Maderna Jazz Festival 2021

Sabato 22 maggio 2021, la masterclass condotta dal musicologo Luca Bragalini aprirà la prima edizione del Maderna Jazz Festival, rassegna organizzata dal Dipartimento Jazz del Conservatorio “Bruno Maderna” di Cesena e coordinata dal pianista Michele Francesconi.

I dieci eventi in programma si svolgeranno tra maggio e settembre e vedranno impegnati i docenti dei corsi jazz del conservatorio cesenate. Tra gli insegnanti, sono infatti presenti alcune delle figure più rilevanti del panorama del jazz nazionale, musicisti esperti e che, nel corso degli anni, hanno avviato collaborazioni di alto profilo e riconosciute a livello italiano ed internazionale.

Tutti gli eventi del Maderna Jazz Festival 2021 si svolgono a Cesena e sono ad ingresso libero. A causa delle restrizioni legate alla situazione sanitaria, per poter partecipare ai singoli eventi sarà necessaria la prenotazione, inviando una mail a eventi@conservatoriomaderna-cesena.it

I luoghi scelti per i diversi appuntamenti del Maderna Jazz Festival sono il Conservatorio “Bruno Maderna” (Corso Ubaldo Comandini, 1), il Teatro Verdi (Via Luigi Sostegni, 13), il Chiostro di San Francesco (Via Montalti, dietro la Biblioteca Malatestiana) e il Foro Annonario (Piazza del Popolo, 1).

Nel cartellone, sono poi previsti due appuntamenti più squisitamente didattici: oltre alla masterclass di Luca Bragalini, prevista per sabato 22 maggio e dedicata alla musica del Modern Jazz Quartet, venerdì 17 e sabato 18 settembre il sassofonista Maurizio Giammarco condurrà un seminario intitolato “Gli Itinerari dell’Improvvisazione”. Il sassofonista si esibirà poi in concerto, sabato 18 settembre, alla guida di un quintetto formato dai docenti del conservatorio.

Sono due i concerti in programma nel mese di giugno.

Lunedì 7 giugno, Michele Francesconi condurrà il concerto finale del Laboratorio sul Piano Trio: sette giovani pianisti (Enrico Bandini, Filippo Medici, Fabio Pozzi, Pietro Rossi, Enrico Evangelisti, Marco Mantovanelli e Francesco Faggi, oltre allo stersso Francesconi) si esibiranno insieme alla ritmica formata da Paolo Ghetti al contrabbasso e da Luca Santaniello alla batteria per ripercorrere la storia e le tappe fondamentali di un format musicale che ha avuto negli anni e riveste tutt’oggi un ruolo centrale nello sviluppo dei linguaggi del jazz. Domenica 20 giugno, invece, sarà il turno del primo dei due concerti tenuti dalla Big Band del Conservatorio “Maderna”, diretta da Giorgio Babbini: l’organico si misura con un programma che darà ampio spazio ai brani cantati, con una rappresentanza di allievi della classe di Canto Jazz. La formazione ha anche collaborato con figure di rilievo del panorama jazzistico italiano fra le quali Gianluigi Trovesi, Fabrizio Bosso e Gabriele Mirabassi, col quale si è realizzato un progetto di musiche ispirate al Brasile, recentemente proposto in streaming.

Il Maderna Jazz Festival 2021 torna poi a settembre con una settimana intensa e ricca di appuntamenti.

Lunedì 13 settembre, un doppio concerto dedicato alla voce: nella prima parte della serata, Chiara Pancaldi e Michele Francesconi (entrambi docenti del Conservatorio “Bruno Maderna”) si esibiranno in trio insieme a Stefano Senni al contrabbasso. A seguire, suoneranno tre formazioni di allievi del Conservatorio, coordinate dalla stessa Chiara Pancaldi: tre formazioni differenti che avranno sempre al contrabbasso il supporto solido di un musicista esperto come Stefano Senni.

Martedì 14 settembre suonerà Pericopes, il duo formato dal sassofonista Emiliano Vernizzi e dal pianista Alessandro Sgobbio. La musica di Pericopes è una miscela personale di composizione, improvvisazione, influenze diverse e sinergia esecutiva portata dai due musicisti in un repertorio svincolato naturalmente da ogni etichetta di stile e genere.

Il Giancarlo Giannini New Jazz Quartet si esibirà, invece, mercoledì 15 settembre: la formazione è composta da musicisti dell’area forlivese (Giancarlo Giannini al trombone, Michele Scucchia al pianoforte, Enrico Moretti al contrabbasso e Manuel Giovannetti alla batteria) e si misura con brani originali e standards jazz particolarmente arrangiati mantenendo sempre saldo il rapporto con le radici afroamericane.

Giovedì 16 settembre, il Maderna Jazz Festival ospita il trio formato da Antonio Cavicchi alla chitarra, Marc Abrams al contrabbasso e Riccardo Biancoli alla batteria: tre musicisti che collaborano da oltre venti anni con l’intento comune di condividere proposte musicali in cui la comunicazione e l’interplay non siano solo aspetti secondari, ma il motore della musica stessa.

Dopo i due appuntamenti con Maurizio Giammarco (la masterclass intitolata “Gli Itinerari dell’Improvvisazione” e il concerto in quintetto con i docenti del conservatorio), il Maderna Jazz Festival si concluderà domenica 19 settembre con il secondo concerto della Big Band del Conservatorio “Maderna” di Cesena, diretta da Giorgio Babbini.

Tutte le eventuali variazioni del programma causate dalle evoluzioni della situazione sanitaria in corso saranno comunicate tempestivamente sul sito del Conservatorio (www.conservatoriomaderna-cesena.it) e sui canali social del Dipartimento Jazz del Conservatorio “Bruno Maderna”.

I NOSTRI CD

Jon Balke – “Discourses”- ECM
Jon Balke è artista che mai delude ed anche questa sua ultima fatica discografica si mantiene su livelli di classe elevata. More solito, l’artista lascia prevalere l’espressività, i contenuti di ciò che si vuole comunicare, rispetto a qualsivoglia muscolare dimostrazione di tecnica strumentale Di qui un pianismo scarno, elegante, assai curato nel suono e integrato da interventi di elaborazione elettronica, quali «riverberi e riflessi del mondo che vengono distorti». Prima accennavo ai contenuti: in questo album il musicista nordeuropeo ha voluto altresì trasmettere un messaggio ben preciso, da lui stesso esplicitato con le seguenti parole: “Mentre nel 2019 il clima politico si inaspriva, con discorsi sempre più polarizzati, la mancanza di dialogo mi ha indirizzato verso i termini che costituiscono i titoli delle singole tracce”. Ma al di là degli enunciati e dei singoli titoli, la musica riesce a rispecchiare quanto dichiarato? A mio avviso sì: la musica di Balke accoglie in sé una serie di spunti, di idee anche contraddittorie così come avviene nel mondo reale. Ecco quindi espliciti riferimenti ad un certo romanticismo (“The facilitator”, “The container”) mescolarsi con influssi impressionisti (“The how”) senza dimenticare da un lato il grande J.S.Bach dall’altro il jazz nelle sue forme più attuali. Insomma una sorta di moderno caleidoscopio a riflettere in maniera perfetta il mondo interiore di un artista che nel corso di una lunga carriera ha sempre guardato al futuro, mai soffermandosi sui traguardi raggiunti.

Paolo Benedettini – “Re: Connections” – Double Record
Il contrabbassista Paolo Benedettini può vantare un ricchissimo e significativo curriculum a cominciare dal lungo periodo trascorso a New York dove è stato membro stabile del trio del compianto batterista Jimmy Cobb insieme al pianista Tadataka Unno; sempre negli States ha collaborato con molti altri artisti tra cui Harold Mabern, Joe Magnarelli, Joe Farnsworth, Eric Reed, e per le tournée europee Joe Farnsworth, Eric Alexander e David Hazeltine. Rientrato da poco in Italia ha firmato questo “Re: Connections” che sta ad indicare proprio il ritorno e quindi la riconnessione con il passato. Passato che si avverte pure nella scelta dei compagni d’avventura dal momento che il chitarrista Marco Bovi e il pianista Nico Menci hanno accompagnato spesso Benedettini nelle fasi iniziali della sua carriera. L’album è notevole; d’altro canto un artista del calibro di Ron Carter non si sarebbe speso a scriverne le liner notes se non fosse stato assolutamente convinto della musica proposta dal contrabbassista, e non si sarebbe spinto a dichiarare, cito testualmente, “La sua versione del mio brano “For Toddlers Only” vi stenderà, così come ha fatto con me”. Tra gli altri brani degni di menzione “Chovendo Na Roseira”, uno standard brasiliano di Jobim presentato in modo allo stesso tempo pertinente e originale, e “Il “Coro a bocca chiusa” della “Madama Butterfly di Puccini, uno dei due espliciti riferimenti alla musica lirica (l’altro è “Entr’acte I”, derivato dalla Carmen di Bizet).

Mauro Bottini – “By Night” – ACP
In “By night”, il sassofonista Mauro Bottini si presenta in compagnia di Cristiano Coraggio alla batteria, Marco Massimi al basso e Antonino Zappulla alle tastiere (pianoforte, Fender Rhodes e Organo), cui si aggiunge in un solo brano – “Rome by Night” scritto da Bottini – la pregevole chitarra di Rocco Zifarelli. L’album è dedicato alla notte, un momento particolare nella vita di tutti noi, ma ancora più particolare per i musicisti che di notte spesso vivono, suonano e quindi evidenziano la propria personalità. Personalità, nel caso di Bottini, delineata da tempo a disegnare un artista maturo, perfettamente conscio delle proprie possibilità e che, proprio per questo, non esita ad esibirsi nella triplice veste di sassofonista, leader e compositore. Insomma, già dall’ascolto di questo album, si può avere una visione chiara della bravura di Bottini che ci restituisce un quadro della “notte” a tinte variegate così come deve essere, in cui ad atmosfere fusion (si ascolti Rocco Zifarelli nel brano d’apertura), a tratti anche funk si alternano dolci ballad, il tutto caratterizzato da una fruttuosa ricerca sulle linee melodiche. Al riguardo da segnalare soprattutto “My Princess”, composta ancora da Bottini mentre sotto il profilo ritmico da ascoltare con particolare attenzione “If” di Antonino Zappulla.

Max De Aloe – “Just For One Day – The music around David Bowie” – barnum
Armonicista di grande sensibilità e dotato di un sound affatto personale, Max De Aloe si ripresenta alla testa del suo quartetto, stabile oramai da più di dieci anni, con Roberto Olzer al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria.
In repertorio tredici brani che rappresentano un viaggio attorno alla musica di David Bowie, una vera e propria icona del rock internazionale, con l’aggiunta di cinque pezzi composti dallo stesso armonicista. De Aloe affronta il non facile repertorio alla sua maniera, ovvero con sensibilità, eccellente senso melodico, grandi capacità architettoniche e quel suono che, come accennato in precedenza, costituisce la specialità della casa. Di qui una musica sorprendente che lungi dal caratterizzarsi come semplice riproposizione di brani già noti, tende a reinventarli secondo la personalissima visione del leader, in un momento particolare come l’attuale. In effetti è lo stesso Max, nelle note di copertina, ad informarci di come nei giorni in cui avrebbero dovuto essere in studio di registrazione, si è ritrovato vittima del Covid 19, allettato per più di un mese. La convalescenza è stata lunga e non senza problematiche cosicché sarebbe stato meglio attendere ancora un po’ prima di registrare. Ma De Aloe voleva registrare il prima possibile in quanto ciò che l’affascina nella musica “non è l’idea di perfezione ma la sua visceralità, autenticità e urgenza espressiva” Così il 20 luglio scorso è entrato in studio di registrazione e i risultati stanno lì a dimostrare quanto avesse ragione! Particolarmente toccante l’interpretazione di “Lazarus”, considerata a ben ragione la canzone simbolo del testamento musicale di Bowie

Massimiliano Génot, Emanuele Sartoris – “Totentanz – Evocazioni Lisztiane” – Dodicilune
Un duo pianistico impegnato in un repertorio originale ma esplicitamente ispirato alla musica di Franz Liszt, ad eccezione dei brani di apertura e chiusura dovuti rispettivamente a Génot e Sartoris, e al già citato Listz. Come si evidenzia da quanto detto, un esperimento già tentato nel mondo del jazz con esiti alterni in quanto collegare jazzisti al mondo classico è impresa certo non facilissima. Questa volta la sfida presenta due incognite in più: innanzitutto l’eterogeneità del duo in quanto mentre Massimiliano Génot è artista ben affermato nel mondo della musica classica, Emanuele Sartoris è pianista jazz; in secondo luogo “Totentanz”, opera non molto conosciuta, è stata scritta per pianoforte e orchestra. I due pianisti affrontano le complesse partiture con l’intento non di riprodurle sic et simpliciter, ma di fornirne una propria originale visione che si appalesa, particolarmente in due brani: “Toten-Rag” in cui il pensiero di Liszt viene declinato in termini di ragtime mentre in “Hispanic Barbarian Fantasy” i due pianisti tendono a sottolineare come la musica colta europea dell’ottocento e del novecento sia stata fortemente influenzata dalle musiche ispaniche a loro volta debitrici delle tradizioni arabe. Insomma come acutamente osserva Paolo Fresu nelle note di copertina, “un’opera senza confini capace di abbattere le tante barriere che il macabro mondo odierno edifica”.

Maurizio Giammarco – “Only Human” – PMR
Conosco Maurizio Giammarco da oltre quarant’anni per cui posso affermare, senza tema di smentita, che si tratta di una delle persone – al di là della statura artistica – intellettualmente più oneste che mi sia capitato di conoscere. Ed è in questo solco che si inscrive anche “Only Human” inciso con “Halfplugged Syncotribe” vale a dire la nuova versione espansa a quintetto del trio Syncotribe, già attivo da un quinquennio; il gruppo risulta quindi formato, oltre che dal leader, da Luca Mannutza il quale affianca all’organo anche il piano acustico e quello elettrico, da Paolo Zou, giovane chitarrista romano, dal bassista Matteo Bortone e dal batterista Enrico Morello. In repertorio nuove composizioni appositamente pensate per questo gruppo da Giammarco e presentate a gennaio scorso nell’ambito della rassegna Recording Studio. Il concerto è diventato per l’appunto questo “Only Human” che, come dichiara lo stesso Giammarco, “viene incontro a un sentimento d’insofferenza, ovvero quella che provo di fronte all’uso generalizzato e irresponsabile degli strumenti di comunicazione di massa”. Il titolo “Only Human” fa riferimento quindi al “risveglio di un nuovo umanesimo”. Di qui una musica non sempre facile, alle volte sghemba, caratterizzata come sempre da una indiscussa originalità, da un notevole equilibrio fra tradizione e sperimentalismo e da una ricca tavolozza sonora e timbrica dovuta soprattutto a Luca Mannutza e Paolo Zou che – dichiara ancora Giammarco – “suona la chitarra in modo differente da come solitamente la suonano i chitarristi di jazz, usando gli effetti e tutto il potenziale dello strumento”.

Bruno Marini – “4” – Arte Sonora
“Love Me or Leave Me” – Arte Sonora
Due gli album del baritonista veronese Bruno Marini in scaletta questa volta. In “4” il leader è accompagnato da Marcello Tonolo al piano, Marc Abrams al contrabbasso e Valeri Abeni alla batteria. In repertorio sei brani composti dallo stesso Marini (quattro) e da Tonolo (due), registrati a Verona nel luglio del 1985, già comparsi su LP e ora ripubblicati, dopo 35 anni, su CD. Si tratta, insomma, come sottolineato nella stessa copertina dell’album, di “historical tapes”. In realtà queste sono le prime tracce incise dal quartetto dopo un certo lasso di tempo speso a suonare in club e festival. Già allora il gruppo appariva ben rodato, in grado di produrre musica di eccellente livello, sempre in bilico tra pagina scritta e improvvisazione, grazie sia all’intesa tra i musicisti, sia alla bravura dei singoli; non a caso l’album venne registrato in soli cinque giorni.
Anche “Love me or leave me” contiene “historical tapes” dal momento che è stato registrato e pubblicato su LP solo due anni dopo il già citato “4” vale a dire nel 1987. Il sassofonista questa volta è in trio con Charlie Cinelli al contrabbasso e Alberto Olivieri alla batteria, quindi senza uno strumento armonico. In repertorio oltre agli otto brani contenuti nell’LP, “The Lady Is A Tramp” di Rodgers e Hart come bonus track. Alle prese con brani che fanno parte del song-book jazzistico come “Thelonious” di Monk, la title track di Donaldson e Kahn e “Bye Bye Blackbird” di Henderson e Dixon, Marini se la cava egregiamente denotando, già all’epoca, una raggiunta maturità suffragata da una grande padronanza tecnica e una buona capacità improvvisativa. Tra i brani da segnalare i due original di Marini, “Blue Mob” e “All the Things You Could Be”, che si rifanno piuttosto apertamente alle atmosfere disegnate da Gerry Mulligan nei primissimi anni ’50.

Mos Trio – “Metamorfosi” – Emme Record
Disco d’esordio per il “mOs trio” pubblicato il 10 aprile 2020 dall’etichetta Emme Record Label. Protagonisti Giuseppe Santelli al pianoforte, altresì autore di tutti i brani eccezion fatta per il celeberrimo “Take Five” di Dave Brubeck, Renzo Genovese al basso elettrico e Simone Ritacca alla batteria. A mio avviso la forza del trio si basa su due pilastri: da un canto il sapersi muovere tra diversi stili ma con un occhio sempre attento alla tradizione, dall’altro la profonda intesa che si è instaurata fra i tre e che li porta ad improvvisare ben sapendo che i compagni d’avventura non si perderanno per strada. Di qui una musica variegata che passa con disinvoltura, ma senza sbavature, dal jazz propriamente detto (si ascolti ad esempio il brano d’apertura “La strada del ritorno” con un Ritacca in evidenza) ad atmosfere latin-jazz come quelle disegnate in “Nostalgia” con una dolce linea melodica; dai suadenti ritmi dispari di ”Flowing” alla title track che, dopo un assolo di batteria, si apre ad una dolce melodia espressa dal pianoforte di Santelli ben sostenuto soprattutto da Renzo Genovese, il tutto con un occhio rivolto a certe forme della musica classica; dalla spagnoleggiante “A Toledo” al clima onirico di “My Thoughts” fino alla conclusiva “Take Five” la cui esecuzione è corretta…anche perché dire qualcosa di nuovo nell’interpretazione di questo pezzo è impresa molto, ma molto difficile, al limite dell’ impossibile.

Benjamin Moussay – “Promontoire” – Ecm
Novità in casa Ecm, l’incisione per piano solo del francese Benjamin Moussay che avevamo imparato a conoscere grazie alle registrazioni con il conclamato clarinettista Louis Sclavis (“Sources” 2012, “Salt and Silk melodies” 2014, “Characters On A Wall” pubblicato nel settembre del 2019, tutti e tre targati ECM) e con il nostro Francesco Bearzatti (“Dear John“ maggio 2019). Con “Promontoire” Moussay offre la sua più intima e personale proposta, caratterizzata da un profondo lirismo e da una non comune intensità espressiva. Registrato tra il gennaio e l’agosto del 2019, l’album presenta dodici composizioni originali dello stesso pianista, tutti di durata inferiore ai 5 minuti, e tre addirittura al di sotto dei due minuti. Quindi da un lato l’intenzione dell’artista di non battere vie conosciute, avventurandosi nella creazione dell’intero repertorio; dall’altro l’esposizione di un pianismo fatto di brevi frasi, essenziale, a tratti quasi minimalista e purtuttavia con due sostanziali punti di riferimento: Bill Evans e Keith Jarrett. Moussay si mantiene sempre in un difficile equilibrio tra l’improvvisazione propria del linguaggio jazzistico ed un occhio attento alle più moderne espressioni della musica colta. In questo senso vanno lette alcune sue composizioni quali, ad esempio, “Théa” che forse non a caso chiude l’album. Tra gli altri brani di particolare interesse “L’oiseau d’or” probabilmente il brano più prettamente jazzistico dell’intero album.

Francesca Naibo – “Namatoulee” – Aut records
Tanto straniante quanto interessante questo album d’esordio della chitarrista veneta, milanese d’adozione, Francesca Naibo, che si esprime in assoluta solitudine. L’artista è giunta a questa prima fatica discografica dopo essersi fatta conoscere grazie alle collaborazioni con personaggi quali Marc Ribot e George Lewis. Straniante, dicevo, perché qui siamo davvero nell’apoteosi del sound. In effetti trovare in questa musica una qualsivoglia traccia melodica è impresa quanto mai difficile; si trascurano le parole e si va al di là di qualsivoglia schema predefinito. In compenso l’ascoltatore è immerso in un’orgia di suoni in cui la Naibo appare come una sorta di deus ex machina capace di padroneggiare questa materia incandescente in cui la libera improvvisazione di chiara matrice jazzistica e propria soprattutto delle avanguardie afroamericane si confronta e dialoga con le più acute sperimentazioni in campo sonoro proprie della colta musica contemporanea. In buona sostanza si tratta di una sfida aperta che la Naibo affronta forte di una solidissima preparazione tecnica e, probabilmente quel che più conta, con una straordinaria lucidità che le consente di andare avanti per la sua strada alla ricerca di forme espressive assolutamente nuove ed originali. Qualcuno ha voluto paragonare la Naibo alla Mary Halvorson, parallelismo a mio avviso forse un po’ troppo frettoloso: aspettiamo e vediamo quel che succede!

Chiara Pastò – “The Other Girl” – Velut Luna
Devo onestamente ammettere che questo album mi ha molto stupito: mi era stato presentato quasi come un disco di musica leggera ed ho invece scoperto un CD raffinato, concepito molto bene, registrato in maniera superlativa (così com’è consolidato costume della Velut Luna e del produttore Marco Lincetto) e che sfugge a qualsivoglia criterio di classificazione …certo escludendo la musica colta e quella contemporanea. Protagonista una vocalist di sicuro spessore quale Chiara Pastò, che può vantare una solida preparazione di base: canto, violino, pianoforte imparati appena adolescente, quindi il conservatorio di Vicenza dove studia con importanti personalità del jazz italiano quali Francesca Bertazzo, Salvatore Maiore, Piero Tonolo, Mauro Beggio, Paolo Birro. I primi passi professionali nel 2018 quando firma un contratto di esclusiva con la casa discografica Velut Luna con cui nel 2019 incide il suo primo disco. Ed ecco ora questo “The Other Girl” in cui la vocalist mette sul tappeto tutto il suo patrimonio musicale in cui è facile individuare echi di Joni Mitchell, Pearl Jam, Fred Bongusto, Mango, Luigi Tenco, Milva, Ornella Vanoni, Francesco De Gregori, Steve Wonder e Dee Dee Bridgewater. Una ricchezza di orizzonti che le consente di affrontare un repertorio non facilissimo composto in massima parte da brani originali con l’eccezione di “Lontano, lontano” di Luigi Tenco e “Cry Me A River” di Arthur Hamilton. Ben coadiuvata da un ensemble di eccellenti professionisti e da un’orchestra d’archi e da ottimi arrangiamenti curati in massima parte da Fabrizio Castania, la Pastò si esprime con grande coerenza lungo tutto l’album, evidenziando una timbrica originale e una grande capacità di interpretare i testi (per altro notevoli) in lingua italiana.

Oscar Pettiford – “Baden-Baden 1959, Karlsruhe 1958” – Jazz Haus
Oscar Pettiford fu uno dei più influenti contrabbassisti della storia del jazz tanto da definire uno stile esecutivo preso a modello da molti strumentisti, senza contare che fu tra i primi ad introdurre il violoncello nel jazz quando i postumi di una frattura al braccio non gli consentivano di suonare il contrabbasso. Questo album lo coglie in un momento particolare della sua carriera. Siamo negli ultimi anni ’50 quando Joachim-Ernst Berendt lo convince a recarsi in uno studio di registrazione di Baden-Baden alla testa di una band che comprende alcuni dei migliori jazzisti europei dell’epoca, come il chitarrista Attila Zoller, il trombettista Dusko Goykovich, il pianista Hans Hammerschmid, il clarinettista Rolf Kühn, mentre da Parigi arrivano il batterista Kenny Clarke e il sassofonista Lucky Thompson. Questa straordinaria formazione incide una decina di brani che sono puntualmente riprodotti in questo album unitamente ad altri sei brani registrati con una formazione leggermente modificata. La musica è davvero di alta qualità: vi consiglio di ascoltare soprattutto “But Not For Me” di George Gershwin impreziosito dal duetto di Pettiford con Goykovich, “The Nearness of You” in cui Hans Koller al sax tenore illustra il tema per poi lasciare campo libero al contrabbasso mentre in “All the Things You Are” Pettiford dimostra la sua straordinaria abilità di violoncellista in veste solistica.

Ferdinando Romano – “Totem” – Losen Records
Il contrabbassista Ferdinando Romano, al suo esordio discografico da leader, è presente da tempo sulla scena jazzistica (in particolare lo ricordiamo con la Rainbow Jazz Orchestra e l’Arcadia Trio assieme a Leonardo Radicchi sax e clarinetto e Giovanni Paolo Liguori batteria). Accanto a questa attività di strumentista jazz Romano affianca una solida formazione classica maturata con il diploma presso il Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze e il Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano. Proprio grazie a questa preparazione ha avuto modo di segnalarsi anche come compositore in ambito classico-contemporaneo. Tutto ciò si avverte in questo album sia sul repertorio (otto composizioni tutte di Romano) sia sulla prassi esecutiva che vede all’opera un settetto completato da Ralph Alessi alla tromba, Tommaso Iacoviello al flicorno, Simone Alessandrini ai sax (alto e soprano), Nazareno Caputo al vibrafono e marimba, Manuel Magrini al piano e Giovanni Paolo Liguori alla batteria. Tutte le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da una intensa ricerca sul piano contrappuntistico e corredate da originali impianti ritmo-armonici e da una tavolozza timbrica di assoluta pertinenza. Ovviamente l’ottima riuscita dell’album è dovuta anche alla presenza di ottimi solisti tra cui, ancora una volta, si segnala Ralph Alessi la cui tromba disegna alcuni dei passaggi più interessanti dell’intero album. Tutto ciò senza dimenticare il fondamentale apporto del leader che si mette in luce già a partire dal brano d’apertura “The Gecko” in un trascinante dialogo con la marimba di Nazareno Caputo, mentre nel successivo “Evocation” il contrabbassista si esprime in splendida solitudine.

John Scofield – “Swallow Tales” – ECM
Come enunciato chiaramente nel titolo, questo album è un esplicito omaggio che il chitarrista di Dayton dedica all’amico e mentore Steve Swallow, con la riproposizione di nove brani del bassista. L’incisione, effettuata in uno studio di New York, risale al marzo del 2019 e Scofield suona in trio con Bill Stewart alla batteria e lo stesso Steve Swallow al basso. Insomma un incontro al vertice tra alcuni dei massimi esponenti del jazz di oggi, dal batterista Bill Stewart già compagno di Scofield in quella prestigiosa band che tanti successi ottenne tra il ’90 e il ’95, a Swallow prestigioso strumentista e compositore già compagno d’avventura di nomi assai prestigiosi come Carla Bley, Jimmy Giuffre, João Gilberto, Chick Corea, Gary Burton, Jack DeJohnette…per finire con Scofield unanimemente considerato uno dei massimi esponenti della chitarra jazz. Che tra Scofield e Swallow ci sia una profonda amicizia e una reciproca profonda stima non c’è alcun dubbio e questo legame, profondo, si avverte nell’album in oggetto. I due dialogano perfettamente, alternando improvvisazione e scrittura, con una levità non comune sicché la musica scorre fluida tanto da poter apparire, ad un ascolto superficiale, semplice. Citare qualche brano, particolarmente meritevole, è impresa impossibile dato che tutti meritano un ascolto attento…tuttavia se proprio devo farlo, mi piacerebbe che ascoltaste con mente e cuore aperto “Away” un vero e proprio gioiellino di grazia e capacità esecutiva.

Ermanno Maria Signorelli – “Silence” – Caligola
Accade, alle volte, che ammirato un artista sulla scena ce ne facciamo un’ idea che poi viene smentita quando il personaggio lo conosciamo da vicino, nella vita reale. Ecco, con Ermanno Maria Signorelli ciò non può accadere. Lo conosco da molti anni e nonostante ci siamo visti poche volte, lo sento particolarmente vicino in quanto la sua musica è lo specchio del suo essere. Lui è una persona gentile, colta, misurata, mai sopra le righe e mai banale…così la sua musica è fresca, originale, misurata, sempre rivolta ad esprimere l’animo dell’artista piuttosto che la sua preparazione tecnica, scevra da qualsivoglia esercizio muscolare. A questa sorta di regola non fa eccezione «Silence», secondo album di un trio nato nel 2004 e completato da Ares Tavolazzi al contrabbasso e Lele Barbieri alla batteria. Il CD esce sei anni dopo «3» (Blue Serge) e presenta sette composizioni originali del leader, uno standard (“Nardis” di Miles Davis) e la rivisitazione, assolutamente straordinaria, della celeberrima “Arietta” di Edvard Grieg. Ascoltando l’album si ha la netta sensazione di essere trasportati in un altrove dove il sussurrare, il non alzare i volumi, l’intimità la fanno da padroni, clima determinato anche dal fatto che, come loro consuetudine, i tre suonano rigorosamente acustico. Non a caso lo stesso leader, napoletano di nascita ma padovano d’adozione, scrive nelle note di copertina: “Dove tutti urlano non c’è voce che basti per farsi sentire; nella valle solitaria un usignolo è concerto”. E’ una musica, quindi, assolutamente originale che denota quanto tutti e tre gli artisti siano attenti a ciò che li circonda dandone un’interpretazione assolutamente personale.

Giannicola Spezzigu – “Voices of the Stones” – Caligola
Il batterista Marcello Molinari è leader di un quartetto attivo oramai da qualche tempo e dalla sua posizione ha lanciato il progetto di realizzare un disco a nome di ciascuno dei suoi componenti, che possono così esprimere le proprie potenzialità sia come leader, sia come compositori, Questa volta tocca al contrabbassista sardo, ma bolognese d’adozione, Giannicola Spezzigu, con Claudio Vignali al pianoforte e Andrea Ferrario al sax tenore a completare il quartetto, cui si aggiunge come special guest il trombettista Arne Hiorth in “Dimension of Emptiness”. In repertorio otto brani di cui sei composti dallo stesso Spezzigu e due da Andrea Ferrario. Il clima prevalente è quello di un ricercato lirismo che pervade tutti i pezzi ad eccezione del blues di “Souls Around”, di Andrea Ferrario, giocato su ritmi più accesi. Notevole “A Short Story” che evidenzia la bravura del leader che privilegia la bellezza e pienezza del suono al fraseggio molto articolato mentre nel già citato “Dimension of Emptiness” la tromba del norvegese Arne Hiorth (già accanto ad artisti di fama mondiale come Mari Boine, Anja Garbarek e Bjørn Eidsvåg) dà al tutto un tocco di preziosa struggente malinconia; notevole in questo brano anche l’assolo del leader.

Antonella Vitale – “Segni Invisibili” – Filibusta
Una Vitale inedita quella che si ascolta in questa nuova produzione. Dopo aver cantato jazz senza se e senza ma per lungo tempo, la vocalist romana si è concessa una sorta di evasione ma con esiti che non esito a definire più che positivi. Quindi cambio di organico: non più il quartetto di sole donne ma un quintetto completato da Gianluca Massetti piano e tastiere, Andrea Colella contrabbasso, Francesco De Rubeis batteria e percussioni e Danielle Di Majo sax soprano, alto e flauto. Mutamenti sostanziali anche nel repertorio: niente più standard jazzistici ma una serie di composizioni della stessa Vitale tenuti per lungo tempo nel cassetto con l’aggiunta di due splendidi brani tratti dal repertorio pop italiano, “Tu non mi basti mai” di Lucio Dalla e “Per me è importante” di Zampaglione, Triolo, Pesce, portato al successo da Tiromancino; quest’ultimo pezzo è stato registrato nel periodo del lockdown insieme a Massetti nelle rispettive case. Al cospetto di un repertorio per lei inedito, la Vitale ha scelto di immergersi totalmente nell’universo musicale che l’ha accompagnata nel corso della sua vita, quindi non solo jazz, ma anche rock, pop di qualità, musica d’autore, musica classica… servendosi di una vocalità sempre al servizio di una sincera espressività. Bisogna aggiungere che un tale risultato non sarebbe stato possibile senza gli ottimi arrangiamenti di Gianluca Massetti e senza la bravura dei singoli musicisti che hanno trovato, tutti, il giusto spazio. Così da apprezzare Colella in “Amara” chiuso da una pertinente citazione dall’Adagietto della Sinfonia n.5 di Mahler, la Di Majo superlativa nella title track mentre l’apporto ritmico di De Rubeis è stato preciso e spesso trascinante. Comunque in primo piano resta la Vitale particolarmente brava, a mio avviso, nel rendere bene un piccolo capolavoro quale “Tu non mi basti mai” e perfettamente in palla in tutte le altre esecuzioni.

We Kids Quintet – “We Kids Quintet” – abeat
I “Kids” del ‘patriarca’ Stefano Bagnoli cambiano ancora volto ma questo non ha influito sul livello qualitativo della famiglia. E così anche quest’ultimo CD si iscrive di diritto tra le tante belle cose realizzate dal batterista, nell’occasione affiancato da Giuseppe Vitale (pianoforte), Stefano Zambon (contrabbasso), e da due indiscussi talenti da lui scoperti di recente, i fratelli siciliani, Matteo Cutello (tromba) e Giovanni Cutello (sax), particolarmente efficace quest’ultimo in “Work 3”. In repertorio dieci brani, più un bonus track, tutti scritti dai componenti il gruppo. Realizzato con il sostegno di MiBACT e SIAE nell’ambito del programma “Per chi crea”, l’album è stato registrato presso Il Pollaio Studio (Ronco Biellese) nei primi giorni del gennaio di questo 2020. Le tracce del disco si ascoltano tutte d’un fiato, in quanto la musica ti cattura sin dal primo istante tale e tanta è l’energia che il gruppo riesce a sprigionare. La tecnica esecutiva è impeccabile, la bravura dei singoli manifesta in ognuno degli assolo che si ascoltano, ottimo il materiale su cui il quintetto si misura: composizioni originali, ben studiate in cui pagina scritta e improvvisazione si bilanciano correttamente. Tra tutti continua a spiccare il leader, Stefano “Brushman” Bagnoli, efficace sia dietro i tamburi, sia nel dirigere il gruppo, sia nel fornire allo stesso due dei migliori brani del disco, “Epigrafe” in apertura e “Salieri” in chiusura prima del bonus track.
Senza dimenticare, come si accennava in precedenza, la scoperta dei fratelli siciliani che conferma le sue doti anche di eccellente talent scout.

Martin Wind – “White Noise” – Laika Records
E’ uscito il 28 agosto l’undicesimo album del contrabbassista e compositore tedesco, Martin Wind, da 25 anni sulla scena newyorkese. Edito dalla Laika Records, “White Noise” vede accanto al contrabbassista due grandi personaggi del jazz europeo quali il chitarrista Philip Catherine ed il flicornista e trombettista olandese Ack van Rooyen. In repertorio otto brani composti in prevalenza da Wind e van Rooyen cui si aggiungono alcuni standard di Kenny Wheeler, Cole Porter, Jimmy Van Heusen e Jule Styne. Il trio, orfano di uno strumento armonico, si muove lungo una direttrice ben chiara: eliminare qualsivoglia esibizione di mero tecnicismo, suonare quasi per sottrazione a enfatizzare un concetto che viene esplicitato dallo stesso leader: “Il silenzio è diventato sempre più un lusso, con “White Noise” ho voluto creare un polo acustico opposto. Una sorta di oasi sonora in cui il pubblico può rilassarsi e godere la musica fino alla sua massima espressione”. Obiettivo raggiunto? Direi proprio di sì. Intendiamoci: nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, ma una musica “melodica” eseguita con sincera partecipazione dai tre artisti i cui strumenti si fondono in un unicum spesso di rara bellezza. Si ascolti, ad esempio, la title track caratterizzato da un clima di soffusa malinconia in cui spicca una superba prestazione di Philip Catherine che fa cantare la sua chitarra con effetti di riverbero e distorsione.

I nostri CD

Carla Bley – “Life Goes On”- ECM 2669
Carla Bley con il fido Steve Swallow al basso e Andy Sheppard ai sax tenore e soprano sono i protagonisti di questo nuovo album registrato nel maggio del 2019 a Lugano. In repertorio tre suite intitolate rispettivamente “Life Goes On”, “Beautiful Telephones” e “Copycat” tutte composte dalla stessa Bley. Chi ha seguito negli anni la Bley, sa bene come ad onta dei suoi ottantaquattro anni, l’artista di Oakland conservi intatta la sua straordinaria vena creativa e una stupefacente capacità di arrangiare e presentare in forme sempre originali le sue composizioni. Altro dato che si può ricavare dall’ascolto di questo suo ultimo lavoro, è la consapevolezza raggiunta dall’artista di poter finalmente trarre le fila di un discorso portato avanti oramai da molti anni. In effetti la musica che si ascolta soprattutto nella prima suite rappresenta un po’ la cifra stilistica della Bley in cui il blues viene coniugato con una certa malinconia di fondo che ben si affianca a quella carica iconoclasta e ironica che nel passato aveva caratterizzato molte composizioni della pianista. Ed ecco infatti la seconda suite che nel polemico titolo “Beautiful Telephones” richiama quella assurda espressione del presidente Trump che installandosi nello studio ovale della Casa Bianca, fu colpito soprattutto dai telefoni che definì “i più bei telefoni che abbia mai visto in vita mia”. Comunque, al di là di tutto, la musica di Carla Bley convince ancora una volta per la straordinaria carica di eleganza, modernità, coerenza in essa contenuta nonché per aver creato un jazz cameristico – se mi consentite il termine – che dovrebbe mettere d’accordo gli amanti del jazz e quelli della musica “colta” dati gli espliciti riferimenti a quel coté artistico che la Bley spesso mette in campo. Ovviamente la bella riuscita dell’album è dovuta anche alla personalità artistica dei due compagni di viaggio. Steve collabora con la Bley oramai da venticinque anni e la loro intesa è parte integrante di ogni loro album dato il peso specifico che il bassista riesca ogni volta ad assumere (lo si ascolti soprattutto nel primo movimento della “Beautiful Telephones”); dal canto suo Andy Sheppard è in grado di inserirsi autorevolmente e coerentemente nel fitto dialogo pianoforte-basso.

Paolo Damiani – “Silenzi luterani” – Alfa Music 214
Due i riferimenti colti esplicitati dallo stesso Damiani nelle note che accompagnano il CD: da un lato la Riforma di Martin Lutero che nel 1517 si staccò dalla Santa Sede romana introducendo il canto in chiesa di tutti i fedeli e componendo egli stesso musica, dall’altro l’evocazione nel titolo del CD… e non solo, delle “Lettere Luterane” di Pier Paolo Pasolini, articoli scritti nel 1975 e pubblicati sul Corriere della Sera. Ambedue, Lutero e Pasolini, si scagliavano contro i mali della società ovviamente delle rispettive epoche: ebbene, Damiani con la sua musica intende protestare contro uno stato di cose per cui l’indignazione non basta più. Di qui una musica a tratti sghemba, difficile, ma di sicuro fascino, impreziosita dal fatto che viene liberamente interpolata con frammenti melodici scritti da Lutero e testi di Pasolini. Ancora una volta Damiani evidenzia la sua ottima conoscenza del mondo musicale, inteso nell’accezione più ampia del termine, riuscendo così a far convivere nella stessa espressione artistica echi di mondi assai lontani con suggestioni derivate dal presente, in un gioco di incastri, di rimandi che disegnano un universo davvero senza confini. Insomma un’operazione tutt’altro che banale per la cui riuscita era necessaria una perfetta intesa degli esecutori. Ecco quindi la formazione posta in campo da Damiani, formata dai migliori ex allievi del dipartimento jazz del conservatorio di Santa Cecilia, dipartimento fondato e guidato dallo stesso Damiani fino al 2018: quattro voci capitanate da Daniela Troilo (in questa sede anche arrangiatrice), Erica Scheri al violino, Lewis Saccocci al pianoforte, Francesco Merenda alla batteria cui si aggiunge, in veste di ospite, Daniele Tittarelli ai sassofoni. In repertorio sette brani, tutti composti dal leader, registrati in occasione di due concerti tenuti presso la Sala Accademia del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e la Sala Concerti della casa del Jazz di Roma, nel 2017.

Vittorio De Angelis – “Believe Not Belong” – Creusarte Records
Una delle strade maestre su cui oramai si è indirizzato il jazz è quella di far confluire in un unico linguaggio input derivanti da varie fonti, soprattutto jazz mainstream, soul e funk. Certo, se la strada è la stessa, il modo di percorrerla è diverso ed è proprio su questo parametro che si può valutare oggi la valenza di una esecuzione. Da questo punto di vista, l’album in oggetto si lascia ascoltare non tanto per l’originalità delle composizioni (7 brani tutti composti dal leader sassofonista, flautista e compositore napoletano) quanto per il particolare organico. De Angelis ha infatti scelto di puntare sul “double trio” vale a dire due batterie, due tastiere, due fiati; manca il bassista in quattro dei sette brani sostituito dai due tastieristi (Domenico Sanna al basso sinth e Sebi Burgio al piano basso Rhodes). Insomma due trio indipendenti che suonano assieme e che proprio per questo producono una sonorità particolare, pregio principale di queste registrazioni. E non è poco ove si tenga conto che si tratta del primo album di Vittorio De Angelis leader, il quale, tra l’altro ha avuto l’intelligenza di chiamare accanto a sé musicisti di livello tra cui Domenico Sanna pianista di Gaeta, classe 1984, che ha già collaborato con musicisti di livello internazionale quali Steve Grossman, Rick Margitza, Dave Liebman, JD Allen, Greg Hutchinson; Seby Burgio, altro talentuoso tastierista (Siracusa 1989 ) che può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Larry James Ray, Tony Arco, Michael Rosen, Alfredo Paixao; Francesco Fratini uno dei più promettenti trombettisti italiani e Takuya Kuroda trombettista e arrangiatore giapponese, classe 1980, che incide per la Blue Note e ha già al suo attivo cinque album sotto suo nome.

e.s.t. – “Live in Gothenburg” – ACT 9046 2
Ascoltando queste registrazioni effettuate live il 10 Ottobre del 2001 alla Concert Hall di Gothenburg si rinnova il rimpianto per aver perso troppo presto e in maniera davvero assurda un talento come Esbjörn Svensson qui accompagnato dai fidi partner Dan Berglund al basso e Magnus Ostrom alla batteria. Siamo negli anni in cui il trio sta consolidando il proprio essere gruppo omogeneo, compatto in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur affollato panorama dei trii piano-basso-batteria. Ciò ovviamente per merito di tutti e tre i musicisti ma in modo particolare, del leader, il pianista Esbjörn Svensson affermatosi in brevissimo tempo come uno dei più fulgidi talenti del piano jazz a livello internazionale. In questo concerto, poi riportato sul doppio CD in oggetto, il trio rivisita alcuni dei brani contenuti nei due album già usciti in quel periodo, vale a dire “From Gagarin´s Point of View” del 1999 e “Good Morning Susie Soho” del 2000. E si è trattato di una performance davvero molto rilevante se lo stesso Svensson aveva più volte dichiarato di considerare questo concerto uno dei migliori della sua carriera. E come dargli torto? La musica è assolutamente ben costruita, ben arrangiata e altrettanto ben eseguita con i tre artisti che si ascoltano e interagiscono con immediatezza e pertinenza. Ascoltando in sequenza tutti e gli undici brani dei due CD è davvero difficile, se non impossibile, capire quando i tre improvvisano e quando seguono qualcosa di stabilito in precedenza. E non credo di esagerare affermando che dopo i mitici trii di Bill Evans, che hanno rivoluzionato il modo di concepire il combo piano-batteria-contrabbasso, questa di Svensson e compagni sia stato la formazione che più di altre è riuscita a dire qualcosa di nuovo e originale in materia.

Giovanni Falzone – “L’albero delle fate” – Parco della Musica
Il trombettista Giovanni Falzone, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Alessandro Rossi sono i protagonisti di questo album registrato nel febbraio del 2019 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La musica è di segno naturistico, se mi consentite l’espressione, in quanto Giovanni per comporla si è ispirato ai sentieri, ai grandi sassi, agli alberi, agli animali, ai colori, alle fonti d’acqua che vivificano il lago di Endine, in provincia di Bergamo, dove il trombettista ama trascorrere parte del suo tempo libero. Di qui nove brani che lo stesso Falzone definisce “cartoline sonore”; ma attenzione, quanto fin qui detto non tragga in inganno ché quella di Falzone resta una musica ben lontana dal New Age e viceversa ben ancorata alle grandi tradizioni del jazz. Così nel suo linguaggio è possibile riscontrare echi di Armstrong così come, per venire a tempi a noi più vicini, di Kenny Wheeler, di Enrico Rava (al quale in occasione dell’ottantesimo compleanno il 20 agosto scorso ha dedicato una intensa ballad), di Miles Davis (ma quale trombettista non è stato influenzato da Miles?). Quindi un jazz ora vigoroso (“Il mondo di Wendy”), ora più intimista (“Capelli d’argento”) ma sempre splendidamente suonato e arrangiato. Frutto evidente dell’intesa che si respira nel gruppo in cui tutti si esprimono al meglio delle rispettive possibilità.

Claudio Fasoli – “The Brooklyn Option” – abeat 206
Questo album è in realtà la riedizione di un CD pubblicato nel 2015; quindi, dal punto di vista del contenuto musicale, nessuna novità; cambia, invece, la copertina adesso rappresentata da una bella foto scattata dallo stesso Fasoli. Il sassofonista è reduce da una serie di brillanti riconoscimenti: nel 2018 ha vinto il Top Jazz come musicista dell’anno mentre nel 2017 il suo album “Selfie” sul mercato francese è stato votato dalla rivista “JazzMagazine” come “disco shock” del mese. In questa occasione è alla testa di un quintetto all stars comprendente Ralph Alessi alla tromba, Matt Mitchell al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Fasoli è in forma smagliante sia come compositore sia come esecutore. In effetti tutti e tredici i brani contenuti nell’album sono da lui stesso firmati e ci mostrano un musicista maturo, assolutamente consapevole dei propri mezzi ed in grado di scrivere musica a tratti coinvolgente, sempre, comunque, interessante e ben lontana dal ‘già sentito’. Ovviamente almeno parte di queste positive valutazioni dipende anche dall’esecuzione: ebbene al riguardo occorre sottolineare come il gruppo funzioni a meraviglia, con un altissimo grado di interplay che consente ai musicisti di muoversi in assoluta libertà, certo che il compagno di strada saprà quasi percepire in anticipo le sue proposte e sarà quindi in grado di condurle alle finalità desiderate. Straordinario, al riguardo, il modo in cui tromba e sassofono dialogano e suonano anche all’unisono sul filo di un idem sentire non facilissimo da raggiungere. Ancora una volta Alessi si qualifica come una delle più belle e originali voci trombettistiche degli ultimi anni. E non c’è un solo momento nel disco che non si percepisca questa intesa, questa gioia di suonare assieme. Tali caratteristiche si colgono sin dall’inizio, vale a dire dai tre movimenti che compongono la suite “Brooklyn Bridge”, aperta da una esposizione del tema armonizzata dai fiati che lasciano quindi spazio alla sezione ritmica con Mitchell, Gress e Waits a dimostrare quanto sia meritata la fama raggiunta nel corso degli ultimi anni.

Luca Flores – “Innocence” – Auand 2 cd
Ascoltare un inedito di Luca Flores è sempre emozionante e non solo per le vicende umane legate alla prematura scomparsa dell’artista, quanto perché la sua musica è come una sorta di scrigno contenente delle perle rare e preziose. Ovviamente anche quest’ultimo doppio album non sfugge alla regola: sedici tracce inedite incise da Luca Flores tra il 1994 e il 1995 di grande livello. Ma prima di spendere qualche parola sul contenuto artistico di “Innocence” vorrei ringraziare, a nome di tutti gli appassionati di jazz, l’amico Luigi Bozzolan, anch’egli valente pianista, il quale da tempo si sta adoperando per illustrare al meglio il lavoro di Flores, Stefano Lugli, il sound engineer che aveva curato quelle registrazioni, e Michelle Bobko, che ne aveva conservate delle copie, per aver ritrovato questo materiale e averlo regalato all’ascolto di noi tutti. E un doveroso riconoscimento va anche al pianista Alessandro Galati che ha curato selezione e mastering dell’opera. Il titolo di questo doppio cd è quello che Luca aveva indicato al produttore Peppo Spagnoli della Splasc(H) per quello che sarebbe stato il suo nuovo lavoro, un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico e che prevedeva un organico allargato con violoncello, percussioni, vibrafono e armonica, nonché la voce di Miriam Makeba. Data la complessità del progetto, dai costi piuttosto elevati, si decise di pubblicare un piano solo (“For Those I Never Knew”, edito da Splasch Records), con l’aggiunta di nuove tracce registrate il 19 marzo 1995; il pianista sarebbe scomparso dieci giorni dopo cosicché l’album uscì postumo. Tornando a “Innocence” i due CD si differenziano per un particolare non secondario: il primo è dedicato a brani mai incisi mentre il secondo presenta versioni alternative di pezzi già registrati. Ovviamente ciò nulla toglie all’omogeneità delle registrazioni che ci restituiscono ancora una volta un musicista straordinario dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo. Il suo pianismo è sempre lucido, fluido, mai teso a stupire l’ascoltatore ma sempre rivolto ad esprimere il proprio io, la propria anima. Di qui una capacità di scavare all’interno di ogni singolo brano che solo i grandi possiedono. Si ascolti al riguardo come sia riuscito a fondere in un unicum “Broken Wing” e “Lush Life” e come dimostri di saper padroneggiare diversi stili, dal bop di “Work” di Thelonious Monk e “Donna Lee” di Charlie Parker, allo swing di “Strictly Confidential” fino ad un pianismo di marca intimista in “Kaleidoscopic Beams” impreziosito da un unisono piano/voce prima e dopo il lungo assolo e “Silent Brother” che chiude degnamente il cd.

Jan Garbarek, The Hilliard Ensemble – “Remember me, my dear” – ECM New Series 2625
Ho conosciuto personalmente Jan Garbarek nel 1982 quando abitavo in Norvegia; in quella occasione l’ho trovato persona squisita, cortese, sensibile…oltre che straordinario musicista. E questa valutazione sull’artista nel corso degli anni non è mutata di una virgola…anzi. Quest’ultimo album mi conferma vieppiù nel considerare Jan Garbarek uno dei musicisti più originali, maturi, straordinari degli ultimi decenni. Ancora una volta accanto all’Hilliard Ensemble (questo è il quinto album da loro inciso nel corso degli ultimi ventisei anni), il sassofonista norvegese ci regala un’altra rara perla, una musica assolutamente inconsueta che affascina chi mantiene mente e cuore aperti. Qui non c’è più la distinzione tra generi: non si tratta di jazz, di musica classica, di folk, di musica religiosa ma di una straordinaria miscela di suoni, ricca di pathos, che ci trasporta in una dimensione trascendente l’attualità per instaurare un colloquio diretto con l’anima di chi ascolta. Ecco quindi un repertorio che abbraccia un lunghissimo arco di tempo, con quattordici brani di cui due firmati rispettivamente da Christ Komitas e Nikolai N. Kedrov autori a cavallo tra Otto e Novecento, cinque di autore anonimo, uno a testa per Guillaume le Rouge, maestro Pérotin, Hildegard von Bingen, Antoine Brumel tutti databili da 1098 al 1500,lo splendido “Most Holy Mother of God” di Arvo Pärt, più due composizioni originali dello stesso Garbarek. L’apertura è affidata a “Ov zarmanali” inno battista del religioso armeno Christ Komitas, interpretato da Garbarek in solitudine ed è questo il brano in cui si ascolta maggiormente il sax soprano del musicista norvegese, dal momento che negli altri pezzi a prevalere sono sostanzialmente le voci. Particolarmente degna di nota l’”Alleluia Nativitas” del Maestro Perotino. Un’ultima notazione: la registrazione, effettuata nella Chiesa della Collegiata dei SS.Pietro e Stefano di Bellinzona risale all’ottobre del 2014; come mai è stata pubblicata solo adesso?

Ghost Horse – “Trojan” – Auand 9090
Ecco la nuova formazione posta in essere sulle orme del precedente gruppo “Hobby Horse” dal sassofonista Dan Kinzelman con Filippo Vignato al trombone, Gabrio Baldacci alla chitarra baritona, Joe Rehmer al basso elettrico, Stefano Tamborrino alla batteria e Glauco Benedetti all’eufonio e alla tuba. Come si nota un organico piuttosto insolito così come insolita è la musica proposta. Una musica che trae spunti dal jazz, dal rock, dalla psichedelia cui si riferisce la frequente reiterazione di brevi frasi musicali che finiscono per ottenere un effetto in bilico tra l’onirico e l’ipnotico. Il tutto impreziosito da una intelligente ricerca sul suono, sulla timbrica e sulla dinamica particolarmente evidente nel brano di chiusura “Pyre” di Kinzelman (autore di cinque degli otto brani in repertorio) caratterizzato sul finire da quella reiterazione cui prima si faceva riferimento. Ma è l’intero album che si fa ascoltare con interesse dal primo all’ultimo minuto. Così, tanto per citare qualche altro titolo, la title track che apre l’album evidenzia la volontà del gruppo di non fermarsi su terreni particolarmente frequentati e di ricercare da un canto una propria specificità con frasi oblique, sghembe, tutt’altro che scontate, dall’altro una dimensione quasi orchestrale con un crescendo in cui tutti i componenti il sestetto hanno modo di mettersi in luce. In “Il bisonte” è in primo piano il sound così particolare della tuba utilizzata in un ruolo tutt’altro che coloristico. Convincente l’impianto narrativo di “Five Civilized Tribes” con in primo piano Gabrio Baldacci e Stefano Tamborrino autore del brano. Più legato a stilemi tradizionali, ma non per questo meno affascinante, “Hydraulic Empire” con un Vignato in grande spolvero mentre in “Dancing Rabbit” è in primo piano la sezione ritmica di Tamborrino e Rehmer. Per chiudere una menzione la merita anche la crepuscolare “Forest For The Trees” (di Kinzelman) in cui si avverte forse più che altrove quel fine lavoro di cesello cui si dedicano i fiati.

Rosario Giuliani – “Love in Translation” – VVJ 133
Una sezione ritmica tra le migliori del jazz non solo italiano (Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; li si ascolti in “Hidden force of love”) e una front line costituita da due grandi performer quali Rosario Giuliani ai sax alto e soprano e Joe Locke al vibrafono: ecco in poche righe spiegati i motivi del perché questo album si percepisce con grande piacere. Come solo i grandi musicisti sanno fare, i brani si susseguono con scioltezza e si ha l’impressione che tutto sia facile anche quando, ascoltando più attentamente, si scopre che le cose non stanno proprio così. In effetti gli arrangiamenti sono tutt’altro che banali e il modo di interloquire vibrafono-sax è il frutto di un’intesa assai solida, cementificata da un ventennio di collaborazione che i due intendono festeggiare proprio con l’uscita di questo album. Il repertorio è quanto mai variegato passando da classici del jazz (“Duke Ellington’s Sound of Love” di Charles Mingus, o “Everything I Love” di Cole Porter”) a hit della musica pop quali “I Wish You Love”, versione inglese della celeberrima “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet o quel “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss che inopinatamente troveremo anche nel CD di Oded Tzur di cui si parla più in basso; a questi si aggiungono alcuni original quali “Raise Heaven” dedicato da Joe Locke a Roy Hargrove e “Tamburo” di Rosario Giuliani per l’amico Marco Tamburini. Come prima sottolineato, tutti e dieci i brani in repertorio si ascoltano con molta piacevolezza, tuttavia mi ha particolarmente impressionato il dialogo di sax e vibrafono in “Can’t Help Falling In Love” e le modalità con cui il gruppo nella sua interezza ha approcciato un brano non facile come il mingusiano “Duke Ellington’s Sound of Love”.

Wolfgang Haffner – “Kind of Tango” – ACT 9899-2
Ad alcuni sembrerà forse strano che dei musicisti nordeuropei si interessino di tango, ma si tratta di una impressione totalmente errata. In effetti il Paese dove il tango è più frequentato, ascoltato, ballato – ovviamente al di fuori dell’Argentina – è un Paese del Nord Europa e precisamente la Finlandia. Chiarito questo equivoco, con questo album siamo in terra di Germania dove il batterista Wolfgang Haffner ha costituito un gruppo di stelle a livello internazionale per affrontare un repertorio piuttosto impegnativo dal momento che sotto l’insegna del tango si ascoltano sia brani di compositori celebri come Astor Piazzolla, Gerardo Matos Rodriguez sia original dei componenti il sestetto. Ecco quindi uno accanto all’altro il già citato Haffner, gli altri tedeschi Christopher Dell al vibrafono e Simon Oslender al piano, il francese Vincent Peirani all’accordion, gli svedesi Lars Danielsson al basso e cello e Ulf Wakenius alla chitarra, “rinforzati” dalla presenza in alcuni brani dei tedeschi Alma Naidu vocalist e Sebastian Studnitzky trombettista, dello svedese Lars Nilsson flicorno e del sassofonista statunitense Bill Evans. E c’è un altro equivoco da chiarire. In questo caso non si tratta della m era riproposizione delle atmosfere tipiche del tango, quanto di un’operazione un tantino più complessa e ben illustrata dallo stesso batterista quando afferma che per lui ascoltare e scrivere un tango non è una semplice traduzione in musica di ciò che ha sentito ma l’assorbire e l’adattare degli input ricevuti in un processo da cui può scaturire qualcosa di nuovo e contemporaneo. Ed in effetti ascoltando la riproposizione dei tanghi più celebri da tutti conosciuti quali “La Cumparista”, “Libertango” e “Chiquilin de Bachin” da un lato non c’è quel pathos che caratterizza le esecuzioni di un Astor Piazzolla, dall’altro si avverte la volontà di distaccarsi dai modelli originari per giungere su spiagge inesplorate. Tentativo riuscito? A mio avviso sì, ma ascoltate e giudicate.

Ayler’s Mood “Combat joy” e Pasquale Innarella “Go Dex”Quartet– aut records 051, 053
Due cd dedicati a due giganti del sax: il Trio Ayler’s Mood, costituito da Pasquale Innarella al sax, Danilo Gallo al basso elettrico e Ermanno Baron alla batteria sono i protagonisti di “Combat Joy”, dedicato ad Albert Ayler, e Pasquale Innarella e “Go Dex Quartet” dedicato a Dexter Gordon. Una sfida molto, molto difficile, quella con i mondi sonori di due grandi sassofonisti molto diversi tra di loro e quindi impossibili da ricondurre ad un unicum. Di qui l’intelligenza poetica – mi si passi il termine – di questi due gruppi e di Innarella che, come sassofonista, ben lungi dal voler imitare l’inimitabile, ha voluto con i suoi compagni di viaggio, piuttosto, rileggere le esperienze dei due grandi artisti. In particolare nel primo album, “Ayler’s Mood”, registrato live durante un concerto a “Jazz in Cantina”, zona Quarto Miglio, Roma, il 22 dicembre del 2018, Innarella (nell’occasione anche al sax soprano) coadiuvato da due eccellenti partner quali Danilo Gallo al basso e Ermanno Baron alla batteria, si rivolge all’universo di Albert Ayler (1936-1970) considerato a ben ragione uno dei massimi esponenti del free anni sessanta; lo stile del musicista di Cleveland era caratterizzato da un vibrato molto aggressivo e da un linguaggio che destrutturava gli elementi fondativi della musica, vale a dire melodia, armonia e timbro. Come affrontare quindi, tale musica senza ricorrere a sterile imitazioni? Lasciandosi andare ad una improvvisazione pura, estemporanea (come sottolineato nella presentazione dell’album) è stata la risposta di Innarella e compagni. Un flusso sonoro di circa un’ora che coinvolge l’ascoltatore in una sorta di viaggio senza meta, assolutamente coinvolgente. I tre suonano liberamente ma con estrema lucidità, in un quadro in cui nessuno ha la prevalenza sull’altro e in cui la musica di Ayler rivive in tutta la sua drammatica attualità con lacerti di free che si alternano con accenni di calypso o di R&B…senza trascurare alcune citazioni ben riconoscibili.
Nel secondo CD, “Go Dex”, Innarella è in quartetto con Paolo Cintio al piano, Leonardo De Rose al contrabbasso e Giampiero Silvestri alla batteria. In questo caso il discorso è completamente diverso e non potrebbe essere altrimenti dato che Dexter Gordon (1923-1990) è stato uno degli alfieri del bebop, un artista straordinario di recente ricordato in un bel volume della EDT di cui ci si occuperà quanto prima. Nell’album Innarella esegue sette composizioni di Dexter Gordon con l’aggiunta di un celeberrimo standard, “Misty” di Errol Garner. Ma è già nel termine “Go Dex” che si vuole omaggiare il sassofonista di Los Angeles dal momento che “Go” è il titolo che lo stesso Dexter volle dare ad un suo album registrato nell’agosto del 1962 con Sonny Clark piano, Butch Warren basso e Billy Higgins batteria. Ma Pasquale non si è fermato qui: Gordon ha scritto pochi brani e Innarella ha voluto, quindi, riproporne almeno una parte tenendosi però ben lontano da una pedissequa imitazione. Quindi non un linguaggio boppistico ma un jazz moderno, attuale, che non disdegna incursioni nel mondo del free. Ecco le prime battute dell’album eseguite secondo stilemi molto vicini al free accanto ad una convincente e canonica interpretazione di “Misty” con sonorità più legate alla tradizione; ecco “Soy Califa” dall’andamento funkeggiante, illuminato da uno splendido assolo di Paolo Cintio accanto al conclusivo “Sticky Wichet” che ci riconduce ad atmosfere molto accese… il tutto senza perdere di vista, in alcun momento, quelli che erano i principi ispiratori di Gordon e che ritroviamo intatti in questo pregevole album.

Keith Jarrett – “Munich 2016” – ECM 2667/68
Passano gli anni ma è sempre un’esperienza appagante ascoltare Keith Jarrett specie su disco (ché dal vivo alcune intemperanze sono francamente insopportabili). In questo doppio CD, registrato alla Philarmonic Hall di Berlino il 16 luglio del 2016, ultima sera di un tour europeo, Jarrett, in totale solitudine, ci presenta una suite in dodici parti dal titolo “Munich” totalmente improvvisata e tre bis, “Answer Me, My Love” (versione inglese della canzone tedesca del 1953, “Mütterlein”), “It’s A Lonesome Old Town” e “Somewhere Over The Rainbow”. Com’è facile immaginare, il Jarrett migliore lo si trova nella prima parte, e soprattutto nel primo movimento dove, in circa quindici minuti di musica magmatica e complessa, il pianista improvvisa liberamente mescolando gli input che oramai da tempo costituiscono gli ingredienti fondamentali della sua cifra stilistica, vale a dire jazz, blues, gospel, folk, musica colta. Ed è davvero un bel sentire: gli intricati percorsi disegnati da Jarrett confluiscono sempre laddove l’artista vuole arrivare, nonostante le spericolate armonizzazioni e la velocissima diteggiatura che alle volte non consentano all’ascoltatore, seppur attento, di immaginare il percorso immaginato dall’artista. E seppur meno intense anche i successivi momenti della suite mantengono davvero alto lo standard esecutivo ed improvvisativo di Jarrett. Leggermente diverso il discorso per i tre brani. Jarrett sembra essersi relativamente placato fino a regalarci una splendida versione del celeberrimo “Over The Rainbow” che da solo vale l’acquisto dell’album.

Lydian Sound Orchestra – “Mare 1519” – Parco della Musica Records
Oramai da tempo la Lydian Sound Orchestra viene a ben ragione considerata una delle migliori big band a livello internazionale e ciò per alcuni validi motivi; innanzitutto la bontà dell’organico che prevede artisti tutti di assoluto spessore quali i sassofonisti Robert Bonisolo, Rossano Emili e Mauro Negri anche al clarinetto, Gianluca Carollo alla tromba e flicorno, Roberto Rossi al trombone, Giovanni Hoffer al corno francese, Glauco Benedetti alla tuba, Paolo Birro al piano e al Fender Rhodes, Marc Abrams al basso e Mauro Beggio alla batteria, Riccardo Brazzale piano e direzione, Bruno Grotto electronics e Vivian Grillo voce. In secondo luogo il grande lavoro svolto da Riccardo Brazzale che è stato capace di mettere assieme una compagine di tutto rispetto e di scrivere per essa arrangiamenti coinvolgenti che non a caso sono stati interpretati dall’orchestra con estrema compattezza. A ciò si aggiunga una sempre lucida scelta del repertorio che anche questa volta è composto sia da composizioni originali del leader sia da composizioni di alcuni grandi della musica come Ellington, Monk, Shorter, Miles Davis, Paul Simon. In più questo album è una sorta di concept dal momento che, come spiegato nelle note, due numeri, 1 e 9, accompagnano nel corso dei secoli i viaggi e i viaggiatori, a partire dall’impresa di Magellano del 1519 ( considerata l’inizio dell’era moderna ) per finire al 2019 quando il mar Mediterraneo continua a raccontare di nascite e di morti; insomma questa volta Brazzale vuole prendere per mano l’ascoltatore e condurlo attraverso quel mar Mediterraneo, testimone delle più importanti vicende dell’umanità, per un viaggio che metaforicamente riproduce alcune fasi della storia del jazz. Di qui una musica immaginifica, travolgente a tratti, sempre improntata alla commistione di più elementi, dal jazz al folk alla musica classica, il tutto impreziosito da una originalità di linguaggio vivificata dal grande livello dei vari solisti cui prima si faceva riferimento.

Christian McBride – “The Movement Revisited” – Mack Avenue 1082
“The Movement Revisited: A Musical Portrait of Four Icons” è esplicitamente dedicato a quattro figure chiave del movimento per i diritti civili degli afro-americani: Rev. Dr. Martin Luther King Jr., Malcolm X, Rosa Parks e Muhammad Ali. In realtà questa monumentale opera ha una storia piuttosto complessa che ha origine nel 1998 quando, su commissione della Portland Arts Society, McBride scrisse una composizione per quartetto e coro gospel che rappresenta, per l’appunto, la prima versione di “The Movement Revisited”. Nel 2008 la L.A. Philharmonic chiese a McBride di farne una versione orchestrale e così “The Movement Revisited” diventò una suite in quattro parti per big band jazz, piccolo gruppo jazz, coro gospel e quattro narratori. In questa registrazione, effettuata nel 2013, è stato aggiunto un quinto movimento, “Apotheosis”, dedicato all’elezione di Barack Obama come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Evidente, quindi, l’intento di Christian McBride (contrabbassista, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, poeta, vincitore di due Grammy con “The Good Feeling” nel 2011 e “Bringin ‘It” nel 2017) di presentare un album che andasse ben al di là del fattore squisitamente musicale riallacciandosi direttamente alla lotta per una effettiva eguaglianza tra bianchi e neri, ancora ben lungi dall’essere raggiunta negli States. La suite è eseguita da una big band di 18 elementi, con coro gospel e narratori, questi ultimi nelle persone di Sonia Sanchez, Vondie Curtis-Hall, Dion Graham, e Wendell Pierce. E come accade alle volte, è impossibile scindere il mero valore artistico dal valore sociale, politico, culturale che questa musica veicola. Non a caso l’album ha ottenuto i più sinceri riconoscimenti da parte di accreditati critici statunitensi. In effetti ascoltando il CD è come se ci si muovesse in un contesto teatrale con i quattro attori che riportano stralci dei discorsi dei protagonisti e un sound che è una sorta di summa di tutta la musica nera, quindi jazz, soul, funk, gospel, spiritual…Insomma una musica che è allo stesso tempo un grido di dolore per quanto accaduto e un segno di speranza per un futuro che non può essere disgiunto dal passato in quanto, come nota lo stesso McBride, “ci sono oggi nuove battaglie che stiamo combattendo, ma sento che queste nuove battaglie cadono sotto l’ombrello di uguaglianza, equità e diritti umani – e questa è una vecchia battaglia». Particolarmente emozionante, al riguardo, riascoltare “I Have a Dream”, un discorso che credo tutti dovremmo, ancora oggi, apprezzare nei suoi profondi significati.

Dino e Franco Piana – “Open Spaces” – Alfa Music
Conosco Dino e Franco Piana oramai da tanti anni e mi ha sempre stupito la straordinaria intesa tra padre e figlio che ha portato questi due personaggi ad attraversare l’oceano del jazz con signorilità, competenza e pochi ma significativi album. In effetti i due (il primo nella veste di trombonista dalla classe eccelsa, il secondo nella quadruplice funzione di compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e flicornista) entrano in sala di incisione solo quando sentono di avere qualcosa di nuovo da dire. Di qui gli ultimi tre album particolarmente significativi, tutti registrati per l’Alfa Music, “Seven” (2012), “Seasons” (2015), e adesso questo “Open Spaces” il cui organico è sostanzialmente lo stesso dell’album precedente cui si aggiungono i cinque archi della Bim Orchestra. Quindi, oltre a Dino e Franco Piana, si possono ascoltare Fabrizio Bosso alla tromba, Max Ionata al sax tenore, Ferruccio Corsi al sax alto, Lorenzo Corsi al flauto, Enrico Pieranunzi al piano, Giuseppe Bassi al basso e Roberto Gatto alla batteria. In repertorio due suite, “Open Spaces” e “Sketch of Colours”, articolate la prima su una Introduzione e tre Variazioni, la seconda su una Introduzione e due Movimenti, ed in più altri tre brani “Dreaming”, “Sunshine” e “Blue Blues”, tutti composti e arrangiati da Franco Piana eccezion fatta per “Sketch of Colours” scritto da Franco Piana e Lorenzo Corsi. L’album è davvero di assoluto livello e per più di un motivo. Innanzitutto la scrittura di Franco che, accoppiata ad una evidente bravura nell’arrangiamento, riesce a ricreare una sonorità caratterizzata da timbri e colori assolutamente originali, rimanendo fedele ad un linguaggio prettamente jazzistico. In secondo luogo l’affiatamento dell’orchestra che pur essendo composta da grandi personalità ha trovato una sua cifra di coesione che l’accompagna in tutte le esecuzioni. In terzo luogo la caratura dei vari assolo che vedono protagonisti tutti i componenti della band. A questo punto non resta che auguravi buon ascolto!

Stefania Tallini – “Uneven” – Alfa Music 226
Ebbene lo confesso: sono un grande amico di Stefania Tallini che ammiro non solo come pianista e compositrice ma anche come persona gentile, equilibrata, mai sopra le righe e soprattutto affettuosa, che si è sempre mantenuta con i piedi per terra nonostante gli innumerevoli successi a livello internazionale. Ecco, questo album inciso in trio con Matteo Bortone valente contrabbassista che ha suonato tra gli altri con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi, e Gregory Hutchinson statunitense a ben ragione considerato uno dei migliori batteristi di questi ultimi anni, è probabilmente uno degli album più significativi registrati dalla pianista. La filosofia dell’album è racchiusa nello stesso titolo, “Uneven” ovvero “Irregolare”: in effetti, spiega la stessa Tallini, “questa parola inglese è l’espressione di qualcosa di inatteso, di inaspettato, che rimanda ad un carattere di imprevedibilità, appunto, che è proprio ciò che amo nella musica e nella vita.” E per esplicitare al meglio queste sue posizioni, Stefania ha voluto fortemente accanto a sé i due musicisti cui prima si faceva riferimento. I risultati le danno ragione. L’album è convincente in ogni suo aspetto: intelligente la scelta del repertorio che accanto a dieci composizioni originali della pianista annovera “Inùtìl Paisagem” di Antonio Carlos Jobim e lo standard “The Nearness of You” di Hoagy Carmichael eseguito in solo; assolutamente ben strutturata la scrittura in cui ricerca della linea melodica e armonizzazione si equilibrano in un linguaggio che non consente espliciti punti di riferimento. Tra i vari brani una menzione particolare, a mio avviso, per il brano di Jobim proposto con grande partecipazione e delicatezza, impreziosito anche dagli assolo dei compagni di viaggio, e l’original “Triotango” che ben cattura l’essenza di questo genere musicale.

Oded Tzur – “Here Be Dragons” – ECM 2676
Questo “Here Be Dragons” è l’album d’esordio in casa ECM per il sassofonista israeliano, ma da tempo residente a New York, Oded Tzur. Accanto a lui Nitai Hershkovits al pianoforte, Petros Klampanis al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria, quindi una piccola internazionale del jazz dal momento che se Hershkovits è anch’egli israeliano, il bassista è greco di Zakynthos‎ e il batterista statunitense di Filadelfia. Registrato nel giugno del 2019 presso l’Auditorio Stelio Molo in Lugano, l’album presenta in repertorio otto brani di cui ben sette scritti dallo stesso sassofonista cui si aggiunge “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss, portato al successo nientemeno che da Elvis Presley. Fatte queste premesse, anche per inquadrare il personaggio ancora non molto noto presso il pubblico italiano, occorre sottolineare la valenza della musica proposta. Una musica che sottende una particolare bravura di Tzur sia nell’esecuzione sia ancora – e forse di più – nella scrittura, sempre fluida, facile da assorbire seppure non banale e soprattutto frutto di una straordinaria capacità di introiettare input provenienti da mondi i più diversi. In effetti egli, israeliano di nascita, ha dedicato molta parte del suo tempo a studiare la musica classica indiana considerata, come egli stesso afferma, “un laboratorio di suoni”. Ecco quindi stagliarsi in modo del tutto originale il suono del suo sassofono chiaramente influenzato dagli studi con il maestro di bansuri (flauto traverso tipico della musica classica indiana) Hariprasad Chaurasia, iniziati nel 2007. Ed è proprio la particolarità del sound che a mio avviso caratterizza tutto l’album, con i quattro musicisti che si intendono a meraviglia pronti a supportarsi in qualsivoglia momento. I brani sono tutti ben scritti e arrangiati con una prevalenza, per quanto mi riguarda, per “20 Years” la cui linea melodica viene splendidamente disegnata da Hershkovits altrettanto splendidamente sostenuto da Blake il cui lavoro alle spazzole andrebbe fatto studiare ai giovani batteristi.

Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand – ACT 9739-2
Ecco un album che sicuramente susciterà l’interesse e la curiosità degli appassionati italiani: protagonisti due artisti estoni, la cantante, pianista e compositrice Kadri Voorand e il bassista Mihkel Mälgand. Kadri da piccola cantava nel gruppo di musica popolare di sua madre, avvicinandosi successivamente al pianoforte classico e quindi al jazz nelle accademie di Tallinn e Stoccolma.  Oggi viene considerata una stella nel proprio Paese grazie ad uno stile versatile che le consente di mescolare jazz contemporaneo, folk estone, rhythm & blues e ritmi latino-americani. Non a caso nel 2017 è stata insignita del premio musicale estone per la miglior artista ed è stata premiata per il miglior album jazz dell’anno (“Armupurjus”). Mihkel Mälgand è uno dei bassisti estoni di maggior successo, avendo lavorato, tra gli altri, con musicisti come Nils Landgren, Dave Liebman e Randy Brecker. In questo album si presentano nella rischiosa formula del duo con la vocalist che suona anche kalimba e violino mentre Mihkel si cimenta anche con bass guitar, bass drum, cello e percussioni. In un brano ai due si aggiunge come special guest Noep. In repertorio 12 brani scritti in massima parte dalla Voorand e cantati in inglese eccezion fatta per due nella sua lingua madre (due splendide song tratte dal patrimonio folcloristico estone). L’album è notevole ed è stato apprezzato anche al di fuori dell’Estonia: Europe Jazz Network, la rete europea di operatori del settore jazz, che stila la Europe Jazz Media Chart, una selezione mensile dei migliori titoli usciti curata da un pool di giornalisti specializzati, ha incluso “Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand” tra le migliori registrazioni del marzo 2020. La musica scorre fluida ed evidenzia appieno la valenza dei due musicisti che si muovono con maestria ben supportati da un tappeto intessuto dagli effetti elettronici padroneggiati con misura ed euqilibrio. La voce della Voorand è fresca, e affronta il difficile repertorio con disinvoltura non scevro da una certa dose di ironia. Dal canto suo Mälgand non si limita ad accompagnare la vocalist ma ci mette del suo prendendo spesso in mano il pallino dell’esecuzione sempre con pertinenza.

VICENZA JAZZ 2019: un giorno con la LYDIAN SOUND ORCHESTRA

VICENZA JAZZ 2019

Venerdì 17 maggio, prove e concerto della LYDIAN SOUND ORCHESTRA di RICCARDO BRAZZALE feat. Ambrose Akinmusire
Teatro Comunale Vicenza
Sul palco per la rassegna TOP JAZZ NIGHT, il miglior jazz premiato quest’anno 2019 nel Top Jazz.
Orchestra premiata come migliore formazione italiana dell’anno + migliore disco internazionale dell’anno

  • Robert Bonisolo, sax soprano & tenore
  • Rossano Emili, clarinetti & sax baritono
  • Gianluca Carollo, tromba e flicorno
  • Roberto Rossi, trombone
  • Giovanni Hoffer, corno francese
  • Glauco Benedetti, tuba
  • Vivian Grillo, voce
  • Paolo Birro, piano
  • Marc Abrams, basso
  • Mauro Beggio, batteria

e con Ambrose Akinmusire, tromba

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RFM Organ Trio al TrentinoInJazz

Mercoledì 19 settembre 2018
Ore 21.00
Mas dela Fam
Via Stella 18
Trento

R.F.M. ORGAN TRIO

Ultimo appuntamento estivo del TrentinoInJazz con un nuovo concerto targato TrentinoIn JazzClub, il ciclo del TrentinoInJazz ideato da Emilio Galante per coinvolgere i club di Trento e Rovereto, che torna alla centralità dell’organo elettrico con il RFM Organ Trio a Trento. Roberto Gorgazzini (organo), Fiorenzo Zeni (sax tenore, soprano e ewi) e Michele Vurchio (batteria) nascono come trio nel 2011, sono tre personalità con esperienze molto diverse, che in gruppo elaborano un sound tipico degli anni ’60 e ’70, rivissuto in chiave moderna.

Roberto Gorgazzini è da oltre 30 anni sulla scena musicale regionale e non solo, ha collaborato con musicisti del calibro di Gianni Basso, Carla Marcotulli, Tony Scott, Larry Nocella, Lilian Terry, Bruno de Filippi e tanti altri.
Michele Vurchio ha lavorato nel campo della musica brasiliana con Irio De Paula, Jim Porto, Roberto Duarte e molti altri, ma anche con Nada, Camaleonti e Anna Oxa. Fiorenzo Zeni ha dalla sua collaborazioni con grandi del jazz come Paolo Fresu, Franco d’Andrea, Enrico Marc Abrams, Maria Pia de Vito, Claudio Angeleri, Paul Wertico, Javier Girotto, Fabrizio Bosso, Giovanni Falzone ed altri.

Prima consumazione minimo 7,00 €. Degustazione piatto unico “Gnoc en Toc” (spatzle bianchi con patate e formaggio casolet spolverata di semi di papavero, contorno di verdure). Illustrazione del piatto a cura dello chef Andrea Bassetti. Prossimo appuntamento con il TrentinoInJazz 2018 sabato 29 settembre: Tiziano Popoli e Vincenzo Vasi a Trento.

OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL – edizione 38 – La terza giornata

SABATO 24 MARZO, TERZA GIORNATA

La conclusione dell’ Open Papyrus Jazz Festival è affidata al duo Stefano Benni e Umberto Petrin con il loro recital per voce recitante e pianoforte, Misterioso, e alla Lydian Sound Orchestra di Riccardo Brazzale con un progetto creato per il 50′ anniversario della morte di Martin Luther King. Due spettacoli consecutivi al Teatro Giacosa, preceduti dalla presentazione del libro Grande Musica Nera – storia dell’ Art Ensemble of Chicago, in cui il curatore Claudio Sessa ha non solo raccontato il suo lavoro ma instaurato un fecondo dibattito anche con il direttore artistico Massimo Barbiero e con i presenti in sala. Non si pensi che il dibattere su un libro alle 18 di un sabato sia così scontato.

Ma andiamo a parlare dei due eventi che hanno concluso questa 38esima edizione.

Per mia scelta i commenti sui concerti saranno, per tutte e tre le serate, divisi in due parti, delle quali la seconda è intitolata ” L’impatto su chi vi scrive” ed è il mio commento personalissimo e dichiaratamente non ammantato di alcuna pretesa obiettività. A prescindere dalla competenza, la musica impatta diversamente a seconda della personalità, della formazione, dei gusti di ognuno.

Teatro Giacosa, ore 21: 30

Stefano Benni e Umberto Petrin
Misterioso
Stefano Benni: voce e recitazione
Umberto Petrin: pianoforte

Uno spettacolo voce recitante e pianoforte su Thelonius Monk, genio un po’ maledetto, figura iconica del Jazz che in un Festival dedicato all’ Elogio della Follia di certo è presenza congrua, nel racconto surreale ma nemmeno troppo di Stefano Benni. Un Monk evocato con parole di volta in volta sanguigne, o rassegnate, o solitarie, o guerresche, o logiche o illogiche, un Monk che parla in prima persona e un Benni trasfigurato in lui. Ma anche una Billie Holiday descritta in maniera potente per chi forse mai ne ha sentito il nome, più familiare per chi il Jazz lo segue. Umberto Petrin, pianista con una poderosa esperienza di interazione con letteratura e poesia, racconta con il suo pianoforte lo stesso Monk di Benni, che prende così forma nella sua duplicità di uomo tormentato e di musicista.

L’impatto su chi vi scrive

Un recital suggestivo, che è volato in un attimo. Intenso l’intreccio dei due lati di Monk – l’uomo (letto da Stefano Benni) e il musicista (suonato da Umberto Petrin). Per chi è immerso nel mondo del Jazz non si tratta tanto di scoprire l’uomo, il musicista, il personaggio (le frasi, le intemperanze, gli episodi raccontati dalle parole di certo non usuali di Benni e dalla bella musica di Petrin non sono nuovi per chi conosce Monk), ma di respirare l’atmosfera della sua vita, del suo sentire, del suo modo di essere.
Per chi invece è un neofita la lettura avrà una potenza diversa che non potrà che portare alla necessità di sapere e ascoltare di più.

Teatro Giacosa, ore 22:30

Orchestra
We insist
Ricordo di Luther King
nel 50° anno della morte
diretta da Riccardo Brazzale
Vivian Grillo: voce
Robert Bonisolo: sax tenore, alto e soprano
Rossano Emili: sax baritono, clarinetto e clarinetto basso
Gianluca Carollo: tromba, flicorno, pocket
Mauro Negri: clarinetto e sax alto
Roberto Rossi: trombone
Glauco Benedetti: tuba
Paolo Birro: piano
Marc Abrams: basso
Mauro Beggio: batteria
e con la partecipazione del
Broken Sword Vocal Ensemble
“Un sogno è sempre a suo modo follia, più quel sogno è grande più deve essere folle, e di certo verrà percepito come tale da propri contemporanei” Così il direttore artistico Massimo Barbiero spiega la sua scelta di inserire questa particolare Big Band nel programma il cui tema è come sappiamo l’ Elogio della Follia.  Il sogno è quello del leader del Movimento per i diritti civili Martin Luther King, del quale quest’anno ricorre il 50° della morte.
Brani intensi, coinvolgenti, tratti dal repertorio di Abbey Lincoln e Max Roach (molto bella Lonesome Lover, ma anche When Malindi Sings), Ornette Coleman (Lonely Woman), e brani originali dello stesso Brazzale (Un capanno di montagna in mezzo al mare) .
Arrangiamenti pensati in chiave black, swinganti, potenti, cuciti su una sezione fiati coesa e trascinante. Una voce femminile duttile e potente, protagonista di molti brani con incursioni nel rap, quella di Vivian Grillo. A contrasto le voci liriche del quartetto vocale Broken Sword Vocal Ensemble e anche un’esibizione da solista del soprano Sara Gramola.

 

Vivian Grillo

Paolo Birro

Sara Gramola

 

                                                               L’impatto su chi vi scrive

Un concerto – spettacolo, molto adatto a chiudere festosamente un Festival (li avevamo incontrati in una situazione simile nel 2016 ad Alba Jazz): è un Jazz d’impegno per la tematica proposta ma allo stesso tempo vigoroso e sgargiante. Vivian Grillo, voce solista, ha potenza e presenza scenica, regge molto bene l’impatto dei volumi notevoli dell’ orchestra, non esita a recitare quando serve e ad esibirsi in sequenze adrenaliniche di rap. Interessante la presenza di un ensemble vocale lirico. Il repertorio presentato si rivela scelta vincente, per l’intensità di brani (vedi Freedom Day) che già di per sé sono una garanzia .

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Per chi ce l’ha fatta, il Festival si è concluso a tarda notte al Caffè del Teatro con Traditional T.S. Jazz Band: Fulvio Chiara: cornet, Roberto Beggio: clarinet, Didier Yon: trombone, Marco Levi: banjo, Valerio Chiovarelli: bass tuba, Marco Pangallo: washboard/bass drum.