I nostri CD. JAZZ, L’ARTE DEL TRIO

Una “ terza via “, a livello di gruppi jazz, potrebbe essere definita quella del trio, con un proprio fascino, comunque essa sia composto. L’assortimento degli strumenti è importante ma lo è ancor più quello degli strumentisti visto che i jazzisti, per definizione, sono artisti che, per creatività, abitudine all’improvvisazione, adattabilità ai contesti più diversi, sono a forte tasso di imprevedibilità in base al tipo d’insieme cui danno luogo. In tal modo avviene che le soluzioni adottate nel “rimescolamento” offrano, a partire dai piccoli gruppi come appunto il trio, un’ampia gamma di possibilità. Amedeo Furfaro ne ha selezionate alcune fra le novità discografiche della più recente tornata produttiva.

M. Barbiero, E. Manera, E. Sartoris, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Music Studio.

Poesia che sa di blues, quella di Cesare Pavese, e non solo per ritmo e musicalità ma per un pensiero imbevuto di amara malinconia. D’altra parte si tratta di un autore, spesso collocato fra Leopardi e Lee Masters, che guarda all’America, al jazz, pur se il suo cuore pulsa per le Langhe, il Piemonte. Un’identità spiccata, non spaccata, la sua, e con due anime, una affacciata verso la visibilità, l’esterno, l’internazionale, l’altra, quella intimistica, volta al privato, al paese, alla città. Entità sospese, il mondo fuori ed il resto dentro, che a volte configgono, come la vita e la morte. L’album Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, a firma del percussionista Massimo Barbiero, della violinista Eloisa Manera e del pianista Emanuele Sartoris, ne ripercorre liberamente alcuni passaggi esistenziali tramite sei brani originali – “Campanula”, “Night you Slept”, “Sangue & Respiro”, “The cat will Know”, “A Connie da Cesare”, “Morning” – inframmezzati da cinque interludi e chiusi da una coda per piano solo. Vi si ritrovano, in musica, elementi tipici della scrittura poetica pavesiana come vibranti valori tonali, narrazione epica, pause ricorrenti, spontanea essenzialità pur nella elaborazione concettuale, ricamati espedienti retorici trasposti dal discorso poetico a quello musicale grazie alla sensibile traduzione resa dai tre musicisti.

Marco Castelli New Organ Trio, “Space Age”, Caligola Records

Ventesimo album da leader per il sassofonista Marco Castelli, il terzo per Caligola Records, uno dei quali, Porti di mare, avevamo già avuto modo di recensire. Lo si era definito uno strano viaggiatore, non un semplice visitor o un musicista da crociera bensì una sorta di etnologo che imbraccia un sax al posto del registratore. Stavolta, in Space Age, l’on the road si allarga dai luoghi reali a spazi anche astrali, portandosi appresso un bagaglio di filamenti ska reggae latin ricuciti addosso ad un abito jazzato. Anche nel nuovo disco c’è una puntata su Verdi, l’aria “Morrò ma prima in maschera” da “Il ballo in maschera”. Ed ancora qui, specie nel brano iniziale omonimo del cd, paiono verificarsi momentanei trasfert sonori del suo sax tenore con quello di Gato Barbieri.
Fin qui le analogie. Vediamo le differenze. Una, sostanziale, è l’organico con l’hammond di Matteo Alfonso e la/le batteria/percussioni di Marco Vattovani. Il che dà un nuovo riassetto ad un combo che ad alta temperatura ritmica, pur in assenza di quel contrabbasso cui la mano sinistra del giovane organista supplisce disinvoltamente.
L’altra è il repertorio che contempla sia brani originali – “Space Age”, “Good Weather”, “Zanzibar”, “Bandando”, “Farvuoto” – che reinterpretazioni che vanno dal Carosone di “Tu vuò fa l’americano” all’Ibrahim di “African Marketplace” con una puntata nell’ellingtoniana “In A Sentimental Mood”. Stavolta l’errare di Castelli, essendo l’album registrato durante lo stop indotto dalla pandemia, è più verosimile che vero. Un po’ come un libro di Salgari scritto per curiosità immaginativa, per quella pulsione che anche la musica riesce a soddisfare, senza check in da effettuare né green pass da esibire. Al jazz, repubblica della fantasia e della libertà creativa, riesce anche meglio.

Roberto Macry Correale, “A Simple Day”, Workin Label

Nel jazz, il guitar trio con organo e batteria è formula non nuova, vedansi al riguardo i casi di Wes Montgomery con Mel Rhyne e Paul Parker, Scofield con Goldings e DeJohnette, Abercrombie con Wall e Nussbaum, Mc Laughlin con De Francesco e Chambers. L’uso del Rhodes in luogo del più maneggiato Hammond, con tutti i diversi registri timbrici che ciò comporta, è il primo elemento che caratterizza l’album, targato Workin Label, A Simple Day, secondo titolo della tracklist. Lo firma il giovane chitarrista Roberto Macry Correale in veste anche di compositore, un musicista che ha esposto in sei brani una teoria della non complessità del tutto personale con i giusti assist del tastierista Antonio Freno e la batteria di Marco Morabito a dettarne le dinamiche.
Curioso il titolo del primo, “Resilience”, termine che dalla neongua e dal PNRR è approdato anche al jazz, una musica che resiste all’invasione di massificati ultracorpi commerciali di tanta, dominante, musica precotta.
Artisti come Macry Correale perseguono dunque un’idea originale evidenziata dai chiaroscuri di “Over The Moon”, dai giochi di atmosfere di “Contrasts of light”, dai toni blusati di “Blue Mood”, nel tratteggiare in note i momenti di una semplice giornata, non a foggy day che, di questi tempi, capita sempre più spesso di dover vivere.

Entanglement Trio, “A Brief History of Time”, nusica.org

Raccontare il tempo si può. Anche con la musica. Lo ha sperimentato la ricerca dell’Entanglement Trio nell’album A Brief History of Time edito da nusica.org.
Qui si stagliano come un drone i vocalizi e i fonemi di Beatrice Arrigoni sugli affastellamenti elettronici del compositore, il contrabbassista Matteo Lorito e sullo sfavillio ritmico innescato dal batterista Andrea Ruggeri.
C’è, alla base, una ispirazione avviluppata fra scienza e arte: le teorie di Stephen Hawking, storico del Tempo dal Big Bang ai Buchi Neri, intrecciate ai versi di T. S. Eliot, nello specifico dalla prima sezione dei Four Quartet. Il postulato del terzetto, di tipo cosmogonico, è che il linguaggio musicale abbia origine da una materia inizialmente informe che via via si co-relaziona in una rete di suoni organizzati e organizzabili in discorso musicale.
La successione di sette “rappresentazioni” – Time Present/Echoes, Hidden Music, Formal Patterns, Sunlight, The Surface, A Cloud, Eternally Present – gradualizza il passaggio del suono dal caos ad un ordine aperto all’improvvisazione, con sullo sfondo effetti acustici e rumorii concreti, col racchiuderne la sequenza in un cd come “l’universo in un guscio di noce”. Sono lembi di scrittura jazz ovvero angoli intenzionali rispetto all’accidentale, in un’Odissea che ha del kubrickiano nel cui tempo poter agire e non più essere passivamente agiti.

Roberto Occhipinti, “The Next Step”, Modica Music

Anche il buon jazz, come il buon whisky, può essere canadian. E’ il caso di The Next Step, album prodotto a Toronto da Modica Music a cura del bassista Roberto Occhipinti con il pianista Andrea Farrugia e il batterista Larnell Lewis. Un trio “olistico”, per usare un termine trendy, perché in grado di conformare un “tutto” sonoro coeso e coerente, cristallino ed energico al punto giusto.
Essendo, su un totale di nove brani, ben sei firmati da Occhipinti – “The Next Step” (ballad a cui l’archetto conferisce un sapiente tocco classico) , “Emancipation Day” (col piano “emancipato” in evidenza sulla base latin e pregevole impro del contrabbasso), “Il Muro” (dai continui e coerenti scambi accordali), “Three Man Crew” (dalle modalità evolute e cangianti), “Steveland” (evocativo e visionario), “A Tynerish Swing” (con la batteria, fantasiosa e puntuale come un cronometro, dal brillante senso swing) – ne consegue che dall’ascolto risultino e risaltino anzitutto le doti di compositore di un leader dalla fantasia fertile e dalla nitida capacità reinventiva. Che si illumina in particolare allorquando si tratta di metter mano a standard di icone sacre come Jaco Pastorius, dal cui songbook è ripresa “Opus Pocus” e di un musician’s musician come Jimmy Rowles, con la riproposizione di “The Peacocks”, ambedue affidati alla affilata interazione del gruppo.
A metà disco è collocata, di Alessandro Scarlatti, “O cessate di piagarmi”, con la sovrapposizione vocale di Ilaria Crociante, un tuffo nel passato storico/musicale e nel contempo una vetrina “eurocolta” per il progetto di cui sopra. Ciò nel presupposto che anche il buon jazz, come il buon whisky, possa essere blended e cioè orientarsi verso più fronti(ere) sonore per miscelarsi con più fonti ispirative – Occhipinti ha collaborazioni che vanno da Cage a Wonder – raccordate per distillare un gusto sempre diverso.

Lello Petrarca Trio, “Napoli Jazzology”, Dodicilune.

Napoli è mille colori, compresi quelli del jazz. Ed è così che ‘A città e Pulecenella’, col gioco di dita sul piano di Lello Petrarca, allarga e di parecchio i confini sonori del Golfo. Succede in Napoli Jazzology (Dodicilune), rivisitazione di un repertorio di brani intramontabili a partire da “‘0 Sole Mio”, ripresa, certo, persino da Presley, che qui diventa una musica jazz a dir poco verace. Al pianista si aggiungono Vincenzo Faraldo al contrabbasso e Aldo Fucile alla batteria per una sintesi in cui è anzitutto la ritmica a rifare l’impasto, con timbri latin, a ”Funiculì Funiculà” mentre l’arrangiamento trasforma “Reginella” in una sorta di evansiano “Waltz for Debbie” partenopeo, ballad soffusa come la successiva “Era De Maggio”.
Modale (con citazione iniziale da “Footprints”) è “Passione” al pari di una “Tammurriata Nera” con bagliori swing nel ritornello. Dai classici ai moderni: voila “Resta Cu ‘mme” di Modugno adornare questa cartolina di Napoli con il mitico Pino … Daniele le cui note di “Gente Distratta” la decorano melodicamente come chiusura dolcezza del disco.

V. Saetta, G. Francesca, E. Bolognini, “TRIAPOLOGY, Iridescent”, Tùk Music.

Fra il Rock e il Pop c’è di mezzo il … Jazz. Che non è lì a far da terzo incomodo bensì a dare un nuovo profilo di una data canzone nel presupposto che i tre generi musicali non siano compartimenti stagno. In effetti les liasons (non) dangereuses sono tante specie per quei jazzisti che hanno metabolizzato il linguaggio pop e rock. A dire la loro ci hanno provato, con il disco Iridescent, Vincenzo Saetta (sax alto, effetti), Giovanni Francesca (chitarra, effetti) Ernesto Bolognini (batteria), TRIAPOLOGY edito da Tùk Music. Una Apologia del trio (senza basso) in quanto formazione basica per sperimentare in che modo brani di Prince (“Sign 0’ The Time”) e Justin Vernon (“Holocene”), Neil Young (“Old Man”) e Brian Blade (“Stoner Hill”) siano interpretabili in chiave jazz senza per questo avvertire capogiri e vertigini di sorta. Tale scostamento di genere prevede ovviamente di assegnare il canto – si ascolti ad esempio la particolare versione di “I Still Haven’t What I’m Looking For” degli U2 – ad uno strumento portante che può essere il sax o la chitarra, ammantati da leggeri strattoni percussivi. Idem dicasi per “Dream Brother” di Buckley dove la melodia, anche qui devocalizzata, si apre a “campi immensi” (Gialal Al-Din Rumi) con sviluppi in più direzioni. Infine “Paranoid Android”, “Eleanor Rigby” e “Fat Bottomed Girls”, rispettivamente di Radio Head, Beatles e Queen, chiudono l’album la cui lussuosa cover è vergata dalla spagnola Cinta Vidal.

World Expansion, “World Expansion”, Prima o Poi,

Colombo, Vespucci, Magellano, un trio di esploratori sospinti dalla volontà di ricercare nuove terre e continenti sconosciuti!
Ma un mondo in espansione può essere anche, a mezzo millennio di distanza, quello intravedibile da moderni pionieri provetti nel destreggiarsi fra le note ed a veleggiare fra gli stili per scrutare nuovi orizzonti sonanti.
World Espansion, gruppo ideato dal batterista Francesco Lomangino, col sassofonista Gaetano Partipilo e il tastierista Fabio Giachino, è anche l’album omonimo prodotto da Prima o Poi, label di Petra Magoni, ospite nel brano “Two O’ Clock and Everything is Ok” di cui ha scritto il testo. Per la cronaca c’è anche da registrare in “Free” la presenza del chitarrista Marco Schnabl.
Intendiamoci. Chi si approcciasse al primo brano non si troverà davanti ad un “ignoto uno”. Perché già appunto “Seventeen”, ampia anticamera dell’idea che si tende a realizzare, rientra nel contemporary, con un’attenzione milli/metrica alla scansione ritmica (è solo un caso che World Expansion sia anche un disco di Steve Coleman?) con di suo elettronica e sinth a far spesso da sfondo melo/armonico. Il valore dei singoli jazzisti è noto e si conferma fino all’ultima delle otto tracce, la più che gradevole “P Song”. Nel lavoro si sposano più valenze che nel contempo vengono allacciate in un sounding granulare e strutturato. Si configura alla fine un mondo musicale “espanso” tramite un fraseggio articolato che fa da preciso vettore linguistico. Come se tre navigatori fossero imbarcati su una unica caravella alla volta di territori lontani trascinati da onde disposte a pentagramma.

I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 4)

CNI

La Compagnia Nuove Indye viene fondata all’inizio degli anni ’90 da Paolo Dossena, storico produttore musicale, paroliere e compositore italiano. Nel corso della sua attività la Compagnia Nuove Indye ha avuto una particolare attenzione verso la musica etnica e dialettale, lanciando artisti come gli Almamegretta o gli Agricantus, senza comunque trascurare altri artisti di assoluto rilievo come Sud Sound System, Enzo Avitabile, Nidi d’Arac, A3 Apulia Project, Maurizio Capone, Bandorkestra, Alessandro Gwis.

Agricantus – “Akoustikòs Vol.I”
Agrigantus è uno dei gruppi in assoluto più significativi che abbiano attraversato la storia della musica italiana negli ultimi decenni. Siamo alla fine degli anni settanta, quando un gruppo di ragazzini di grande talento sperimenta suoni nuovi che non somigliano a niente di conosciuto in quanto coniugano i canti e gli strumenti della tradizione siciliana con le tradizioni africane, dando corpo tangibile alla teoria della musica quale ‘linguaggio universale’. Linguaggio che viene man mano arricchito con riferimenti non solo alla tradizione mediterranea ma anche a quella sudamericana, asiatica e mediorientale. Da quest’inizio il gruppo con gradualità si fa conoscere ottenendo unanimi consensi di pubblico e di critica anche al di fuori dei confini nazionali. Pur vivendo numerose trasformazioni, Agricantus ha comunque conservato una propria precisa identità non scalfita neanche dal fatto che per alcuni periodi ha osservato un rigoroso silenzio da cui sono riemersi solo mesi fa con questo eccellente album. Identità che si sostanzia, come si accennava, nella grandissima capacità di convogliare in un unicum input provenienti dalle più diverse realtà. Non è quindi un caso che la storia discografica di Agricantus abbia oggi un nuovo inizio con la CNI, che, come si diceva, si è da sempre contraddistinta per dare spazio alle più importanti band di world music che il nostro paese abbia prodotto. Questo nuovo lavoro vede nel rinnovato gruppo la splendida voce di Anita Vitale, accanto a musicisti che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni quali Mario Rivera al contrabbasso, Giovanni Lo Cascio batteria e percussioni e il sempre toccante contributo degli strumenti arcaici di Mario Crispi (a cui “A proposito di jazz” ha dedicato una lunga e illuminante intervista). Risultato: un album di assoluta originalità, modernità, degno di essere ascoltato con grande attenzione.

Bandorkestra – “Best Seller”
Ogni volta che mi accingo ad ascoltare un nuovo album di Bandorkestra mi sorge un dubbio: riuscirà anche questa volta la band di Marco Castelli a trasmettermi le stesse emozioni, la stessa straordinaria energia, la ventata di sano ottimismo dell’ultimo ascolto? Questa volta il dubbio era ancora più forte in quanto l’album è stato concepito e realizzato per celebrare i quindici anni di attività artistica del gruppo, una ricca antologia, quindi, in cui sono stati raccolti quindici brani – compresi alcuni inediti – che, nel loro insieme, compendiano efficacemente il percorso artistico di Castelli e soci. Percorso artistico declinato attraverso una concezione musicale assolutamente originale, in grado di transitare da un terreno all’altro senza la minima difficoltà sì da affrontare un repertorio quanto mai variegato: dal jazz allo swing, dallo ska al boogie-woogie, dal latin al reggae… e via di questo passo. Il tutto riuscendo a ben coniugare scrittura e improvvisazione, arrangiamenti istantanei e logica organizzazione. E se ascoltando gli album di Bandorkestra si riesce a mala pena a stare fermi, figuratevi qual è il clima che questa straordinaria band riesce ad instaurare nelle esecuzioni dal vivo. Quindi anche in questo “Best Seller” ritroviamo la solita possente sezione di fiati sorretta da una ritmica tritatutto, senza però tralasciare qualche residua finezza nell’esposizione dei temi e nel dipanarsi degli assoli. I brani, come avrete capito, sono tutti assai godibili anche se ci piace segnalarvi uno degli inediti, il medley “Lotta Love Medley” in cui “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin sfuma in “Come Togheter” dei Beatles e poi in “Happy” di Pharrel Willams. Dal punto di vista solistico, da ascoltare con attenzione l’assolo di Pietro Tonolo in “Anelli” che dimostra, se pur ce ne fosse bisogno, il perché Tonolo sia a ben ragione considerato uno dei migliori sassofonisti e non solo a livello nazionale.

Alessandro Gwis – “#2”
Alessandro Gwis è pianista completo nell’accezione più vera del termine in quanto coniuga una tecnica eccellente con uno stile personale determinato dalle influenze derivanti dalla musica classica, dal rock, dal tango, dal jazz fino alla musica elettronica. Si è fatto le ossa soprattutto con gli “Aires Tango” ma poi ha intrapreso una sua strada finora ricca di successi. Nel 2006 pubblica il suo primo album da leader intitolato semplicemente “Alessandro Gwis” con Luca Pirozzi al contrabbasso e basso elettrico e Andrea Sciommeri alla batteria e percussioni. Ed è con questa stessa formazione (con l’aggiunta di Luciano Biondini all’accordion) che il pianista romano si ripresenta al pubblico del jazz: “#2” propone tredici brani tutti a firma dello stesso Gwis (da solo o con gli altri componenti del trio) che testimonia in modo inequivocabile la raggiunta maturità del pianista anche come compositore. Le composizioni originali sono tutte ben scritte, equilibrate, ottimamente eseguite e soprattutto con un perfetto equilibrio tra parti scritte e parti improvvisate. Equilibrio talmente ben raggiunto che cinque brani (“The Blessed Sadness Of Fall”, “The Baloonatic”, “Ibo”, “The Flood”, “Wind Rose Glitches”) sono esplicitamente indicati come “free improvisations recorded in studio” ma nell’economia generale dell’album si fa fatica a distinguerle dalle altre. I tre si muovono all’insegna di un’empatia frutto di una intensa e fruttuosa collaborazione fra i tre. Così, anche quando il pianista introduce elementi “elettronici”, o al trio si aggiunge l’accordion di Luciano Biondini (“Don’t blame Gwis”) il clima generale non cambia e la musica scorre fluida, libera – se mi consentite l’espressione – sempre caratterizzata da una linea melodica perfettamente riconoscibile.

***

Emme Record Label

Il marchio nasce nel 2010 ma ha alle spalle oltre un decennio di esperienze professionali legate all’organizzazione, direzione artistica, Management & Booking. Emme Produzioni Musicali si caratterizza per il fatto di essere una delle pochissime realtà europee capaci di fornire tutti i servizi produttivi, discografici e manageriali, necessari a diffondere nel miglior modo un progetto artistico.

Bonora – “Enkidu”
“Enkidu” è l’album d’esordio di Bonora, un sestetto composto da giovani musicisti provenienti da Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Marche: Francesco Giustini (tromba, flicorno), Leonardo Rosselli (sax tenore, sax soprano), Daniele Bartoli (chitarra elettrica), Alberto Lincetto (pianoforte, tastiere), Alberto Zuanon (contrabbasso), Stefano Cosi (batteria). Se dal punto di vista del repertorio (composto interamente da composizioni originali) il gruppo si muove su terreni non proprio nuovi, viceversa dal punto di vista esecutivo si nota una certa originalità. In effetti il sestetto evidenzia una buona conoscenza del mondo musicale riuscendo a enucleare elementi sia dal jazz più tradizionale, sia dal free, sia dal rock (soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica), elementi che confluiscono in una visione unitaria andando così a costituire un linguaggio personale che costituisce l’elemento caratterizzante il gruppo. Così mentre i fiati sembrano rifarsi più esplicitamente al mondo del jazz, batteria e contrabbasso forniscono, come già sottolineato, un supporto che sottende una profonda conoscenza del rock. Il tutto si sposa tranquillamente, senza alcuna discrasia ad ulteriore dimostrazione che linguaggi diversi possono fondersi in un unicum di livello a patto che i musicisti siano all’altezza della situazione. E non c’è dubbio che questi giovani artisti, di cui sentiremo spesso parlare, all’altezza della situazione lo siano già.

The Sycamore – “Seamless”
Album d’esordio per il collettivo Sycamore, band nata nel 2015, dall’unione di sei musicisti di origine umbra, ovvero Andrea Angeloni al trombone, Leonardo Radicchi al sassofono, Alessio Capobianco e Ruggero Fornari alla chitarra, Pietro Paris al contrabbasso e Lorenzo Brilli alla batteria. Il loro primo EP, registrato nel novembre 2016 e ottimamente accolto dalla critica internazionale, ha consentito loro di partecipare al Conad Jazz Contest 2017, esibirsi a Umbria Jazz e vincere il primo premio della Giuria Popolare. Questo “Seamless” si lascia ascoltare per almeno due buoni motivi: la linea melodica che caratterizza tutti i brani e la bravura dei musicisti considerati sia singolarmente sia nel collettivo. In effetti, pur essendo al loro esordio discografico, i sei musicisti evidenziano un buon interplay che li porta a interagire con fluidità. Di qui un colloquio costante, una ripartizione degli spazi equa ed equilibrata. Intendo dire che non c’è un solista che svetta sugli altri, ma è un gioco collettivo in cui si inseriscono di volta in volta gli assolo dei sei musicisti. I quali si fanno apprezzare anche come autori dal momento che tutti gli otto brani in programma sono scritti dagli stessi componenti il sestetto, comunque legati da un idem sentire che contribuisce non poco all’omogeneità dell’album. Tra le varie composizioni degna di menzione l’apertura, “La spinara”, ottimo esempio di quell’interplay cui prima si faceva riferimento e “Dark Lights” una suggestiva ballad tutta giocata sul dialogo tra chitarra acustica e clarinetto basso.

***

Green Corner

Ecco un’altra etichetta che si è imposta sul mercato grazie ad una scelta precisa: riproporre alcuni capolavori del passato con un catalogo assai vasto in cui figurano artisti di assoluto livello: da John Coltrane a Duke Ellington, da Miles Davis a Bill Evans… e via di questo passo.

Duke Ellington & John Coltrane
Questo doppio album contiene le registrazioni effettuate da Ellington e Coltrane a Englewood Cliffs il 26 settembre del 1962 nella duplice versione stereo e mono. Si tratta delle uniche incisioni realizzate assieme da Duke Ellington e John Coltrane. Per l’occasione, i due “giganti del jazz” sono accompagnati dal bassista e dal batterista dei rispettivi gruppi (che si sono alternati sulle tracce), Aaron Bell e Sam Woodyard (dalla sezione ritmica di Duke), e Jimmy Garrison e Elvin Jones (dalla sezione ritmica di Trane). A ciò si aggiungono, come bonus, quattro brani correlati a Ellington, eseguiti da piccoli gruppi guidati da Coltrane in diverse sessioni, cinque altre versioni di Ellington dei brani dell’album e una versione in quartetto di John Coltrane di “Big Nick”, la sua unica composizione originale dell’album. Ciò premesso, non credo ci sia molto da aggiungere sulla qualità della musica. Si tratta, come nel costume della Green Corner, di grande musica al di là di qualsivoglia etichetta, una musica che pone in evidenza non solo la grandezza esecutiva di due straordinari giganti, ma anche la qualità compositiva di Ellington, uno dei più grandi musicisti che il secolo scorso abbia annoverato. Dal canto suo Coltrane stupisce per la maturità con cui si confronta con un artista già grande: non dimentichiamo che nel 1962 Ellington è già un grande della musica mentre Coltrane solo nel 1960 ha costituito il suo primo gruppo da leader dopo aver militato nei gruppi di Thelonious Monk e Miles Davis. Insomma Coltrane è ancora considerato una promessa… ma che ha già al suo arco una quantità infinita di frecce che nell’arco di pochi anni lo condurranno nell’Olimpo del jazz.

***

Labirinti sonori

L’etichetta discografica Labirinti Sonori – Music for Heart and Mind – è stata creata nel 2006 da Stefano Maltese. L’intento è quello di gestire la propria musica con il maggior controllo possibile e allo stesso tempo dare spazio alle produzioni musicali di musicisti che si esprimono con linguaggi personali, lontani dai cliché che mortificano la creatività. A parte i dischi realizzati dallo stesso Maltese e dai musicisti a egli più vicini, il catalogo di Labirinti Sonori annovera anche John Tchicai, Keith Tippett, Steve Lacy.

Roberta Maci – “I’m On The Way”
La multistrumentista Roberta Maci (sax soprano, sax tenore, sax alto, flauti, percussioni, voce) nonostante la giovane età (classe 1992), ha già raggiunto notevoli risultati che si sostanziano in questo primo album da leader alla testa del NBS Quartet, con Stefano Maltese (sax, flauto e percussioni), Giovanni Arena (contrabbasso) e Antonio Moncada (batteria e percussioni)
cui si aggiunge il pianista inglese Alex Maguire conosciuto per le sue collaborazioni con alcuni musicisti attivi nell’ambito del free jazz quali Elton Dean, Sean Bergin et Michael Moore. In questo album d’esordio la Maci evidenzia anche le sue capacità compositive dal momento che sugli undici brani in programma ben sette sono suoi con accanto due composizioni di Stefano Maltese e una a testa per Alex Maguire e Roscoe Mitchell (la ben nota “Odwalla” a chiudere il CD). L’album è apprezzabile da diversi punti di vista. Innanzitutto come strumentista la Maci è artista matura, ben consapevole dei propri mezzi espressivi e perfettamente in grado di maneggiare l’enorme percorso musicale che ha condotto il jazz dalle origini fino alle più moderne espressioni dei nostri giorni, senza dimenticare le musiche della propria terra, la Sicilia. Anche dal punto di vista compositivo le valutazioni non possono che essere positive: le sue creature sono ben costruite, equilibrate, con un filo logico che risulta ben individuabile nella ricerca di un linea melodica a tratti suadente a tratti più sfuggente.

Stefano Maltese – “Redder Level”
Questo doppio album racchiude le registrazioni effettuate il 7 gennaio 2018 durante il “Labirinti Sonori Siracusa Jazz Festival”. Il multistrumentista siciliano è alla testa del suo “Sonic Mirror Quartet” completato da Roberta Maci di cui abbiamo parlato in precedenza, Fred Casadei al contrabbasso e il fido Antonio Moncada batteria e percussioni. In programma 12 pezzi tutti scaturiti dalla penna del leader. Conosciamo Stefano Maltese oramai da tanti anni e non abbiamo alcuna difficoltà ad affermare che si tratta di uno dei jazzisti più originali, genuini, consequenziali e coerenti che il mondo del jazz possa vantare. Da quanto è apparso sulle scene nazionali e internazionali è rimasto sempre fedele al suo modo di essere, alla sua musica che nulla a che fare né con il facile ascolto, né con le mode passeggere, né tanto meno con inutili sperimentazioni fini a sé stesse. Il suo linguaggio è rigoroso, frutto di studi intensi e di una concezione “corale” della musica per cui l’esecuzione è sì frutto di una straordinaria intesa e di uno sviluppo complessivo senza però trascurare le capacità dei singoli che vengono esaltate attraverso il giusto spazio dato ad ogni assolo; si ascolti ad esempio la Maci al sax soprano in “Endless Circless” e al sax alto in “Way To Nowhere” dedicato a John Tchicai con il quale Maltese ha avuto modo di collaborare (registrando tra l’altro in duo nel 2010 l’album “Men From Windy Land”) mentre la sezione ritmica si fa particolarmente apprezzare in “We Everywhere”. Dal canto suo Maltese è l’anima pulsante del gruppo, il leader che impronta di sé ogni brano sia con la sicura conduzione sia con assoli sempre particolarmente centrati.

I nostri CD. In attesa delle festività natalizie tanta buona musica da ascoltare

Piera Acone & Marco Castelli M&S Band – “La bicyclette” – Caligola 2226
I rapporti tra jazz e canzone francese non datano certo da ieri, dal momento che Parigi è stata per lungo tempo abituale dimora di tanti jazzisti americani. Di qui un filone che mai si è esaurito e che viene riproposto in questo bel disco della vocalist Piera Acone accompagnata dalla M&S Band ovvero Marco Castelli ai sax tenore e soprano, Paolo Vianello al piano, Edu Hebling al contrabbasso e Gabriele Centis alla batteria. Il repertorio è ovviamente tutto incentrato su alcuni classici della canzone francese composti tra il 1936 e il 1938, eccezion fatta per “Sympathique” scritta da Thomas Lauderdale & China Forbes nel 1998. Così accanto alla title track portata al successo da Ives Montand, figurano brani più che celebri come “Sous le ciel de Paris”, “Que reste-t-il de nos amours”, “C’est si bon”… per non parlare di pezzi cantautorali quali “Les cornichons” di Nino Ferrer e “Comment tuer l’amant de ta femme” di Jaques Brel. Acone interpreta il tutto con verve, personalità e sincero rispetto per le melodie originali, pur non rinunciando ad alcune succose personalizzazioni come nel caso di “Mon manège a moi” e “La foule”. Sa a tutto ciò si aggiunge la maestria sassofonistica di Marco Castelli e la sapienza di Paolo Vianello nell’arrangiare l’album, si capisce come ci si trovi dinnanzi ad un disco godibile dal primo all’ultimo minuto. Certo se amate il jazz moderno, le sperimentazioni ardite, le forzature strumentali e/o vocali allora certamente questo non è il disco per voi. Un’ultima considerazione non per questo meno importante: la pronuncia francese della Acone è semplicemente perfetta a conferma dell’interesse che questa vocalist ha sempre coltivato nei confronti della cultura d’oltralpe.

Anthus – “Calidoscopic” – Temps Record 1616
Splendido album di questo vocalist, compositore, arrangiatore catalano giunto al suo terzo CD da leader che lo consacra artista di livello assoluto. Ben coadiuvato da Pol Padrós tromba e flicorno, Max Villavecchia piano, Manel Fortià contrabbasso e Ramón Díaz batteria e percussioni, l’artista presenta un repertorio di dieci brani tutti da lui scritti, con alcune punte di eccellenza come in “Mediterraneum”. E forse non a caso il brano che meglio evidenzia le potenzialità di Anthus anche come compositore prende il nome dal mare che bagna la Spagna, l’Italia e molti altri Paesi. Il fatto è che Anthus, con questo album, si impone alla generale attenzione come uno dei migliori, più completi esponenti di quello che molti definiscono “jazz mediterraneo” ossia una forma espressiva capace di unire input diversificati quali le musiche tradizionali dei Paesi che sul Mediterraneo si affacciano, il pop, il rap, la classica e il jazz ovviamente. E che il jazz costituisce la base su cui l’intera costruzione si basa è dimostrato sia dalla struttura dei brani sia dal fraseggio degli strumentisti con in primo piano il pianista Max Villavecchia a proprio agio tanto con impianti “tradizionali” quanto con linguaggi diversi, più vicini, ad esempio, alla musica araba. Dal canto suo il leader sfodera un vocalismo straordinario, adoperando spesso la voce in funzione strumentale senza articolare verbo ma riuscendo sempre a calamitare l’attenzione dell’ascoltatore. Insomma davvero una bellissima scoperta!

Stefano Battaglia – “Pelagos” – ECM 2CD 2570/71
Immergersi nell’universo sonoro di Stefano Battaglia è impresa tutt’altro che facile: occorre avvicinarsi a questa musica con il cuore aperto, la mente sgombra da qualsiasi pregiudizio e soprattutto la voglia di lasciarsi andare e introitare qualcosa di meravigliosamente oscuro ma altrettanto meravigliosamente affascinante. In effetti Stefano è uno dei musicisti più coerenti e meno banale che abbiamo ascoltato nel corso della nostra storia di cronista e critico. Ogni nota che viene dalle sue dita ha un peso specifico, un ruolo ben preciso nell’ambito del discorso che egli porta avanti con lucida determinazione. Parlare di etichette a proposito della sua musica risulta davvero inopportuno ché tante sono le sponde su cui si rinfrangono le sue composizioni e le sue interpretazioni: dal jazz, alla musica classica, dalle sonorità orientali fino a quelle sperimentazioni di carattere prevalentemente rumoristico che oramai da tempo fanno parte del bagaglio di Battaglia. I due CD ci offrono oltre due ore di musica, eseguita al piano e al piano preparato, tutta giocata su tempi piuttosto lenti e su dinamiche tutt’altro che intense. Battaglia è alla continua scoperta di un filo rosso che lega le sue composizioni (“Pelagos”, “Halap”, “Exklium”, “Migration”, “Mantra” ed Ufratu”), il canto arabo andaluso di “Lamma Bada Yatathanna” e il resto della musica che è “totalmente e spontaneamente improvvisata” come spiega lo stesso pianista milanese nelle note che accompagnano i CD. E il filo rosso è costituito, come si può arguire anche dai titoli dei brani, dal dolente contributo che Stefano vuole offrire al raggiungimento di una soluzione al problema dei migranti la cui cultura non può e non deve essere alternativa alla nostra: possiamo convivere in pace e la musica è lì a manifestarlo nel modo più evidente possibile.

Tim Berne – Incidentals – ECM 2579
Questo è il quarto album dei Tim Berne’s Snakeoil; registrato a New York nel dicembre del 2014, comprende, oltre al leader Tim Berne al sax alto, Oscar Noriega al clarinetto e clarinetto basso, Matt Mitchell al paino ed elettronica, Che Smith batteria, vibrafono, percussioni e timpani cui si aggiunge, nell’occasione, la chitarra elettrica di Ryan Ferreira, con l’obiettivo, spiega Berne, di “raggiungere in qualche modo uno spazio più sonoro”. Inoltre nell’intro di “Hora Feliz” e in “Prelude One” che chiude l’album, si può ascoltare la chitarra del produttore David Torn. Come al solito il livello della musica di Berne è assai elevato per merito sia delle cinque composizioni tutte dello stesso leader (lunghe dai sette ai ventisei minuti) sia della sapienza esecutiva del quintetto. In primo piano, naturalmente, il sax del leader: Berne si incarica di dettare il clima generale che passa da atmosfere assai complesse, dense, in cui le linee tracciate dagli strumenti si intersecano a creare puzzle tutt’altro che banali, ad atmosfere in cui il tutto si dirada ed in queste occasioni è soprattutto Oscar Noriega a salire in primo piano. Così melopee quasi ipnotiche si alternano a frasi sghembe, spigolose sì da rendere praticamente impossibile la distinzione tra pagina scritta e libera improvvisazione. Il tutto mentre il sound della chitarra si integra perfettamente con il sax di Tim, Mitchell si fa ammirare non solo al piano ma anche all’elettronica e la sezione ritmica è impegnata in un lavoro costante, a tratti trascinante, a mantenere mobile, inafferrabile la musica del quintetto.

Franco D’Andrea – “Traditions Today: Trio Music vol.III”
Dopo il primo volume incentrato sull’Electric Tree con dj Rocca & Andrea Ayassot, e il secondo volume con protagonista il Piano Trio con Aldo Mella & Zeno De Rossi, ecco questo terzo volume – in due cd, uno in studio e l’altro live – in cui D’Andrea suona con Mauro Ottolini al trombone e Daniele D’Agaro al clarinetto. Si chiude, così, il progetto discografico Trio Music dedicato al pianista di Merano in occasione del suo settantacinquesimo compleanno e della consegna di un Riconoscimento alla Carriera per il suo percorso artistico e il legame che lo unisce alla Fondazione Musica per Roma. Se dicessimo che l’ascolto dell’album ci ha stupiti diremmo una sesquipedale bugia: conosciamo Franco da oltre quarant’anni e sappiamo benissimo come, ad onta dell’età non proprio verde, egli non sbagli un colpo. Ogni suo album, ogni suo concerto è una delizia per chi ama la buona musica e questo album non fa eccezione alla regola, anzi ché il trio con Ottolini e D’Agaro è attualmente una delle sue formazioni più brillanti. I tre si conoscono alla perfezione e, quel che è più importante, si divertono un mondo a suonare assieme, e questa gioia la comunicano agli ascoltatori. La linea stilistica è oramai ben nota: riuscire a coniugare passato e presente, dimostrare come si possa essere moderni, al passo dei tempi, suonando una musica che appartiene ad un passato anche remoto. Di qui l’esecuzione di brani storici come “I Got Rhythm”, “Basin Street Blues”, “Muskrat Ramble”, “King Porter Stomp”, “St. Louis Blues”, e pezzi più recenti come “Naima” di cui i tre offrono una versione quanto mai originale e convincente.

Dinamitri Jazz Folklore – “Ex Wide – Live” – Caligola 2225
Album sotto certi aspetti straniante ma di sicuro interesse questo in cui i ‘Dinamitri Jazz Folklore’ proseguono la loro ricerca sulla musica africana evidenziandone i rapporti con il blues. Dicevo straniante perché l’album, registrato durante il concerto tenuto all’ExWide di Pisa il 19 dicembre del 2015, si discosta notevolmente da quelle esplorazioni sonore in completa solitudine, alla scoperta di se stessi, che hanno caratterizzato alcuni album del sassofonista tra cui il recentissimo “ReCreatio”; ma si discosta altresì anche dai precedenti album in quanto Dimitri Grechi Espinoza mostra questa volta l’aspetto più gioioso della formazione forse anche a discapito di quella profondità di indagine che aveva distinto i precedenti lavori. Così il repertorio si articola in maniera assai variegata passando dal chitarrista tuareg maliano Ahmed Ag Kaedi al gruppo afro-beat The Daktaris, dallo stesso leader all’altra formazione Tartit proveniente anch’essa dal Mali, fino a giungere a Tony Scott con la sua “African Dance”. Insomma una sorta di rilettura di quelle che sono le radici africane del jazz mescolata alla passione per il funky e il groove: una mistura divertente, spesso entusiasmante e, soprattutto, mai banale. Insomma anche in questo caso Dimitri Grechi Espinoza e i suoi compagni di viaggio (assieme da molti anni) riescono a trovare un buon equilibrio tra il divertimento e l’approfondimento, tra la scrittura e l’improvvisazione, tra l’importanza del collettivo e la specificità dei singoli.

Ferdinando Faraò – “To Lindsay – Omaggio a Lindsay Cooper – Music Center
L’Artchipel Orchestra diretta da Ferdinando Faraò si va affermando, giorno dopo giorno, come una delle più belle realtà del jazz made in Italy. E questo album ne è l’ennesima conferma. Come esplicita il titolo, l’album è dedicato alla figura di Lindsay Cooper, deceduta nel 2013, splendida fagottista, oboista, e attivista politica, membro del gruppo Avant-Prog Rock e Jazz, “Henry Crow” e prima dei “Comus”. Ora, riprodurre la musica di un’artista spesso urticante, sicuramente fuori dagli schemi come Lindsay Cooper non era certo impresa facile; eppure la band l’ha affrontata con grande entusiasmo anche perché Faraò è un grande appassionato della scena jazz e rock inglese degli anni ’70 avendo già eseguito composizioni di artisti quali Hugh Hopper, Alan Gowen, Robert Wyatt, Dave Stewart, Mike Westbrook & Fred Frith. Anche questa volta Faraò è riuscito a a centrare in pieno l’obiettivo. I brani cari alla Lindsay vengono ripresentati con arrangiamenti nuovi, scritti dallo stesso Faraò e basati su trascrizioni di vari musicisti, che riescono a vestire di abiti nuovi composizioni che risalgono agli anni ’80. L’impatto orchestrale è forte, prepotente, sin dall’inizio dell’album con le prime note di “Half The Sky” proveniente dall’ultimo album degli Henry Cow, “Western Culture” del 1978. Ma ascoltare l’album è come rileggere, sempre con estrema pertinenza, alcune delle più belle pagine della vita di Lindsay: così, ad esempio, dall’assolo della danzatrice svizzera Maedée Duprès musicato dalla Lindsay – “Face On” del 1983- proviene “As She Breathes” presentato con un arrangiamento per sole voci, “England Descending” è tratto dall’opera sulla guerra fredda “Oh Moscow” del 1987, frutto del sodalizio con Sally Potter… e via di questo passo sino alla fine dell’album. Da segnalare, infine, la presenza alla batteria di Chris Cutler già a fianco della Cooper negli “Henry Cow” e soprattutto presente nei vari album da cui sono tratti i brani presentati dall’Artchipel Orchestra. Al riguardo da aggiungere che la scaletta contiene anche un brano originale firmato da Ferdinando Faraò.

Tiziana Ghiglioni – “No Baby” – Dodicilune 377
Il già nutrito catalogo della Dodicilune si arricchisce di un altro personaggio di primissimo livello. Lei, Tiziana Ghiglioni, rimane a tutti gli effetti una delle più importanti, originali e dotate vocalist a livello non solo italiano. E questo album ne è l’ennesima riprova… se pur ce ne fosse stato bisogno. Nell’occasione Tiziana si presenta con un trio d’eccezione: Gianni Lenoci al pianoforte è una garanzia dato il curriculum dell’artista pugliese diplomato in pianoforte al Conservatorio “S. Cecilia” di Roma e in musica elettronica al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari, dove ha conseguito anche il Diploma Accademico di secondo livello in pianoforte; Steve Potts, ai sax soprano e alto, è ben conosciuto soprattutto per il suo trentennale rapporto con Steve Lacy di cui ha introitato ogni più recondita sottigliezza. Ben coadiuvata da questi due grandi musicisti, Tiziana dà un saggio delle sue straripanti capacità interpretative usando la voce in funzione meramente strumentale o in modo più convenzionale, canonico. Ascoltando i dieci brani contenuti nell’album, di cui ben quattro a firma congiunta Ghiglioni-Lenoci, mai si avverte un attimo di stanca, di deja-vu, di ascoltato. I tre macinano musica a pieno ritmo con una intensità e una consapevolezza davvero uniche, sorretti da una intesa completa che per nulla fa rimpiangere la mancanza del basso. Si ascolti ad esempio con quanta sincera partecipazione i tre dialogano in “Fagan” di Lenoci e Ghiglioni (la quale evidenzia anche un’ottima vena creatrice), con la vocalist che non disegna di mettersi da parte per lasciare spazio ai compagni d’avventura, in particolar modo a Lenoci particolarmente ispirato. Ricca di sfaccettature la riproposizione del classico “Lonely Woman” di Ornette Coleman con il sax di Potts che si staglia sull’ostinato di Lenoci il quale si ritaglia successivamente un convincente assolo mentre la Ghiglioni dopo l’introduzione, si ferma per ricomparire intorno al minuto otto per andare a chiudere con magistrale delicatezza. Ultima segnalazione per “Let Us Live” in cui Tiziana dà veramente un saggio di bravura per il modo in cui lascia emergere tutte le sfumature insite nella composizione di Waldron… ma la cosa non stupisce più di tanto chi ben conosce Tiziana dal momento che Waldron è da sempre uno dei suoi artisti preferiti

Iro Haarla – “Ante Lucem” – ECM 2457
La compositrice/pianista/arpista islandese Iro Haarla è la protagonista di questi interessante album incentrato su una suite in quattro movimenti composta dalla stessa Haarla. La suite è scritta per quintetto jazz e orchestra sinfonica; nell’album accanto alla Haarla pianoforte e arpa troviamo Hayden Powell, tromba, Trygve Seim, sassofoni, Ulf Krokfors, contrabbasso, Mika Kallio, percussioni mentre l’orchestra sinfonica è la Norrlands Operans Symfoniorkester diretta da Jukka Iisakkila. Fatte le dovute presentazioni, parliamo un po’ della musica che non si discosta da quelle che sono sempre state le direttrici su cui si è mossa l’artista islandese. Quindi una non facile ricerca sulla linea melodica all’insegna di un melanconico romanticismo nordico a tratti davvero toccante; un’armonizzazione ricercata, raffinata; una scrittura ben delineata che tuttavia lascia spazio alle parti improvvisate. Ed in effetti il fascino principale dell’album consiste nel modo in cui la Haarla fa interagire il gruppo jazz con l’orchestra sinfonica. Al riguardo è notevole l’omogeneità dell’opera che non soffre della diversa provenienza dei suoi esecutori tutti protesi ad interpretare al meglio le indicazioni del compositore. E l’obiettivo viene raggiunto a pieno ché durante gli oltre sessanta minuti dell’album mai si avverte una qualsivoglia dissonanza tra i jazzisti e l’orchestra sinfonica. C’è da dire, comunque, che in questo caso il clima prevalente è quello sinfonico cui i jazzisti si adattano magnificamente con un Trygve Seim ancora una volta superlativo. Un’ultima notazione: il titolo non si riferisce solo alla lotta tra le tenebre e la luce ma, come spiega la stessa Haarla, “raffigura il nostro pellegrinaggio terreno attraverso le sofferenze, superando le difficoltà e raggiungendo infine la tranquillità dell’animo. Riceviamo la redenzione tramite la luce”.

Vijay Iyer Sextet – “Far From Over “ – ECM 2581
Questo è forse il migliore album che il pianista-compositore abbia finora prodotto confermando appieno i riconoscimenti ottenuti a livello internazionale quali la nomina del “DownBeat Artist of the Year” nel 2012, 2015 e 2016 e le parole del Guardian che descrivono il suo lavoro come “un vertiginoso pinnacolo di jazz contemporaneo multitasking”. Per questa nuova fatica Vijay si è avvalso della collaborazione di un gruppo di validi improvvisatori quali Graham Haynes cornetta e flicorno, Steve Lehman sax alto, e Mark Shim sax tenore con la solita sezione ritmica costituita da Stephan Crump al contrabbasso e Tyshawn Sorey alla batteria. In programma dieci brani tutti composti dal leader che, attraverso la sua musica, tende sempre più a valorizzare sia ogni singolo componente il gruppo sia il collettivo. Di qui alcuni elementi caratterizzanti l’album: il piano elettrico e l’elettronica nel momento in cui richiamano esperienze passate indicano contemporaneamente una nuova via percorribile dal pianista-compositore indiano-statunitense; i tre fiati conferiscono all’ensemble una ricchezza timbrica che non poteva esserci nel classico trio pianoforte e sezione ritmica; il gioco sulle dinamiche appare molto importante così come la profonda interazione tra i musicisti. A quest’ultimo riguardo Iyer non ha calcato la mano sugli arrangiamenti, sulla pagina scritta lasciando così mano libera ai compagni di viaggio per raggiungere quella valorizzazione del tutto cui prima si accennava. Operazione ovviamente complessa, ma perfettamente riuscita dato che il gruppo mai perde la sua compattezza sia nei brani di ispirazione più canonica come la title tracke, “Nope” o “Into Action” dove fa capolino un’atmosfera funky ben sostenuta dalla batteria di Tyshawn Sorey, sia nelle composizioni più sperimentali e ‘tirate’ come “Down to The Wire” impreziosita dagli assolo del leader e di Soreycome o “Good on The Ground”. Una menzione a parte meritano “For Amiri Baraka” (ovvero Everett LeRoi Jones) per la delicatezza e la sincerità dell’omaggio reso ad uno dei grandi personaggi della storia afro-americana e “Wake” per le atmosfere oniriche, quasi ipnotiche che disegna a differenziarsi notevolmente da tutte le altre composizioni.

Greg Lamy Quartet – Press Enter – Igloo
Lo abbiamo già scritto ma forse è opportuno ripeterlo: in questo momento storico la chitarra, nell’ambito del jazz, è tornata strumento di primissimo piano grazie alle continue produzioni di alcuni grandi artisti oramai affermati a pieno titolo (pensiamo a Ralph Towner, Bill Frisell, John Scofield… tanto per citarne alcuni), e all’apparire di altri talenti come questo Greg Lamy. Anche se non più giovanissimo, il quarantatreenne Lamy, nativo di New Orleans e ‘laureato’ al Berklee College of Music di Boston, esercita oramai la sua attività in Europa, principalmente tra il Lussemburgo e Parigi. Di recente lo abbiamo ascoltato assieme al cantautore Marco Massa di cui abbiamo già parlato molto bene in questo stesso spazio. Adesso Lamy si presenta al pubblico del jazz con un suo nuovo album inciso in quartetto con Gautier Laurent al contrabbasso, Johannes Muller al sax e Jean-Marc Robin alla batteria, vale a dire la stessa formazione che avevamo ascoltato e apprezzato nel precedente lavoro del 2009 “I See You”. Anche in queste seconda prova Lamy conferma le buone impressioni avute ascoltando “I See You”, cioè innanzitutto un profondo radicamento nel blues che lo porta a cercare ed ottenere una certa sonorità che ben si attaglia a quel tipo di espressività. In secondo luogo un’eccellente tecnica che gli consente un fraseggio fluido, scorrevole, giocato principalmente su singole note; a tutto ciò si accompagnano una felice vena compositiva e la capacità di guidare con mano sicura il gruppo, duettando spesso in maniera convincente con il sassofonista Johannes Muller.

Luigi Masciari – “The G-Session” – Tosky Records 018
Ecco in primo piano un altro chitarrista: Luigi Masciari. Dopo le felici avventure con “Emoticons” e “Noise in The Box”, l’artista napoletano si ripresenta alla testa di un trio davvero particolare, con Roberto Giaquinto alla batteria e niente popò di meno che Aaron Parks al piano e piano elettrico, con l’aggiunta, in un brano, della voce di Oona Rea. Parks (classe 1983) ha oramai raggiunto una reputazione di carattere internazionale essendosi fatto le ossa con artisti del calibro di Terence Blanchard e Kurt Rosenwinkel e avendo inciso a suo nome una decina di album tra cui due – “Arborescence” e “Find the Way” – per la ECM. Insomma un pianista con i fiocchi il cui contributo, specie al Fender Rhodes, è risultato decisivo per la bella riuscita dell’album, il cui titolo deriva dal fatto che è stato inciso nello studio G di Brooklyn il 7 dicembre del 2015. Dal canto suo Masciari si riconferma ottimo musicista a 360 gradi: non solo strumentista di livello capace di elaborare complesse linee architettoniche che ben si adattano al diverso clima dei brani e perfettamente in grado, quindi, di transitare da brani veloci a pezzi a tempo più lento, ma anche autore maturo, in grado di sfornare composizioni ben equilibrate e altrettanto ben strutturate in cui gli interventi dei singoli trovano il terreno per esprimere le proprie potenzialità. Si ascolti, ad esempio, l’eccellente lavoro di Giaquinto in “Music Man” anche se, a nostro avviso, i brani meglio riusciti sono “Boogie Blue” in cui Masciari riesce nel non facile compito di coniugare modernità e tradizione e Don’t Touvh My Chords” vero e proprio pezzo di bravura per Aaron Parks.

Stephan Micus – “Inland Sea” – ECM 2569
Ecco altre dieci tracce con cui il multistrumentista di Stoccarda si ripresenta, sempre in solitaria, al suo pubblico che lo segue e lo ama incondizionatamente. In effetti quella di Micus non è musica per palati facili, è musica che parla prevalentemente al cuore con un linguaggio di rara raffinatezza frutto non solo della qualità intrinseca della musica ma anche della sua particolare timbrica dovuta agli innumerevoli strumenti che nel corso della sua carriera Micus ha collezionato e suonato. Non si esagera affermando che partendo dagli strumenti di Micus si potrebbe tracciare una sorta di atlante musicale che abbraccia tutti i continenti. Così anche questo suo ventiduesimo album per la ECM non si discosta da quanto sopra detto ché anzi, già nel titolo, c’è un preciso richiamo agli specchi d’acqua che si ritrovano all’interno delle zone caucasiche e dell’Asia Centrale da cui provengono alcuni degli strumenti usati da Stephan. Di qui un’ulteriore considerazione che si attaglia a tutte le produzioni di Micus: i suoi album non vanno ascoltati prendendo in considerazione i singoli brani, ma accogliendo nel proprio io tutta la musica che il multistrumentista ci propone in una sorta di flusso continuo senza soluzione di continuità. Solo così si potrà gustare in tutta la sua dolce malinconia il modo in cui Micus si appropria di suggestioni provenienti da ogni parte del mondo per unificarle in un unicum di rara bellezza e soprattutto di grande originalità. In effetti il modo di periodare di Stephan, le sue capacità compositive non trovano eguali distanziandosi in maniera netta da qualsivoglia espressione di genere new age…. Così come, d’altro canto, parlare di jazz è del tutto inappropriato.

Roscoe Mitchell – “Bells for the South Side” – ECM 2494/95 2cd
Questo doppio album registrato in buona parte al Museum Of Contemporary Art di Chicago nel settembre del 2015 per celebrare il cinquantesimo anno dell’Art Ensemble of Chicago, ci restituisce un Roscoe Mitchell (classe 1940) in piena forma ad onta degli ottanta anni che inesorabilmente si avvicinano. Il sassofonista di Chicago guida un gruppo di eccellenti musicisti divisi in quattro diversi trii la cui genesi è illustrata dallo stesso musicista nelle note di copertina: uno, con Jaribu Shahid (contrabbasso) e Tani Tabbal (batteria e percussioni), rappresenta il riproporre una collaborazione che aveva visto i tre lavorare assieme nel “Sound Ensemble” a metà degli anni Settanta; quello che vede accanto a Mitchell i due suoi colleghi docenti al Mills College, James Frei (fiati) e William Winant (percussioni varie) nasce nel 2011 in occasione di Angel City Jazz Festival; il terzo annovera Mitchell, Kikanju Baku (batteria e percussioni) e Craig Taborn (piano, organo elettronico); il quarto è completato da Hugh Ragin (tromba) e Tyshawn Sorey (trombone, piano, batteria, percussioni). Questi nove musicisti sono chiamati ad interpretare un repertorio dovuto tutto alla penna del laeder. Di qui un variare di situazioni, di atmosfere che comunque trovano un loro punto di raccordo nell’estetica del leader, che individua nel rapporto tra musica e silenzio la sua principale caratteristica. Quasi inutile sottolineare come il facile ascolto non faccia parte di questo progetto: il sassofonista continua ad essere fedele a sé stesso, proseguendo lungo le direttrici che oramai da molti anni informano la sua carriera. L’atmosfera è chiaramente disegnata sin dal brano d’apertura, il lungo “Spatial Aspects of the Sound”, che alterna momenti di assoluta contemplazione in cui i suoni sono quanto mai diradati a momenti di vera e propria esplosività in cui la batteria gioca un ruolo di primissimo piano. Col procedere dell’album si avverte anche la presenza dell’elettronica sempre dominata dalla mente di Mitchell che anche nella più spericolata improvvisazione rimane sempre lucido, presente: così “Dancing in the Canyon” dopo un lungo dialogo tra percussioni ed elettronica tra Craig Taborn e Kikanju Baku si sviluppa attraverso una sfrenata improvvisazione di tutti e tre i musicisti con un Mitchell letteralmente favoloso al sax soprano. Ma questo è solo un esempio di ciò che potrete ascoltare all’interno di questo doppio CD ché di musica intelligente, senza tempo ne troverete parecchia, fino al conclusivo “Odwalla” vecchio cavallo di battaglia dell’Art Ensemble of Chicago.

Marilena Paradisi, Kirk Lightsey – “Some place Called Where” – Losen Records 187-2
Nella scala delle nostre personalissime preferenze Marilena Paradisi è artista che occupa una posizione di rilievo. La seguiamo da tempo e troviamo che mai abbia sbagliato un colpo, ivi compresi quegli album di straordinaria sperimentazione con cui la vocalist ha rischiato molto, uscendo comunque ulteriormente rinforzata dalla difficile prova. Oggi, infatti, Marilena è artista matura, ben consapevole dei propri mezzi espressivi e quindi perfettamente in grado di affrontare qualsivoglia repertorio. Quest’ultimo album, straordinario, in duo con una vera e propria icona del jazz quale il pianista Kirk Lightsey, ne è la piena conferma. Affrontando un repertorio di otto brani, firmati da alcuni dei più grandi esponenti del jazz (da Mingus a Mal Waldron, da Ron Carter a Wayne Shorter… tanto per fare qualche nome) la vocalist dialoga in maniera superlativa con il pianoforte di Kirk: mai un fraseggio, fuori posto, non una singola nota senza un suo specifico peso, nessuna forzatura. Di qui una musica delicata, mai banale, che si insinua dolcemente nell’animo di chi sa ascoltare, con la voce di Marilena che disegna atmosfere di grande suggestione e il pianoforte di Lightsey che evidenzia ancora una volta la sua dimensione orchestrale. Comunque ciò che maggiormente affascina dell’album è la perfetta intesa stabilitasi tra i due che si percepisce immediatamente, la complicità, il sapersi comprendere, il piacere di suonare assieme. I brani sono tutti interessanti anche se ce n’è uno che merita una particolare menzione se non altro per il modo in cui è nato: la scaletta è stata condivisa dai due ma Kirk ha proposto a Marilena una sua composizione, ‘Fresh Air’, incitandola a scriverne i testi di cui fino a quel momento era orfana. La Paradisi ha accettato e ne è nata una piccola perla anche perché Kirk ci regala un bell’assolo al flauto. Insomma un album imperdibile!

Chris Potter – “The Dreamer Is The Dream” – ECM
Questa estate abbiamo avuto modo di riascoltare dal vivo Chris Potter e ne abbiamo ricavato la medesima ottima impressione avuta durante i concerti e ascoltando i suoi dischi. Chris è oramai da considerare uno dei migliori sassofonisti sulle scene internazionali essendo dotato di tutte quelle doti che fanno di un musicista un grande artista: tecnica sopraffina, sound originale, fraseggio liquido e articolato, abilità nello scegliere i compagni d’avventura e nel condurre un gruppo, capacità improvvisativa e per ultima, ma non certo per importanza, grande sapienza compositiva. In questo terzo album targato ECM e registrato in quartetto con David Virelles al piano e alla celeste, Joe Martin al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria, c’è un’evidente esplicazione di quanto sopra detto. E cominciamo dal repertorio: in programma sei brani tutti a firma di Chris e tutti contrassegnati da originalità e lirismo; basti ascoltare la delicatezza della linea melodica disegnata in “Heart in Hand” o il senso della costruzione con cui Potter ha concepito la title trcke. Sotto il profilo esecutivo Potter è un vero e proprio maestro, comunque per chi nutrisse ancora qualche dubbio gli consigliamo di ascoltare con attenzione l’intro di “The Dreamer Is The Dream” in cui Chris si cimenta al clarinetto basso o “Memory and Desire” in cui il leader dà ampia dimostrazione della sua versatilità con un brillante assolo al sax soprano. Quanto alla capacità di scegliersi i compagni di viaggio, tutti i componenti del gruppo hanno modo di mettersi in luce. Così il pianista David Virelles, di origine cubana, ci regala uno strepitoso assolo in “Yasodhara” il brano più sghembo ma forse proprio per questo più interessante dell’intero album. Dal canto loro Marcus Gilmore si pone in bella evidenza in “Ilimba” mentre Joe Martin evidenzia tutta la sua bravura nell’esposizione del tema di “The Dreamer Is The Dream”.

Projeto Brasil – “Projeto Brasil de Antonio a Zé Kéti” – ARTBHZ
Abbiamo ricevuto questo DVD solo ora e quindi ci affrettiamo a segnalarvelo in quanto farà la gioia di quanti amano la musica brasiliana. Protagonista il trio “Projeto Brasil” composto da Célio Balona alla fisarmonica, Clóvis Aguiar al pianoforte e Milton Ramos al contrabbasso. I tre si muovono lungo coordinate ben precise: presentare un repertorio variegato che comprende proprie composizioni ma soprattutto riletture dei grandi compositori brasiliani, attraverso arrangiamenti moderni caratterizzati da una sonorità particolare, sonorità raggiunta soprattutto attraverso l’organico inusuale e il ruolo fondamentale della fisarmonica. Balona e compagni hanno cominciato a lavorare assieme nel 2006 e con questo progetto hanno girato il mondo ottenendo ovunque un clamoroso successo. Nel marzo del 2007 sono stati i protagonisti di uno show al teatro Sesiminas di Belo Horizonte con la partecipazione dell’Orquestra de Cordas diretta dal maestro Geraldo Vianna e del balletto di Lelena Lucas. Ed è per l’appunto questo spettacolo che si può apprezzare nel DVD in oggetto. La musica –ma la conosciamo tutti – è semplicemente superlativa così come l’interpretazione fornita dal trio seppure nell’ambito di una grande orchestra d’archi. Molti i brani degni di menzione anche se i due che ci hanno particolarmente colpiti sono “Velas Içadas” di Ivan Lins e Vitor Martins e la sempre struggente “Beatriz” di Edu Lobo e Chico Buarque, impreziosita nell’occasione da una performance di danza.

Alessandro Rossi – “Emancipation” – CamJazz 3319-2
Per chi segue con attenzione anche le nuove tendenze del jazz, la bontà di questo album non costituirà una sorpresa. In effetti Alessandro Rossi, passo dopo passo, si è costruita una solida reputazione sia come batterista sia come compositore: dopo le esperienze in Conservatorio sotto la guida di Andrea Dulbecco, ha proseguito gli studi prima a Milano e poi a New York avendo come maestri nomi quali Jeff Ballard, Clarence Penn e Nasheet Waits. Nel 2009 il suo primo album ed ora questo “Emancipation” in cui Rossi si presenta in quartetto con Andrea Lombardini al basso elettrico, Massimo Imperatore alla chitarra e Massimiliano Milesi ai sassofoni e al clarinetto. L’album illustra assai bene il percorso compiuto dal musicista. Innanzitutto una scrittura al tempo stesso inventiva e rigorosa nel cui ambito trovano posto riferimenti al passato così come input provenienti dalle correnti più moderne anche al di fuori del jazz propriamente detto. Di qui l’inserimento di elementi elettronici in contesti sostanzialmente acustici, di qui il tentativo di abbattere qualsivoglia barriera stilistica per suonare con molta libertà, ‘emancipazione’ per l’appunto da qualsiasi etichetta. Dal punto di vista esecutivo, Rossi evidenzia una gran tecnica e un superlativo controllo della dinamica oltre alla capacità di guidare il gruppo con mano sicura. E i suoi compagni rispondono ‘presenti’ alle chiamate del leader con un’intesa che mai viene meno. Si ascolti, ad esempio, con quanta sicurezza affrontano “Punjab” di Joe Henderson impreziosito dagli assolo di Imperatore e Milesi, come sono capaci di rimodulare “Lithium” dei Nirvana in una versione piuttosto estremizzata e come affrontino in “Free Spirit” territori molto vicini al free senza per questo alterare l’equilibrio dell’insieme.

Diego Ruvidotti – “Simply Deep” – Music Center
‘Simply Deep” spiega il trombettista Diego Ruvidotti è per me “una predisposizione dell’animo nell’affrontare la vita, dunque anche la musica come sua proiezione. La semplicità di esprimere sinceramente ciò che siamo, di comunicare con trasparenza e di dialogare con il mondo in modo profondo e coraggioso”. Una dichiarazione di intenti abbastanza precisa che ci introduce ad un approccio verso la musica che non consente inutili orpelli, forzature, cervellotiche sperimentazioni. Obiettivo raggiunto? Direi proprio di sì. Il quartetto “Dream Machine”, completato da Alessandro Bravo al piano, Alessandro Bossi al basso elettrico e Fabio d’Isanto alla batteria, è registrato dal vivo al ‘Ricomincio da tre’ di Perugia e, si muove lungo direttrici ben individuabili. Vale a dire una profonda conoscenza della storia del jazz ivi comprese le più moderne tendenze e il desiderio di coniugare passato, presente e futuro in una miscela tanto originale quanto perfettamente fruibile. E così tutte e dieci le composizioni contenute nell’album, a firma del leader, si ascoltano con piacere essendo possibile trovare in ognuna delle componenti di originalità. Così alla sognante linea melodica di “Very Cris’ Song” cesellata dal piano di Alessandro Bravo e soprattutto della title tracke con un sontuoso dialogo tra pianoforte e contrabbasso imitati subito dopo da tromba e percussioni, si contrappone l’andamento quasi funky di “Voiceless Rap”, mentre in “Fastol” la tromba di Ruvidotti sembra ispirarsi a stilemi propri del be-bop. Ma forse le cose migliori sono raccolte nei tre episodi della suite ”Beyond The War” in cui Ruvidotti dà libero sfogo alle sue capacità interpretative adoperando con egual maestria tromba e flicorno.

Zeppetella, Bex, Laurent, Gatto – “Chansons!” – VVJ 113
Un titolo semplice ma estremamente esplicativo: “Chansons!” ovvero “Canzoni” detto alla francese in quanto l’album è imperniato su brani tratti per lo più dalla grande canzone d’autore italiana e francese. Il quartetto, anch’esso italo francese, è di gran classe: Fabio Zeppetella chitarra, Emmanuel Bex organo e voce, Gèraldine Laurent sax alto e Roberto Gatto batteria sono tutti jazzisti che non hanno bisogno di ulteriori presentazioni data la loro fama. In questa situazione i quattro si esprimono al meglio legati da un idem sentire, vale a dire dalla voglia di riproporre pezzi ben conosciuti ma trascolorati attraverso una propria originale visione. Ecco quindi dopo una partecipata versione de “E la chiamano estate”, tutto sommato abbastanza vicina all’originale, una “Bocca di Rosa” di De André filtrata attraverso le maglie prima del sassofono della Laurent e poi dell’organo di Bex e della chitarra di Zeppetella che la destrutturano quasi del tutto. “Buonanotte fiorellino” di De Gregori gode di un trattamento più dolce, volutamente assai breve, affidato alle ance della Laurent. Due i brani scelti dal repertorio di Pino Daniele: “A me piace ‘o blues” la cui linea portante è disegnata in maniera fedele da Zeppetella interrotta solo da un eccellente assolo di Gatto; “Napule è” si avvale di una toccante interpretazione di Bex con voce fitrata dall’elettronica, ben sostenuta dalla Laurent veramente in palla in ogni brano. Il coté italiano si conclude con una “Luna rossa” presentata in versione latineggiante. Il ‘versante’ francese si apre con l’indimenticabile “Avec le temps” di Leo Ferré interpretato in modo del tutto fedele all’originale mentre trasfigurato dall’organo di Bex e dalla chitarra di Zeppetella è il successivo “C’est si bon” che si fatica a riconoscere. Versione piuttosto canonica quella di “L’été indien” e “Le temps des cerises”; l’album si conclude con una scoppiettante versione di “Le bon dieu” di Jacque Brel con l’intero quartetto in bella evidenza.

Mirano Oltre 2016

Associazione Culturale Buonvento
in collaborazione con Libreria Mondadori di Mirano e Circolo Culturale Caligola
con il patrocinio della Regione Veneto e del Comune di Mirano

MIRANO OLTRE
libri & musica 2016
VIII^ edizione

giovedì 23 giugno, Giardino di Villa Belvedere
“Ballate per il Nord Est”
Vasco Mirandola e Piccola Bottega Baltazar
Vasco Mirandola (voce recitante)
Giorgio Gobbo (chitarre, voce)
Sergio Marchesini (fisarmonica, tastiere)
Riccardo Marogna (clarinetti, sassofoni)
Antonio De Zanche (contrabbasso, basso elettrico)
Graziano Colella (batteria, percussioni)

mercoledì 29 giugno, Giardino di Villa Belvedere
“Ratatuja … e altro”
Francesco Maino (voce recitante)
Mike Dillon (vibrafono, tablas)
Fabrizio Puglisi (pianoforte)
Marcello Benetti (batteria)

martedì 5 luglio, Calle Ghirardi
“La linea apparente”
lettura con musica dai racconti di Dino Buzzati
Riccardo Maranzana (voce recitante)
Marco Castelli (sassofoni, live electronics)

martedì 12 luglio, Calle Ghirardi
“Vocione”
Tony Cattano (trombone)
Marta Raviglia (voce)

MIRANO (VE), inizio spettacoli ore 21.15 INGRESSO GRATUITO. In caso di pioggia presso il Teatro di Villa Belvedere

Informazioni
www.caligola.it
info@caligola.it
https://www.facebook.com/pages/Caligola-Circolo-Culturale/198558337034
https://www.facebook.com/MiranoOltre
tel. 3403829357 – 3356101053

(altro…)

I nostri CD. Tutti suonano Verdi

I NOSTRI CD

Le incursioni di jazzisti in territorio classico-sinfonico sono sempre state molteplici; meno numerose quelle nell’ambito della musica lirica. Ciò, probabilmente, perché il melodramma trae origine da poche realtà culturali ben identificate tra cui il nostro Paese. In quest’ambito Giuseppe Verdi rappresenta un’icona intoccabile, la sua musica una sorta di mausoleo in cui è arduo addentrarsi senza avere alle spalle una precisa cognizione di ciò che la sua musica ha rappresentato per tutto un popolo. Probabilmente è anche per questo che solo pochi jazzisti stranieri si sono cimentati con la sua musica (ricordiamo il “Coro di zingari” dal Trovatore rivisitato da Glenn Miller, Uri Caine che dedica la sua attenzione all’Otello e il sassofonista e leader Bo van de Graaf alle prese con l’Aida e , come fa rilevare Valentina Pettinelli andando più indietro nel tempo, in un titolo di King Oliver del 1923 compare un’ampia sequenza della Vergine degli Angeli dalla Forza del Destino di Verdi). Il discorso cambia completamente quando ci si riporta dentro i nostri confini ove troviamo molti jazzisti che si sono presi la briga di rivisitare le partiture verdiane. Da menzionare, tra gli altri, Marco Gotti, Danilo Rea, Salvatore Bonafede, Max De Aloe, Gianluigi Trovesi, Furio Di Castri in duo con Antonello Salis, Roberto Bonati, Massimo Faraò, Attilio Zanchi, Marco Castelli … Di recente sono usciti due CD dedicati a Verdi, ambedue di eccellente fattura nella loro diversità.

Cinzia Tedesco – “Verdi’s Mood” – Sony Classical
Verdi's moodL’album in oggetto vede protagonista la vocalist Cinzia Tedesco attorniata da un gruppo di eccellenti musicisti quali Stefano Sabatini al piano, Luca Pirozzi al contrabbasso, Giovanna Famulari al violoncello e Pietro Iodice alla batteria. In scaletta alcune delle melodie più note del compositore da “La donna è mobile” (dal Rigoletto) a “Tacea la notte placida” (da Il Trovatore), da “Addio del passato” e “Amami Alfredo” ( ambedue da La Traviata), a “Va, Pensiero” (dal Nabucco), da “Mercé dilette amiche” (dai Vespri Siciliani) a chiudere con la toccante “Ave Maria” (dall’Otello) e “Sempre libera” (ancora da La Traviata). Insomma un repertorio da far tremare le vene dei polsi a chiunque: ebbene il quintetto l’ha affrontato con grande umiltà, partecipazione e intelligenza guidati dalla capacità di Sabatini di arrangiare partiture ben lontane dal jazz. In effetti Stefano si va sempre più imponendo alla generale attenzione come uno degli arrangiatori più originali della scena nazionale soprattutto per saper volgere in chiave jazzistica brani nati in contesti del tutto diversi. Ne avevamo già avuto una prova con quell’ “Essenze Jazz” di Eduardo De Crescenzo di cui vi abbiamo riparlato poco tempo fa; adesso ne abbiamo l’ennesima conferma con questo album in cui la sfida è stata ancora più difficile. Sfida vinta alla grande dal momento che i brani del “Cigno di Busseto”, così come vestiti da Sabatini, sono stati interpretati magnificamente dalla vocalist alla sua migliore prestazione: la Tedesco è infatti riuscita perfettamente a piegare i suoi notevoli mezzi vocali alle necessità dell’interpretazione nulla concedendo alla spettacolarità e cercando di rimanere fedele allo spirito originario. E al riguardo bisogna evidenziare come l’impresa sia stata resa possibile dall’intero gruppo che, oltre ad avvalersi dei già citati arrangiamenti di Sabatini, ha potuto contare sulla maestria strumentale dei singoli con la sezione ritmica impegnata a tessere il giusto impianto timbrico-cromatico impreziosito dagli assolo della Famulari.

Play Vardi 4tet – “Play Verdi” – Terre Sommerse edizioni
Play VerdiDi impianto completamento diverso questo secondo CD significativamente sottotitolato “Un viaggio tra i Preludi del Grande Maestro”. Le opere prese in considerazione sono “Aida”, “Luisa Miller”, “Ernani”, “Macbeth”, “Attila”, “Simon Boccanegra”, “Stiffelio”, “Un ballo in maschera”, “La forza del destino”, “La traviata”. Il quartetto con Andrea Pace al sax tenore, Nicola Puglielli alla chitarra, Piero Simoncini al contrabbasso e Massimo D’Agostino alla batteria, ha scelto di misurarsi con le partiture verdiane seguendo un approccio diversificato: così, in qualche caso (leggi Attila) si è preferito rispettare il tema, in altri brani si è cercata una jazzificazione della melodia, in altri ancora si è intervenuto sul ritmo cercando, comunque, come afferma Andrea Pace, di “rispettare il più possibile la polifonia e l’impianto verdiani, aprendo, dove si pensava possibile, a delle improvvisazioni”. Ed in effetti l’equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione è raggiunto senza sforzo apparente, grazie anche agli arrangiamenti di Pace e di Nicola Puglielli vero ispiratore del progetto. I due si sono mossi nell’ottica di trasformare in standard alcune pagine operistiche, procedimento, questo, adottato in passato dal jazz con brani tratti dal musical. Una fatica, quindi, ardua, complessa, una fatica che presuppone da un lato una grande conoscenza del materiale tematico, dall’altro una vera, genuina passione per questa musica; non a caso l’album risulta ben curato in ogni singola parte con il quartetto che si muove con competenza e affiatamento. Tutti e quattro i musicisti riescono ad esprimere appieno le proprie potenzialità transitando, con disinvoltura, da un’atmosfera all’altra senza che l’album perda in omogeneità e coerenza. Così l’ascolto risulta godibile dalla prima all’ultima nota. (altro…)

Marco Ponchiroli The New House Quartett @ Zingarò Jazz Club, Faenza

Lo Zingarò Jazz Club di Faenza presenta il concerto del The New House Quartett guidato dal pianista Marco Ponchiroli.

Marco Ponchiroli The New House Quartett
Marco Ponchiroli. pianoforte
Alberto Vianello. sax tenore, sax soprano
Daniele Vianello. contrabbasso
Igor Checchini. batteria

Mercoledì 17 febbraio 2016. ore 22

Zingarò Jazz Club
Faenza (RA). Via Campidori, 11
web: www.twitter.com/zingarojazzclub ; www.ristorantezingaro.com

Mercoledì 17 febbraio, alle 22, l’appuntamento settimanale con lo Zingarò Jazz Club di Faenza avrà come protagonista sul palco il Marco Ponchiroli The New House Quartett. Il pianista sarà accompagnato da Alberto Vianello ai sassofoni, da Daniele Vianello al contrabbasso e da Igor Checchini alla batteria. La serata avrà inizio alle 22 ed è ad ingresso libero.

Il Marco Ponchiroli The New House Quartett nasce spontaneamente dopo numerosi incontri tra i quattro musicisti con la principale esigenza di far musica in totale tranquillità. Il repertorio si basa su composizioni originali senza trascurare omaggi ai grandi del jazz e agli standard: i brani vengono interpretati ed arrangiati coralmente e danno vita ad un processo creativo che attraverso la libertà e l’ascolto reciproco fanno risaltare le tendenze e le preferenze di ognuno. (altro…)