I nostri CD

a proposito di jazz - i nostri cd

Pierluigi Balducci – “L’equilibrista” – Dodicilune
Una prima notazione tutt’altro che secondaria: “questo lavoro – afferma lo stesso Balducci – vede la luce ad otto anni dal mio precedente disco, “Blue from Heaven”, e a tre anni da “Evansiana”, pubblicato nel 2017. Lo dedico a John Taylor, che in questi due dischi è presente: punto di riferimento sia per me che per tanti altri musicisti europei, John mi ha onorato della sua presenza nel mio quartetto fino alla sua scomparsa, nel 2014”. Ebbene, nell’intento di omaggiare cotanto artista, il bassista/compositore pugliese Pierluigi Balducci, ben coadiuvato da Robert Bonisolo (sax tenore), Fabrizio Savino (chitarra) e Dario Congedo (batteria) ha realizzato questo eccellente album con sette brani originali tutti composti dal leader. Inquadrato l’album nelle sue linee generali, occorre aggiungere che il titolo rispecchia appieno la musica che si ascolta. Un equilibrio tra forma e contenuto, un bilanciamento apprezzabile tra parti scritte e improvvisate, un giusto alternarsi di atmosfere tra energico groove e avvolgente melodia, il tutto condito da una ricerca sul sound che ha dato frutti copiosi. In particolare si fa apprezzare il dialogo a più voci che vede impegnati alle volte Balducci e sezione ritmica, altre volte Balducci e Bonisolo; ciò senza trascurare il peso degli assolo che si ascoltano nei vari brani: particolarmente apprezzabile, ad esempio, il chitarrista nella title-track con il suo incedere elegantemente descrittivo mentre il sax di Bonisolo s’impone alla generale attenzione già a partire dalle primissime note del brano d’apertura “Blackarera” caratterizzato da un coinvolgente andamento ritmico.
Dal canto suo il leader, oltre a fornire un irrinunciabile supporto armonico per tutta la durata dell’album (si ascolti a mò di esempio “Kosmos and Chaos”) si produce anche in notevoli assolo come nel caso di “Monet” probabilmente il pezzo migliore dell’album. Fra gli altri brani più significativi “Fino a prova contraria”, una lunga ballad esposta con sapienza narrativa da Robert Bonisolo e con i notevoli assolo della chitarra di Savino e del basso elettrico del leader.

Luiz Bonfà – “Plays & Sings Bossa Nova + The Gentle Rain” – Aquarela do Brasil
Siamo nei primissimi anni ’60, per la precisione nel 1962, quando viene registrato un lp dal sassofonista Stan Getz con il chitarrista Charlie Byrd: è l’inizio del fenomeno ‘jazz samba’ (più tardi inteso come ‘bossa nova’) che tanto successo ebbe nel mondo del jazz. Tra i sacerdoti di questa nuova musica figura certamente il chitarrista e vocalist Luiz Bonfà (Rio de Janeiro, 17 ottobre 1922 – Rio de Janeiro, 12 gennaio 2001) che nello stesso 1962 fu tra i protagonisti dello storico spettacolo di bossa nova che si tenne alla Carnegie Hall. A testimonianza delle sue frequentazioni con il mondo del jazz restano le incisioni con Stan Getz, Quincy Jones, Frank Sinatra, Eumir Deodato. Moltissime le composizioni di Bonfà – oltre un centinaio – molte celebri, tra cui ricordiamo innanzitutto “Manhã de Carnaval” e “Samba de Orfeu” entrambi tratti dalla colonna sonora del film “Orfeo Negro”. In questo album si ascoltano due lp risalenti agli anni ’60. Nel primo, registrato a New York nel 1962, troviamo Bonfà a capo di un sestetto e una sezione d’archi arrangiata da Lalo Schifrin; il secondo – “The Gentle Rain” – è la colonna sonora dell’omonimo film in cui il chitarrista suona con un’orchestra arrangiata e diretta dall’amico Eumir Deodato, realizzata a Rio De Janiero nel 1966. Naturalmente in repertorio figurano altre perle targate Bonfà come il già citato “Manhã de Carnaval” e ancora “Samba de Duas Notas”, “Silencio do amor”, “Perdido de amor” registrato a Rio de Janeiro nel 1959 e porto come “bonus track”. Fornire un quadro esauriente dell’arte di Bonfà è opera davvero ardua dato l’enorme numero di registrazioni effettuate dall’artista tuttavia dall’ascolto di questo album si può ricavare un ritratto soddisfacente di quel che Bonfà ha rappresentato nel mondo della musica.

Jakob Bro – “Uma Elmo” – ECM 2702
E’ un trio di caratura internazionale quello che il chitarrista danese Jakob Bro, al suo quinto disco da leader per la ECM, presenta in questa occasione: al suo fianco sono, infatti, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il batterista spagnolo Jorge Rossy. Ad onta del fatto che i tre mai avevano inciso prima, la formazione si dimostra assolutamente compatta, ben guidata dal leader e perfettamente in grado di svolgere la musica che Bro aveva immaginato. Nove brani tutti composti dal chitarrista caratterizzati da un’atmosfera profonda, intimista, fortemente evocativa, ricca di echi, di riverberi, con chitarra e tromba che dialogano continuamente e la batteria di Rossy a punteggiare e sostenere il tutto, pur concedendo davvero poco all’impianto ritmico. Nell’ambito del repertorio figurano tre espliciti omaggi, in cui, però, Bro continua ad evidenziare la sua poetica mantenendosi ad una certa distanza dagli artisti evocati. Non a caso l’album si apre con “Reconstructing a Dream” in ricordo di quel periodo (2007) in cui collaborava con la Paul Motian’s Electric Bebop Band. “To Stanko” è un tributo al trombettista polacco Tomasz Stanko con il quale Bro aveva collaborato per ben cinque anni incidendo, tra l’altro, nel 2009 l’album ECM “Dark Eyes” unitamente a Alexi Tuomarila piano, Anders Christensen chitarra basso e Olavi Louhivuori batteria; la linea melodica è dolcemente suggestiva ben lontana, quindi, dal clima arroventato proprio dell’artista polacco. L’altro jazzista omaggiato è Lee Konitz per il quale Bro ha scritto ed eseguito “Music For Black Pigeons”; nei confronti del sassofonista Bro dichiara una sorta di sincera devozione sorta negli anni in cui hanno suonato assieme durante le tournée effettuate in Islanda, Groenlandia, Norvegia, Danimarca. Il brano più interessante? Difficile da enucleare anche se mi ha particolarmente colpito “Housework” sia per il sound affatto particolare della tromba, sia perché è piuttosto complicato enucleare le parti improvvisate dall’intelligente scrittura.

James Booker – “The Ivory Emperor” – Soul Jam 806188
Album da non perdere per gli appassionati di un certo tipo di jazz, molto vicino al blues. In effetti vi sono contenuti tutti i singoli che James Booker realizzò come leader all’inizio della sua carriera, tra il 1954 e il 1962, quando incideva per diverse etichette tra cui Imperial, Chess, Ace e Peacock. Il cd contiene inoltre brani di altri artisti in cui James Booker appare come sideman. E’ il caso, ad esempio, di “You’re On My Mind” e “The Nex Time” in cui suona accanto a Junior Parker (voce) e Arnett Cobb (sax tenore), e delle due tracce conclusive in cui collabora con il bluesman Earl King. Ma chi era James Booker domanda che probabilmente si staranno facendo i nostri più giovani lettori. Ebbene James Booker, (New Orleans, 17 dicembre 1939 – 8 novembre 1983), conosciuto come il Principe del piano di New Orleans, è stato uno dei musicisti più amati di Crescent City. Era un pianista eccellente, organista di livello (lo si ascolti ad esempio in “Cross My Heart”), vocalist e compositore che si era creato uno stile del tutto personale fondendo R&B, gospel, blues, boogie-woogie, jazz tradizionale e moderno attraverso un suono originale. Ma le sue conoscenze musicali andavano ben al di là rivolgendosi anche alla musica classica europea, così rivisitò in chiave blues il “Valzer del minuto” di Chopin e inserì una composizione dello stesso autore polacco in un brano boogie-woogie. Data l’importanza della sua musica nell’ambito della scena jazz-blues di New Orleans, la sua produzione fa parte dal 2008 degli archivi della Biblioteca del Congresso.

Sam Cooke – “Wonderful World – The Hits” – Hoo Doo
Questo è un album chiaramente divisivo: in effetti se amate il soul jazz e più in generale la soul music allora l’ascolto sarà più che gradevole; esattamente il contrario se vi sentite lontani da questo particolare genere. Il protagonista è un vocalist di assoluto rilievo, Sam Cooke, che può essere considerato uno dei padri fondatori della soul music essendo stato tra i primi a coniugare le tematiche gospel con input provenienti dalla vita reale. Nato a Clarksdale il 22 gennaio 1931 e scomparso a Los Angeles l’11 dicembre 1964, Sam sulla spinta del padre – il Reverendo Charles Cook della Chiesa Battista – si era già affermato da giovanissimo come leader del famoso gruppo gospel “teenage” “The Highway QC” che abbandonerà all’età di 19 anni per dedicarsi ad una musica “profana”. Nel corso della sua non lunga carriera, Sam collezionò una serie incredibile di successi, grazie ad un incredibile senso del ritmo e a straordinarie capacità vocali che gli consentivano di passare con disinvoltura da Gershwin (lo si ascolti in “Summertime” a classici del pop quale “Youn Send Me”, anch’esso presente in questa raccolta. E il pregio principale di questo CD consiste proprio nel fatto che nell’ambito delle 30 tracce, registrate tra il 1956 e il 1962, possiamo ascoltare tutti i più grandi successi del vocalist, da “Wonderful World” che apre la compilation a “Bring It On Home to Me”, da “Chain Gang” a “Twistin’ the Night Away” da “A Change Is Gonna Come” fino al conclusivo “Having a Party” per circa 78 minuti di musica. In queste numerose performances Sam Cooke è accompagnato anche da alcuni eccellenti jazzisti quali il pianista Hank Jones, Mike Pacheco (conga), Red Callender (basso).

Chick Corea – “Plays” – Concord 2 CD
E’ di poche settimane fa la dipartita di Chick Corea un artista che ha segnato la storia del jazz negli ultimi cinquant’anni. Ecco, quindi, questo pregevole doppio album della Concord che lumeggia uno dei tanti lati della complessa personalità artistica di Corea: quella del piano solo. Piano solo declinato attraverso una varietà di situazioni che testimonia, meglio di mille parole, da un lato l’incredibile conoscenza del repertorio pianistico, dall’altro la capacità di ben interpretarlo. Eccolo quindi alle prese con Mozart, con Gershwin, con Scarlatti, con Bill Evans, con Scriabin, con Antonio Carlos Jobim, con Monk, per chiudere con una serie di brani tratti da quell’inesauribile scrigno costituito dalle sue composizioni. In particolare il primo CD è dedicato a prezzi celebri che tutti conoscono mentre nel secondo è possibile ascoltare tutti brani di Corea eccezion fatta per “Pastime Paradise” di Stevie Wonder. I brani sono tratti da una serie di concerti svolti in vari Paesi europei e statunitensi e ovunque, dinnanzi ad un pubblico che lo acclama, Chick non si risparmia e affronta con disinvoltura i non facili confronti con gli autori su citati. Ma non basta ché Corea si lascia andare anche ad improvvisazioni che testimoniano la valenza di un artista che mai ha fatto ricorso al banale, al facile ascolto, ai cliché spesso di moda. Insomma ancora una volta Corea si concede senza limiti al suo pubblico, senza particolari modalità, fedele al suo motto più volte espresso secondo cui “a me piace – afferma il pianista – che il pubblico ai miei concerti si senta come se stessimo nel mio salotto a discutere del più e del meno”.
Così il suo pianismo conserva intatta la sua originalità e soprattutto quel tocco che lo ha reso celebre. Come ho molte volte sottolineato, quello che trasforma un buon musicista in un grande artista è la riconoscibilità e in un pianista detta riconoscibilità si sostanzia nella originalità del tocco, nel caso di Corea un tocco sublime e straordinariamente controllato.

Daniele Germani – “A Congregation of Folks” – Gleam Records 7004
Album d’esordio per questo alto-sassofonista originario di Frosinone ma di stanza a Brooklyn, NY, ben coadiuvato dal pianista originario dell’Oregon Justin Salisbury, dal bassista Giuseppe Cucchiara e dal batterista sudcoreano Jongkuk Kim. In programma tredici composizioni tutte scritte dal sassofonista che si è fatto le ossa suonando al Wally’s Jazz Cafe, il leggendario jazz club di Boston; in questa città Germani si è trasferito nel 2013 avendo ottenuto una borsa di studio per frequentare il Berklee College of Music. Mentre era lì, è stato ammesso al prestigioso Berklee Global Jazz Institute di Danilo Perez, dove ha studiato sotto la guida di Terri Lyne Carrington, Joe Lovano e del suo mentore, George Garzone. Avendo alle spalle tanti anni di studio e con maestri talmente prestigiosi, Germani si presenta al pubblico italiano come musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi e in grado di guidare un ensemble ben equilibrato e affiatato grazie al fatto che i quattro si sono conosciuti al Berklee. Di qui una perfetta spaziatura tra gli strumentisti e il giusto tempo dato ad ognuno per esprimere le proprie potenzialità. Così ad esempio in “One Moment To Monet” è il piano di Salisbury a mettersi in particolare evidenza mentre in “Hal Believe It” è l’intera sezione ritmica ad evidenziare la sua bravura nel sostenere magnificamente il solismo del leader. Il quale dà un’impronta all’intero album già nelle primissime note del brano d’apertura quando su un tappeto disegnato dal basso introduce e sviluppa il tema, portandolo dolcemente a conclusione Comunque ad avviso di chi scrive il brano meglio riuscito è “Eres luz”, una suggestiva melodia disegnata anche dal contrabbasso di Cucchiara e che vede l’intero quartetto esprimersi al meglio.

Andrea Goretti – A Light in The Darkness – Dodicilune 503
Undici composizioni originali che il pianista-compositore Andrea Goretti affronta in solitudine. Di qui una duplice fatica: da compositore e da esecutore. E la valutazione non può che essere positiva. Le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da introspezione e sincera meditazione, mentre le esecuzioni risultano perfettamente aderenti alle idee dell’artista. Quindi nessuno sfoggio virtuosistico ma un uso intelligente delle dinamiche, una accurata ricerca armonica nell’ambito di un pianismo tecnicamente ineccepibile. Il tutto supportato da una profonda conoscenza della letteratura sia classica sia jazzistica, con specifico riferimento alle tendenze più attuali. Non a caso in repertorio figura anche un brano, “T.T.T. X – Twelve Tone Tune X” costruito con una linea melodica di dodici suoni, ad omaggiare il celebre “Twelve Tone Tune” di Bill Evans. Altra dote di Andrea Goretti la capacità di saper bilanciare scrittura e improvvisazione, pratica quest’ultima, che pur evidenziandosi in tutto l’album si palesa particolarmente in “Neptune’s Blues” e “I giganti”. L’album si chiude con tre pezzi registrati dal vivo durante un concerto a Roma nel novembre del 2018: “Impro I”, “Lamento”, ispirato al blues e “Il Grinch 2”, dedicato, non senza un tocco d’ironia, al periodo natalizio, in particolare a quel personaggio – Grinch per l’appunto – inventato nel 1957 dal Dr. Seuss, che odia il Natale, non ne sopporta l’atmosfera allegra, i canti, i regali e le luci. L’album è impreziosito da una poesia di Umberto Petrin, “Question”, ispirata dalla musica di Goretti.

Pietro Lazazzara – “My Art of Gypsy Jazz” – Stradivarius
Chiarezza esemplare nel titolo dell’album: siano nel campo di un certo ben preciso tipo di jazz che il chitarrista e compositore Pietro Lazazzara frequenta con disinvoltura. Ma sarebbe un errore confinare l’album nell’ambito del “Gipsy Jazz”: in effetti, restando questo la fonte principale da cui trae ispirazione, il percorso di Pietro è più complesso e completo. Eccolo quindi studente di chitarra classico, appassionato conoscitore del flamenco, laureato in musica jazz e infaticabile appassionato ricercatore nell’ambito di uno sconfinato universo musicale. Di qui una musica in cui tutti questi input sono ben amalgamati e condotti ad unità grazie ad una buona verve compositiva e ad una eccellente tecnica esecutiva che si palesa soprattutto nei due brani per chitarra-solo “Passion d’Amour” ed “Echi d’Infanzia”. Nell’album Lazazzara è, in effetti, coadiuvato da Antonio Solazzo al basso e in un brano, “Relax”, da Emanuele Maggiore al flicorno. In cartellone quattordici pezzi scritti dallo stesso chitarrista con l’eccezione di “Douce Ambiance” di Django Reinhardt, “Joseph Joseph” di Kahn, Chaplin, Nellie e “Bistrot Fada” di Stephane Wrembel. Alla fine di un duplice attento ascolto dell’album, si può ben dire che la figura di Lazazzara quale compositore ed esecutore si colloca su livelli più che buoni. Le composizioni appaiono tutte ben scritte, equilibrate, caratterizzate da una sapiente ricerca armonica e si fanno ammirare anche per il notevole bilanciamento tra parti scritte ed improvvisate. L’esecuzione, poi, è raffinata, elegante ad evidenziare un chitarrista sensibile, ispirato, dalla tecnica ineccepibile per quanto misurata e lontana dalla volontà di stupire l’ascoltatore cosicché ogni nota ha il suo preciso perché.

Peggy Lee – The Hits of – All Anglow Again!” – Essential Jazz11443
Peggy Lee (Jamestown, 26 maggio 1920 – Bel Air, 21 gennaio 2002) è stata artista di squisita sensibilità che ha incantato le platee di tutto il mondo. Dotata di una voce non potentissima ma di grande fascino, suggestiva, capace di portare l’ascoltatore in una dimensione “altra”, Peggy ottenne grande popolarità durante l’era dello swing quando lavorò e incise con grandi orchestre dirette, tra gli altri, da Benny Goodman, Nelson Riddle, Billy May. Questo album contiene l’edizione integrale dell’lp “All Aglow Again”; si tratta di una compilation realizzata nel 1960 con in repertorio dodici brani tratti dalle varie registrazioni effettuate sino a quel momento ivi comprese alcune hit come la celebre “Fever” canzone di Eddie Cooley e Otis Blackwell (usando lo pseudonimo di John Davenport) del 1956; incisa per la prima volta da Little Willie John nello stesso anno, diventò di grande successo grazie alla cover di Peggy Lee del 1958 che raggiunse la quinta posizione nel Regno Unito e l’ottava negli Stati Uniti ed in Olanda, vincendo il Grammy Hall of Fame Award 1998. In aggiunta al già citato “All Anglow Again!” il cd in oggetto presenta altri 17 brani scelti tra i maggiori hit della cantante come “Black Coffee”, “Sugar”, “Ain’t We Got Fun” e “La La Lu”. In buona sostanza per chi come il sottoscritto conosce già da qualche decennio l’arte di Peggy Lee nessuna sorpresa ma il piacere di ascoltare alcune delle sue più convincenti interpretazioni; per i più giovani un’occasione da cogliere per fare la conoscenza di una delle migliori cantanti jazz.

Joe Lovano – “Garden of Expression” – ECM 2685
Conosco personalmente Lovano dall’oramai lontano 1982 e l’ho sempre considerato uno straordinario musicista oltre che una bella persona, cosa che mai guasta. Quest’ultimo album ci restituisce un Lovano in forma smagliante, alla testa di quel Trio Tapestry con cui lo avevamo apprezzato nell’omonimo album del 2019, quindi ancora con Marilyn Crispell al piano e Carmen Castaldi alla batteria. Registrato nel novembre del 2019, l’album è dedicato a quanti sono rimasti vittime del Covid 19. Di qui otto brani tutti scritti dallo stesso Lovano che conducono l’ascoltatore in atmosfere rarefatte disegnate dal leader ma ben supportate da pianoforte e batteria che non fanno assolutamente rimpiangere la mancanza del contrabbasso. Si ascolti quindi con quale e quanta delicatezza il pianismo di Marilyn avvolge il sax del leader, quasi a tessere un intricata trama su cui quasi si adagia la voce di Lovano, mentre la batteria di Carmen segue con grande intelligenza e intuito gli intenti del leader. Una musica, quindi, che si sostanzia nell’empatia che i tre evidenziano sin dalle primissime note a conferma di un “idem sentire” tutt’altro che banale. Esemplare al riguardo il suadente “Night Creatures” in cui la Crispell sembra quasi volersi espandere nel comune territorio pronta, però, a cedere il passo all’entrata del sassofono, il tutto porto con estrema delicatezza. Appare quasi come uno standard il successivo “West of the Moon” mentre nella title- track il trio abbandona le melodie disegnate in precedenza per avventurarsi su terreni diversi, quasi vicini ad un certo free, ma che comunque mette in luce un abilissimo e lucido Castaldi il quale non si lascia sfuggire l’occasione per evidenziare il suo, d’altronde ben noto, talento. L’album si chiude con un lungo (oltre 10 minuti) “Zen Like” scandito da campane tibetane che si stacca nettamente da tutto ciò che si è ascoltato sinora.

Shai Maestro – “Human” ECM 2688
Coinvolgente la musica di questo quartetto la cui leadership si potrebbe tranquillamente spartire tra il pianista Shai Maestro e il trombettista statunitense Philip Dizack, coadiuvati da una puntuale sezione ritmica composta dal batterista israeliano Ofri Nehemya e dal contrabbassista peruviano Jorge Roeder. Certo la maestria del pianista israeliano non la scopriamo certo adesso dato che Shai è già al suo sesto disco da titolare, il secondo con l’etichetta ECM, e può vantare anche quattro album di spessore incisi con l’Avishai Cohen Trio. Ma in questo album c’è forse qualcosa di più. Innanzitutto una piena maturità compositiva declinata attraverso un repertorio di undici composizioni tutte sue ad eccezione di “In a Sentimental Mood”. In secondo luogo la piena conferma di uno stile pianistico che nulla aggiunge a ciò che è strettamente necessario ad esprimere la propria individualità, il proprio essere più profondo (si ascolti al riguardo soprattutto “Compassion” e “Hank and Charlie” il commovente omaggio porto a Hank Jones e Charlie Haden, con il contrabbasso di Jorge Roeder in bella evidenza). In terzo luogo la capacità di eseguire al meglio, in modo originale, composizioni non proprie come la su citata pagina ellingtoniana, pezzo tanto affascinante quanto difficile da riprodurre visto l’inevitabile confronto con l’originale. Infine la straordinaria facilità con cui riesce a rapportarsi con i compagni di viaggio; semplicemente perfetta l’intesa con il trombettista assai evidente soprattutto in “Human” e in “They Went to War” mentre la sezione ritmica è sempre lì, presente e discreta, a puntualizzare le linee disegnate da pianoforte e tromba.

Angelo Mastronardi – “Rough Line” – GleamRecords7003
Con questo terzo album da leader, il pianista si ripresenta con la formula preferita del trio assieme al batterista palermitano Melo Miceli e al contrabbassista americano Rogers Anning. In programma 6 composizioni originali scritte dal leader e due standard, “All Things You Are” (J.Kern / O. Hammerstein II) e “Oleo” (S. Rollins). Il terreno è quello di un jazz caratterizzato da una forte carica ritmica e da spiccate individualità che emergono nel corso delle varie esecuzioni; il tutto impreziosito da una accurata ricerca sul suono che si evidenzia ancora più chiaramente quando Mastronardi si produce non solo al pianoforte ma anche al Fender Rhodes. Come si accennava notevole l’apporto solistico di tutti i membri del trio: così ecco il basso di Rogers Anning particolarmente in evidenza in “Everything I Need” mentre la batteria di Melo Miceli si fa apprezzare in “Away From The Scene”. E il leader? A parte la sapienza con cui guida il trio, si ritaglia spazi per convincenti assolo: in particolare nei due brani eseguiti in solitudine, “All The Things You Are” e “7 H-Our”, Mastronardi evidenzia una assoluta padronanza della tastiera che sa utilizzare in maniera completa evidenziando tra l’altro una ottima diteggiatura e una eccellente indipendenza tra le due mani. In particolare il brano di Kern e Hammerstein è porto in maniera originale con l’intento da un canto di preservare la bellezza del tema dall’altro di osare qualcosa di nuovo, alla costante ricerca di quell’equilibrio fra tradizione e sperimentazione che caratterizza tutto l’album ; in “7H-Our” Mastronardi, avendo a che fare con una propria composizione, si muove con sicurezza nel dichiarato intento di sperimentare le possibilità timbriche del Fender.

Lucio Miele – “Kalpa” – Creative Sources Record
Album assolutamente atipico in cui Lucio Miele, percussionista di tradizione classica, dedito alla ricerca e alla sperimentazione, si racconta attraverso sei sue composizioni, affiancato da Simona Fredella alla voce recitata in due brani e da Anacleto Vitolo al mastering. Chi conosce il musicista salernitano troverà in questo album una perfetta continuità con le sue realizzazioni in cui ha sempre cercato di condensare la molteplicità delle sue esperienze. Viceversa per chi questo album rappresenta il primo approccio con la musica di Miele, sicuramente ne resterà sorpreso, nel bene o nel male non spetta certo allo scrivente deciderlo. In ogni caso è opportuno sottolineare che Miele è artista sincero, intellettualmente onesto, che ha sempre seguito la sua strada per quanto ostica fosse la stessa. Certo, fare musica basandosi solo su percussioni ed elettronica non è impresa facile, anche quando si è perfettamente padroni degli strumenti utilizzati (si ascolti ad esempio il convincente uso dell’elettronica in “Mbombo”). Mancano i riferimenti usuali, la linea melodica, l’andamento ritmico è assolutamente frastagliato e imprevedibile, ma quando si approccia una realizzazione di questo tipo i vecchi parametri vanno messi da parte e occorre lasciarsi andare al flusso sonoro. Aprire la mente il cuore, l’anima e lasciare che la musica ci attraversi fin nel profondo alla ricerca di emozioni sopite che forse solo in questo modo saremo in grado di apprezzare. Insomma un album, come si accennava, di non facile ascolto ma che vale la pena fruire ma, ripetiamo, con disponibilità e attenzione…altrimenti è meglio lasciar perdere.

Roberto Ottaviano – “Resonance & Rapsodies” – Dodicilune
Doppio album del sassofonista (soprano) e compositore pugliese Roberto Ottaviano, affiancato in “Resonance” dal quartetto Eternal Love composto da Marco Colonna (clarinetti), Giorgio Pacorig (piano, rodhes), Giovanni Maier (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria), ampliato dalla presenza di Alexander Hawkins (piano), Danilo Gallo (contrabbasso e basso acustico) e Hamid Drake (batteria), mentre nel secondo CD, “Rapsodies” solo dal quartetto Eternal Love. Una realizzazione, quindi, particolarmente impegnativa che non a caso ha vinto l’annuale referendum come miglior disco italiano del 2020. Ora, a prescindere dal valore che valutazioni del genere possono avere o non avere, resta il fatto che a mio avviso raramente una produzione discografica è stata così meritevole di tali considerazioni. In effetti Roberto Ottaviano è artista di grandissimo livello, tra i migliori che l’attuale scena jazzistica, non solo italiana, possa annoverare. La sua mente compositiva è sempre lucida, attuale, capace di cogliere i fermenti più significativi che attraversano l’universo musicale senza distinzione di genere mentre le modalità esecutive evidenziano un bagaglio tecnico molto profondo, talmente ben assorbito da non necessitare di alcuna palese esposizione e che, di conseguenza, si sostanzia in uno stile asciutto, senza fronzoli, che nulla lascia all’esibizionismo. L’intento che sta alla base dell’opera è, come afferma lo stesso Ottaviano, “una sorta di omaggio alla ricerca di quella sofferta poetica che fa parte della condizione umana”. Per dare forza e concretezza a questi concetti, Roberto fa ricorso ad una musica declinata attraverso ventitré brani in larga misura da lui stesso scritti in cui non mancano i riferimenti alla musica classica contemporanea. Ma è la pratica collettiva il dato fondamentale di questo doppio CD, una pratica che consente una sorta di doppione del sax di Ottaviano con i clarinetti di Marco Colonna, che risultano essenziali per allargare a dismisura il concetto di suono. Se volessimo sintetizzare in poche parole il significato più profondo di questo “Resonance & Rapsodies” si potrebbe forse dire che nel momento in cui rievoca le esperienze del passato Ottaviano non rinuncia a guardare oltre, non rinuncia ad una ricerca che costituisce una delle cifre fondamentali del suo essere artista.

Dino Piana – “Al gir dal bughi” – PMR, Jando Music
90 anni e non sentirli…o meglio che bel sentire ci procura questo nuovo album del trombonista Dino Piana. Conosco oramai da molti anni la premiata ditta composta da Dino e Franco Piana e ne ho sempre ricavato una bella impressione e non solo dal punto di vista squisitamente musicale, visata la gentilezza, la signorilità con cui i due amano rapportarsi con noi critici e giornalisti. Ma è il versante artistico su cui tocca concentrarsi in questa sede e allora dico, immediatamente, che l’album si colloca su quegli alti livelli cui Dino e Franco Piana ci hanno abituati oramai da decenni. Con in più un elemento di notevole importanza: il CD è stato fortemente voluto da Enrico Rava (storico amico di Dino Piana) e da Franco Piana per festeggiare i 90 anni (a luglio 91) del trombonista piemontese. Di qui la strutturazione di un organico d’eccellenza in cui accanto ai senatori Rava al flicorno e Dino Piana al trombone figurano Franco Piana al flicorno, Julian Oliver Mazzariello al piano, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Di qui la scelta di un repertorio oggi non di moda: nove standard celeberrimi – “Bernie’s Tune”, “Dear Old Stockholm”, “Everythings Happens To Me”, “I’ll Close My Eyes”, “Line For Lions”, “Rhythm A Ning”, “Polka Dotz and Moonbeams”, “When Light Are Low”, “When Will The Blues Leave” – che tutti, più o meno, si richiamano a quell’hard bop da cui in buona sostanza è poi derivato tutto il jazz moderno. Il gruppo si esprime con bella compattezza impreziosito dal fitto dialogo tra i fiati e dagli assolo di Dino che non si risparmia anzi fa sentire ben nitida la voce del suo strumento in ogni brano. Gli standard fluiscono genuinamente ‘freschi’ come se il tempo non fosse trascorso e l’ascolto è sempre gradevole anche se occorre attenzione per catturare le mille sottigliezze dell’esecuzione. Una precisazione: lo strano titolo deriva dal fatto che durante il primissimo incontro tra Rava e Piana, quest’ultimo associò al blues in fa il giro armonico del boogie-woogie per l’appunto “Al gir dal bughi”.

Marcello Rosa – “The World On A Slide” – Alfa Music 236
Straordinario viaggio nel mondo del trombone. A fungere da gran cerimoniere è Marcello Rosa, uno dei personaggi più rilevanti dell’universo jazzistico nazionale. Conosco Marcello personalmente oramai da tanti anni e so perfettamente quanto ami la sua musica e quanta passione metta in ogni cosa che fa. Ovviamente a quest’aurea regola non sfugge “The World On A Slide” una raccolta di ben sedici brani –molti originali, altri scelti tra le più belle melodie del repertorio jazzistico del XX secolo – ma tutti suonati e arrangiati da Rosa nel corso della sua vita. Ebbene per questa sua ultima fatica discografica, Marcello ha voluto coronare un bel sogno: incidere un disco di soli e tanti tromboni. Ha così chiamato accanto a sé alcuni specialisti non solo del jazz ma anche della musica colta. Ed eccoli tutti i nomi dei temerari che hanno partecipato all’impresa: dalla musica colta Andrea Conti I trombone dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Luigino Leonardi trombonista presso la Banda musicale dell’Aeronautica Militare, Gianfranco Marchesi trombone basso dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e il Quartetto italiano di tromboni, formato da Devid Ceste secondo trombone dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI, Matteo De Luca I trombone dell’orchestra della Suisse Romande di Ginevra, Diego Di Mario I trombone presso l’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e Vincent Lepape I trombone dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Dal mondo del jazz sono arrivati i già ‘collaudati’ Andrea Andreoli, Mario Corvini, Massimo Morganti e Roberto Rossi; accanto a loro i giovanissimi e brillanti Stefano Coccia, Elisabetta Mattei, Federico Proietti e il G.E.F.F. Trombone Quartet, composto da Giovanni Dominicis, Francesco Piersanti, Eugenio Renzetti e Gabriele Sapora. In taluni pezzi c’è pura una sezione ritmica composta da Paolo Tombolesi al pianoforte, Luca Berardi e Roy Panebianco alla chitarra, Marco Siniscalco al contrabbasso e basso elettrico, Cristiano Micalizzi alla batteria e Filippo La Porta alle percussioni. Il risultato è semplicemente entusiasmante: come si diceva una volta ‘dove peschi peschi bene’ ed in effetti tutte le esecuzioni contengono una carica tale da mai lasciarti indifferente. Qualche titolo? “Autumn Leaves” con Massimo Morganti in veste di solista, la suadente “Southern Ballad” che ad onta delle difficoltà di realizzazione narrate da Rosa è venuta molto bene con Roberto Rossi solista, il sempre toccante “What Are You Doing the Rest of Your Life” affidato al Quartetto Italiano di Tromboni con Gianfranco Marchesi. Da segnalare infine che come bonus track figurano “Miss Magnolia Lee” del giugno 1974 con Enrico Pieranunzi piano, Alessio Urso basso e Gegè Munari batteria e “Il ladro di noccioline” del 1980 con Daniele Cestana piano, Nanni Civitenga chitarra e chitarra basso e Enzo Restuccia batteria.

Bob Salmieri – “…and Mama Was a Belly Dancer” – Cultural Bridge
Il sassofonista tenore romano Bob Salmieri si è già fatto conoscere da quando, nel 2016, costituì l’Erodoto Project, i cui album sono stati recensiti su questi stessi spazi. E’ di pochi mesi fa la costituzione del ‘Bob Salmieri Bastarduna Quintet’ con Giancarlo Romani alla tromba, Vincenzo Lucarelli organo e piano, Maurizio Perrone contrabbasso e Massimiliano de Lucia alla batteria, ospite in tre brani il vibrafonista e pianista polacco Mateusz Nawrot. In piena pandemia il gruppo incide il disco “…and Mama was a belly dancer” per Cultural Bridge, declinato attraverso otto composizioni tutte del leader che anche come strumentista non si risparmia di certo per tutta la durata dell’album. Due le necessarie premesse: nell’intento di Salmieri si tratta di un concept album in quanto rivede e rivive i sogni di un uomo-bambino che costruisce i suoni, i sapori, i colori di un tempo lontano e di un mondo sognato. In secondo luogo il termine Bastarduna con cui si è voluto caratterizzare il gruppo indica una varietà pregiata di fichi d’India a voler indicare la strada ‘mediterranea’ che il gruppo intende perseguire. Ora se, more solito, almeno per me è assai difficile stabilire se la musica coincide con l’impianto concettuale che dovrebbe sostenerla, non c‘è invece dubbio alcuno sul fatto che il jazz proposto si inserisca nel solco di un’ispirazione di impronta chiaramente mediterranea, particolarmente evidente in “Madame oculus” e “Men With The Painted Faces” impreziosito da un bell’assolo di Lucarelli all’organo. Dal punto di vista della linea melodica, particolarmente apprezzabile “The Flying Devils”. Comunque è tutto l’album che si snoda attraverso un filo rosso che vede in primo piano il fitto colloquio tra i due fiati ben sostenuti dalla sezione ritmica con l’ospite polacco in grado di ben inserirsi nel discorso collettivo con assoli di pregevole fattura (lo si ascolti in “The Balinese Dancer (Reprise)”.

Roberto Spadoni – “Mah” – Sword Records
Anche Roberto Spadoni fa parte delle mie oramai lunghe amicizie musicali ed è proprio partendo da questa base che mi sento di affermare la valenza dello stesso quale musicista assai ben preparato e che, tutto sommato, non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita. Adesso, dopo lunghi anni in cui ha suonato la sua fida chitarra, diretto organici di varie dimensioni, composto, insegnato, si cimenta con qualcosa di nuovo: produrre, promuovere e diffondere la sua musica seguendola in tutta la sua lunga filiera, dalla composizione alla registrazione, dal progetto grafico alla stampa e alla diffusione. Di qui la creazione di una label che – con una venatura di ironia – sottolinea Spadoni ha chiamato ‘Sword Records’. “Mah” è per l’appunto la prima realizzazione targata ‘Sword Records’ per cui il leader-chitarrista si esibisce con Fabio Petretti (sax tenore & soprano), Paolo Ghetti (contrabbasso) e Massimo Manzi (batteria). In programma nove composizioni originali tutte scritte dal leader a conferma di quanto su accennato a proposito della poliedricità di Roberto. L’album è sicuramente apprezzabile sia per l’originalità della scrittura così ben equilibrata sia per la bravura dei singoli notevoli nella parti d’insieme così come nei vari assolo. Ecco quindi il contrabbasso di Paolo Ghetti farsi apprezzare in “Remore morali” un brano non nuovo ma sempre affascinante. In “Girotondo” è la batteria di Massimo Manzi in primo piano, impegnata in un fitto dialogo con i compagni di viaggio mentre in “Borgo antico” si apprezza Fabio Petretti impegnato a disegnare una fluida linea melodica. Dal canto suo il leader non fa mancare il suo apporto solistico in ognuno dei brani apparendo, almeno a chi scrive, particolarmente convincente in “Buonanotte”. Ottima anche la chiusura con “Ce la posso fare” un pezzo che, evidenzia ancora Spadoni, egli ha diretto molte volte e che comunque rappresenta una sorta di mantra, un augurio, “una carica di energia positiva”, impreziosito nell’occasione dagli assolo di Petretti e di Spadoni.

Barney Wilen & Alain Jean-Marie – “Montreal Duets” – Elemental 2 CD
Vi piace la “buona” musica senza distinzione di stili, di epoca, di messaggi più o meno espliciti…insomma senza se e senza ma? Se la risposta è affermativa allora dovete ascoltare questo doppio album. Siamo nella Chiesa di Gesù, a Montreal (Canada) il 4 luglio del 1993 in occasione dell’annuale Festival del jazz. In programma per un doppio concerto pianificato alle 20 e alle 22,30 un duo d’eccezione composto da Barney Wilen al sax tenore e dal pianista martinicano Alain Jean-Marie. Già a quell’epoca i due avevano lungamente suonato assieme sin dagli anni ’80 potendo vantare una propria ben solida reputazione. In particolare Barney era considerato uno dei più prestigiosi sassofonisti francesi avendo, tra l’altro, collaborato con Miles Davis per la colonna sonora del film “Ascenseur pour l’Échafaud” nel 1957 mentre Alain a conferma di una carriera prestigiosa aveva ricevuto il “Prix Django Reinhardt” e nel 2000 il “Django d’Or”. Ora se è vero che nel mondo della musica e del jazz in particolare non sempre uno più uno fa due, questa volta si potrebbe ben dire che invece fa tre. Ascoltarli nelle loro evoluzioni è davvero un piacere tale e tanta è la fluidità del loro linguaggio. I due si intendono a meraviglia, si inseguono, si interrompono, si passano la palla senza soluzione di continuità nel rispetto di soluzioni ritmiche che guardano da vicino alla grande tradizione del bop. Non a caso Alain Jean-Marie agli inizi della carriera era stato avvicinato stilisticamente a Bud Powell. Nell’ampio programma enucleare qualche brano è davvero difficile anche se una menzione particolare la merita la splendida ballad di Gordon Jenkins, “Good Bye”, pezzo con cui Barney Wylen chiuse la sua performance a Caen il 14 marzo 1996 in quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto. Ascoltando “Good Bye” non ci si può non lasciar prendere da una ondata di malinconia nel ricordo di un grande artista che anche nell’esecuzione presente in questo album evidenzia una classe e una musicalità senza pari. E vorrei chiudere citando le parole di Jean-Paul Sartre riportate da Pascal Anquetil nel booklet del disco: “il y a un gros homme qui s’époumone à suivre son trombone dans ses évolutions, il y a un pianiste sans merci, un contrebassiste qui gratte ses cordes sans écouter les autres. Ils s’adressent à la meilleure part de vous-même, à la plus sèche, à la plus libre, à celle qui ne veut ni mélancolie ni ritournelle, mais l’éclat étourdissant d’un instant. Ils vous réclament, ils ne vous bercent pas”.

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Ferenc Snétberger, Keller Quartett – Hallgató – ECM New Series 2653
Com’è nostra consuetudine, consentiteci una tantum qualche digressione al di fuori degli ambiti prettamente jazzistici. Questa volta lo facciamo per segnalarvi questo album targato ECM New Series, dedicato al dolore vissuto da molti nel corso dei secoli senza motivo alcuno, che vede come protagonisti il chitarrista ungherese Ferenc Snetberger, il terzo pubblicato da ECM, e il Keller Quartet, anch’esso costituito da musicisti ungheresi. L’album, registrato in concerto nella Grand Hall della Liszt Academy di Budapest nel dicembre 2018, presenta un programma interamente dedicato alla musica classica. L’apertura e la chiusura sono dedicati a brani dello stesso Snétberger, inframmezzati da composizioni di Dimitri Shostakovich (il Quartetto per archi N. 8 in Do minore dedicato alle vittime della guerra e del fascismo), John Dowland ( “I Saw My Lady Weep” per chitarra e quartetto d’archi, e “Flow, My Tears” per chitarra e violoncello), Samuel Barber (lo struggente “Adagio for strings” interpretato dal solo “Keller Quartet”. Dal canto suo Ferenc Snetberger presenta alcune sue composizioni che non sfigurano al cospetto di contati autori. Così il “Concerto In Memory of My People,” in tre movimenti, composto da Snétberger nel 1994 per chitarra e orchestra, e qui riproposto in un arrangiamento per chitarra e quintetto d’archi, coglie perfettamente nel segno riuscendo a trasmettere l’ispirazione dell’autore che ricorda e dedica questa musica alla memoria dei suoi antenati gitani Roma e Sinti (cui il chitarrista appartiene) perseguitati e uccisi nei secoli. L’album si chiude con due composizioni del chitarrista, “Your Smile” per chitarra solo, unico brano in cui ci si distacca dalla sensazione di tristezza e dolore che domina tutto il CD e “Rhapsody No.1, for Guitar and Orchestra” qui però nella versione per chitarra e quintetto d’archi.
Che altro aggiungere se non che alla bellezza dei brani si aggiunge la valenza di Ferenc Snétberger che si conferma esecutore e compositore di sicuro livello.

Centrato omaggio di Riccardo Fassi all’arte di Herbie Nichols

Un centenario passato sotto silenzio, quello del pianista-compositore afroamericano Herbie Nichols nato nel 1919 e scomparso nel 1963, quarantaquattrenne, a causa di una leucemia. Il suo amico ed allievo Roswell Rudd, trombonista, sosteneva che a favorire, se non a causare, la morte di Nichols fosse stata anche la profonda frustrazione di un artista eccelso, all’avanguardia, che non riusciva a vivere della propria musica ma sopravviveva facendo il sideman in gruppi dixieland oppure suonando in locali scadenti. Lo raccontava già A.B. Spellman nel 1966, nel suo bel libro “Four Jazz Lives” (tradotto in italiano nel 2013, da minimum fax).

Ci volle la lungimiranza del produttore Alfred Lion a portare nel 1955-’56 Nichols in sala di incisione per uno dei suoi pochi album, in trio. In realtà il songbook del pianista contava circa centosettanta composizioni (svariate con liriche di suo pugno) e Rudd – tra i più esperti in materia – ne conosceva una settantina. Un centinaio di lavori sono, quindi, andati persi ma una parte significativa del repertorio nicholsiano resta nelle incisioni Blue Note e Bethelem, più altri inediti che man mano vengono proposti. Tanti e significativi jazzisti, americani ed europei, hanno infatti valorizzato nel tempo una musica di sorprendente attualità: Steve Lacy, Rudd, la ICP con Misha Mengelberg ed Han Bennink, Buell Neidlinger, Simon Nabatov tra gli altri.

Di grande spessore appare, quindi, la serata “Herbie Nichols 100” che la romana Casa del Jazz, per iniziativa del direttore Luciano Linzi, ha organizzato venerdì 17 maggio scorso, serata che ha visto una breve introduzione storico-biografica sul musicista newyorkese di chi scrive seguita da un ottimo concerto del Riccardo Fassi Quintet. Come ha spiegato il leader-pianista, il “testimone” del repertorio di Herbie Nichols gli è stato direttamente passato da due musicisti: il pianista e didatta inglese Martin Joseph, che nelle sue lezioni di storia del jazz alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio gli dedicava particolare attenzione; il trombonista Roswell Rudd che, in occasione del disco “Double Exposure” (Wide, 2009, Fassi 4tet con Rudd, Paolino Dalla Porta e Massimo Manzi), gli regalò partiture inedite che aveva ricevuto direttamente dal padre di Nichols.  In realtà il concerto romano ha avuto una doppia valenza: la realizzazione in quintetto con due fiati (Torquato Sdrucia, Carlo Conti; Steve Cantarano al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, tutti eccellenti come il pianista-leader) che ha dato spessore e ricchezza a brani eseguiti dall’autore solo in trio, anche se pensati per organici più ampli; l’esecuzione di una serie di inediti di notevole bellezza e visionarietà. Unico appunto alla serata la mancanza nel pubblico degli studenti di musica di scuole e conservatori che avrebbero potuto ascoltare dal vivo un repertorio pregevole e modernissimo, che secondo A.B.Spellman – se debitamente promosso – avrebbe potuto costituire un’alternativa (a livello di estetica) a quello di Bud Powell e John Lewis negli anni ’50.

La scaletta del concerto ha, in effetti, montato con sagacia composizioni note ed inedite, ampliandone la tavolozza timbrica ed esaltandone la dinamica, sottolineando la forte e caratterizzante componente ritmica di Nichols; apprezzato da Mary Lou Williams, il pianista aveva studiato attentamente la musica di Monk ma la propria aveva radici e riferimenti amplissimi (Bartok, Prokofiev, Hindemith, la musica caraibica ed una conoscenza enciclopedica del jazz, dal ragtime all’hard-bop). Si sono ascoltati “Third World” dalle armonie molto moderne, con un bel solo di piano, uno scambio (Four) tra batteria e pianoforte ed un assolo al tenore di Carlo Conti che ha esaltato gli aspetti coltraniani (prima di Coltrane) insiti nel brano; “Cro-magnon Nights” dalla particolare linea melodico-ritmica, con colori quasi mingusiani; “Shuffle Montgomery” dal tema suadente, impreziosita da un arioso assolo di piano e da un efficace solo di baritono (Sdrucia); “The Happening” che sfrutta un tempo di marcia; la poco conosciuta “Ina” che per le sue armonie sembra uscita dalla penna di Wayne Shorter; la ballad inedita – e magistrale – “I Never Loved or Cared With Love”; l’asimmetrica e monkiana “Double Exposure”; un altro inedito basato su una scala della musica classica indiana, “Carnacagi”: nulla sfuggiva alla colta e onnivora curiosità di Herbie Nichols. Il concerto si è concluso con il brano più noto dello sfortunato pianista: “Lady Sings The Blues”, un omaggio-ritratto a Billie Holiday di cui scrisse anche le parole.

A volte – come scrisse il critico letterario, saggista e romanziere Giacomo Debenedetti – progetto e destino non coincidono.

Luigi Onori

Alessandro Scala Groovology Trio @ Rossini Jazz Club, Faenza

Giovedì 10 gennaio 2019, alle 22, la stagione del Rossini Jazz Club di Faenza riprende con il concerto dell’Alessandro Scala Groovology Trio, formazione composta da Alessandro Scala ai sassofoni, Sam Gambarini all’organo Hammond e Stefano Paolini alla batteria. La rassegna diretta da Michele Francesconi si presenta in questa stagione con due cambiamenti sostanziali: il Bistrò Rossini di Piazza del Popolo è il nuovo “teatro” per i concerti che si terranno di giovedì. Resta immutato l’orario di inizio alle 22. Il concerto è ad ingresso libero.

Un trio energico, di grande impatto e dallo stile immediatamente riconoscibile. Il Groovology Trio capitanato da Alessandro Scala è composto da tre musicisti di primo piano della scena del jazz italiano e internazionale e propone una efficace miscela di jazz, funk, bossanova e boogaloo. Il repertorio del trio è originale e si ispira in modo molto accattivante al sound Blue Note degli anni Cinquanta e Sessanta per arrivare alle sonorità più attuali del nujazz. Il tutto amalgamato con feeling sicuro, con l’esperienza maturata da Alessandro Scala, Sam Gambarini e Stefano Paolini e con l’interplay oramai collaudato della formazione.

Nella serata, verranno suonati i brani degli album più recenti pubblicati da Alessandro Scala a suo nome per Schema Records, Groovology e Viaggio Stellare, e brani inediti di nuova produzione.

Alessandro Scala è un valente sassofonista e compositore della scena jazz nazionale. È apprezzato per il suo sound personale e per l’attitudine versatile ed elegante con cui riesce passare dall’hard bop al soul jazz. Ha al suo attivo una lunga serie di collaborazioni, tanto negli album a suo nome quanto nei diversi progetti realizzati con altri musicisti. Nel corso degli anni, ha suonato, tra gli altri, con Bob Moses, Marylin Mazur, Steve Lacy, Fabrizio Bosso, Luca Mannutza, Flavio Boltro, Marco Tamburini, Sam Gambarini, Sam Paglia, Nico Menci, Stefano Paolini, Lorenzo Tucci, Roberto Gatto, Nigel Price, Antonello Salis, Gianluca Petrella, Mario Biondi, Cheryl Porter, Massimo Manzi, Paolo Ghetti,Gegè Munari, Rosalia De Souza, Giovanni Amato, Giovanni Falzone e molti altri. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano l’ormai lontano album “Bossa Mossa” – positivamente recensito sulle riviste Jazz It, Musica jazz e sulla francese Jazz Hot – e poi “Viaggio Stellare” del 2013, presentato in modo convincente dalle note di copertina di Paolo Fresu. Nel 2015, invece, ha pubblicato, sempre per Schema Records, “Groove Island” affiancato da Flavio Boltro. Collabora in pianta stabile anche con le formazioni Organic Vibe e GB Project. Da anni, si esibisce con i progetti musicali a suo nome e come sideman nei jazz club, nei festival e nelle rassegne più significative del panorama nazionale.

La rassegna musicale diretta da Michele Francesconi, dopo oltre dieci anni, cambia sede e si sposta al Bistrò Rossini che diventerà, ogni giovedì, il Rossini Jazz Club: la seconda importante novità riguarda proprio il giorno della settimana, si passa appunto al giovedì come giorno “assegnato” ai concerti. Resta invece immutato lo spirito che anima l’intero progetto: al direttore artistico Michele Francesconi e all’organizzazione generale di Gigi Zaccarini si unisce, da quest’anno, la passione e l’accoglienza dello staff del Bistrò Rossini e l’intenzione di offrire all’appassionato e competente pubblico faentino una stagione di concerti coerente con quanto proposto in passato.

Il prossimo appuntamento con la stagione musicale del Rossini Jazz Club di Faenza propone un doppio concerto, giovedì 17 gennaio 2019: si esibirà dapprima “Migrazioni Musicali”, il duo formato da Yuri Ciccarese al flauto e Pepe Medri all’organetto diatonico, e si prosegue poi con il “Solo Act” della cantante e chitarrista Silvia Wakte.

Il Bistrò Rossini è a Faenza, in Piazza del Popolo, 22.

“Frank and Ruth” – Omaggio a Frank Zappa e Ruth Underwood

Marco Pacassoni Group
“Frank & Ruth”
Il vibrafono e la marimba nella musica di Frank Zappa

“Frank & Ruth” è il nuovo progetto discografico del vibrafonista e percussionista Marco Pacassoni. L’album prodotto dalla Esordisco pubblicato il 9 giugno 2018, una data simbolica perchè trent’anni prima, esattamente il 9 giugno 1988, Zappa tenne il suo ultimo concerto in Italia, al palasport di Genova.

Dopo tre dischi d’inediti, “Finally” (2011), “Happiness” (2014) e “Grazie” (2017), Marco Pacassoni rende omaggio alla percussionista Ruth Underwood, il cui nome è legato indissolubilmente alla musica di Frank Zappa, e lo fa accompagnato da due compagni della sua storica formazione, Enzo Bocciero al pianoforte e alle tastiere e Lorenzo De Angeli al basso elettrico, e tre ospiti di rilievo: il virtuoso chitarrista Alberto Lombardi, che si è anche occupato della produzione artistica, del missaggio e del mastering, la funambolica vocalist Petra Magoni e il formidabile batterista statunitense Gregory Hutchinson.

Genio della musica contemporanea del ‘900, Zappa nutriva una grande passione per le percussioni che nasceva del suo amore per Edgard Varèse. Aveva prima suonato la batteria per poi dedicarsi alla chitarra. Nel periodo più ispirato della sua produzione musicale (1967 – 1977), trovò il suo alter ego alle percussioni in Ruth Underwood, moglie di Ian Underwood, il musicista della svolta di “Hot Rats”, e virtuosa indiscussa di questi strumenti.

Quando Ruth decise di lasciare il gruppo, decise anche di abbandonare la scena musicale. Da quel momento la musica del genio di Baltimora prenderà molte altre direzioni, ma mai più la sua scrittura metterà così al centro della scena la marimba e il vibrafono.

La scelta dei brani fatta da Marco Pacassoni include nuovi arrangiamenti di “Blessed Relief”, “Planet of the Baritone Women” (con la straordinaria Petra Magoni alla voce), “Echidna’s Arf”, “The Idiot Bastard Son”, “Peaches en Regalia” e un medley di tre brani emblematici del chitarrismo di Zappa, “Sleep Dirt”, “Pink Napkins”, nel quale Marco realizza la prodezza di suonare al vibrafono l’assolo originale di Zappa, e “Black Napkins”, il titolo di questo medley è “Sleep, Pink and Black (the napkins suite)” ed è realizzato con il chitarrista e produttore Alberto Lombardi.

Pacassoni confeziona inoltre una sua versione per marimba solista dalla famosa “The Black Page”, forse il brano più complesso scritto da Zappa e massima espressione della sua opera per le percussioni, e compone il brano, “For Ruth”, dedicato a Ruth Underwood, al suo stile ed alla dedizione per i suoi strumenti.

Il progetto si conclude con una bonus track, “Stolen Moments”, cover di un brano ricco di swing che Frank Zappa registrò nell’album “Broadway the Hardway”.

Marco Pacassoni presenterà l’album dal vivo il prossimo 16 luglio all’Ancona Jazz Festival con la seguente formazione, Marco Pacassoni: vibrafono e marimba, Alberto Lombardi: chitarra acustica, classica ed elettrica, Enzo Bocciero: pianoforte e tastiere, Lorenzo De Angeli: basso acustico ed elettrico e Matteo Pantaleoni: batteria.

Il tour di presentazione partirà il prossimo 4 dicembre, venticinquesimo anniversario della scomparsa del genio di Baltimora.

www.marcopacassoni.com
www.blueartmanagement.com
www.esordisco.com
www.facebook.com/MarcoPacassoniOfficial

Biografia

Marco Pacassoni – vibrafonista, percussionista, compositore
Nato a Fano il 12 giugno 1981, si è diplomato al conservatorio “Gioacchino Rossini” di Pesaro con lode e laureato con lode in Professional Music al “Berklee College of Music” di Boston.
Studia principalmente con Gary Burton, Ed Saindon, Victor Mendoza, Daniele Di Gregorio, Eguie Castrillo, John Ramse, Steve Wilkes.
Nel 2005 vince il premio di “Miglior Talento Jazz” italiano al concorso Chicco Bettinardi di Piacenza.
Collabora, sia in ambito jazzistico che pop, con Michel Camilo, Alex Acuna, Horacio “El Negro” Hernandez, Steve Smith, John Beck, Amik Guerra, Trent Austin, Italuba, Gerrison Fewell, Chihiro Yamanaka, Partido Latino, Malika Ayane, Raphael Gualazzi, Francesco Cafiso, Massimo Manzi, Marco Volpe, Massimo Moriconi, Filippo Lattanzi, Daniele Di Gregorio, Paolo Belli, Bungaro, Luca Colombo e numerosi altri.
Da leader, con il suo quartetto, ha pubblicato tre album: “Finally”, “Happiness”, “Grazie” e il suo ultimo lavoro discografico datato giugno 2018: “Frank & Ruth”.
Docente di strumenti a percussioni presso il Liceo Musicale “Rinaldini” di Ancona e “University of Texas” di San Antonio per i semestri italiani presso l’Università di Urbino.
Tiene costantemente Masterclass di vibrafono in prestigiosi college americani come “Oberlin Conservatory” (Ohio), “University of Minneapolis” (Minnesota), “Eastman School of Music” (Rochester), “Columbus University” (Ohio), “Cleveland University” (Ohio).
Nell’aprile del 2014 pubblica il manuale di armonia e composizione “Quasi quasi scrivo una canzone …” edito da Rodavia Edizioni.

Ufficio Stampa – BlueArt Promotion
Rosario Moreno – Mobile: +39 335 52 57 840 – moreno@blueartpromotion.it
Paola Pastorelli – Mobile: +39 366 155 55 26 – paolo.pastorelli@blueartpromotion.it

Cosa dicono di lui e dei suoi lavori

“I had a great time recording this piece in Duo format with Marco, especially since he wrote this song dedicated to me! Marco Pacassoni is a talented musician who has a unique voice on his instrument and a fresh sound in his compositions. I believe he has a bright future in the Jazz world.”
Michel Camilo

“The most lyrical player I can think of, you give him melody and he paint the most beautiful colors.”
Anders Astrand

“Di chiara matrice contemporary jazz, “Grazie” è un disco stilisticamente e ritmicamente policromo, dal quale emerge la fisiologica necessità di voler trasmettere un candido messaggio artistico che possa scavare un solco emozionale, senza roboanti effetti speciali.”
Stefano Dentice – Roma in Jazz

“… un album dal respiro timbrico ampio, curato nelle scelte e nei dettagli, suonato da musicisti dall’elevata sensibilità sia formale sia espressiva.”
Roberto Paviglianiti – Strategie Oblique

“Il “Grazie”, dedicato al padre, va restituito al quartetto di Marco Pacassoni per questa lezione di eleganza per palati fini.”
Gilberto Ongaro – Music Map

“… un lavoro dal valore unico e raro. Una volta ascoltato ed assimilato quello che si può dire è un semplice ed importantissimo GRAZIE!”
Andrea Ranaletta – Parliamo di Jazz

“Le dieci tracce presenti nel disco hanno un rapporto stretto con le tradizioni e con le tante vicende espressive che costituiscono le storie del jazz, le sue leggende, i suoi punti di riferimento … Si intrecciano ritmi dai tempi dispari e linee melodiche dirette e leggibili, spazio per la libertà interpretativa e attenzione agli equilibri della scrittura.”
Fabio Ciminiera – Jazz Convention

“Un disco elegante, dalle mille sfaccettature, che pone l’accento sulle eccellenti composizioni di Pacassoni e sul suo tocco maturo e innovativo.”
Alceste Ayroldi  – Jazzitalia

“L’impressione è quella di un disco molto composto, ma non per questo “ingessato”, anzi. Un album maturo, raffinato e caldamente consigliato.”
Alfredo Romeo – Drumset Mag

“La cantabilità dei temi è al centro dell’estetica d’insieme del quartetto, che propone un’espressività e delle forme in equilibrio tra disimpegno e complessità, tra passaggi strutturati e situazioni lasciate a favore di slanci improvvisativi.”
Roberto Paviglianiti – Jazzit

“I found “Grazie” to be a very rewarding musical experience, so while you know upon listening that the music on Grazie is Jazz, you’ve never heard it played in this manner before.
What is apparent throughout the recording is the very high level of musicianship on display.”
Steven Cerra – JazzProfiles

I NOSTRI CD. TRA NOVITA’ INTERESSANTI E RIEDIZIONI DI LUSSO

Jon Balke, Siwan – “Nahnou Houm” – ECM 2572

Il pianista e tastierista norvegese si è oramai costruito una solida reputazione come artista capace di frequentare con eguale disinvoltura sia il jazz più moderno, sia la musica antica. Ed è proprio su quest’ultimo versante che si indirizza il suo progetto Siwan nato nel 2007 e sviluppatosi nel 2008. Nel 2009 il debutto per ECM, con l’album “Siwan” che vinse, tra l’altro, il “Jahrespreis der deutschen Schallplattenkritik”, il premio del migliore album dell’anno dai critici tedeschi. Ora Siwan si ripresenta con questo nuovo album caratterizzato dal cambio della vocalist: al posto di Amina Aloui dal Marocco troviamo Mona Boutchebak dall’Algeria. Ma il risultato non cambia di molto dal momento che le linee ispiratrici del progetto rimangono inalterate e cioè far coesistere musica araba, classica andalusa e barocco europeo anche se questa volta i testi, cantati in castigliano, vengono da fonti diverse: il poeta duecentesco Ibn al Zaqqaq, il mistico sufi trecentesco Attar Faridu Din, il drammaturgo madrileno Lope De Vega (1562-1635), San Juan de la Cruz (in realtà Juan de Yepes Alvarez, 1542-1591) carmelitano e doctor mysticus, patrono dei poeti di lingua spagnola. Dal punto di vista prettamente musicale Jon Balke ha voluto dare ancor maggior spessore alla formazione includendo il trombettista Jon Hassell mentre reduci dal primo album ritroviamo, oltre naturalmente a Balke, Helge Norbakken alle percussioni, Pedram Khaver Zamini tumbak e Bjarte Eike violinista e leader dell’ensemble barocco ‘Barokksolistene’. Date queste premesse si può facilmente comprendere come questa musica sia lontana dal jazz assumendo una sua specifica valenza nella straordinaria timbrica che Balke riesce a cavar fuori utilizzando tanti strumenti non del tutto consueti. Di qui la difficoltà di citare un brano in particolare anche si ci ha particolarmente colpiti l’esecuzione a cappella del canto tradizionale andaluso “Ma Kontou”. Insomma un album difficile da decifrare ma altrettanto difficile da trascurare.

Django Bates’ Beloved – “The Study Of Touch” – ECM 2534

Ecco un disco di jazz senza se e senza ma dal momento che vi si trovano tutti quegli elementi che comunemente identificano questo genere: innanzitutto straordinaria abilità tecnica di tutti i musicisti, ritmo, groove, improvvisazione, controllo della dinamica, interplay …e poi un repertorio che ha come stella polare la musica di Charlie Parker. Protagonista il trio del pianista inglese Django Bates completato dallo svedese Frans Petter Eldh al contrabbasso e dal danese Peter Bruun alla batteria. Dopo alcune diversificate esperienze discografiche che lo hanno visto, tra l’altro, nella triplice veste di musicista, arrangiatore e direttore della Frankfurt Radio Big Band in “Saluting Sgt. Pepper” (Edition Records, 2017), Django ritorna al suo vecchio trio costituito nel 2005, quando insegnava al Copenhagen’s Rhythmic Music Conservatory, formazione con cui ha già inciso due album, “Beloved Bird” (2010) e “Confirmation” (2012), entrambi per la Lost Marble ed entrambi tributi espliciti a Charlie Parker, mentre in questo terzo CD il grande sassofonista rimane lì, quasi sullo sfondo, ad indicare la strada che il trio deve percorrere. Ecco quindi undici brani, di cui nove composti da Bates, solo un brano di Parker – “Passport” – e un altro di Iain Ballamy. La musica è spigolosa, serrata, incalzante in cui l’intesa gioca un ruolo di primo piano: interessante notare al riguardo come delle undici tracce di “The Study Of Touch” ben cinque – “We Are Not Lost, We Are Simply Finding Our Way”; “Sadness All the Way Down”; “Senza Bitterness”; “Giorgiantics”; “Peonies as Promised” – fossero già presenti nel precedente album “Confirmation” ad indicare, con tutta probabilità, la volontà di Bates di tornare sui suoi passi per meglio profittare dell’intesa raggiunta con i suoi partners ed espandere così i confini musicali del trio.

Anouar Brahem – Blue Maqams – ECM 2580

Con questo album, pubblicato in occasione del suo sessantesimo compleanno, Anouar Brahem si esprime con stilemi ancora più vicini al jazz propriamente detto, in ciò agevolato dai superlativi compagni di viaggio: Django Bates al pianoforte (su cui vi abbiamo riferito proprio nella recensione precedente) Dave Holland al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria, come a dire una delle migliori sezioni ritmiche che il jazz possa vantare. In repertorio nove composizioni dello stesso Brahem (di cui due – “Bahia” e “Bom datano 1990 – mentre le altre sono state composte tra il 2011 e il 2017) a sugellare una prova tra le migliori che lo specialista di oud ci abbia finora regalato. Tutto l’album poggia sulla volontà, chiaramente espressa da Brahem, di far interagire il sound della combinazione pianoforte-oud con una vera e propria sezione ritmica jazz. Di qui la scelta di Dave Holland con il quale Anouar aveva inciso venti anni fa l’album “Thimar” in trio con John Surman, di Jack DeJohnette (con il quale viceversa Anouar mai aveva inciso) per la delicatezza e sottigliezza con cui si esprime su piatti e pelli mentre per il pianista la scelta è caduta non già sul partner di sempre (da più di trent’anni) François Couturier ma su Django Bates per la sua liricità e il tocco portentoso. Scelte giuste? A posteriori si può ben dire di sì. La musica scorre fluida a coniugare input provenienti dalle armonie del jazz europeo, dalla tradizione musicale araba, dalle splendide melopee brasiliane, dai ritmi africaneggianti in un costante e ricercato equilibrio fra tradizione e modernità, tra pagina scritta e improvvisazione. E quanto tale equilibrio sia perfetto lo dimostra il fatto che è davvero difficile, se non impossibile, stabilire quali siano le parti scritte e quali quelle improvvisate. Un’ultima notazione: i «Maqams» richiamati nel titolo dell’album sono un riferimento al sistema modale della musica tradizionale araba.

John Coltrane – “Giant Steps” – Green Corner

In termini strettamente musicali non ci sarebbe certo bisogno di presentare quest’album ché si tratta di uno dei capolavori inciso da John Coltrane nel maggio del 1959 alla testa di un quartetto comprendente i pianisti Tommy Flanagan e Wynton Kelly, il contrabbassista Paul Chambers e il batterista Jimmy Cobb. Dal punto di vista storico, fu il suo primo album per la Atlantic Records e il primo interamente costituito da proprie composizioni, nonché l’insieme di registrazioni che segna il definitivo passaggio di Coltrane dall’hard-bop al modale. Insomma una musica che sicuramente tutti gli appassionati di jazz conservano gelosamente nella loro discoteca per cui ci permettiamo di rivolgerci soprattutto a quanti si sono avvicinati al jazz da poco: se ancora non possedete questo album è l’occasione buona per averlo. Non ve ne pentirete dal momento che ascolterete alcune vere e proprie perle della discografia jazzistica di tutti i tempi quali, tanto per citare qualche titolo, la dolcissima “Naima” e il classico “Mr. P.C.”. Al di là della valenza artistica, l’album edito in un numero limitato di copie, presenta un interesse specifico per i collezionisti in quanto presenta i medesimi brani incisi in versione sia mono sia stereo. In effetti, negli ultimi anni ’50, presso le grandi case discografiche era abitudine abbastanza comune registrare ambedue le versioni di uno stesso titolo, differenziandoli con i numeri di riferimento. Ciò perché all’epoca lo stereo era una innovazione molto recente e quindi i relativi mezzi di riproduzione non erano molto diffusi; sappiamo bene come poi sono andate le cose: il mono è andato nel dimenticatoio. Senonché in questi ultimi anni molti esperti e gli stessi musicisti hanno rivalutato il suono mono come più fedele rispetto all’originale. Di qui la scelta di pubblicare le due versioni e sicuramente troverete il raffronto molto, molto interessante.

John De Leo, Fabrizio Puglisi – “Sento doppio”

Album molto interessante questo “Sento doppio” che vede come protagonisti il vocalist romagnolo di Lugo, John De Leo, (al secolo Massimo De Leonardis), una delle figure più rappresentative della nuova scena musicale italiana, e il pianista catanese Fabrizio Puglisi cui si aggiunge in due brani il ben noto trombonista Gianluca Petrella. L’album è disponibile sia in cd che in vinile e nelle due versioni è diversificato da brani alternativi e inedite bonus track. Quali i motivi di interesse cui si faceva riferimento in apertura? Innanzitutto la bravura dei due protagonisti: De Leo è oramai artista maturo, ben consapevole delle proprie possibilità espressive per cui riesce a modulare la sua voce, ad utilizzarla in maniera ora aggressiva ora più dolce ma sempre conferendole mille colori, mille sfumature che la rendono strumento dalle infinite possibilità. E questo tipo di approccio alla musica si sposa perfettamente con il fraseggio di Puglisi, tutt’altro che scontato, grazie anche al modo particolare in cui riesce a preparare il pianoforte. In secondo luogo la scelta del repertorio: 8 brani di cui sei originals cui si sommano una medley di due pezzi composti da Bernstein e Coltrane e la celebre “Crepuscule with Nellie” di Thelonious Monk. Ebbene, sia che affrontino le proprie partiture sia che si misurino con brani già noti, la cifra stilistica dei due non muta: contrariamente a quanto avviene solitamente, qui non si ascolta una voce accompagnata da uno strumento, ma un ensemble nell’accezione più completa del termine. Ovvero due strumenti che si sostengono a vicenda, che si lasciano guidare anche dalle proprie capacità improvvisative e che riescono a produrre un sound unico, originale, a tratti di grande fascino. Quasi inutile sottolineare come gli interventi di Petrella siano sempre di assoluto livello.

Martin Denny – Hypnotique – Jackpot 48778

Afro-Desia – Jackpot 48779

Questi due album sono consigliati soprattutto ai più giovani non tanto come valenza musicale quanto come valore documentaristico sì da avere contezza di quanta musica, diversa per stili e ispirazione, è stata composta nel microcosmo del jazz o comunque di universi a questo linguaggio assimilabili. Siamo alla fine degli anni’50, per la precisione nel 1957, e sulle scene compare un album significativamente intitolato “Exotica”. Responsabile Martin Denny un pianista e compositore newyorkese che intraprende la carriera musicale negli anni cinquanta durante la sua permanenza nelle Hawaii. Proprio ispirato dalla musica di queste isole, Martin inventa una ricetta per palati non troppo esigenti: mescolare ritmi latini, lounge jazz, musica hawaiana, canti di uccelli e strumenti poco conosciuti come il koto (cordofono di origine cinese), ensemble di percussioni di origine indonesiana e le campane dei templi birmani a disegnare atmosfere per l’appunto esotiche. L’iniziativa ottiene un buon successo: nel ’57 esce “Exotica” seguito a stretto giro di posta da altri tre LP, “Exotica 2” sempre del ’57, “Primitiva” e “Forbidden Island” ambedue del 1958. I CD che presentiamo oggi contengono, invece, produzioni del 1959: il primo due album “Hypnotique” e “The Enchanted Sea”, il secondo altri due lp “Afro-Desia” e “Quiet Village”; ambedue le riedizioni presentano come bonus tracks brani tratti dagli altri LP registrati tra il 1957 e il 1959. Fra le trenta tracce non poteva mancare “Quiet Village” di Les Baxter che raggiunse le vette delle classifiche di Billboard e che è stato l’unico brano di grande successo inciso da Denny. L’artista muore il 2 marzo del 2005 all’età di novantatré anni, dopo aver ottenuto nel 1999 il Lifetime Achievement Award da parte della Hawaii Musicians Association per il contributo dato alla diffusione e conoscenza della musica hawaiana

Tom Hewson – “Essence” – CamJazz 7912-2

Inglese, vincitore del Nottingham International Jazz Piano Competition 2014, Tom Hewson è al suo secondo album per la CamJazz ma con una differenza sostanziale. Nel primo, “Treehouse” del 2013, il pianista si esibiva in trio con Lewis Wright al vibrafono e Calum Gourlay al basso, mentre in questo “Essence”, registrato a Vienna, si avventura nella delicata impresa del piano-solo. Ora ben si conoscono le difficoltà insite nell’affrontare una prova del genere e occorre dire che Tom ne esce bene. Certo, niente di veramente nuovo sotto il sole, ma la conferma di un musicista maturo, che riesce a farsi valere non solo come strumentista ma anche come compositore. Non a caso delle undici tracce del disco ben otte sono sue, cui si aggiungono tre brani rispettivamente di Kenny Wheeler, Charles Mingus e John Taylor. Il pianismo di Hewson è interessante soprattutto dal lato armonico in quanto riesce a creare atmosfere sempre diversificate, fluide cui si aggiungono un controllo assoluto sulle dinamiche e sul ritmo, una propensione melodica sempre presente, percepibile in ogni momento, una continua ricerca timbrica e un tocco magistrale che transita facilmente dal delicato al fortemente percussivo. Il tutto supportato da una forte personalità che si estrinseca compiutamente anche quando il pianista inglese interpreta i tre brani altrui cui prima si faceva riferimento. Si ascolti al riguardo il celeberrimo “Goodbye Pork Pie Hat” di Charles Mingus porto con grande partecipazione mentre, per quanto concerne i brani originali, particolarmente azzeccata la title-track di sicura fascinazione.

Alberto La Neve, Fabiana Dota – “Lidenbrock” – Manitu Records

E’ stato pubblicato il 5 dicembre scorso questo “Lidenbrock – Concert for sax and voice”, il nuovo progetto discografico del sassofonista/compositore cosentino Alberto La Neve e di Fabiana Dota, emergente vocalist napoletana su cui si può certamente puntare. Si tratta di un concept album ispirato dalla figura di Otto Lidenbrock, personaggio che nel noto romanzo fantastico di Jules Verne “Viaggio al centro della Terra” riveste il ruolo del personaggio chiave. Di qui una sorta di viaggio sonoro, una suite divisa in quattro parti, tutte composte da Alberto La Neve, che ripercorrono le tappe fondamentali del romanzo: la prima “Dèpart” ovviamente riferita alla partenza da Amburgo; la seconda “Island” racconta l’arrivo dei viandanti nel punto indicato da Verne come ingresso al centro del mondo; la terza, “Sneffels”, è riferita al vulcano attraverso le cui viscere si arriva al mare sotterraneo; “Retour” infine racconta del faticoso ritorno ad Amburgo. Edito dalla giovane etichetta Manitù Records, l’album è difficile da classificare in quanto i due musicisti dialogano con grande disinvoltura disegnando strutture al cui interno trovano posto, sapientemente mescolate, suggestioni derivanti da loop machine, multi effetti e momenti improvvisativi sempre sorretti da un intento descrittivo che il più delle volte raggiunge l’obiettivo. Certo, come più volte sottolineato, affidare alla musica un intento descrittivo è impresa quanto mai rischiosa ed in effetti anche questa volta ci sono dei momenti di stanca, ma nel complesso l’album ha una sua valenza che ne giustifica l’ascolto.

Massimo Manzi – “Excursion” – Notami

Massimo Manzi è tra i più apprezzati batteristi italiani, eppure era da ben dieci anni che non firmava un album come leader. Per questa sua nuova impresa, Massimo ha chiamato Domingo Muzietti alla chitarra e Massimo Giovannini al basso con l’aggiunta di Echae Kang, un’eccellente violinista e vocalist coreana dotata di una solida preparazione di base conseguita nel campo della musica classica. L’album, va detto subito, è quanto mai godibile dal primo all’ultimo minuto grazie al perfetto affiatamento che il trio, guidato da Manzi, è riuscito ad ottenere con la Kang, Così il violino della Echae si sposa magnificamente con il sound del trio creando un’atmosfera davvero intensa, velata spesso da una nota di suggestiva malinconia, non rinunciando ad un gusto retro particolarmente evidente nel brano “Domingo’s Waltz” in cui il richiamo ai gruppi guidati da Stephane Grappelli e Django Reinhardt è evidente. Ma, a parte questa particolarità, il quartetto si muove attraverso un repertorio fatto in massima parte da brani originali scritti soprattutto dal chitarrista Domingo Muzietti con l’aggiunta di alcuni standards affrontati sempre con consapevolezza ed originalità. Della Kang abbiamo già detto; gli altri componenti il gruppo sono tutti jazzisti di vaglia. In particolare Massimo Giovannini al basso si fa notare per il continuo sostegno fornito all’ensemble mentre Domingo Muzietti, come già accennato, ha modo di evidenziare non solo una squisita capacità strumentale ma anche una bella vena compositiva caratterizzata da una costante ricerca melodica; da sottolineare anche la grande intesa con Massimo Manzi cementata da tanti anni di fruttuosa collaborazione. Infine Manzi non è certo una scoperta: il suo drumming preciso, il suo gusto, la sua esperienza, la capacità di ascoltare i compagni di viaggio sono tutti lì, basta ascoltare con attenzione.

Mattias Nilsson – “Dreams of Belonging” – Mattias Nilsson 01

Ecco uno di quei pochi dischi che, appena finito, hai voglia di reinserire nel lettore per scovarne ogni minimo dettaglio, ogni recondita nuance, ogni piega nascosta nell’affascinante pianismo. Mattias Nilsson, svedese classe 1980, si inserisce a buon diritto nel filone dei grandi pianisti ‘nordici’ ossia di quegli straordinari musicisti che sono riusciti a produrre una musica originale caratterizzata dall’incontro fra la tradizione jazzistica e l’humus particolare del Nord Europa, quell’humus fatto di spazi immensi, grandi silenzi e quindi una dolce soffusa malinconia… il tutto condito da una tecnica superlativa data l’importanza che quei Paesi attribuiscono all’educazione musicale. Non a caso Mattias ha ricevuto nel 2013 il prestigioso premio “Swedish Harry Arnold Scholarship”. Questo “Dreams of Belonging” rappresenta il suo debutto discografico come leader e presentarsi, discograficamente parlando, con un ‘piano-solo’ è impresa quanto mai coraggiosa viste le insidie sempre presenti in performances di questo tipo. Ma, evidentemente, Nilsson si conosce assai bene per capire di essere pronto e i fatti gli hanno dato ragione. Come si accennava in apertura, l’album è delizioso, godibile dal primo all’ultimo istante, con le dita di Mattias che volano sulla tastiera a produrre una musica leggera (ma nell’accezione positiva del termine), ossia non appesantita da inutili orpelli, da vani esercizi di retorica stilistica. Il pianista svedese si appalesa così com’è, sensibile, preparato, non immune dal fascino che proviene sia dalla sua terra sia dal jazz. Così in repertorio figurano otto pezzi tratti dalla tradizione svedese, tre composizioni originali di Mattias e una cover di John Hartford “Gentle on My Mind”; in quest’ambito particolarmente suggestiva la title-track.

Northbound – “Northbound” – Cam Jazz 7917-2

Northbound è l’insegna del trio composto da Tuomo Uusitalo al piano, Olavi Louhivuori alla batteria (ambedue finnici) e dall’americano Myles Sloniker al basso, cui nell’occasione si aggiunge l’anglo-canadese Seamus Blake al sax tenore. Ecco, quindi, nuovo di zecca un quartetto che ha molte frecce al suo arco. Innanzitutto la bravura dei singoli: si tratta di quattro musicisti giovani ma che hanno ottenuto significativi riconoscimenti a livello internazionale. In secondo luogo – ed è forse quel che più conta – le modalità espressive. Il quartetto si esprime, infatti, su livelli che potremmo definire introspettivi con armonie spesso dissonanti, linee melodiche tutt’altro che facili od orecchiabili e ritmi inusuali. Di qui una musica spesso sghemba, difficile da prevedere, ma sempre ben equilibrata, con un costante controllo delle dinamiche, frutto di un continuo scambio tra i musicisti che si affidano all’estro del momento, all’empatia che si manifesta in sala di incisione, per assumere alternativamente il controllo delle operazioni. Non c’è quindi alcun leader ma quattro jazzisti che si avventurano su terreni inesplorati in cui il viaggio è di per sé più importante della meta da raggiungere (ammesso che la stessa sia stata programmata). L’assenza di un leader non ci esime, tuttavia, dal sottolineare la costante ricerca timbrica e coloristica di Olavi Louhivuori, batterista-percussionista tra i migliori della nuova scena europea, mentre Seamus Blake dimostra ancora una volta perché su di lui si appunti l’attenzione di importanti etichette. Tra i brani, tutti frutto dei componenti il trio, una menzione particolare la meritano “Gomez Palacio” per il gustoso assolo di Myles Sloniker al basso e il ¾ di “Pablo’s Insomnia”.

Gino Paoli, Danilo Rea – “Tre” – Parco della Musica Records

Amate la canzone francese, eseguita in forma quasi minimale, con arrangiamenti che profumano di jazz? Bene, allora questo è un album imperdibile. Si tratta del terzo CD inciso dal duo Danilo Rea pianoforte e Gino Paoli voce, che fa seguito a “Due come noi che…” e “Napoli con amore” e a, nostro avviso, si tratta dell’album migliore della trilogia. I due hanno scelto un repertorio straordinario incidendo dodici brani tutti di spessore e dovuti ad alcuni tra i migliori compositori francesi del genere quali Charles Trenét, Jacques Breil, Gilbert Becaud, Joseph Kosma, Jack Prévert, Leo Ferrè cui si aggiungono “Non andare via” e “Col tempo”, tradotti in italiano dello stesso Gino Paoli. L’album ti prende sin dalle primissime note e disegna atmosfere di rara suggestione, velate da una diffusa malinconia che la voce di Paoli e il raffinato pianismo di Rea rendono al meglio. Intendiamoci: qui di jazz ce n’è poco, ma poco importa dal momento che la musica è ottima indipendentemente dal suo tasso di ‘jazzità’. Il fatto è che i due protagonisti non devono certo dimostrare alcunché. Gino Paoli è uno dei più grandi cantautori italiani ed è stato tra i primi ad introdurre nel nostro vocabolario musicale la canzone francese, mettendo così la sua arte al servizio di altri. Danilo Rea è uno dei migliori pianisti che l’intero Vecchio Continente possa vantare e che ha trovato la sua peculiare cifra stilistica proprio nel saper padroneggiare, al meglio, il mix tra jazz e altre musiche, soprattutto canzoni e arie liriche. Di qui la grande sicurezza con cui i due hanno affrontato – e superato – questa prova pur impegnativa che, almeno per il momento, dovrebbe concludere questa prestigiosa e fruttuosa collaborazione.

Salvatore Pennisi – “Jexx Machina”

Dopo“Braintrain” del 2012, segnalato in questa stessa rubrica, Salvatore Pennisi si ripresenta con questo album davvero particolare sia negli intenti sia nei risultati. Per capire appieno l’album bisogna innanzitutto evidenziare come Pennisi, oltre che musicista a tutto tondo, è ingegnere elettronico e professore ordinario all’università di Catania dove insegna microelettronica. Di qui il suo interesse per le nuove tecnologie cui si è rivolto per la realizzazione di questo CD. In effetti, come spiega lo stesso Pennisi, se si esclude il valido contributo di Giuseppe Asero al sax registrato in studio, tutto il resto della musica è stato realizzato dallo stesso Pennisi all’interno di un computer. Insomma una sorta di sfida tendente a dimostrare come sia possibile generare “jazz dalla macchina” (da cui il titolo), ricreando mediante la tecnologia suoni acustici per farli convivere con suoni puramente digitali e far confluire il tutto in atmosfere di musica “viva”. Obiettivo raggiunto? Se si ascolta il disco senza le premesse sopra dette, non si ha la sensazione di una musica scaturita da un computer. Quindi sotto questo aspetto Pennisi ha perfettamente raggiunto lo scopo. Ciò detto si tratta di musica qualitativamente rilevante? A parte qualche momento di stanca, inevitabile in un’operazione siffatta, l’album si ascolta con piacere evidenziando alcune punte di eccellenza come in “Sparks” e la title track sorretti da una trascinante carica ritmica o nel suggestivo “A Tangible Thought”. Da sottolineare, infine, come Pennisi non dimentichi il contesto in cui si trova ad operare; di qui l’inserimento di una frase pronunciata da Paolo Borsellino nel giugno del 1992, in cui si salutava con soddisfazione la marcia indietro del Consiglio Superiore della Magistratura che aveva deciso di rimettere in piedi il pool antimafia.

Pollock Project – “Speak Slowly Please!” – Behuman Records

Questo è il quarto album del Pollock Project che da trio è diventato quartetto; così accanto al leader, il pianista, percussionista e compositore Marco Testoni, ritroviamo Elisabetta Antonini (voce, live electronics) e Simone Salza (sassofoni e clarinetto) cui si aggiunge il chitarrista svedese Mats Hedberg. Special guests: Primiano Di Biase al piano, Giancarlo Russo e Guido Benigni al basso. In programma sette originali di Testoni (uno con il testo della cantautrice irlandese Kay McCarthy) e due omaggi a Miles Davis (“So What”) e Frank Zappa (“Watermelon In Easter Hay”). Il risultato è ancora una volta notevole: innanzitutto è rimasto ben strutturato l’equilibrio del gruppo che continua a muoversi con un sapiente e misurato uso dell’elettronica cui si contrappone il sound della voce e degli strumenti acustici, puzzle in cui si inserisce senza problema alcuno il chitarrista svedese Hedberg. All’inizio l’album richiama il sound dei Weater Report poi, nel secondo brano, ecco il richiamo ai Gotan Project … ma il clima è rotto da un intervento di Salza dopo di che, come altre volte, il gruppo si avvia ad assumere quella sua precisa identità che avevamo riscontrato nei precedenti album. Così la musica si mantiene eterea a soddisfare sia l’amante di sonorità più moderne, più caratterizzate dall’elettronica, sia l’appassionato di jazz grazie soprattutto alle sortite solistiche di Simone Salza. E queste caratteristiche il gruppo le conserva anche quando esegue brani assai impegnativi come il davisiano “So What” preso a tempo veloce e impreziosito da una superba performance di Elisabetta Antonini. Comunque il brano che ci ha maggiormente convinti è la title-track una ballad che la dice lunga sulla capacità compositive di Testoni e sulle possibilità interpretative del gruppo.

Maciek Pysz, Daniele Di Bonaventura – “Coming Home” – Caligola 2232

Ecco un album sorprendente! Non si può, infatti, dire che un duo costituito da chitarra (acustica ed elettrica) e bandoneon, nelle mani rispettivamente di Maciek Pysz polacco di stanza a Londra e Daniele Di Bonaventura marchigiano di Fermo, si ascolti ogni giorno. Così come non si può certo dire che la musica prodotta dai due sia banale. La verità è che ci troviamo dinnanzi ad un CD di estrema raffinatezza in cui due specialisti dei rispettivi strumenti si incontrano per fondere le loro voci e dar vita a un qualcosa di sorprendente, per l’appunto. Qui c’è tutta la poesia che la musica possa comprendere, c’è l’empatia che si sviluppa tra due artisti pure di estrazione così diversa ma uniti dal comune amore per i paesaggi, per le atmosfere distese, per le melodie tratte dal folklore, per il tango. Di qui il titolo dell’album, “Coming Home”, un “Ritorno a casa” che viene vissuto dai due musicisti con motivazioni probabilmente diverse ma con lo stesso atteggiamento, lo stesso amore per ciò che si è momentaneamente lasciato ma che si ritrova con dolce piacere. Di qui un repertorio di undici brani tutti originali composti dai due con alcune punte di eccellenza raggiunte laddove i due suonano tango. Senza sapere che gli autori dei brani sono due europei, si potrebbe benissimo pensare che questi tanghi siano stati scritti da argentini tanto forte è la potenza espressiva della musica che sembra nata proprio nei sobborghi di Buenos Aires. Insomma non è un caso che Peter Jones del “London Jazz” l’abbia definito il miglior disco dell’anno.

Thomas Strønen – “Lucus”– ECM 2576

E’ un clima decisamente cameristico quello che si avverte ascoltando le prime note di “La Bella” il brano d’apertura di questo eccellente lavoro. Protagonisti il batterista norvegese Thomas Strønen con Ayumi Tanaka al pianoforte, Hakon Aase al violino, Lucy Railton al violoncello e Ole Morten Vågan al contrabbasso. Da jazzista aperto, intelligente e tutt’altro che conformistica, Thomas abbandona le atmosfere che solitamente caratterizzano il jazz del Nord Europa per addentrarsi su terreni diversi, molto più vicini alla musica colta contemporanea senza tuttavia dimenticare del tutto il background jazzistico. E a scelta dei compagni di viaggio è del tutto in linea con questo obiettivo: Ayumi Tanaka è una giovane pianista giapponese che ha studiato a Oslo, Hakon Aase è un raffinato violinista dalle brillanti capacità improvvisative, Lucy Railton è consideratauna delle migliori violoncelliste del momento mentre Ole Morten Vågan è contrabbassista di punta della nuova scena norvegese. Forte di tali individualità, Strønen, contrariamente ai precedenti album, si è abbandonato ad una scrittura più aperta, cioè ad una scrittura che contemporaneamente consente al leader di esplorare vari territori e lascia ai solisti maggiore libertà a seconda di come sentono la musica al momento in cui si esprimono. E il risultato è sorprendente: il gruppo manifesta un’impeccabile coesione in cui scrittura e improvvisazione si equilibrano in modo da tenere sempre ben viva l’attenzione dell’ascoltatore. I brani sono tutti scaturiti dall’inventiva del leader e presentano, quindi, una forte omogeneità anche se particolarmente interessante ci è parso il pezzo che dà il titolo all’album.

Joona Toivanen Trio – XX – CamJazz 7920-2

Ancora un pregevole album frutto della collaborazione tra l’etichetta italiana CamJazz e i musicisti finlandesi: “XX” è il titolo dell’album inciso a Cavalicco nel maggio del 2017 dal trio del pianista Joona Toivanen completato da Tapani Toivanen al contrabbasso e Olavi Louhivuori alla batteria. I lettori di questa rubrica ricorderanno, probabilmente di come ci siamo già occupati di questo eccellente pianista recensendo sia “At My Side” e “Novembre” rispettivamente del 2008 e del 2014 sempre con la stessa formazione, sia il piano solo “Lore Room” del 2015. In ognuna di queste occasioni avevamo espresso un giudizio assai positivo su Joona sorprendente in ambedue i contesti: trio e piano solo. Quindi la bontà di questo nuovo “XX” per lo scrivente non è certo una novità; anzi! Il trio conferma tutto ciò che di buono aveva evidenziato nei precedenti lavori: la band ha raggiunto un livello di sintesi notevole riuscendo a far convivere le peculiarità del jazz nordico (umori, sapori, una certa malinconia di fondo) con gli stilemi della tradizione jazzistica propriamente detta. Ma probabilmente il merito maggiore del trio consiste nell’esprimersi con grande semplicità sì da far apparire la loro musica estremamente fruibile senza essere banale.
Il trio si muove con grande leggerezza evidenziando una perfetta empatia che consente loro da un canto di preservare quella purezza del suono che da sempre costituisce una delle caratteristiche peculiari del trio, dall’altro di proseguire la ricerca sulla linea melodica e sulla cantabilità con un perfetto equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione. Si ascolti al riguardo sia “Robots” dalle suadenti linee melodiche sia “Mt. Juliet” un vero e proprio gioiellino che chiude l’album, impreziosito da un fitto dialogo pianoforte-contrabbasso.

Tiziano Tononi-“Trouble No More… All Men Are Brothers”- Long Song Records

C’era molta attesa attorno a questa nuova produzione di Fabrizio Perissinotto affidata ai Southbound guidati con perizia dal batterista, compositore, arrangiatore Tiziano Tononi. “Trouble No More… All Men Are Brothers” è una sorta di concept album essendo interamente dedicato alla musica degli Allman Brothers, gruppo di culto che soprattutto negli States rappresenta una vera istituzione. In effetti sia Tononi sia Perissinotto da sempre hanno estrinsecato la loro passione verso la musica di questo gruppo. Così nel 2015 le comuni idee cominciano a sedimentarsi in un progetto ben definito; durante la permanenza a New York per la registrazione di “The Brooklyn Express – No Time Left” dello stesso Tononi, i due incontrano il bassista newyorkese Joe Fondam uno degli elementi di spicco della scena newyorkese avendo tra l’altro collaborato con Anthony Braxton; Fonda è d’accordo e così passo dopo passo Tononi costruisce la formazione chiamando accanto a sé alcuni tra i migliori musicisti italiani quali, tanto per fare qualche nome, Piero Bittolo Bon al sax alto, clarinetto e flauto, Emanuele Parrini violino e viola, l’eccellente e poliedrica Marata Raviglia alla voce e come special guest il compagno di mille battaglie, Daniele Cavallanti, che ci regala un centrato assolo in “Soul Serenade”. Come al solito, quando ci si avventura in un’impresa del genere, l’interrogativo è sempre lo stesso: come omaggiare la musica di un gruppo con una sua precisa identità stilistica? La strada scelta da Tononi è coraggiosa e non a caso ha pagato: il batterista ha completamente ristrutturato la strumentazione sostituendo le due chitarre originariamente nelle mani di Duane Allman e Dickey Betts con due sassofoni mentre al posto della chitarra slide ecco il violino di Emanuele Parrini con la fisarmonica di Carmelo Massimo Torre al posto dell’organo. Insomma un completo ripensamento del modo di eseguire quella musica pur restando fedele alla stessa con un organico che marcia a tutto gas evidenziando una splendida intesa ed una forte capacità improvvisativa di tutti i musicisti chiamati all’assolo. Al riguardo eccezionale come sempre Joe Fonda strepitoso sia in fase di accompagnamento sia in versione solistica.

David Virelles – “Gnosis” – ECM 2526

Altro album, targato ECM, di non immediata lettura ma di indubbio fascino non solo per la qualità musicale ma anche per il progetto che la sottende. Protagonista David Virelles a be ragione considerato uno dei più interessanti pianisti cubani comparsi sulla scena negli ultimi anni. Contrariamente a molti suoi colleghi, Virelles si è dedicato allo studio della musica tradizionale afro-cubana riattualizzandola alla luce della sua ‘moderna’ sensibilità e quindi di un linguaggio improvvisativo contemporaneo. Di qui una serie di album quali “Continuum” (Pi Recordings, 2012) in collaborazione con il vocalist e percussionista Roman Diaz, “Mbókò” (ECM, 2013) e “Antenna” (ECM, 2016). Il titolo scelto per quest’ultimo album, inciso a New York nel maggio 2016, ma concepito nel 2014 ed eseguito in prima mondiale nel novembre 2015 al Music Gallery di Toronto, è “Gnosis” proprio ad evidenziare il riferimento ad una conoscenza collettiva antica, di natura esoterica. L’organico è piuttosto ampio con il leader coadiuvato innanzitutto dal compagno di altre avventure, il vocalist e percussionista Romàn Diaz, e poi un contrabbasso, due fiati, un ensemble di percussioni, una viola e due violoncelli e due voci aggiunte. Di qui una serie di brani che richiamano atmosfere assai diversificate: da “Erume Kondò” di chiara impronta tradizionale al successivo “Benkomo” in cui, specie all’inizio, la musica si fa più rarefatta, il colloquio tra piano e percussioni minimale, il clima molto più vicino alla musica contemporanea anche se inframmezzato da interventi vocali che richiamano un retaggio ancestrale afro-cubano. E questo alternarsi si avverte in tutto il disco: da un lato le percussioni e gli interventi vocali guidati da Ramon Diaz di chiara derivazione africana, dall’altro un contesto classico-contemporaneo disegnato da Virelles che si afferma non solo come pianista ma anche come compositore firmando tutti i brani dell’album. Infine, elemento da non trascurare, la pagina scritta riveste in “Gnosis” un’importanza determinante anche se, ovviamente, non mancano momenti in cui l’improvvisazione la fa da padrona.

Michael Wollny Trio – “Wartburg” – Act 9862-2

La genesi di questo album è ben illustrata da Michael Wollny nelle note che accompagnano l’album per cui preferiamo soffermarci su altri elementi. Innanzitutto la personalità del leader. Punta di diamante della Act, il pianista di Francoforte, passo dopo passo, si è imposto alla generale attenzione di pubblico e critica, grazie ad una tecnica sopraffina e ad una squisita sensibilità che lo porta ad improvvisare con grande naturalezza. Ed è proprio il riferimento all’improvvisazione la cifra che caratterizza lo stile del tedesco. La sua visione della musica è ampia, paragonabile – afferma lo stesso Wollny – al modo in cui parliamo: prima di pronunciare le parole noi non sappiamo esattamente cosa diremo, si tratta, cioè, di una continua improvvisazione. Ecco, lo steso discorso può farsi per la musica nel senso che quando si comincia a suonare può esserci un qualche punto di riferimento circa la melodia, il ritmo e l’armonia ma poi, il risultato finale, dipende da tutta una serie di fattori difficilmente ipotizzabili. E questa alea, questo piacere di rischiare si avvertono tutti ascoltando l’album che alla perfetta empatia già consolidata tra il pianista e i suoi abituali partners (Christian Weber al contrabbasso e Eric Schaefer alla batteria) aggiunge la piena, convinta adesione al progetto di Emile Parisien al sax soprano in due brani. Ma, ovviamente, è il leader a menare la danza: il suo è un pianismo privo di risvolti virtuosistici ma di sicuro ben sorretto da anni di studio cosicché, ad esempio, perfetta appare la padronanza della dinamica e fluido l’incedere nonostante, come si accennava, il linguaggio non sia dei più semplici. Un’ultima ma non secondaria considerazione: Wollny conferma le sue capacità compositive dal momento che molti dei brani sono stati da lui scritti.

Il piano trio di Paolo Di Sabatino in concerto allo Zingarò Jazz Club di Faenza

Mercoledì 25 ottobre 2017, il palcoscenico dello Zingarò Jazz Club ospiterà il Paolo Di Sabatino Trio con Paolo Di Sabatino al pianoforte, Daniele Mencarelli al basso elettrico e Glauco Di Sabatino alla batteria. Prima del concerto, Paolo Di Sabatino presenterà il suo recente libro “Tienimi dentro te”. Il concerto è ad ingresso libero con inizio alle 22.

Paolo Di Sabatino è da sempre legato al piano trio. La sua prima incisione in questo formato risale al 1996, con il disco Foto Rubate realizzato con Massimo Moriconi e Massimo Manzi. A pèartrie da quella esperienza si è trovato a suonare e a registrare in trio a suo nome con diversi musicisti, portando avanti in contemporanea un “doppio binario”: da una parte, un progetto internazionale dove hanno trovato posto musicisit del calibro di John Patitucci, Horacio “El Negro” Hernandez, Gary Willis, Peter Erskine, Janek Gwizdala, JoJo Mayer, Christian Galvez e Dennis Chambers e, dall’altra, un trio italiano composto, da alcuni anni, dal fratello Glauco Di Sabatino alla batteria e con bassisti quali Daniele Mencarelli e Marco Siniscalco.

Il trio italiano ha registrato e prodotto lavori anche in ambito pop: è stato al fianco di Antonella Ruggiero, Grazia Di Michele e Fabio Concato. Con Glauco Di Sabatino e Marco Siniscalco, inoltre, ha inciso diversi cd per l’etichetta giapponese Atelier Sawano, uno dei quali – Luna del sud – è stato tra i dischi scelti di Billboard Japan. (altro…)