente dallo stesso Melillo nelle note che accompagnano l’album. Apprendiamo, così, che inizialmente si trattava di un trio (senza Leahey) per cui Melillo componeva pezzi orchestrali e da camera sperimentali, Nel ’71, con l’arrivo di Leahey, il trio è diventato un quartetto che ha avuto un buon successo grazie alla qualità della musica proposta e che ritroviamo in questo album. In repertorio sei brani di cui tre scritti dal leader e gli altri tre vere e proprie perle del jazz come “Criss Cross” di Thelonious Monk, “Mimi” di Rodgers e Hart e “What’ll I Do” di Irving Berlin. Il tutto a costituire un insieme omogeneo e di grande livello. In effetti quello proposto dal gruppo è un Jazz senza se e senza ma, un jazz che si rifà agli stilemi del bop e dell’hard-bop con un Melillo che mette in evidenza le sue doti migliori. Un pianismo sorretto da una formidabile tecnica di base, che affronta con eguale bravura sia temi particolarmente complessi e sorretti da un ritmo veloce come “Criss Cross” e “See Hunt and Liddy” in cui si fa apprezzare anche la chitarra di Harry Leahey, sia brani più melodici come “A Little Piece” dello stesso Melillo e “What’ll I Do”. Impeccabile la sezione ritmica. Infine una notazione di carattere tecnico: nonostante si tratti di una ripresa da trasmissione radiofonica, la resa complessiva è più che accettabile.

Stephan Micus – “Winter’s End” – ECM

Ascoltare la musica del tedesco Stephan Micus (classe 1953) è come addentrarsi in una foresta incantata, impreziosita da episodi di rara bellezza. Episodi determinati dalle sorprese che in ogni sua avventura questo personaggio ci propone. In qualunque contesto si abbia la fortuna di incontrare l’arte di Micus, la mente vaga ben al di là del contingente, alla ricerca di un approdo che mai risulta facile trovare, e ciò indipendentemente dalla preparazione musicale di ciascuno. Siamo trasportati in un mondo “altro” in cui le certezze vacillano alla ricerca di un qualche appiglio sonoro che ci restituisca punti fermi, conoscenze a cui rifarsi. In effetti la musica di Micus non ammette di essere incasellata in un genere ben preciso per cui si mantiene ben lontana da qualsivoglia proposta commercialmente allettante. Più sopra si accennava alle sorprese che ogni volta il musicista ci riserva: questa volta la novità consiste nell’utilizzo di due strumenti presentati da Micus per la prima volta: il chikulo e il tongue drum. Il primo, come spiega lo stesso Micus nelle note di copertina, è uno xilofono basso del Mozambico utilizzato in gruppi che solitamente comprendono una dozzina di xilofoni, mentre il tongue drum è una scatola di legno originaria dell’Africa che può essere suonata con le mani o con le bacchette. Ora detta così non ci sarebbe alcunché di strano … salvo il fatto che Micus non è solo un compositore e un sorprendente polistrumentista ma un etnomusicologo costantemente in evoluzione e in viaggio, soprattutto in Asia e in Africa, con l’intento di scovare e studiare strumenti desueti, talvolta addirittura dimenticati. Una volta trovati, li modifica con nuove accordature prima di adoperarli, con risultati strabilianti. È impressionante il numero di strumenti che padroneggia, strumenti che si ascoltano nelle musiche originali di tutti i continenti. Ciò detto risulta facile immaginare la musica di quest’ultimo album in cui Micus, come al solito in assoluta solitudine, ci racconta a modo suo il fluire della vita attraverso il succedersi delle stagioni. Un album sicuramente impegnativo ma altrettanto certamente di sicuro interesse.

Mirabassi – Di Modugno – Balducci – “Tabacco e caffè” – Dodicilune

Così come nello sport non basta assemblare ottimi giocatori per fare una buona squadra, così nella musica non è detto che tre pur bravi musicisti riescano a produrre qualcosa di buono. Certo che se poi i tre musicisti rispondono ai nomi di Gabriele Mirabassi al clarinetto, Nando Di Modugno alla chitarra e Pierluigi Balducci alla chitarra basso le probabilità di ascoltare dell’ottima musica aumentano… e di tanto. Ed in effetti ottima musica è quella che si ascolta in questo “Tabacco e caffè” registrato sei anni dopo “Amori sospesi” che vedeva impegnato lo stesso trio. La linea ispirativa rimane sostanzialmente la stessa: una sorta di viaggio sulla rotta Mediterraneo, America del Sud attraverso un linguaggio originale in cui coesistono jazz, folk, tradizione classica. E non è certo un caso che in repertorio figurino nove brani di cui quattro composizioni originali rispettivamente di Mirabassi (“Espinha de truta”), Di Modugno (“Salgado”) e Balducci (“Tobaco y cafè” e “La ballata dei giorni piovosi”) e cinque riletture di brani più o meno celebri di Toninho Horta (“Party in Olinda”), Henry Mancini (“Two for the road”), Egberto Gismonti (“Frevo”), Guinga (“Ellingtoniana”) e della conclusiva “Choro bandido” firmata da Edu Lobo e Chico Buarque. Indipendentemente dal pezzo affrontato, l’interpretazione rimane calda, oseremmo dire intimista, con i tre che dialogano piacevolmente, in piena rilassatezza senza un solo momento in cui il trio sembra spinto verso lidi che non siano comuni ai tre. Interessanti le note di copertina di Gabriele Mirabassi in cui il clarinettista illustra l’importanza del tabacco e del caffè considerati vizi ma che in realtà “più di tutto sono modi di stare insieme. In Italia poi, veri fondamenti della cultura nazionale”.

Dino Plasmati, Antonio Tosques, Guitar Quartet – “On Air” – Caligola

Dino Plasmati chitarra, Antonio Tosques chitarra, Bruno Montrone organo e Marcello Nisi batteria sono i protagonisti di questa nuova produzione firmata Caligola. Particolarmente impegnativo il programma dal momento che comprende una serie di brani ‘storici’ con un solo pezzo originale scritto da Plasmati, “Boundless Energy”. Come recita il nome del gruppo, a indirizzare il tutto sono le due chitarre di Plasmati e Tosques suonate con tecnica tradizionale, senza cioè l’ausilio dell’elettronica, e questa “guida” si avverte ben certa per tutta la durata dell’album anche se non mancano, ovviamente, momenti in cui in primo piano sale l’Organo Hammond nelle sapienti mani di Bruno Montone; è il caso dell’original cui si faceva riferimento. Per il resto i due leader guidano il gruppo con mano sicura per nell’affrontare temi che sulla carta mal si prestano ad interpretazioni chitarristiche: è il caso ad esempio del brano d’apertura, “Airegin”, scritto da Sonny Rollins. Ma da questo punto di vista le sorprese non mancano: ecco quindi la convincente disinvoltura con cui eseguono “Your own Sweet Way” di Dave Brubeck o la delicatezza con cui cesellano “I’ve Accustomed to Her Face” di Loewe Lerner complice anche il bel lavoro di Montrone all’Hammond. O ancora la pertinenza di linguaggio con i ritmi sudamericani di “When Sunny Gets Blue” di Fisher-Segal, in cui si apprezza anche l’eccellente supporto di Nisi alla batteria. A chiudere una convincente interpretazione del colemaniano “Turnaround” eseguito dai due chitarristi senza sezione ritmica.

Emanuele Sartoris, Daniele Di Bonaventura – “Notturni” – Caligola

Ancora un duo e ancora bella musica. Protagonisti Emanuele Sartoris al pianoforte e Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Vista la struttura dell’organico, si poteva temere una certa staticità dell’album a discapito del possibile interesse dell’ascoltatore. Pericolo assolutamente evitato dai due artisti che invece sfoggiano una verve fantastica dando vita a otto composizioni originali scritte dai due singolarmente o in cooperazione, che tengono desta l’attenzione dalla prima all’ultima nota. Merito da un canto della bellezza dei temi tutti caratterizzati da un’accurata ricerca melodica, dall’altro dalla perizia strumentale dei due che pur non sfoggiando alcuna particolare ricercatezza tecnica, suonano comunque con grande partecipazione e intensità. Doti che non si affievoliscono – anzi – quando decidono di reinterpretare due notturni di Chopin vale a dire il Notturno op.9 n.1 e il Notturno op.9 n.2, che non a caso aprono e chiudono l’album. Insomma un disco più che interessante scaturito dall’incontro tra il pianoforte di Emanuele Sartoris, musicista che ben conosce anche la musica classica, e il bandoneon di Daniele di Bonaventura, uno dei maggiori interpreti internazionali dello strumento. Un disco che sembra quasi invitarci ad una sorta di viaggio interiore alla scoperta di ciò che è veramente importante. E ci piace chiudere questa breve presentazione citando le parole con cui il violoncellista di fama internazionale Mario Brunello conclude le sue preziose note di copertina: “Un viaggio slow, un cammino nel vissuto della musica, a cui si aggiungono le improvvisazioni e l’ispirazione di due formidabili e coraggiosi musicisti che hanno il talento sincero per avvicinarsi ed addentrarsi nella magica atmosfera dei Notturni”.

Thomas Strønen, Ayumi Tanaka, Marthe Lea – “Bayou” – ECM

Album d’esordio per questo trio composto dal batterista Thomas Strønen, dalla pianista Ayumi Tanaka e dalla clarinettista, vocalist, percussionista Marthe Lea. L’album si inserisce in quella corrente che a partire dagli anni ’70 ha portato il jazz norvegese ai massimi livelli delle scene jazzistiche internazionali. Vale a dire una musica che si rifà al patrimonio folkloristico delle popolazioni nordiche (in particolare norvegesi) declinata attraverso un linguaggio che incorpora elementi tratti dal jazz, dalla musica classica e ovviamente dal folk. Non a caso in programma ci sono dieci brani tutti scritti dai tre musicisti ma tutti basati sul folk norvegese. Quindi una musica delicata, intimista, che affronta spazi aperti quali sono quelli che si aprono alla nostra mente quando pensiamo ai paesaggi nordici. Ascoltare l’intero album è un’esperienza singolare tanto che ad un certo punto è come se il concetto spazio-temporale si perda per assorbici totalmente nell’atmosfera creata dai tre musicisti che denotano, improvvisando costantemente, un affiatamento non comune. D’altro canto la genesi del gruppo spiega la ragione di tale empatia: dapprima si trattava di un duo composto da pianista e batterista cui in un secondo tempo si è aggiunta Marthe Lea. I tre si sono, quindi, trovati assieme alla “Oslo’s Royal Academy of Music” dove per ben due anni hanno provato assieme ogni settimana alla ricerca di un quid che permettesse loro di suonare musica improvvisata. Evidentemente questo quid l’hanno trovato e così è nato questo “Bayou” frutto come afferma lo stesso Strønen di quelle esperienze: “Noi suonavamo sempre liberamente – afferma – mescolando elementi di musica classica contemporanea, folk, jazz, a seconda di come ciascuno di noi era ispirato al momento. Alle volte la musica era molto calma, delicata e minimalista: suonando assieme si sono generate alcune speciali esperienze”: Quelle stesse esperienze che si avvertono ascoltando l’album.

Trøen, Arbesen Quartet – “Tread Lightly” – Losen

La sassofonista norvegese Elisabeth Lid Trøen (eccellente anche al flauto) si presenta alla testa di un quartetto con Dag Arnesen al piano, Ole Marius Sandberg al basso e Sigurd Steinkopf alla batteria. Il repertorio è costituito da dieci brani di cui otto scritti dalla leader e due dal pianista. Due le linee direttrici dell’album: da un canto la ricerca della linea melodica, dall’altro la capacità di improvvisare sulla stessa. Per rendersi conto, ad esempio, della capacità dei quattro di tener fede a quanto sopra detto basta ascoltare “Just Thinking”: il brano si apre su tempo lento con una linea perfettamente riconoscibile ma dopo l’esposizione del tema con la Trøen al flauto ecco un assolo di pianoforte che si avventura nelle pieghe del brano per scoprirne e lumeggiarne ogni più nascosto anfratto mentre sul finale si riascolta il flauto della leader. “Sarah’s Bounce” si apre a tempo di marcia sospinta dalla batteria di Steinkopf il quale, nello scorrere del brano, dimostra di poter avere anche un approccio melodico allo strumento. In ogni caso il pallino resta nelle mani di sassofonista e pianista che dimostrano di essere complementari nel loro linguaggio dato che le sortite solistiche dell’una vengono riprese ed rilanciate a tutto tondo dall’altro. Altro brano particolarmente interessante “Partysvensken” che si distacca piuttosto nettamente dalle atmosfere degli altri brani data la sua vicinanza, in alcuni momenti, agli stilemi del free jazz. L’album si chiude con “Denne” il pezzo che maggiormente richiama le atmosfere nordiche grazie soprattutto ad un meditativo assolo del pianista; di rilievo anche l’assolo del bassista Ole Marius Sandberg. Ma a proposito di atmosfere nordiche, l’ascoltatore più attento non potrà non rilevare qua e là, spiccate influenze della musica popolare norvegese che tanta importanza ha avuto sulla musica di quel Paese grazie ad artisti quali Jan Garbarek e Terje Rypdal.

Blues Connection – “Italian Way to Feel Blues” – Notami

E’ con vero piacere che vi segnalo questo “Italian Way to Feel Blues” non solo per la validità del progetto ma anche perché è presente un musicista a cui sono legato da particolari legami affettivi, un organista che ho conosciuto quando ancora abitavo in Sicilia (quindi primissimi anni ’70) e che ancora a mio avviso non ha ottenuto i riconoscimenti che merita. Sto parlando di Pippo Guarnera nell’occasione non solo all’organo Hammond ma anche al pianoforte. Oltre a lui e ovviamente al leader Vince Vallicelli alle percussioni, troviamo Nahuel Schiumarini alla chitarra elettrica, Andrea Valeri alla chitarra acustica, Roberto Luti al dobro e Felice Del Gaudio al basso. Come si può facilmente intuire da quanto sin qui detto, la musica è trascinante con tutti gli artisti in grado di ritagliarsi importanti spazi di improvvisazione. Ecco quindi Pippo Guarnera primeggiare all’organo in “Art” di Vallicelli, per lasciare successivamente spazio alle chitarre di Schiumarini e Valeri nonché al dobro di Roberto Luti, il tutto sorretto da una metronomica sezione ritmica con batteria e basso che non sbagliano un colpo. Insomma musica che fa battere il classico piedino sia che si affrontino temi originali (ben sette sui nove proposti dall’album) sia che si rileggano pagine importanti come “After Hours” di Avery Parrish standard jazz tra i più eseguiti che venne registrato per la prima volta dal suo stesso autore con la Erskine Hawkins Orchestra, il 10 giugno 1940 o “Windy e Warm” di John D. Loudermilk considerato a ben ragione un classico del fingerstyle, ripreso da artisti di assoluto livello quali Chet Atkins, Doc Watson e Tommy Emmanuel.

I NOSTRI CD

Jon Balke – “Discourses”- ECM
Jon Balke è artista che mai delude ed anche questa sua ultima fatica discografica si mantiene su livelli di classe elevata. More solito, l’artista lascia prevalere l’espressività, i contenuti di ciò che si vuole comunicare, rispetto a qualsivoglia muscolare dimostrazione di tecnica strumentale Di qui un pianismo scarno, elegante, assai curato nel suono e integrato da interventi di elaborazione elettronica, quali «riverberi e riflessi del mondo che vengono distorti». Prima accennavo ai contenuti: in questo album il musicista nordeuropeo ha voluto altresì trasmettere un messaggio ben preciso, da lui stesso esplicitato con le seguenti parole: “Mentre nel 2019 il clima politico si inaspriva, con discorsi sempre più polarizzati, la mancanza di dialogo mi ha indirizzato verso i termini che costituiscono i titoli delle singole tracce”. Ma al di là degli enunciati e dei singoli titoli, la musica riesce a rispecchiare quanto dichiarato? A mio avviso sì: la musica di Balke accoglie in sé una serie di spunti, di idee anche contraddittorie così come avviene nel mondo reale. Ecco quindi espliciti riferimenti ad un certo romanticismo (“The facilitator”, “The container”) mescolarsi con influssi impressionisti (“The how”) senza dimenticare da un lato il grande J.S.Bach dall’altro il jazz nelle sue forme più attuali. Insomma una sorta di moderno caleidoscopio a riflettere in maniera perfetta il mondo interiore di un artista che nel corso di una lunga carriera ha sempre guardato al futuro, mai soffermandosi sui traguardi raggiunti.

Paolo Benedettini – “Re: Connections” – Double Record
Il contrabbassista Paolo Benedettini può vantare un ricchissimo e significativo curriculum a cominciare dal lungo periodo trascorso a New York dove è stato membro stabile del trio del compianto batterista Jimmy Cobb insieme al pianista Tadataka Unno; sempre negli States ha collaborato con molti altri artisti tra cui Harold Mabern, Joe Magnarelli, Joe Farnsworth, Eric Reed, e per le tournée europee Joe Farnsworth, Eric Alexander e David Hazeltine. Rientrato da poco in Italia ha firmato questo “Re: Connections” che sta ad indicare proprio il ritorno e quindi la riconnessione con il passato. Passato che si avverte pure nella scelta dei compagni d’avventura dal momento che il chitarrista Marco Bovi e il pianista Nico Menci hanno accompagnato spesso Benedettini nelle fasi iniziali della sua carriera. L’album è notevole; d’altro canto un artista del calibro di Ron Carter non si sarebbe speso a scriverne le liner notes se non fosse stato assolutamente convinto della musica proposta dal contrabbassista, e non si sarebbe spinto a dichiarare, cito testualmente, “La sua versione del mio brano “For Toddlers Only” vi stenderà, così come ha fatto con me”. Tra gli altri brani degni di menzione “Chovendo Na Roseira”, uno standard brasiliano di Jobim presentato in modo allo stesso tempo pertinente e originale, e “Il “Coro a bocca chiusa” della “Madama Butterfly di Puccini, uno dei due espliciti riferimenti alla musica lirica (l’altro è “Entr’acte I”, derivato dalla Carmen di Bizet).

Mauro Bottini – “By Night” – ACP
In “By night”, il sassofonista Mauro Bottini si presenta in compagnia di Cristiano Coraggio alla batteria, Marco Massimi al basso e Antonino Zappulla alle tastiere (pianoforte, Fender Rhodes e Organo), cui si aggiunge in un solo brano – “Rome by Night” scritto da Bottini – la pregevole chitarra di Rocco Zifarelli. L’album è dedicato alla notte, un momento particolare nella vita di tutti noi, ma ancora più particolare per i musicisti che di notte spesso vivono, suonano e quindi evidenziano la propria personalità. Personalità, nel caso di Bottini, delineata da tempo a disegnare un artista maturo, perfettamente conscio delle proprie possibilità e che, proprio per questo, non esita ad esibirsi nella triplice veste di sassofonista, leader e compositore. Insomma, già dall’ascolto di questo album, si può avere una visione chiara della bravura di Bottini che ci restituisce un quadro della “notte” a tinte variegate così come deve essere, in cui ad atmosfere fusion (si ascolti Rocco Zifarelli nel brano d’apertura), a tratti anche funk si alternano dolci ballad, il tutto caratterizzato da una fruttuosa ricerca sulle linee melodiche. Al riguardo da segnalare soprattutto “My Princess”, composta ancora da Bottini mentre sotto il profilo ritmico da ascoltare con particolare attenzione “If” di Antonino Zappulla.

Max De Aloe – “Just For One Day – The music around David Bowie” – barnum
Armonicista di grande sensibilità e dotato di un sound affatto personale, Max De Aloe si ripresenta alla testa del suo quartetto, stabile oramai da più di dieci anni, con Roberto Olzer al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria.
In repertorio tredici brani che rappresentano un viaggio attorno alla musica di David Bowie, una vera e propria icona del rock internazionale, con l’aggiunta di cinque pezzi composti dallo stesso armonicista. De Aloe affronta il non facile repertorio alla sua maniera, ovvero con sensibilità, eccellente senso melodico, grandi capacità architettoniche e quel suono che, come accennato in precedenza, costituisce la specialità della casa. Di qui una musica sorprendente che lungi dal caratterizzarsi come semplice riproposizione di brani già noti, tende a reinventarli secondo la personalissima visione del leader, in un momento particolare come l’attuale. In effetti è lo stesso Max, nelle note di copertina, ad informarci di come nei giorni in cui avrebbero dovuto essere in studio di registrazione, si è ritrovato vittima del Covid 19, allettato per più di un mese. La convalescenza è stata lunga e non senza problematiche cosicché sarebbe stato meglio attendere ancora un po’ prima di registrare. Ma De Aloe voleva registrare il prima possibile in quanto ciò che l’affascina nella musica “non è l’idea di perfezione ma la sua visceralità, autenticità e urgenza espressiva” Così il 20 luglio scorso è entrato in studio di registrazione e i risultati stanno lì a dimostrare quanto avesse ragione! Particolarmente toccante l’interpretazione di “Lazarus”, considerata a ben ragione la canzone simbolo del testamento musicale di Bowie

Massimiliano Génot, Emanuele Sartoris – “Totentanz – Evocazioni Lisztiane” – Dodicilune
Un duo pianistico impegnato in un repertorio originale ma esplicitamente ispirato alla musica di Franz Liszt, ad eccezione dei brani di apertura e chiusura dovuti rispettivamente a Génot e Sartoris, e al già citato Listz. Come si evidenzia da quanto detto, un esperimento già tentato nel mondo del jazz con esiti alterni in quanto collegare jazzisti al mondo classico è impresa certo non facilissima. Questa volta la sfida presenta due incognite in più: innanzitutto l’eterogeneità del duo in quanto mentre Massimiliano Génot è artista ben affermato nel mondo della musica classica, Emanuele Sartoris è pianista jazz; in secondo luogo “Totentanz”, opera non molto conosciuta, è stata scritta per pianoforte e orchestra. I due pianisti affrontano le complesse partiture con l’intento non di riprodurle sic et simpliciter, ma di fornirne una propria originale visione che si appalesa, particolarmente in due brani: “Toten-Rag” in cui il pensiero di Liszt viene declinato in termini di ragtime mentre in “Hispanic Barbarian Fantasy” i due pianisti tendono a sottolineare come la musica colta europea dell’ottocento e del novecento sia stata fortemente influenzata dalle musiche ispaniche a loro volta debitrici delle tradizioni arabe. Insomma come acutamente osserva Paolo Fresu nelle note di copertina, “un’opera senza confini capace di abbattere le tante barriere che il macabro mondo odierno edifica”.

Maurizio Giammarco – “Only Human” – PMR
Conosco Maurizio Giammarco da oltre quarant’anni per cui posso affermare, senza tema di smentita, che si tratta di una delle persone – al di là della statura artistica – intellettualmente più oneste che mi sia capitato di conoscere. Ed è in questo solco che si inscrive anche “Only Human” inciso con “Halfplugged Syncotribe” vale a dire la nuova versione espansa a quintetto del trio Syncotribe, già attivo da un quinquennio; il gruppo risulta quindi formato, oltre che dal leader, da Luca Mannutza il quale affianca all’organo anche il piano acustico e quello elettrico, da Paolo Zou, giovane chitarrista romano, dal bassista Matteo Bortone e dal batterista Enrico Morello. In repertorio nuove composizioni appositamente pensate per questo gruppo da Giammarco e presentate a gennaio scorso nell’ambito della rassegna Recording Studio. Il concerto è diventato per l’appunto questo “Only Human” che, come dichiara lo stesso Giammarco, “viene incontro a un sentimento d’insofferenza, ovvero quella che provo di fronte all’uso generalizzato e irresponsabile degli strumenti di comunicazione di massa”. Il titolo “Only Human” fa riferimento quindi al “risveglio di un nuovo umanesimo”. Di qui una musica non sempre facile, alle volte sghemba, caratterizzata come sempre da una indiscussa originalità, da un notevole equilibrio fra tradizione e sperimentalismo e da una ricca tavolozza sonora e timbrica dovuta soprattutto a Luca Mannutza e Paolo Zou che – dichiara ancora Giammarco – “suona la chitarra in modo differente da come solitamente la suonano i chitarristi di jazz, usando gli effetti e tutto il potenziale dello strumento”.

Bruno Marini – “4” – Arte Sonora
“Love Me or Leave Me” – Arte Sonora
Due gli album del baritonista veronese Bruno Marini in scaletta questa volta. In “4” il leader è accompagnato da Marcello Tonolo al piano, Marc Abrams al contrabbasso e Valeri Abeni alla batteria. In repertorio sei brani composti dallo stesso Marini (quattro) e da Tonolo (due), registrati a Verona nel luglio del 1985, già comparsi su LP e ora ripubblicati, dopo 35 anni, su CD. Si tratta, insomma, come sottolineato nella stessa copertina dell’album, di “historical tapes”. In realtà queste sono le prime tracce incise dal quartetto dopo un certo lasso di tempo speso a suonare in club e festival. Già allora il gruppo appariva ben rodato, in grado di produrre musica di eccellente livello, sempre in bilico tra pagina scritta e improvvisazione, grazie sia all’intesa tra i musicisti, sia alla bravura dei singoli; non a caso l’album venne registrato in soli cinque giorni.
Anche “Love me or leave me” contiene “historical tapes” dal momento che è stato registrato e pubblicato su LP solo due anni dopo il già citato “4” vale a dire nel 1987. Il sassofonista questa volta è in trio con Charlie Cinelli al contrabbasso e Alberto Olivieri alla batteria, quindi senza uno strumento armonico. In repertorio oltre agli otto brani contenuti nell’LP, “The Lady Is A Tramp” di Rodgers e Hart come bonus track. Alle prese con brani che fanno parte del song-book jazzistico come “Thelonious” di Monk, la title track di Donaldson e Kahn e “Bye Bye Blackbird” di Henderson e Dixon, Marini se la cava egregiamente denotando, già all’epoca, una raggiunta maturità suffragata da una grande padronanza tecnica e una buona capacità improvvisativa. Tra i brani da segnalare i due original di Marini, “Blue Mob” e “All the Things You Could Be”, che si rifanno piuttosto apertamente alle atmosfere disegnate da Gerry Mulligan nei primissimi anni ’50.

Mos Trio – “Metamorfosi” – Emme Record
Disco d’esordio per il “mOs trio” pubblicato il 10 aprile 2020 dall’etichetta Emme Record Label. Protagonisti Giuseppe Santelli al pianoforte, altresì autore di tutti i brani eccezion fatta per il celeberrimo “Take Five” di Dave Brubeck, Renzo Genovese al basso elettrico e Simone Ritacca alla batteria. A mio avviso la forza del trio si basa su due pilastri: da un canto il sapersi muovere tra diversi stili ma con un occhio sempre attento alla tradizione, dall’altro la profonda intesa che si è instaurata fra i tre e che li porta ad improvvisare ben sapendo che i compagni d’avventura non si perderanno per strada. Di qui una musica variegata che passa con disinvoltura, ma senza sbavature, dal jazz propriamente detto (si ascolti ad esempio il brano d’apertura “La strada del ritorno” con un Ritacca in evidenza) ad atmosfere latin-jazz come quelle disegnate in “Nostalgia” con una dolce linea melodica; dai suadenti ritmi dispari di ”Flowing” alla title track che, dopo un assolo di batteria, si apre ad una dolce melodia espressa dal pianoforte di Santelli ben sostenuto soprattutto da Renzo Genovese, il tutto con un occhio rivolto a certe forme della musica classica; dalla spagnoleggiante “A Toledo” al clima onirico di “My Thoughts” fino alla conclusiva “Take Five” la cui esecuzione è corretta…anche perché dire qualcosa di nuovo nell’interpretazione di questo pezzo è impresa molto, ma molto difficile, al limite dell’ impossibile.

Benjamin Moussay – “Promontoire” – Ecm
Novità in casa Ecm, l’incisione per piano solo del francese Benjamin Moussay che avevamo imparato a conoscere grazie alle registrazioni con il conclamato clarinettista Louis Sclavis (“Sources” 2012, “Salt and Silk melodies” 2014, “Characters On A Wall” pubblicato nel settembre del 2019, tutti e tre targati ECM) e con il nostro Francesco Bearzatti (“Dear John“ maggio 2019). Con “Promontoire” Moussay offre la sua più intima e personale proposta, caratterizzata da un profondo lirismo e da una non comune intensità espressiva. Registrato tra il gennaio e l’agosto del 2019, l’album presenta dodici composizioni originali dello stesso pianista, tutti di durata inferiore ai 5 minuti, e tre addirittura al di sotto dei due minuti. Quindi da un lato l’intenzione dell’artista di non battere vie conosciute, avventurandosi nella creazione dell’intero repertorio; dall’altro l’esposizione di un pianismo fatto di brevi frasi, essenziale, a tratti quasi minimalista e purtuttavia con due sostanziali punti di riferimento: Bill Evans e Keith Jarrett. Moussay si mantiene sempre in un difficile equilibrio tra l’improvvisazione propria del linguaggio jazzistico ed un occhio attento alle più moderne espressioni della musica colta. In questo senso vanno lette alcune sue composizioni quali, ad esempio, “Théa” che forse non a caso chiude l’album. Tra gli altri brani di particolare interesse “L’oiseau d’or” probabilmente il brano più prettamente jazzistico dell’intero album.

Francesca Naibo – “Namatoulee” – Aut records
Tanto straniante quanto interessante questo album d’esordio della chitarrista veneta, milanese d’adozione, Francesca Naibo, che si esprime in assoluta solitudine. L’artista è giunta a questa prima fatica discografica dopo essersi fatta conoscere grazie alle collaborazioni con personaggi quali Marc Ribot e George Lewis. Straniante, dicevo, perché qui siamo davvero nell’apoteosi del sound. In effetti trovare in questa musica una qualsivoglia traccia melodica è impresa quanto mai difficile; si trascurano le parole e si va al di là di qualsivoglia schema predefinito. In compenso l’ascoltatore è immerso in un’orgia di suoni in cui la Naibo appare come una sorta di deus ex machina capace di padroneggiare questa materia incandescente in cui la libera improvvisazione di chiara matrice jazzistica e propria soprattutto delle avanguardie afroamericane si confronta e dialoga con le più acute sperimentazioni in campo sonoro proprie della colta musica contemporanea. In buona sostanza si tratta di una sfida aperta che la Naibo affronta forte di una solidissima preparazione tecnica e, probabilmente quel che più conta, con una straordinaria lucidità che le consente di andare avanti per la sua strada alla ricerca di forme espressive assolutamente nuove ed originali. Qualcuno ha voluto paragonare la Naibo alla Mary Halvorson, parallelismo a mio avviso forse un po’ troppo frettoloso: aspettiamo e vediamo quel che succede!

Chiara Pastò – “The Other Girl” – Velut Luna
Devo onestamente ammettere che questo album mi ha molto stupito: mi era stato presentato quasi come un disco di musica leggera ed ho invece scoperto un CD raffinato, concepito molto bene, registrato in maniera superlativa (così com’è consolidato costume della Velut Luna e del produttore Marco Lincetto) e che sfugge a qualsivoglia criterio di classificazione …certo escludendo la musica colta e quella contemporanea. Protagonista una vocalist di sicuro spessore quale Chiara Pastò, che può vantare una solida preparazione di base: canto, violino, pianoforte imparati appena adolescente, quindi il conservatorio di Vicenza dove studia con importanti personalità del jazz italiano quali Francesca Bertazzo, Salvatore Maiore, Piero Tonolo, Mauro Beggio, Paolo Birro. I primi passi professionali nel 2018 quando firma un contratto di esclusiva con la casa discografica Velut Luna con cui nel 2019 incide il suo primo disco. Ed ecco ora questo “The Other Girl” in cui la vocalist mette sul tappeto tutto il suo patrimonio musicale in cui è facile individuare echi di Joni Mitchell, Pearl Jam, Fred Bongusto, Mango, Luigi Tenco, Milva, Ornella Vanoni, Francesco De Gregori, Steve Wonder e Dee Dee Bridgewater. Una ricchezza di orizzonti che le consente di affrontare un repertorio non facilissimo composto in massima parte da brani originali con l’eccezione di “Lontano, lontano” di Luigi Tenco e “Cry Me A River” di Arthur Hamilton. Ben coadiuvata da un ensemble di eccellenti professionisti e da un’orchestra d’archi e da ottimi arrangiamenti curati in massima parte da Fabrizio Castania, la Pastò si esprime con grande coerenza lungo tutto l’album, evidenziando una timbrica originale e una grande capacità di interpretare i testi (per altro notevoli) in lingua italiana.

Oscar Pettiford – “Baden-Baden 1959, Karlsruhe 1958” – Jazz Haus
Oscar Pettiford fu uno dei più influenti contrabbassisti della storia del jazz tanto da definire uno stile esecutivo preso a modello da molti strumentisti, senza contare che fu tra i primi ad introdurre il violoncello nel jazz quando i postumi di una frattura al braccio non gli consentivano di suonare il contrabbasso. Questo album lo coglie in un momento particolare della sua carriera. Siamo negli ultimi anni ’50 quando Joachim-Ernst Berendt lo convince a recarsi in uno studio di registrazione di Baden-Baden alla testa di una band che comprende alcuni dei migliori jazzisti europei dell’epoca, come il chitarrista Attila Zoller, il trombettista Dusko Goykovich, il pianista Hans Hammerschmid, il clarinettista Rolf Kühn, mentre da Parigi arrivano il batterista Kenny Clarke e il sassofonista Lucky Thompson. Questa straordinaria formazione incide una decina di brani che sono puntualmente riprodotti in questo album unitamente ad altri sei brani registrati con una formazione leggermente modificata. La musica è davvero di alta qualità: vi consiglio di ascoltare soprattutto “But Not For Me” di George Gershwin impreziosito dal duetto di Pettiford con Goykovich, “The Nearness of You” in cui Hans Koller al sax tenore illustra il tema per poi lasciare campo libero al contrabbasso mentre in “All the Things You Are” Pettiford dimostra la sua straordinaria abilità di violoncellista in veste solistica.

Ferdinando Romano – “Totem” – Losen Records
Il contrabbassista Ferdinando Romano, al suo esordio discografico da leader, è presente da tempo sulla scena jazzistica (in particolare lo ricordiamo con la Rainbow Jazz Orchestra e l’Arcadia Trio assieme a Leonardo Radicchi sax e clarinetto e Giovanni Paolo Liguori batteria). Accanto a questa attività di strumentista jazz Romano affianca una solida formazione classica maturata con il diploma presso il Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze e il Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano. Proprio grazie a questa preparazione ha avuto modo di segnalarsi anche come compositore in ambito classico-contemporaneo. Tutto ciò si avverte in questo album sia sul repertorio (otto composizioni tutte di Romano) sia sulla prassi esecutiva che vede all’opera un settetto completato da Ralph Alessi alla tromba, Tommaso Iacoviello al flicorno, Simone Alessandrini ai sax (alto e soprano), Nazareno Caputo al vibrafono e marimba, Manuel Magrini al piano e Giovanni Paolo Liguori alla batteria. Tutte le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da una intensa ricerca sul piano contrappuntistico e corredate da originali impianti ritmo-armonici e da una tavolozza timbrica di assoluta pertinenza. Ovviamente l’ottima riuscita dell’album è dovuta anche alla presenza di ottimi solisti tra cui, ancora una volta, si segnala Ralph Alessi la cui tromba disegna alcuni dei passaggi più interessanti dell’intero album. Tutto ciò senza dimenticare il fondamentale apporto del leader che si mette in luce già a partire dal brano d’apertura “The Gecko” in un trascinante dialogo con la marimba di Nazareno Caputo, mentre nel successivo “Evocation” il contrabbassista si esprime in splendida solitudine.

John Scofield – “Swallow Tales” – ECM
Come enunciato chiaramente nel titolo, questo album è un esplicito omaggio che il chitarrista di Dayton dedica all’amico e mentore Steve Swallow, con la riproposizione di nove brani del bassista. L’incisione, effettuata in uno studio di New York, risale al marzo del 2019 e Scofield suona in trio con Bill Stewart alla batteria e lo stesso Steve Swallow al basso. Insomma un incontro al vertice tra alcuni dei massimi esponenti del jazz di oggi, dal batterista Bill Stewart già compagno di Scofield in quella prestigiosa band che tanti successi ottenne tra il ’90 e il ’95, a Swallow prestigioso strumentista e compositore già compagno d’avventura di nomi assai prestigiosi come Carla Bley, Jimmy Giuffre, João Gilberto, Chick Corea, Gary Burton, Jack DeJohnette…per finire con Scofield unanimemente considerato uno dei massimi esponenti della chitarra jazz. Che tra Scofield e Swallow ci sia una profonda amicizia e una reciproca profonda stima non c’è alcun dubbio e questo legame, profondo, si avverte nell’album in oggetto. I due dialogano perfettamente, alternando improvvisazione e scrittura, con una levità non comune sicché la musica scorre fluida tanto da poter apparire, ad un ascolto superficiale, semplice. Citare qualche brano, particolarmente meritevole, è impresa impossibile dato che tutti meritano un ascolto attento…tuttavia se proprio devo farlo, mi piacerebbe che ascoltaste con mente e cuore aperto “Away” un vero e proprio gioiellino di grazia e capacità esecutiva.

Ermanno Maria Signorelli – “Silence” – Caligola
Accade, alle volte, che ammirato un artista sulla scena ce ne facciamo un’ idea che poi viene smentita quando il personaggio lo conosciamo da vicino, nella vita reale. Ecco, con Ermanno Maria Signorelli ciò non può accadere. Lo conosco da molti anni e nonostante ci siamo visti poche volte, lo sento particolarmente vicino in quanto la sua musica è lo specchio del suo essere. Lui è una persona gentile, colta, misurata, mai sopra le righe e mai banale…così la sua musica è fresca, originale, misurata, sempre rivolta ad esprimere l’animo dell’artista piuttosto che la sua preparazione tecnica, scevra da qualsivoglia esercizio muscolare. A questa sorta di regola non fa eccezione «Silence», secondo album di un trio nato nel 2004 e completato da Ares Tavolazzi al contrabbasso e Lele Barbieri alla batteria. Il CD esce sei anni dopo «3» (Blue Serge) e presenta sette composizioni originali del leader, uno standard (“Nardis” di Miles Davis) e la rivisitazione, assolutamente straordinaria, della celeberrima “Arietta” di Edvard Grieg. Ascoltando l’album si ha la netta sensazione di essere trasportati in un altrove dove il sussurrare, il non alzare i volumi, l’intimità la fanno da padroni, clima determinato anche dal fatto che, come loro consuetudine, i tre suonano rigorosamente acustico. Non a caso lo stesso leader, napoletano di nascita ma padovano d’adozione, scrive nelle note di copertina: “Dove tutti urlano non c’è voce che basti per farsi sentire; nella valle solitaria un usignolo è concerto”. E’ una musica, quindi, assolutamente originale che denota quanto tutti e tre gli artisti siano attenti a ciò che li circonda dandone un’interpretazione assolutamente personale.

Giannicola Spezzigu – “Voices of the Stones” – Caligola
Il batterista Marcello Molinari è leader di un quartetto attivo oramai da qualche tempo e dalla sua posizione ha lanciato il progetto di realizzare un disco a nome di ciascuno dei suoi componenti, che possono così esprimere le proprie potenzialità sia come leader, sia come compositori, Questa volta tocca al contrabbassista sardo, ma bolognese d’adozione, Giannicola Spezzigu, con Claudio Vignali al pianoforte e Andrea Ferrario al sax tenore a completare il quartetto, cui si aggiunge come special guest il trombettista Arne Hiorth in “Dimension of Emptiness”. In repertorio otto brani di cui sei composti dallo stesso Spezzigu e due da Andrea Ferrario. Il clima prevalente è quello di un ricercato lirismo che pervade tutti i pezzi ad eccezione del blues di “Souls Around”, di Andrea Ferrario, giocato su ritmi più accesi. Notevole “A Short Story” che evidenzia la bravura del leader che privilegia la bellezza e pienezza del suono al fraseggio molto articolato mentre nel già citato “Dimension of Emptiness” la tromba del norvegese Arne Hiorth (già accanto ad artisti di fama mondiale come Mari Boine, Anja Garbarek e Bjørn Eidsvåg) dà al tutto un tocco di preziosa struggente malinconia; notevole in questo brano anche l’assolo del leader.

Antonella Vitale – “Segni Invisibili” – Filibusta
Una Vitale inedita quella che si ascolta in questa nuova produzione. Dopo aver cantato jazz senza se e senza ma per lungo tempo, la vocalist romana si è concessa una sorta di evasione ma con esiti che non esito a definire più che positivi. Quindi cambio di organico: non più il quartetto di sole donne ma un quintetto completato da Gianluca Massetti piano e tastiere, Andrea Colella contrabbasso, Francesco De Rubeis batteria e percussioni e Danielle Di Majo sax soprano, alto e flauto. Mutamenti sostanziali anche nel repertorio: niente più standard jazzistici ma una serie di composizioni della stessa Vitale tenuti per lungo tempo nel cassetto con l’aggiunta di due splendidi brani tratti dal repertorio pop italiano, “Tu non mi basti mai” di Lucio Dalla e “Per me è importante” di Zampaglione, Triolo, Pesce, portato al successo da Tiromancino; quest’ultimo pezzo è stato registrato nel periodo del lockdown insieme a Massetti nelle rispettive case. Al cospetto di un repertorio per lei inedito, la Vitale ha scelto di immergersi totalmente nell’universo musicale che l’ha accompagnata nel corso della sua vita, quindi non solo jazz, ma anche rock, pop di qualità, musica d’autore, musica classica… servendosi di una vocalità sempre al servizio di una sincera espressività. Bisogna aggiungere che un tale risultato non sarebbe stato possibile senza gli ottimi arrangiamenti di Gianluca Massetti e senza la bravura dei singoli musicisti che hanno trovato, tutti, il giusto spazio. Così da apprezzare Colella in “Amara” chiuso da una pertinente citazione dall’Adagietto della Sinfonia n.5 di Mahler, la Di Majo superlativa nella title track mentre l’apporto ritmico di De Rubeis è stato preciso e spesso trascinante. Comunque in primo piano resta la Vitale particolarmente brava, a mio avviso, nel rendere bene un piccolo capolavoro quale “Tu non mi basti mai” e perfettamente in palla in tutte le altre esecuzioni.

We Kids Quintet – “We Kids Quintet” – abeat
I “Kids” del ‘patriarca’ Stefano Bagnoli cambiano ancora volto ma questo non ha influito sul livello qualitativo della famiglia. E così anche quest’ultimo CD si iscrive di diritto tra le tante belle cose realizzate dal batterista, nell’occasione affiancato da Giuseppe Vitale (pianoforte), Stefano Zambon (contrabbasso), e da due indiscussi talenti da lui scoperti di recente, i fratelli siciliani, Matteo Cutello (tromba) e Giovanni Cutello (sax), particolarmente efficace quest’ultimo in “Work 3”. In repertorio dieci brani, più un bonus track, tutti scritti dai componenti il gruppo. Realizzato con il sostegno di MiBACT e SIAE nell’ambito del programma “Per chi crea”, l’album è stato registrato presso Il Pollaio Studio (Ronco Biellese) nei primi giorni del gennaio di questo 2020. Le tracce del disco si ascoltano tutte d’un fiato, in quanto la musica ti cattura sin dal primo istante tale e tanta è l’energia che il gruppo riesce a sprigionare. La tecnica esecutiva è impeccabile, la bravura dei singoli manifesta in ognuno degli assolo che si ascoltano, ottimo il materiale su cui il quintetto si misura: composizioni originali, ben studiate in cui pagina scritta e improvvisazione si bilanciano correttamente. Tra tutti continua a spiccare il leader, Stefano “Brushman” Bagnoli, efficace sia dietro i tamburi, sia nel dirigere il gruppo, sia nel fornire allo stesso due dei migliori brani del disco, “Epigrafe” in apertura e “Salieri” in chiusura prima del bonus track.
Senza dimenticare, come si accennava in precedenza, la scoperta dei fratelli siciliani che conferma le sue doti anche di eccellente talent scout.

Martin Wind – “White Noise” – Laika Records
E’ uscito il 28 agosto l’undicesimo album del contrabbassista e compositore tedesco, Martin Wind, da 25 anni sulla scena newyorkese. Edito dalla Laika Records, “White Noise” vede accanto al contrabbassista due grandi personaggi del jazz europeo quali il chitarrista Philip Catherine ed il flicornista e trombettista olandese Ack van Rooyen. In repertorio otto brani composti in prevalenza da Wind e van Rooyen cui si aggiungono alcuni standard di Kenny Wheeler, Cole Porter, Jimmy Van Heusen e Jule Styne. Il trio, orfano di uno strumento armonico, si muove lungo una direttrice ben chiara: eliminare qualsivoglia esibizione di mero tecnicismo, suonare quasi per sottrazione a enfatizzare un concetto che viene esplicitato dallo stesso leader: “Il silenzio è diventato sempre più un lusso, con “White Noise” ho voluto creare un polo acustico opposto. Una sorta di oasi sonora in cui il pubblico può rilassarsi e godere la musica fino alla sua massima espressione”. Obiettivo raggiunto? Direi proprio di sì. Intendiamoci: nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, ma una musica “melodica” eseguita con sincera partecipazione dai tre artisti i cui strumenti si fondono in un unicum spesso di rara bellezza. Si ascolti, ad esempio, la title track caratterizzato da un clima di soffusa malinconia in cui spicca una superba prestazione di Philip Catherine che fa cantare la sua chitarra con effetti di riverbero e distorsione.

Nicola Mingo e Marilena Paradisi all’Alexanderplatz di Roma

Nonostante il Covid continui a condizionare le nostre vite, le attività jazzistiche non si fermano seppure fortemente rallentate. In questo senso esemplare il comportamento dell’Alexanderplatz Jazz Club di Roma che continua a programmare concerti di eccellente livello. In quest’ambito vi segnaliamo due eventi degni della massima attenzione.
Giovedì prossimo, 8 ottobre, di scena il quartetto del chitarrista Nicola Mingo coadiuvato da Giorgio Rosciglione al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e Leonardo Borghi al pianoforte.
In programma brani tratti dall’ultimo CD del chitarrista napoletano “Blues Travel”. Come ho già avuto modo di scrivere in altre occasioni, Mingo rappresenta una solida realtà del panorama jazzistico non solo italiano: a testimoniarlo i suoi 8 album, gli indiscussi apprezzamenti di critica e pubblico… e forse ancor di più la stima da parte dei suoi colleghi musicisti. In quest’ultimo lavoro discografico, Mingo si è presentato
in quartetto con Giorgio Rosciglione al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e Andrea Rea al pianoforte, quindi due fidi compagni di viaggio cui si è aggiunto il bravo Rea, già vincitore, nel 2007, del Prestigioso premio internazionale “Massimo Urbani”, E la formazione con cui suonerà nel locale romano è praticamente la stessa eccezion fatta per Leonardo Borghi che sostituisce Andrea Rea. Ma non è arduo supporre che l’intesa all’interno del gruppo non ne soffrirà più di tanto data la profonda empatia che lega gli altri tre musicisti i quali suonano assieme già da molto tempo. Comunque sarà ancora una volta un vero piacere ascoltare questo quartetto impegnato in un repertorio assai variegato che va da pezzi scritti dallo stesso Mingo, che conferma così le sue doti compositive, ad altri brani dovuti alla penna di grandi della musica quali Harold Mabern, Kurt Weill, George Benson, Isham Jones, Wes Montgomery, Kenny Dorham.

***
Mercoledì 21 ottobre sarà la volta della vocalist Marilena Paradisi in trio con Riccardo Biseo al pianoforte e Steve Cantarano al contrabbasso.  “Estemporanea-Mente” è il titolo che Marilena ha voluto dare al suo spettacolo per esprimere tutto il senso della sua ricerca musicale. In buona sostanza un viaggio nella musica come ricerca sulla improvvisazione e sull’estemporaneità, essenze del linguaggio jazzistico. In programma musiche di W. Shorter; P. Markowitz; J. Henderson; H. Mancini; B. Hutcherson; Cy Coleman; A. Butler; M. Tyner; T. Harrell; M. Davis, Mal Waldrom; J. Mercer; Edu Lobo; Eumir Deodato; Wilson-Asher, ecc.

Marilena Paradisi – ph Paolo Soriani

Vocalist, compositrice, improvvisatrice, l’espressività della Paradisi spazia dal jazz alla musica contemporanea, con un’attenzione particolare all’uso e alla sperimentazione della voce. Proprio grazie a queste peculiarità, ha ottenuto riconoscimenti internazionali, con recensioni sui principali magazine internazionali di settore. Dal 2002 al 2018, Marilena ha pubblicato ben 8 album come leader, in collaborazione con importanti musicisti italiani e internazionali. I primi tre di jazz: “I’ll Never Be The Same” (Philology 2002), col trio di Eliot Zigmund; “Intimate Conversation” (Abeat Records 2004) in duo col contrabbassista Pietro Leveratto, il Cd Live “Pensiero Omaggio a Gino Paoli”, in trio con Renato Sellani e Dino Piana (Philology 2007). Gli ultimi tre di contemporanea e improvvisazione totale, con cui esplora nuove possibilità della voce, e sperimenta l’improvvisazione sulle opere d’arte: “Rainbow Inside” (Silta Records 2010), con il chitarrista Arturo Tallini, “Prelude For Voice and Silence” (Silta Classics, 2011) voce sola e in duo con la cantante giapponese Michiko Hirayama. “Come Dirti”, special guest Stefania Tallini e, settimo progetto a suo nome, “The Cave” (Silta Records 2013), in duo col percussionista Ivan Macera, una ricerca sui suoni nelle grotte del Paleolitico, presentato a gennaio 2014 all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Nel 2017 pubblica, con la prestigiosa etichetta norvegese Losen Records, il cd “Some Place Called Where”, in duo con il leggendario 82enne pianista americano Kirk Lightsey, pianista di Dexter Gordon, Chet Baker, Bobby Hutcherson e tanti altri. Il duo ottiene recensioni stellari in tutti i più importanti magazine del mondo confermando l’assoluto livello della vocalist romana.

Gerlando Gatto

Marilena Paradisi e Kirk Lightsey: A New Birth

Mercoledì 23 gennaio 2019
Ore 21.00
Auditorium Parco della Musica
Teatro Studio Borgna
Viale Pietro de Coubertin 30
Roma

MARILENA PARADISI & KIRK LIGHTSEY
IN CONCERTO:
A NEW BIRTH

Biglietti: da 15.00 €
Biglietteria 892.101

Ticket One:
https://www.ticketone.it/tickets.html?affiliate=FMR&doc=erdetaila&fun=erdetail&erid=2311400

Una rinascita. O meglio, una nuova nascita. A New Birth. E’ questa la parola d’ordine di un graditissimo ritorno, quello di Marilena Paradisi e Kirk Lightsey, che a un anno di distanza dal loro ultimo concerto romano risalgono sul palco dell’Auditorium Parco della Musica mercoledì 23 gennaio 2019 in un prezioso happening di grande jazz per voce e pianoforte, che suggella il primo passo di un nuovo percorso insieme.

Lo straordinario duo si ricompone sull’onda lunga del successo dell’album Some Place Called Where (pubblicato dalla norvegese Losen Records e per l’occasione distribuito in Italia da Egea), recensito in tutto il mondo e premiato per l’eccezionale interplay e l’intesa artistica tra il pianista di Detroit, figura monumentale della storia del jazz, e la cantante italiana, autrice di otto album assai apprezzata dalla critica internazionale per l’abilità nel produrre un timbro aderente all’estetica dei brani, per la presa sul testo e la capacità interpretativa. Sul palco romano nuove magiche storie da raccontare, un repertorio fortemente condiviso da questo duo che propone una fusione tra la tradizione, la storia del jazz e la sperimentazione.

Some Place Called Where ha ottenuto recensioni importanti su prestigiosi magazine stranieri come JazzTimes, JazzHot, Jazz Profile, Music Web International, Albany Jazz (che ha menzionato l’album tra i Top 2017), ma anche su importanti testate italiane come Musica Jazz, Jazzit, Italia In Jazz, A proposito di Jazz oppure Il Manifesto, Internazionale, Jazz Convention e L’Isola della musica italiana: i giornalisti hanno apprezzato la combinazione di esperienze, sensibilità e maturità, nonchè l’intrigante scelta dei brani. Un “repertorio di nicchia” utile all’espressività diretta, immediata e toccante di Marilena e Kirk, che aprono le porte sul loro mondo: quello dell’improvvisazione e della voce come strumento per la Paradisi, quello degli anni passati con Chet Baker, Dexter Gordon, Pharoah Sanders e Lester Bowie, ma anche dell’amore per la musica classica, per Lightsey.

Il titolo dell’album proviene dall’omonimo pezzo di Wayne Shorter, scelto da Marilena in una scaletta sentita e vissuta con Kirk. Come dichiara David Fishel nelle note di copertina, «Portrait (Mingus), Little Waltz (Carter) e Like A Lover (Caymmi) sono un buon esempio di questa musica scelta per profondità e sincerità, Fresh Air è un brano di Kirk che rappresenta bene il dialogo tra i due, Kirk ci regala anche un solo di flauto incantevole e lirico. Il suono complessivo è molto più pieno di quanto si possa aspettare da un duo, con la progressiva gamma armonica di Kirk e la qualità del tocco, quasi da accompagnamento orchestrale. Ma è l’intimità dell’interazione tra i due che più colpisce».

Info:

Marilena Paradisi:
https://www.facebook.com/marilenaparadisiofficial/