I nostri CD

Carla Bley – “Life Goes On”- ECM 2669
Carla Bley con il fido Steve Swallow al basso e Andy Sheppard ai sax tenore e soprano sono i protagonisti di questo nuovo album registrato nel maggio del 2019 a Lugano. In repertorio tre suite intitolate rispettivamente “Life Goes On”, “Beautiful Telephones” e “Copycat” tutte composte dalla stessa Bley. Chi ha seguito negli anni la Bley, sa bene come ad onta dei suoi ottantaquattro anni, l’artista di Oakland conservi intatta la sua straordinaria vena creativa e una stupefacente capacità di arrangiare e presentare in forme sempre originali le sue composizioni. Altro dato che si può ricavare dall’ascolto di questo suo ultimo lavoro, è la consapevolezza raggiunta dall’artista di poter finalmente trarre le fila di un discorso portato avanti oramai da molti anni. In effetti la musica che si ascolta soprattutto nella prima suite rappresenta un po’ la cifra stilistica della Bley in cui il blues viene coniugato con una certa malinconia di fondo che ben si affianca a quella carica iconoclasta e ironica che nel passato aveva caratterizzato molte composizioni della pianista. Ed ecco infatti la seconda suite che nel polemico titolo “Beautiful Telephones” richiama quella assurda espressione del presidente Trump che installandosi nello studio ovale della Casa Bianca, fu colpito soprattutto dai telefoni che definì “i più bei telefoni che abbia mai visto in vita mia”. Comunque, al di là di tutto, la musica di Carla Bley convince ancora una volta per la straordinaria carica di eleganza, modernità, coerenza in essa contenuta nonché per aver creato un jazz cameristico – se mi consentite il termine – che dovrebbe mettere d’accordo gli amanti del jazz e quelli della musica “colta” dati gli espliciti riferimenti a quel coté artistico che la Bley spesso mette in campo. Ovviamente la bella riuscita dell’album è dovuta anche alla personalità artistica dei due compagni di viaggio. Steve collabora con la Bley oramai da venticinque anni e la loro intesa è parte integrante di ogni loro album dato il peso specifico che il bassista riesca ogni volta ad assumere (lo si ascolti soprattutto nel primo movimento della “Beautiful Telephones”); dal canto suo Andy Sheppard è in grado di inserirsi autorevolmente e coerentemente nel fitto dialogo pianoforte-basso.

Paolo Damiani – “Silenzi luterani” – Alfa Music 214
Due i riferimenti colti esplicitati dallo stesso Damiani nelle note che accompagnano il CD: da un lato la Riforma di Martin Lutero che nel 1517 si staccò dalla Santa Sede romana introducendo il canto in chiesa di tutti i fedeli e componendo egli stesso musica, dall’altro l’evocazione nel titolo del CD… e non solo, delle “Lettere Luterane” di Pier Paolo Pasolini, articoli scritti nel 1975 e pubblicati sul Corriere della Sera. Ambedue, Lutero e Pasolini, si scagliavano contro i mali della società ovviamente delle rispettive epoche: ebbene, Damiani con la sua musica intende protestare contro uno stato di cose per cui l’indignazione non basta più. Di qui una musica a tratti sghemba, difficile, ma di sicuro fascino, impreziosita dal fatto che viene liberamente interpolata con frammenti melodici scritti da Lutero e testi di Pasolini. Ancora una volta Damiani evidenzia la sua ottima conoscenza del mondo musicale, inteso nell’accezione più ampia del termine, riuscendo così a far convivere nella stessa espressione artistica echi di mondi assai lontani con suggestioni derivate dal presente, in un gioco di incastri, di rimandi che disegnano un universo davvero senza confini. Insomma un’operazione tutt’altro che banale per la cui riuscita era necessaria una perfetta intesa degli esecutori. Ecco quindi la formazione posta in campo da Damiani, formata dai migliori ex allievi del dipartimento jazz del conservatorio di Santa Cecilia, dipartimento fondato e guidato dallo stesso Damiani fino al 2018: quattro voci capitanate da Daniela Troilo (in questa sede anche arrangiatrice), Erica Scheri al violino, Lewis Saccocci al pianoforte, Francesco Merenda alla batteria cui si aggiunge, in veste di ospite, Daniele Tittarelli ai sassofoni. In repertorio sette brani, tutti composti dal leader, registrati in occasione di due concerti tenuti presso la Sala Accademia del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e la Sala Concerti della casa del Jazz di Roma, nel 2017.

Vittorio De Angelis – “Believe Not Belong” – Creusarte Records
Una delle strade maestre su cui oramai si è indirizzato il jazz è quella di far confluire in un unico linguaggio input derivanti da varie fonti, soprattutto jazz mainstream, soul e funk. Certo, se la strada è la stessa, il modo di percorrerla è diverso ed è proprio su questo parametro che si può valutare oggi la valenza di una esecuzione. Da questo punto di vista, l’album in oggetto si lascia ascoltare non tanto per l’originalità delle composizioni (7 brani tutti composti dal leader sassofonista, flautista e compositore napoletano) quanto per il particolare organico. De Angelis ha infatti scelto di puntare sul “double trio” vale a dire due batterie, due tastiere, due fiati; manca il bassista in quattro dei sette brani sostituito dai due tastieristi (Domenico Sanna al basso sinth e Sebi Burgio al piano basso Rhodes). Insomma due trio indipendenti che suonano assieme e che proprio per questo producono una sonorità particolare, pregio principale di queste registrazioni. E non è poco ove si tenga conto che si tratta del primo album di Vittorio De Angelis leader, il quale, tra l’altro ha avuto l’intelligenza di chiamare accanto a sé musicisti di livello tra cui Domenico Sanna pianista di Gaeta, classe 1984, che ha già collaborato con musicisti di livello internazionale quali Steve Grossman, Rick Margitza, Dave Liebman, JD Allen, Greg Hutchinson; Seby Burgio, altro talentuoso tastierista (Siracusa 1989 ) che può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Larry James Ray, Tony Arco, Michael Rosen, Alfredo Paixao; Francesco Fratini uno dei più promettenti trombettisti italiani e Takuya Kuroda trombettista e arrangiatore giapponese, classe 1980, che incide per la Blue Note e ha già al suo attivo cinque album sotto suo nome.

e.s.t. – “Live in Gothenburg” – ACT 9046 2
Ascoltando queste registrazioni effettuate live il 10 Ottobre del 2001 alla Concert Hall di Gothenburg si rinnova il rimpianto per aver perso troppo presto e in maniera davvero assurda un talento come Esbjörn Svensson qui accompagnato dai fidi partner Dan Berglund al basso e Magnus Ostrom alla batteria. Siamo negli anni in cui il trio sta consolidando il proprio essere gruppo omogeneo, compatto in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur affollato panorama dei trii piano-basso-batteria. Ciò ovviamente per merito di tutti e tre i musicisti ma in modo particolare, del leader, il pianista Esbjörn Svensson affermatosi in brevissimo tempo come uno dei più fulgidi talenti del piano jazz a livello internazionale. In questo concerto, poi riportato sul doppio CD in oggetto, il trio rivisita alcuni dei brani contenuti nei due album già usciti in quel periodo, vale a dire “From Gagarin´s Point of View” del 1999 e “Good Morning Susie Soho” del 2000. E si è trattato di una performance davvero molto rilevante se lo stesso Svensson aveva più volte dichiarato di considerare questo concerto uno dei migliori della sua carriera. E come dargli torto? La musica è assolutamente ben costruita, ben arrangiata e altrettanto ben eseguita con i tre artisti che si ascoltano e interagiscono con immediatezza e pertinenza. Ascoltando in sequenza tutti e gli undici brani dei due CD è davvero difficile, se non impossibile, capire quando i tre improvvisano e quando seguono qualcosa di stabilito in precedenza. E non credo di esagerare affermando che dopo i mitici trii di Bill Evans, che hanno rivoluzionato il modo di concepire il combo piano-batteria-contrabbasso, questa di Svensson e compagni sia stato la formazione che più di altre è riuscita a dire qualcosa di nuovo e originale in materia.

Giovanni Falzone – “L’albero delle fate” – Parco della Musica
Il trombettista Giovanni Falzone, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Alessandro Rossi sono i protagonisti di questo album registrato nel febbraio del 2019 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La musica è di segno naturistico, se mi consentite l’espressione, in quanto Giovanni per comporla si è ispirato ai sentieri, ai grandi sassi, agli alberi, agli animali, ai colori, alle fonti d’acqua che vivificano il lago di Endine, in provincia di Bergamo, dove il trombettista ama trascorrere parte del suo tempo libero. Di qui nove brani che lo stesso Falzone definisce “cartoline sonore”; ma attenzione, quanto fin qui detto non tragga in inganno ché quella di Falzone resta una musica ben lontana dal New Age e viceversa ben ancorata alle grandi tradizioni del jazz. Così nel suo linguaggio è possibile riscontrare echi di Armstrong così come, per venire a tempi a noi più vicini, di Kenny Wheeler, di Enrico Rava (al quale in occasione dell’ottantesimo compleanno il 20 agosto scorso ha dedicato una intensa ballad), di Miles Davis (ma quale trombettista non è stato influenzato da Miles?). Quindi un jazz ora vigoroso (“Il mondo di Wendy”), ora più intimista (“Capelli d’argento”) ma sempre splendidamente suonato e arrangiato. Frutto evidente dell’intesa che si respira nel gruppo in cui tutti si esprimono al meglio delle rispettive possibilità.

Claudio Fasoli – “The Brooklyn Option” – abeat 206
Questo album è in realtà la riedizione di un CD pubblicato nel 2015; quindi, dal punto di vista del contenuto musicale, nessuna novità; cambia, invece, la copertina adesso rappresentata da una bella foto scattata dallo stesso Fasoli. Il sassofonista è reduce da una serie di brillanti riconoscimenti: nel 2018 ha vinto il Top Jazz come musicista dell’anno mentre nel 2017 il suo album “Selfie” sul mercato francese è stato votato dalla rivista “JazzMagazine” come “disco shock” del mese. In questa occasione è alla testa di un quintetto all stars comprendente Ralph Alessi alla tromba, Matt Mitchell al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Fasoli è in forma smagliante sia come compositore sia come esecutore. In effetti tutti e tredici i brani contenuti nell’album sono da lui stesso firmati e ci mostrano un musicista maturo, assolutamente consapevole dei propri mezzi ed in grado di scrivere musica a tratti coinvolgente, sempre, comunque, interessante e ben lontana dal ‘già sentito’. Ovviamente almeno parte di queste positive valutazioni dipende anche dall’esecuzione: ebbene al riguardo occorre sottolineare come il gruppo funzioni a meraviglia, con un altissimo grado di interplay che consente ai musicisti di muoversi in assoluta libertà, certo che il compagno di strada saprà quasi percepire in anticipo le sue proposte e sarà quindi in grado di condurle alle finalità desiderate. Straordinario, al riguardo, il modo in cui tromba e sassofono dialogano e suonano anche all’unisono sul filo di un idem sentire non facilissimo da raggiungere. Ancora una volta Alessi si qualifica come una delle più belle e originali voci trombettistiche degli ultimi anni. E non c’è un solo momento nel disco che non si percepisca questa intesa, questa gioia di suonare assieme. Tali caratteristiche si colgono sin dall’inizio, vale a dire dai tre movimenti che compongono la suite “Brooklyn Bridge”, aperta da una esposizione del tema armonizzata dai fiati che lasciano quindi spazio alla sezione ritmica con Mitchell, Gress e Waits a dimostrare quanto sia meritata la fama raggiunta nel corso degli ultimi anni.

Luca Flores – “Innocence” – Auand 2 cd
Ascoltare un inedito di Luca Flores è sempre emozionante e non solo per le vicende umane legate alla prematura scomparsa dell’artista, quanto perché la sua musica è come una sorta di scrigno contenente delle perle rare e preziose. Ovviamente anche quest’ultimo doppio album non sfugge alla regola: sedici tracce inedite incise da Luca Flores tra il 1994 e il 1995 di grande livello. Ma prima di spendere qualche parola sul contenuto artistico di “Innocence” vorrei ringraziare, a nome di tutti gli appassionati di jazz, l’amico Luigi Bozzolan, anch’egli valente pianista, il quale da tempo si sta adoperando per illustrare al meglio il lavoro di Flores, Stefano Lugli, il sound engineer che aveva curato quelle registrazioni, e Michelle Bobko, che ne aveva conservate delle copie, per aver ritrovato questo materiale e averlo regalato all’ascolto di noi tutti. E un doveroso riconoscimento va anche al pianista Alessandro Galati che ha curato selezione e mastering dell’opera. Il titolo di questo doppio cd è quello che Luca aveva indicato al produttore Peppo Spagnoli della Splasc(H) per quello che sarebbe stato il suo nuovo lavoro, un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico e che prevedeva un organico allargato con violoncello, percussioni, vibrafono e armonica, nonché la voce di Miriam Makeba. Data la complessità del progetto, dai costi piuttosto elevati, si decise di pubblicare un piano solo (“For Those I Never Knew”, edito da Splasch Records), con l’aggiunta di nuove tracce registrate il 19 marzo 1995; il pianista sarebbe scomparso dieci giorni dopo cosicché l’album uscì postumo. Tornando a “Innocence” i due CD si differenziano per un particolare non secondario: il primo è dedicato a brani mai incisi mentre il secondo presenta versioni alternative di pezzi già registrati. Ovviamente ciò nulla toglie all’omogeneità delle registrazioni che ci restituiscono ancora una volta un musicista straordinario dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo. Il suo pianismo è sempre lucido, fluido, mai teso a stupire l’ascoltatore ma sempre rivolto ad esprimere il proprio io, la propria anima. Di qui una capacità di scavare all’interno di ogni singolo brano che solo i grandi possiedono. Si ascolti al riguardo come sia riuscito a fondere in un unicum “Broken Wing” e “Lush Life” e come dimostri di saper padroneggiare diversi stili, dal bop di “Work” di Thelonious Monk e “Donna Lee” di Charlie Parker, allo swing di “Strictly Confidential” fino ad un pianismo di marca intimista in “Kaleidoscopic Beams” impreziosito da un unisono piano/voce prima e dopo il lungo assolo e “Silent Brother” che chiude degnamente il cd.

Jan Garbarek, The Hilliard Ensemble – “Remember me, my dear” – ECM New Series 2625
Ho conosciuto personalmente Jan Garbarek nel 1982 quando abitavo in Norvegia; in quella occasione l’ho trovato persona squisita, cortese, sensibile…oltre che straordinario musicista. E questa valutazione sull’artista nel corso degli anni non è mutata di una virgola…anzi. Quest’ultimo album mi conferma vieppiù nel considerare Jan Garbarek uno dei musicisti più originali, maturi, straordinari degli ultimi decenni. Ancora una volta accanto all’Hilliard Ensemble (questo è il quinto album da loro inciso nel corso degli ultimi ventisei anni), il sassofonista norvegese ci regala un’altra rara perla, una musica assolutamente inconsueta che affascina chi mantiene mente e cuore aperti. Qui non c’è più la distinzione tra generi: non si tratta di jazz, di musica classica, di folk, di musica religiosa ma di una straordinaria miscela di suoni, ricca di pathos, che ci trasporta in una dimensione trascendente l’attualità per instaurare un colloquio diretto con l’anima di chi ascolta. Ecco quindi un repertorio che abbraccia un lunghissimo arco di tempo, con quattordici brani di cui due firmati rispettivamente da Christ Komitas e Nikolai N. Kedrov autori a cavallo tra Otto e Novecento, cinque di autore anonimo, uno a testa per Guillaume le Rouge, maestro Pérotin, Hildegard von Bingen, Antoine Brumel tutti databili da 1098 al 1500,lo splendido “Most Holy Mother of God” di Arvo Pärt, più due composizioni originali dello stesso Garbarek. L’apertura è affidata a “Ov zarmanali” inno battista del religioso armeno Christ Komitas, interpretato da Garbarek in solitudine ed è questo il brano in cui si ascolta maggiormente il sax soprano del musicista norvegese, dal momento che negli altri pezzi a prevalere sono sostanzialmente le voci. Particolarmente degna di nota l’”Alleluia Nativitas” del Maestro Perotino. Un’ultima notazione: la registrazione, effettuata nella Chiesa della Collegiata dei SS.Pietro e Stefano di Bellinzona risale all’ottobre del 2014; come mai è stata pubblicata solo adesso?

Ghost Horse – “Trojan” – Auand 9090
Ecco la nuova formazione posta in essere sulle orme del precedente gruppo “Hobby Horse” dal sassofonista Dan Kinzelman con Filippo Vignato al trombone, Gabrio Baldacci alla chitarra baritona, Joe Rehmer al basso elettrico, Stefano Tamborrino alla batteria e Glauco Benedetti all’eufonio e alla tuba. Come si nota un organico piuttosto insolito così come insolita è la musica proposta. Una musica che trae spunti dal jazz, dal rock, dalla psichedelia cui si riferisce la frequente reiterazione di brevi frasi musicali che finiscono per ottenere un effetto in bilico tra l’onirico e l’ipnotico. Il tutto impreziosito da una intelligente ricerca sul suono, sulla timbrica e sulla dinamica particolarmente evidente nel brano di chiusura “Pyre” di Kinzelman (autore di cinque degli otto brani in repertorio) caratterizzato sul finire da quella reiterazione cui prima si faceva riferimento. Ma è l’intero album che si fa ascoltare con interesse dal primo all’ultimo minuto. Così, tanto per citare qualche altro titolo, la title track che apre l’album evidenzia la volontà del gruppo di non fermarsi su terreni particolarmente frequentati e di ricercare da un canto una propria specificità con frasi oblique, sghembe, tutt’altro che scontate, dall’altro una dimensione quasi orchestrale con un crescendo in cui tutti i componenti il sestetto hanno modo di mettersi in luce. In “Il bisonte” è in primo piano il sound così particolare della tuba utilizzata in un ruolo tutt’altro che coloristico. Convincente l’impianto narrativo di “Five Civilized Tribes” con in primo piano Gabrio Baldacci e Stefano Tamborrino autore del brano. Più legato a stilemi tradizionali, ma non per questo meno affascinante, “Hydraulic Empire” con un Vignato in grande spolvero mentre in “Dancing Rabbit” è in primo piano la sezione ritmica di Tamborrino e Rehmer. Per chiudere una menzione la merita anche la crepuscolare “Forest For The Trees” (di Kinzelman) in cui si avverte forse più che altrove quel fine lavoro di cesello cui si dedicano i fiati.

Rosario Giuliani – “Love in Translation” – VVJ 133
Una sezione ritmica tra le migliori del jazz non solo italiano (Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; li si ascolti in “Hidden force of love”) e una front line costituita da due grandi performer quali Rosario Giuliani ai sax alto e soprano e Joe Locke al vibrafono: ecco in poche righe spiegati i motivi del perché questo album si percepisce con grande piacere. Come solo i grandi musicisti sanno fare, i brani si susseguono con scioltezza e si ha l’impressione che tutto sia facile anche quando, ascoltando più attentamente, si scopre che le cose non stanno proprio così. In effetti gli arrangiamenti sono tutt’altro che banali e il modo di interloquire vibrafono-sax è il frutto di un’intesa assai solida, cementificata da un ventennio di collaborazione che i due intendono festeggiare proprio con l’uscita di questo album. Il repertorio è quanto mai variegato passando da classici del jazz (“Duke Ellington’s Sound of Love” di Charles Mingus, o “Everything I Love” di Cole Porter”) a hit della musica pop quali “I Wish You Love”, versione inglese della celeberrima “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet o quel “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss che inopinatamente troveremo anche nel CD di Oded Tzur di cui si parla più in basso; a questi si aggiungono alcuni original quali “Raise Heaven” dedicato da Joe Locke a Roy Hargrove e “Tamburo” di Rosario Giuliani per l’amico Marco Tamburini. Come prima sottolineato, tutti e dieci i brani in repertorio si ascoltano con molta piacevolezza, tuttavia mi ha particolarmente impressionato il dialogo di sax e vibrafono in “Can’t Help Falling In Love” e le modalità con cui il gruppo nella sua interezza ha approcciato un brano non facile come il mingusiano “Duke Ellington’s Sound of Love”.

Wolfgang Haffner – “Kind of Tango” – ACT 9899-2
Ad alcuni sembrerà forse strano che dei musicisti nordeuropei si interessino di tango, ma si tratta di una impressione totalmente errata. In effetti il Paese dove il tango è più frequentato, ascoltato, ballato – ovviamente al di fuori dell’Argentina – è un Paese del Nord Europa e precisamente la Finlandia. Chiarito questo equivoco, con questo album siamo in terra di Germania dove il batterista Wolfgang Haffner ha costituito un gruppo di stelle a livello internazionale per affrontare un repertorio piuttosto impegnativo dal momento che sotto l’insegna del tango si ascoltano sia brani di compositori celebri come Astor Piazzolla, Gerardo Matos Rodriguez sia original dei componenti il sestetto. Ecco quindi uno accanto all’altro il già citato Haffner, gli altri tedeschi Christopher Dell al vibrafono e Simon Oslender al piano, il francese Vincent Peirani all’accordion, gli svedesi Lars Danielsson al basso e cello e Ulf Wakenius alla chitarra, “rinforzati” dalla presenza in alcuni brani dei tedeschi Alma Naidu vocalist e Sebastian Studnitzky trombettista, dello svedese Lars Nilsson flicorno e del sassofonista statunitense Bill Evans. E c’è un altro equivoco da chiarire. In questo caso non si tratta della m era riproposizione delle atmosfere tipiche del tango, quanto di un’operazione un tantino più complessa e ben illustrata dallo stesso batterista quando afferma che per lui ascoltare e scrivere un tango non è una semplice traduzione in musica di ciò che ha sentito ma l’assorbire e l’adattare degli input ricevuti in un processo da cui può scaturire qualcosa di nuovo e contemporaneo. Ed in effetti ascoltando la riproposizione dei tanghi più celebri da tutti conosciuti quali “La Cumparista”, “Libertango” e “Chiquilin de Bachin” da un lato non c’è quel pathos che caratterizza le esecuzioni di un Astor Piazzolla, dall’altro si avverte la volontà di distaccarsi dai modelli originari per giungere su spiagge inesplorate. Tentativo riuscito? A mio avviso sì, ma ascoltate e giudicate.

Ayler’s Mood “Combat joy” e Pasquale Innarella “Go Dex”Quartet– aut records 051, 053
Due cd dedicati a due giganti del sax: il Trio Ayler’s Mood, costituito da Pasquale Innarella al sax, Danilo Gallo al basso elettrico e Ermanno Baron alla batteria sono i protagonisti di “Combat Joy”, dedicato ad Albert Ayler, e Pasquale Innarella e “Go Dex Quartet” dedicato a Dexter Gordon. Una sfida molto, molto difficile, quella con i mondi sonori di due grandi sassofonisti molto diversi tra di loro e quindi impossibili da ricondurre ad un unicum. Di qui l’intelligenza poetica – mi si passi il termine – di questi due gruppi e di Innarella che, come sassofonista, ben lungi dal voler imitare l’inimitabile, ha voluto con i suoi compagni di viaggio, piuttosto, rileggere le esperienze dei due grandi artisti. In particolare nel primo album, “Ayler’s Mood”, registrato live durante un concerto a “Jazz in Cantina”, zona Quarto Miglio, Roma, il 22 dicembre del 2018, Innarella (nell’occasione anche al sax soprano) coadiuvato da due eccellenti partner quali Danilo Gallo al basso e Ermanno Baron alla batteria, si rivolge all’universo di Albert Ayler (1936-1970) considerato a ben ragione uno dei massimi esponenti del free anni sessanta; lo stile del musicista di Cleveland era caratterizzato da un vibrato molto aggressivo e da un linguaggio che destrutturava gli elementi fondativi della musica, vale a dire melodia, armonia e timbro. Come affrontare quindi, tale musica senza ricorrere a sterile imitazioni? Lasciandosi andare ad una improvvisazione pura, estemporanea (come sottolineato nella presentazione dell’album) è stata la risposta di Innarella e compagni. Un flusso sonoro di circa un’ora che coinvolge l’ascoltatore in una sorta di viaggio senza meta, assolutamente coinvolgente. I tre suonano liberamente ma con estrema lucidità, in un quadro in cui nessuno ha la prevalenza sull’altro e in cui la musica di Ayler rivive in tutta la sua drammatica attualità con lacerti di free che si alternano con accenni di calypso o di R&B…senza trascurare alcune citazioni ben riconoscibili.
Nel secondo CD, “Go Dex”, Innarella è in quartetto con Paolo Cintio al piano, Leonardo De Rose al contrabbasso e Giampiero Silvestri alla batteria. In questo caso il discorso è completamente diverso e non potrebbe essere altrimenti dato che Dexter Gordon (1923-1990) è stato uno degli alfieri del bebop, un artista straordinario di recente ricordato in un bel volume della EDT di cui ci si occuperà quanto prima. Nell’album Innarella esegue sette composizioni di Dexter Gordon con l’aggiunta di un celeberrimo standard, “Misty” di Errol Garner. Ma è già nel termine “Go Dex” che si vuole omaggiare il sassofonista di Los Angeles dal momento che “Go” è il titolo che lo stesso Dexter volle dare ad un suo album registrato nell’agosto del 1962 con Sonny Clark piano, Butch Warren basso e Billy Higgins batteria. Ma Pasquale non si è fermato qui: Gordon ha scritto pochi brani e Innarella ha voluto, quindi, riproporne almeno una parte tenendosi però ben lontano da una pedissequa imitazione. Quindi non un linguaggio boppistico ma un jazz moderno, attuale, che non disdegna incursioni nel mondo del free. Ecco le prime battute dell’album eseguite secondo stilemi molto vicini al free accanto ad una convincente e canonica interpretazione di “Misty” con sonorità più legate alla tradizione; ecco “Soy Califa” dall’andamento funkeggiante, illuminato da uno splendido assolo di Paolo Cintio accanto al conclusivo “Sticky Wichet” che ci riconduce ad atmosfere molto accese… il tutto senza perdere di vista, in alcun momento, quelli che erano i principi ispiratori di Gordon e che ritroviamo intatti in questo pregevole album.

Keith Jarrett – “Munich 2016” – ECM 2667/68
Passano gli anni ma è sempre un’esperienza appagante ascoltare Keith Jarrett specie su disco (ché dal vivo alcune intemperanze sono francamente insopportabili). In questo doppio CD, registrato alla Philarmonic Hall di Berlino il 16 luglio del 2016, ultima sera di un tour europeo, Jarrett, in totale solitudine, ci presenta una suite in dodici parti dal titolo “Munich” totalmente improvvisata e tre bis, “Answer Me, My Love” (versione inglese della canzone tedesca del 1953, “Mütterlein”), “It’s A Lonesome Old Town” e “Somewhere Over The Rainbow”. Com’è facile immaginare, il Jarrett migliore lo si trova nella prima parte, e soprattutto nel primo movimento dove, in circa quindici minuti di musica magmatica e complessa, il pianista improvvisa liberamente mescolando gli input che oramai da tempo costituiscono gli ingredienti fondamentali della sua cifra stilistica, vale a dire jazz, blues, gospel, folk, musica colta. Ed è davvero un bel sentire: gli intricati percorsi disegnati da Jarrett confluiscono sempre laddove l’artista vuole arrivare, nonostante le spericolate armonizzazioni e la velocissima diteggiatura che alle volte non consentano all’ascoltatore, seppur attento, di immaginare il percorso immaginato dall’artista. E seppur meno intense anche i successivi momenti della suite mantengono davvero alto lo standard esecutivo ed improvvisativo di Jarrett. Leggermente diverso il discorso per i tre brani. Jarrett sembra essersi relativamente placato fino a regalarci una splendida versione del celeberrimo “Over The Rainbow” che da solo vale l’acquisto dell’album.

Lydian Sound Orchestra – “Mare 1519” – Parco della Musica Records
Oramai da tempo la Lydian Sound Orchestra viene a ben ragione considerata una delle migliori big band a livello internazionale e ciò per alcuni validi motivi; innanzitutto la bontà dell’organico che prevede artisti tutti di assoluto spessore quali i sassofonisti Robert Bonisolo, Rossano Emili e Mauro Negri anche al clarinetto, Gianluca Carollo alla tromba e flicorno, Roberto Rossi al trombone, Giovanni Hoffer al corno francese, Glauco Benedetti alla tuba, Paolo Birro al piano e al Fender Rhodes, Marc Abrams al basso e Mauro Beggio alla batteria, Riccardo Brazzale piano e direzione, Bruno Grotto electronics e Vivian Grillo voce. In secondo luogo il grande lavoro svolto da Riccardo Brazzale che è stato capace di mettere assieme una compagine di tutto rispetto e di scrivere per essa arrangiamenti coinvolgenti che non a caso sono stati interpretati dall’orchestra con estrema compattezza. A ciò si aggiunga una sempre lucida scelta del repertorio che anche questa volta è composto sia da composizioni originali del leader sia da composizioni di alcuni grandi della musica come Ellington, Monk, Shorter, Miles Davis, Paul Simon. In più questo album è una sorta di concept dal momento che, come spiegato nelle note, due numeri, 1 e 9, accompagnano nel corso dei secoli i viaggi e i viaggiatori, a partire dall’impresa di Magellano del 1519 ( considerata l’inizio dell’era moderna ) per finire al 2019 quando il mar Mediterraneo continua a raccontare di nascite e di morti; insomma questa volta Brazzale vuole prendere per mano l’ascoltatore e condurlo attraverso quel mar Mediterraneo, testimone delle più importanti vicende dell’umanità, per un viaggio che metaforicamente riproduce alcune fasi della storia del jazz. Di qui una musica immaginifica, travolgente a tratti, sempre improntata alla commistione di più elementi, dal jazz al folk alla musica classica, il tutto impreziosito da una originalità di linguaggio vivificata dal grande livello dei vari solisti cui prima si faceva riferimento.

Christian McBride – “The Movement Revisited” – Mack Avenue 1082
“The Movement Revisited: A Musical Portrait of Four Icons” è esplicitamente dedicato a quattro figure chiave del movimento per i diritti civili degli afro-americani: Rev. Dr. Martin Luther King Jr., Malcolm X, Rosa Parks e Muhammad Ali. In realtà questa monumentale opera ha una storia piuttosto complessa che ha origine nel 1998 quando, su commissione della Portland Arts Society, McBride scrisse una composizione per quartetto e coro gospel che rappresenta, per l’appunto, la prima versione di “The Movement Revisited”. Nel 2008 la L.A. Philharmonic chiese a McBride di farne una versione orchestrale e così “The Movement Revisited” diventò una suite in quattro parti per big band jazz, piccolo gruppo jazz, coro gospel e quattro narratori. In questa registrazione, effettuata nel 2013, è stato aggiunto un quinto movimento, “Apotheosis”, dedicato all’elezione di Barack Obama come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Evidente, quindi, l’intento di Christian McBride (contrabbassista, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, poeta, vincitore di due Grammy con “The Good Feeling” nel 2011 e “Bringin ‘It” nel 2017) di presentare un album che andasse ben al di là del fattore squisitamente musicale riallacciandosi direttamente alla lotta per una effettiva eguaglianza tra bianchi e neri, ancora ben lungi dall’essere raggiunta negli States. La suite è eseguita da una big band di 18 elementi, con coro gospel e narratori, questi ultimi nelle persone di Sonia Sanchez, Vondie Curtis-Hall, Dion Graham, e Wendell Pierce. E come accade alle volte, è impossibile scindere il mero valore artistico dal valore sociale, politico, culturale che questa musica veicola. Non a caso l’album ha ottenuto i più sinceri riconoscimenti da parte di accreditati critici statunitensi. In effetti ascoltando il CD è come se ci si muovesse in un contesto teatrale con i quattro attori che riportano stralci dei discorsi dei protagonisti e un sound che è una sorta di summa di tutta la musica nera, quindi jazz, soul, funk, gospel, spiritual…Insomma una musica che è allo stesso tempo un grido di dolore per quanto accaduto e un segno di speranza per un futuro che non può essere disgiunto dal passato in quanto, come nota lo stesso McBride, “ci sono oggi nuove battaglie che stiamo combattendo, ma sento che queste nuove battaglie cadono sotto l’ombrello di uguaglianza, equità e diritti umani – e questa è una vecchia battaglia». Particolarmente emozionante, al riguardo, riascoltare “I Have a Dream”, un discorso che credo tutti dovremmo, ancora oggi, apprezzare nei suoi profondi significati.

Dino e Franco Piana – “Open Spaces” – Alfa Music
Conosco Dino e Franco Piana oramai da tanti anni e mi ha sempre stupito la straordinaria intesa tra padre e figlio che ha portato questi due personaggi ad attraversare l’oceano del jazz con signorilità, competenza e pochi ma significativi album. In effetti i due (il primo nella veste di trombonista dalla classe eccelsa, il secondo nella quadruplice funzione di compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e flicornista) entrano in sala di incisione solo quando sentono di avere qualcosa di nuovo da dire. Di qui gli ultimi tre album particolarmente significativi, tutti registrati per l’Alfa Music, “Seven” (2012), “Seasons” (2015), e adesso questo “Open Spaces” il cui organico è sostanzialmente lo stesso dell’album precedente cui si aggiungono i cinque archi della Bim Orchestra. Quindi, oltre a Dino e Franco Piana, si possono ascoltare Fabrizio Bosso alla tromba, Max Ionata al sax tenore, Ferruccio Corsi al sax alto, Lorenzo Corsi al flauto, Enrico Pieranunzi al piano, Giuseppe Bassi al basso e Roberto Gatto alla batteria. In repertorio due suite, “Open Spaces” e “Sketch of Colours”, articolate la prima su una Introduzione e tre Variazioni, la seconda su una Introduzione e due Movimenti, ed in più altri tre brani “Dreaming”, “Sunshine” e “Blue Blues”, tutti composti e arrangiati da Franco Piana eccezion fatta per “Sketch of Colours” scritto da Franco Piana e Lorenzo Corsi. L’album è davvero di assoluto livello e per più di un motivo. Innanzitutto la scrittura di Franco che, accoppiata ad una evidente bravura nell’arrangiamento, riesce a ricreare una sonorità caratterizzata da timbri e colori assolutamente originali, rimanendo fedele ad un linguaggio prettamente jazzistico. In secondo luogo l’affiatamento dell’orchestra che pur essendo composta da grandi personalità ha trovato una sua cifra di coesione che l’accompagna in tutte le esecuzioni. In terzo luogo la caratura dei vari assolo che vedono protagonisti tutti i componenti della band. A questo punto non resta che auguravi buon ascolto!

Stefania Tallini – “Uneven” – Alfa Music 226
Ebbene lo confesso: sono un grande amico di Stefania Tallini che ammiro non solo come pianista e compositrice ma anche come persona gentile, equilibrata, mai sopra le righe e soprattutto affettuosa, che si è sempre mantenuta con i piedi per terra nonostante gli innumerevoli successi a livello internazionale. Ecco, questo album inciso in trio con Matteo Bortone valente contrabbassista che ha suonato tra gli altri con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi, e Gregory Hutchinson statunitense a ben ragione considerato uno dei migliori batteristi di questi ultimi anni, è probabilmente uno degli album più significativi registrati dalla pianista. La filosofia dell’album è racchiusa nello stesso titolo, “Uneven” ovvero “Irregolare”: in effetti, spiega la stessa Tallini, “questa parola inglese è l’espressione di qualcosa di inatteso, di inaspettato, che rimanda ad un carattere di imprevedibilità, appunto, che è proprio ciò che amo nella musica e nella vita.” E per esplicitare al meglio queste sue posizioni, Stefania ha voluto fortemente accanto a sé i due musicisti cui prima si faceva riferimento. I risultati le danno ragione. L’album è convincente in ogni suo aspetto: intelligente la scelta del repertorio che accanto a dieci composizioni originali della pianista annovera “Inùtìl Paisagem” di Antonio Carlos Jobim e lo standard “The Nearness of You” di Hoagy Carmichael eseguito in solo; assolutamente ben strutturata la scrittura in cui ricerca della linea melodica e armonizzazione si equilibrano in un linguaggio che non consente espliciti punti di riferimento. Tra i vari brani una menzione particolare, a mio avviso, per il brano di Jobim proposto con grande partecipazione e delicatezza, impreziosito anche dagli assolo dei compagni di viaggio, e l’original “Triotango” che ben cattura l’essenza di questo genere musicale.

Oded Tzur – “Here Be Dragons” – ECM 2676
Questo “Here Be Dragons” è l’album d’esordio in casa ECM per il sassofonista israeliano, ma da tempo residente a New York, Oded Tzur. Accanto a lui Nitai Hershkovits al pianoforte, Petros Klampanis al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria, quindi una piccola internazionale del jazz dal momento che se Hershkovits è anch’egli israeliano, il bassista è greco di Zakynthos‎ e il batterista statunitense di Filadelfia. Registrato nel giugno del 2019 presso l’Auditorio Stelio Molo in Lugano, l’album presenta in repertorio otto brani di cui ben sette scritti dallo stesso sassofonista cui si aggiunge “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss, portato al successo nientemeno che da Elvis Presley. Fatte queste premesse, anche per inquadrare il personaggio ancora non molto noto presso il pubblico italiano, occorre sottolineare la valenza della musica proposta. Una musica che sottende una particolare bravura di Tzur sia nell’esecuzione sia ancora – e forse di più – nella scrittura, sempre fluida, facile da assorbire seppure non banale e soprattutto frutto di una straordinaria capacità di introiettare input provenienti da mondi i più diversi. In effetti egli, israeliano di nascita, ha dedicato molta parte del suo tempo a studiare la musica classica indiana considerata, come egli stesso afferma, “un laboratorio di suoni”. Ecco quindi stagliarsi in modo del tutto originale il suono del suo sassofono chiaramente influenzato dagli studi con il maestro di bansuri (flauto traverso tipico della musica classica indiana) Hariprasad Chaurasia, iniziati nel 2007. Ed è proprio la particolarità del sound che a mio avviso caratterizza tutto l’album, con i quattro musicisti che si intendono a meraviglia pronti a supportarsi in qualsivoglia momento. I brani sono tutti ben scritti e arrangiati con una prevalenza, per quanto mi riguarda, per “20 Years” la cui linea melodica viene splendidamente disegnata da Hershkovits altrettanto splendidamente sostenuto da Blake il cui lavoro alle spazzole andrebbe fatto studiare ai giovani batteristi.

Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand – ACT 9739-2
Ecco un album che sicuramente susciterà l’interesse e la curiosità degli appassionati italiani: protagonisti due artisti estoni, la cantante, pianista e compositrice Kadri Voorand e il bassista Mihkel Mälgand. Kadri da piccola cantava nel gruppo di musica popolare di sua madre, avvicinandosi successivamente al pianoforte classico e quindi al jazz nelle accademie di Tallinn e Stoccolma.  Oggi viene considerata una stella nel proprio Paese grazie ad uno stile versatile che le consente di mescolare jazz contemporaneo, folk estone, rhythm & blues e ritmi latino-americani. Non a caso nel 2017 è stata insignita del premio musicale estone per la miglior artista ed è stata premiata per il miglior album jazz dell’anno (“Armupurjus”). Mihkel Mälgand è uno dei bassisti estoni di maggior successo, avendo lavorato, tra gli altri, con musicisti come Nils Landgren, Dave Liebman e Randy Brecker. In questo album si presentano nella rischiosa formula del duo con la vocalist che suona anche kalimba e violino mentre Mihkel si cimenta anche con bass guitar, bass drum, cello e percussioni. In un brano ai due si aggiunge come special guest Noep. In repertorio 12 brani scritti in massima parte dalla Voorand e cantati in inglese eccezion fatta per due nella sua lingua madre (due splendide song tratte dal patrimonio folcloristico estone). L’album è notevole ed è stato apprezzato anche al di fuori dell’Estonia: Europe Jazz Network, la rete europea di operatori del settore jazz, che stila la Europe Jazz Media Chart, una selezione mensile dei migliori titoli usciti curata da un pool di giornalisti specializzati, ha incluso “Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand” tra le migliori registrazioni del marzo 2020. La musica scorre fluida ed evidenzia appieno la valenza dei due musicisti che si muovono con maestria ben supportati da un tappeto intessuto dagli effetti elettronici padroneggiati con misura ed euqilibrio. La voce della Voorand è fresca, e affronta il difficile repertorio con disinvoltura non scevro da una certa dose di ironia. Dal canto suo Mälgand non si limita ad accompagnare la vocalist ma ci mette del suo prendendo spesso in mano il pallino dell’esecuzione sempre con pertinenza.

All’AlexanderPlatz di Roma Stefania Tallini presenta ufficialmente il suo “Uneven” (AlfaMusic 2020)

In poche ore al 3° posto nella iTunes Jazz Chart in Russia e al 57° su 300 Top Release di Deezer Grecia: anche all’estero Stefania Tallini è divenuta una delle colonne portanti della musica colta made in Italy, con il suo nuovo e 10° album “Uneven”.
Pianista, compositrice, arrangiatrice e docente di Conservatorio, è stata scelta negli anni da grandi musicisti come Guinga, Bruno Tommaso, Enrico Pieranunzi, Andy Gravish, Gabriel Grossi, Javier Girotto, Gabriele Mirabassi, Corrado Giuffredi, Enrico Intra e la Civica Jazz Band.
Carismatica e al tempo stesso raffinata, ha saputo esprimere il suo talento in diversi percorsi stilistici, dalla classica, al jazz, alla musica popolare brasiliana sia con progetti in “solo”, sia alla guida di ensemble su grandi palchi del panorama mondiale, portando le sue composizioni anche in ambito cinematografico e teatrale, dove ha collaborato con artisti del calibro di Mariangela Melato e Michele Placido.
Giovedì 30 gennaio sarà grande protagonista all’AlexanderPlatz Jazz Club di Roma (in via Ostia 9 – www.alexanderplatzjazz.com) per presentare ufficialmente il decimo album da leader “Uneven”, appena uscito con l’etichetta discografica AlfaMusic.
Sul palco, porterà quello che ha definito più volte “il trio dei suoi sogni”: a completare la formazione due grandissimi artisti del jazz internazionale. Il batterista statunitense Gregory Hutchinson, definito da Jazz Magazine the drummer of his generation è difatti una delle figure più richieste nel panorama mondiale, che ha collaborato (e collabora) con nomi illustri come Dianne Reeves, Wynton Marsalis, John Scofield, Roy Hargrove, Diana Krall, Joshua Redman, Christian McBride e Maria Schneider. Tra i migliori contrabbassisti Europei, Matteo Bortone è un raffinato strumentista e compositore, vincitore del Top Jazz 2015, che vanta collaborazioni con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi e Roberto Gatto.

“Uneven” mostra una svolta energetica andando a raccontare una personalità istintiva ed emozionale in grado di firmare pagine di raffinata maestria compositiva.  Dall’affascinante “Nell’intramente” alla sferzante titletrack, nell’album c’è il grande amore di Stefania Tallini per il suo strumento, il pianoforte, e un’urgenza di “parlare” al mondo attraverso la sua musica.
Stefania Tallini: “Questo disco rappresenta una tappa molto importante, che è, allo stesso tempo, un nuovo punto di partenza – così come lo è sempre ogni obiettivo raggiunto – di un percorso musicale che sento continuamente in movimento. UNEVEN ha diversi significati: irregolare, asimmetrico, non allineato, dispari, disuguale, che sicuramente rappresentano gli aspetti che più caratterizzano le mie composizioni degli ultimi anni. Questa parola inglese è quindi l’espressione di qualcosa di inatteso, di inaspettato, che rimanda ad un carattere di imprevedibilità, appunto, che è proprio ciò che amo nella musica e nella vita.”

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Riflettori puntati su Carla Marcotulli, Greg Burk e Riccardo Fassi

Questa volta vorrei soffermarmi su tre artisti che conosco da tempo e che stimo perché mai deludono, sia che li si ascolti su disco sia che li si apprezzi dal vivo.

La prima è Carla Marcotulli, vocalist e didatta di spessore (insegna canto jazz al Conservatorio Santa Cecilia di Roma); Carla ha da poco inciso per la Parco della Musica Records “Love is the Sound of Surprise”, con l’ausilio di una folta schiera di eccellenti musicisti quali il pianista e tastierista Dick Halligan (già nei Blood Sweat & Tears), suo collaboratore da molti anni (sostituito in due track da Greg Burk e in uno da Gilda Buttà), Bruce Ditmans alla batteria, Antonio Leofreddi alla viola, Sandro Gibellini alla chitarra, Marco Siniscalco al basso, Giovanni Tommaso e Stefano Cantarano al contrabbasso, Pietro Tonolo al sax soprano, Giancarlo Maurino al tenore, Rossano Emili al baritono, Aldo Bassi alla tromba, Mario Corvini, Stan Adams al trombone e, in una track, Israel Varela alle percussioni. In repertorio dodici brani tutti originali, eccezion fatta per un pezzo di Schubert (con un tocco di Gershwin) arrangiato da Dick Halligan, e per lo standard “God Bless the Child”, un omaggio a Billie Holiday, la cantante più amata dalla Marcotulli. Particolarmente spumeggiante l’apertura affidata a “Io non sono nessuno”, con liriche della Marcotulli ispirate al poema “I am nobody! Who are you?” di Emily Dickinson e musica di Dick Halligan.

Il tutto dà vita ad una produzione di grande livello per più di un motivo: le qualità della Marcotulli (su cui ci soffermeremo tra poco), la bravura di tutti i musicisti che l’accompagnano, distribuiti in vari organici, la valenza artistica dei brani proposti. Brani molto variegati che danno modo alla Marcotulli di estrinsecare tutte le proprie potenzialità come il perfetto controllo dell’emissione, frutto evidente di un accurato studio del canto lirico (la si ascolti in ‘Gretchen am Spinnrade’ del già citato Schubert). Ma dopo questo saggio di bravura estraneo al jazz, ecco Carla rientrare nel mondo jazzistico con quella che è forse la migliore interpretazione dell’album, “God Bless the Chid” porto con sincera partecipazione. Ma al di là delle mie personalissime preferenze, c’è da sottolineare come la Marcotulli sia superlativa in ogni momento dell’album: sempre precisa, puntuale, con il giusto accento (il che cantando jazz in italiano non è proprio impresa facilissima), una convincente carica ritmica mitigata, all’occorrenza, da una “giusta” dolcezza (la si ascolti in “Live to Give”).

Insomma davvero un bel disco e non si spiega perché questo “Love is the sound of surprise” arrivi a distanza di 10 anni dall’ultimo lavoro discografico di Carla Marcotulli.

Con nelle orecchie ancora le atmosfere del CD, il 22 aprile ho voluto ascoltare Carla dal vivo, recandomi al Conservatorio Santa Cecilia per il concerto conclusivo di “Percorsi jazz”, il festival giunto alla sua XII edizione ideato e sviluppato in seno al Dipartimento di Jazz, Musiche Improvvisate e Audiotattili del Conservatorio diretto da Paolo Damiani. Ed è stato ancora una volta un bel sentire, nonostante l’infelice acustica della sala che ha reso praticamente inascoltabile il suono della batteria. La Marcotulli era coadiuvata da Greg Burk al pianoforte, Stefano Cantarano al contrabbasso, Bruce Ditmans alla batteria e un coro formato dai migliori allievi del corso di canto jazz curato dalla stessa Marcotulli. Sono stati presentati alcuni dei brani presenti nel CD e, nonostante l’ovvia differenza dal disco, data la diversità dell’organico, la Marcotulli ha avuto modo di evidenziare ancora una volta quelle doti che ne fanno una delle migliori vocalist del jazz italiano… e non solo!

Come detto, nel concerto della Marcotulli al Conservatorio, al pianoforte sedeva un artista che mi consentirete di considerare italiano a tutti gli effetti, dato che già da tempo ha scelto l’Italia come paese d’elezione. Sto parlando, ovviamente, di Greg Burk, artista che meriterebbe molto più di quanto abbia finora raccolto.

Pianista e compositore di rara raffinatezza, Greg nasce a Detroit in una famiglia di musicisti classici: il padre, figlio di immigrati russi e polacchi, era un direttore d’orchestra e la madre, di origine italiana, una cantante lirica. Inizia il suo percorso musicale a 16 anni, nella città natale, suonando con veterani del bebop come Larry Smith, Marcus Belgrave e Roy Brooks, e con giovani emergenti come James Carter, Rodney Whittaker e Gerald Cleaver. Prosegue i suoi studi musicali con grandissimi nomi del jazz internazionale come Yusef Lateef, Archie Shepp, George Russell e, infine, Paul Bley, che lo incoraggia a sviluppare e approfondire un suo stile personale. Nel 2002 esce il suo primo disco per la Soul Note Records. Nel 2004 si trasferisce definitivamente in Italia. Oggi Burk vanta 12 dischi a suo nome, compreso l’ultimo nato “The Detroit Songbook”, su cui vale la pena spendere qualche parola.

Registrato per la prestigiosa SteepleChase nel maggio del 2017 (è il secondo album del pianista per questa etichetta), Burk suona in trio con Matteo Bortone al basso e John B. Arnold alla batteria.

Il titolo ha una sua precisa ragion d’essere in quanto l’album racchiude una serie di brani scritti dal pianista dal 1991 al 1993, quando risiedeva a Detroit e mai più suonati né tanto meno incisi. E nelle note che accompagnano il disco, Greg rievoca la sua passione di quegli anni, ricorda gli altri giovani musicisti che con lui dividevano la scena musicale di Detroit, da Larry Smith a George Goldsmith, da Antonio Ciacca a Kelvin Sholar… insomma una sorta di amarcord, un sentito omaggio all’ambiente in cui si è formato, ma che nulla ha di stantio. Tutt’altro! La musica è fresca, coinvolgente, originale a dimostrazione di un artista a tutto tondo. E in questo album si possono soprattutto ammirare le capacità compositive di Burk, tenuto anche conto del fatto che i brani risalgono ad un periodo in cui l’artista non aveva ultimato il suo percorso formativo.

I pezzi appaiono tutti ben strutturati, sorretti da un solido impianto formale su cui si innestano le escursioni improvvisative certo non estranee al bagaglio dell’artista. Il trio si muove sulle coordinate dettate dal leader il cui fraseggio è sempre elegantemente ritmico, anche perché giunge a maturazione quell’insieme di input, di influenze, quella varietà di approcci che, come afferma lo stesso Burk, partendo da punti di vista diversi si integrano l’uno con l’altro. Non a caso la varietà è uno degli elementi che hanno sempre caratterizzato la sua musica. In questo senso un ruolo particolarmente importante è affidato alla sezione ritmica che deve essere in grado di seguire le intenzioni del leader pur nel variare delle atmosfere. E occorre sottolineare come sia Bortone sia Arnold abbiano fornito un supporto prezioso e determinante per la bella riuscita dell’album, il cui valore, a mio avviso, va al di là del fatto squisitamente musicale in quanto rappresenta anche la testimonianza, viva, pulsante, ancora attuale di un’intera generazione di musicisti che hanno contribuito in maniera determinante allo sviluppo del jazz negli ultimi trent’anni.

E veniamo a Riccardo Fassi e al “suo” Zappa.

Interessante, divertente, onirica, visionaria, trascinante, intrigante, ironica, ribelle… questi sono solo alcuni degli aggettivi che si potrebbero utilizzare per definire la musica di Frank Zappa, ma non sarebbero in ogni caso sufficienti ché la musica del compositore, chitarrista di Baltimora non può essere racchiusa nell’ambito di una qualsivoglia classificazione. Probabilmente l’unica parola che, seppure alla lontana, potrebbe dare un significato a ciò che la musica di Zappa ha rappresentato e ancora oggi rappresenta è il termine “attualità”. In effetti, ad oltre venticinque anni dalla scomparsa di Zappa, la sua musica risulta sempre fresca, di assoluta modernità come se fosse stata scritta solo pochi mesi fa. E un’ulteriore conferma se ne è avuta proprio in questi giorni ascoltando sia il recente CD inciso dalla Tankio Band di Riccardo Fassi sia il concerto del 26 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dedicato alla presentazione dell’album in oggetto (“Riccardo Fassi Tankio Band plays Zappa – The Return of The Fat Chicken – Alfa Music 200”).

Riccardo Fassi è pianista, compositore, arrangiatore tra i più preparati che il jazz italiano possa vantare. Costituita nel 1983, la “Tankio Band” si è immediatamente imposta all’attenzione di critica e pubblico per la particolare strutturazione dell’organico, che si traduce in una coloritura ed in una timbrica assolutamente originale. Dal canto suo Fassi è sempre stato innamorato della musica di Zappa, che conosce a menadito. Di qui l’idea di inserire nel repertorio dell’orchestra un programma dedicato a Zappa; di qui l’incisione di due CD.

Quest’ultimo, registrato nel novembre del 2016 e nel maggio del 2017, accanto alle composizioni di Zappa che abbracciano vari periodi dai primi anni ‘70 ai ‘90, presenta la celebre “Uncle Remus” di George Duke e alcuni pezzi di Fassi e Salis. Dal punto di vista dell’organico, la Tankio è “rinforzata” dalla presenza di prestigiosi ospiti quali Napoleon Murphy Brock vocalist e sassofonista che per oltre dodici anni militò nelle formazioni dirette da Zappa, Alex Sipiagin tromba e flicorno, Gabriele Mirabassi clarinetto, Antonello Salis accordeon, Ruben Chaviano violino e Mario Corvini trombone.

Il risultato è eccellente: Fassi si dimostra ancora una volta artista di assoluto livello, riuscendo a cucire addosso alla musica di Zappa degli arrangiamenti che pur nell’assoluto rispetto dell’originale portano la musica su un versante prettamente jazzistico consentendo ai vari solisti di esprimersi al meglio anche attraverso spazi improvvisativi assenti nelle partiture originali.

Ciò detto, trasferite queste considerazioni al concerto del 26 aprile ed avrete un’idea chiara della musica che Fassi ci ha offerto.

Pur annoverando tra gli ospiti il solo Gabriele Mirabassi, la band ha macinato musica come un treno, precisa, trascinante, senza un attimo di stanca: così uno dopo l’altro abbiamo ascoltato alcuni capolavori di Zappa, da “Little Umbrellas” a “Uncle Meat” impreziosito dal primo dei molti assolo che Gabriele Mirabassi ci avrebbe regalato nel corso della serata, da “Oh no” ad un medley comprendente “Let’s Make The Water Turn Black” con in primo piano l’ensemble dei fiati, “Eat That Question” e “I’m the Slime”, da “Sofa” una delle poche ballad zappiane all’ironico “Take Your Clothes Off When You dance” dedicato ai “frichettoni” anni ‘70, da “It Must Be A Camel” a “G-Spot Tornado”, una delle ultime composizioni di Zappa originariamente tutta scritta e nel cui ambito Fassi ha invece introdotto una struttura di improvvisazione, per chiudere con “Uncle Remus” che come accennato fu scritto da George Duke per Zappa il quale scrisse un testo cantato. Come bis non poteva mancare quello che forse è il brano più celebre di Zappa, vale dire “Peaches en Regalia”, interpretato ancora una volta magnificamente dalla band. Ed a proposito dell’orchestra, data la valenza della stessa, credo valga la pena citarne tutti i componenti: Giancarlo Ciminelli e Sergio Vitale alle trombe, Massimo Pirone trombone, Roberto Pecorelli tuba, Sandro Satta sax alto, Torquato Sdrucia sax baritono, Steve Cantarano contrabbasso, Pietro Iodice batteria, Riccardo Fassi piano, tastiere, direzione e arrangiamenti oltre al già citato ospite Gabriele Mirabassi al clarinetto.

Gerlando Gatto

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Paolo Soriani e Adriano Bellucci rispettivamente per le immagini di Rita Marcotulli e Riccardo Fassi, Tankio Band.

La diciottesima edizione di Jazz ‘n Fall a Pescara

La diciottesima edizione di Jazz ‘n Fall: ritorna lo storico festival autunnale della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara”

Il prossimo mese di novembre riporta una gradita sorpresa agli appassionati di jazz: dopo qualche stagione di assenza, torna Jazz ‘n Fall, il festival autunnale organizzato dalla Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” con la direzione artistica di Lucio Fumo. All’insegna del motto voluto dal direttore artistico, “New Bottle Old Wine”, la diciottesima edizione si articola in tre appuntamenti con cinque formazioni impegnate sul palco del Teatro Massimo di Pescara.

Il programma si apre, lunedì 6 novembre 2017, con il duo formato da Richard Galliano e Ron Carter. Si prosegue poi giovedì 23 novembre con i concerti del Cyrille Aimée Quartet e del Pescara Jazz Ensemble e venerdì 24 novembre con le esibizioni del Melissa Aldana Quartet e l’omaggio a Toots Thielemans proposto dal quartetto guidato dall’armonicista Gregoire Maret che vede la presenza speciale del pianista Antonio Faraò.

Con la nascita di Jazz ‘n Fall nel 1990, Pescara è stata la prima città ad avere due festival jazz in Italia. La diciottesima edizione di Jazz ‘n Fall riprende il cammino del festival autunnale ed esplicita la filosofia che da sempre lo ha caratterizzato proprio grazie al titolo scelto – New Bottle Old Wine è il titolo di un disco di Gil Evans, pubblicato nel 1958. Il carattere essenziale della rassegna è sempre stato mettere artisti dalla carriera più consolidata a fianco di vere e proprie “scommesse” e, allo stesso modo, guardare tanto alle tradizioni sviluppate negli Stati Uniti e in Europa quanto ai talenti emergenti e ai musicisti in grado di evocare il futuro del jazz. (altro…)

Ferrara in Jazz. Al via la XIX edizione

Ferrara in Jazz 2017 – 2018
40° anno – XIX Edizione
06 ottobre 2017 – 30 aprile 2018

Il 26 aprile 1977 il “Circolo Amici del Jazz” (che in seguito diverrà Associazione Culturale Jazz Club Ferrara) iniziava la propria attività di promozione del patrimonio musicale afroamericano. Da allora sono trascorsi quarant’anni senza alcuna interruzione, durante i quali Ferrara e il suo territorio sono stati teatro delle esibizioni di tutti i più importanti jazzisti nazionali e internazionali. A metà di questa storia si colloca Ferrara in Jazz, rassegna che si svolge nella suggestiva sede del Torrione San Giovanni (bastione rinascimentale iscritto nella lunga lista dei beni UNESCO e location per il cinema di Emilia-Romagna Film Commission), che si appresta ad inaugurare la XIX edizione con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara, Endas Emilia-Romagna ed il prezioso sostegno di numerosi partners privati.
Con alle spalle un’estate densa di appuntamenti in Riviera, l’inclusione nella guida alle migliori jazz venues al mondo da parte dell’internazionale DownBeat Magazine, la vittoria del bando S.I.A.E “S’illumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”, e quella dei Jazzit Awards 2016 nella categoria “Jazz Club Italia” per il sesto anno consecutivo, Ferrara in Jazz prende il via venerdì 06 ottobre 2017 con la contagiosa energia dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, la resident band del Torrione formata da oltre 20 elementi, diretta da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon. (altro…)

I NOSTRI CD. Luci ed ombre dalle novità discografiche dall’Italia e dall’estero

Antonella Chionna – “Rylesonable” – Dodicilune 371
Spero di non attirarmi la solita valanga di critiche quando mi capita – ad onor del vero piuttosto raramente – di parlare male di qualche disco. Ecco questo “Rylesonable” è un album che ben difficilmente ascolterei una terza volta (prima di recensirlo l’ho ascoltato attentamente due volte). Nato nel corso di un tour della Chionna negli Stati Uniti e registrato nel Rear Window Studio di Brookline, l’album presenta accanto alla vocalist, il pianista Pat Battstone, il contrabbassista Kit Demos e il vibrafonista Richard Poole. Un combo, quindi, di tutto rispetto che si avventura, però, su un territorio che il vostro cronista non apprezza particolarmente. In repertorio otto brani frutto della collaborazione tra i quattro musicisti, cui si aggiungono “Sophisticated Lady” di Duke Ellington, Irving Mills e Mitchell Parish, “Lover Man / Nature Boy” di Jimmy Davis, Roger Ramirez, James Sherman ed Eden Ahbez, “Fida (to Carla)” con testo della Chionna su musica del chitarrista e compositore pugliese Gabriele di Franco e “Rather Life”, liberamente ispirato da un poema di André Breton. Dopo il lavoro in duo “Halfway to Dawn” con il chitarrista Andrea Musci, la giovane cantante tarantina Antonella Chionna ritorna, quindi, con un altro disco che evidenzia le potenzialità della sua voce. E su questo non ci sono dubbi. Ma allora perché estremizzare la performance, perché spingere il tutto come a voler rifiutare qualsivoglia leggibilità? L’impressione è che alle volte, spinti dalla voglia di evidenziare le proprie potenzialità, alcuni musicisti – soprattutto giovani – insistano un po’ troppo sul lato tecnico dimenticando che la musica è anche, se non soprattutto, trasmissione di emozioni.

Claudio Cojaniz – “Stride Vol.3 – Live” – Caligola 2223
“Sound of Africa – Caligola 2228
Claudio Cojaniz è musicista sincero, coraggioso, che non ha paura di esprimere le proprie convinzioni sia con le parole sia con la musica. Questi due album ne sono l’ennesima conferma, se pur ce ne fosse stato bisogno.
Il primo, registrato il 18 luglio del 2015 durante un concerto all’Arena del Parco Azzurro di Passons in provincia di Udine, rappresenta il terzo episodio di una riuscitissima serie che la Caligola sta dedicando alla valorizzazione di questo artista friulano. In questo terzo volume Cojaniz esegue in piano-solo un repertorio in cui a brani tratti dal songbook jazzistico si alternano canzoni come “Il nostro concerto” o “Michelle” e un pezzo folkloristico macedone. Indipendentemente dal materiale che si trova ad affrontare, il pianismo di Cojaniz mantiene una sua intima coerenza: robusta tecnica ma usata con parsimonia, armonizzazioni mai banali, spiccata sensibilità melodica (si ascolti al riguardo il brano d’apertura (“I loves you Porgy” di George & Ira Gershwin), perfetta padronanza della dinamica, uno spiccato senso del blues (particolarmente evidente in “Nobody knows you when you’re” down and out), assoluta coerenza nel mai disgiungere il suo impegno politico dalla musica (ecco quindi la riproposizione di “Gracias a la vida” di Violeta Parra) e quindi nessuna paura di osare quando lo ritiene necessario. In questo senso da segnalare, in conclusione, la toccante versione de “Il nostro concerto” un brano che tra le dita di Claudio riesce a esprimere tutta la delicatezza e l’amore di cui era capace Umberto Bindi.
Abbiamo già parlato dell’impegno politico di Cojaniz e questo “Sound of Africa” si inserisce proprio in tale contesto. Realizzato nel marzo del 2017, è frutto di una collaborazione tra l’associazione TimeforAfrica di Udine e Caligola Records di Venezia; il ricavato andrà infatti a finanziare un progetto educativo per le famiglie dei minatori sudafricani di Marikana, sterminati dalle forze di polizia nel 2012 durante uno sciopero indetto per protestare contro le condizioni di vita. L’album è stato presentato in prima assoluta durante “Udin&Jazz 2017” con grande successo; il disco ricrea appieno le atmosfere vissute durante il live. Splendidamente completato da Alessandro Turchet, contrabbasso, Luca Grizzo, percussioni e voce e Luca Colussi, batteria, il quartetto non scimmiotta posticce atmosfere africane, ma si rifà alla cultura di quel continente per trarne fonte di ispirazione: quindi l’Africa come una sorta di madre musicale, da cui ha preso le mosse anche il jazz. Non a caso l’album inizia con l’esecuzione per piano solo dell’inno nazionale sudafricano, anche se già dopo un minuto entrano in azione gli altri tre musicisti ed il brano, sorta di medley, diventa così –informa una nota della Caligola – “una composizione originale di Cojaniz, Capetown, contrariamente a quanto indicato nelle note di copertina”. E non a caso Cojaniz ha composto e incluso nell’album il brano “Marikana” proprio in ricordo di quella strage cui prima si faceva riferimento. Insomma un’altra, l’ennesima, prova di maturità del pianista friulano che si esprime al meglio anche come compositore dal momento che la quasi totalità delle composizioni sono sue.

eMPathia – “COOL Romantics” – mpi 2316
“eMPathia” è un duo che ti conquista immediatamente sia che lo ammiri in concerto sia che ascolti un suo disco. E i motivi sono molteplici. Innanzitutto la bravura dei musicisti: Mafalda Minnozzi è una vocalist dotata di grandi mezzi vocali, di squisita sensibilità e di una rara presenza scenica; oramai da molti anni si è fatta ambasciatrice della buona musica italiana nel mondo ottenendo straordinari successi soprattutto in Brasile, sua seconda patria. Paul Ricci, chitarrista di origini italiane, è strumentista che coniuga una tecnica sopraffina ad una non comune capacità di arrangiare i brani non facili che i due presentano. Lavorando assieme da molti anni, i due hanno sviluppato una bella intesa declinata attraverso un’operazione a sottrarre nel senso che hanno ricercato l’essenziale, risultato perfettamente raggiunto in questo album che rappresenta il coronamento di una trilogia, iniziata con “eMPathia jazz duo” e proseguita con “Inside”. Alle prese con un repertorio di estrema difficoltà, comprendente brani arci noti tratti dal pop, dal jazz, dalla musica brasiliana, dalla musica cantautorale italiana come “Insensatez”, “Dindi”, “Triste sera” di Luigi Tenco, “Nuages” forse la più bella composizione di Django Reinhardt, “Via con me” di Paolo Conte, i due riescono a trascendere le sonorità proprie dei linguaggi su accennati per attingere ad una forma espressiva nuova, originale. Forma espressiva che trae origine da un lato dalle diverse esperienze che i due hanno vissuto lavorando sui palcoscenici di mezzo mondo – dall’ Europa all’America latina… agli Stati Uniti d’America, dall’altro dalla facilità con cui i due riescono a improvvisare sulla scena sorretti da quell’intesa cui prima si faceva riferimento e da un gusto particolare per fitte trame melodico-armoniche sorrette sempre da un ritmo, alle volte sotto traccia, che Paul riesce a infondere in ogni esecuzione.

Fatsology – “A Tribute To The Music of Fats Waller” – abeat 170
Un sestetto di All Stars impegnate in un tributo a Fats Waller, pianista, cantante, interprete e compositore di alcuni brani memorabili. Protagonisti Gianni Cazzola il decano della batteria jazz italiana essendo sulla scena da oramai una sessantina d’anni, Sandro Gibellini chitarrista di ampie vedute e di altrettanto ampi consensi, Alan Farrington eccellente crooner, Alfredo Ferrario uno dei migliori clarinettisti di genere traditional in Italia, Marco Bianchi vibrafonista di grande sensibilità, Roberto Piccolo contrabbassista tra i più richiesti. La musica di Fats Waller è straordinaria contenendo in sé una valenza che per tanti anni non ha trovato eguali: non a caso era la musica che ha fatto ballare l’America per tanti anni e non a caso alcuni suoi brani sono rimasti immortali. Nel programma del CD tredici brani arrangiati in modo magistrale da Sandro Gibellini che guida il gruppo con energia, con classe inducendo tutti a suonare con gioia e partecipazione. Tutto bene, quindi? Non proprio ché alla freschezza del gruppo nella sua versione strumentale, si contrappone una voce che per quanto valida poco si adatta, almeno a nostro avviso, ad eseguire questo particolare repertorio. In effetti le interpretazioni di Fats Waller rimangono irraggiungibili quanto a musicalità e senso dell’ironia, dote, quest’ultima, cha manca completamente al pur bravo Alan Farrington; e per rendersene conto basta ascoltare i due brani più celebri di Waller, “Ain’t Misbehavin” e “Honeysuckle Rose”.

Paolo Fresu – “Two ” – Tuk 016
“Magister Giotto” – Tuk 020
Paolo Fresu è attualmente, senza ombra di dubbio, la punta di diamante del movimento jazzistico italiano. E questo non solo per le straordinarie capacità musicali, per lo smisurato talento, ma anche per la personalità dell’uomo che ama spendersi nelle più diverse occasioni, che mai si tira indietro, che ama- come suol dirsi- metterci la faccia. Emblematico, al riguardo, il suo contributo per organizzare i grandi concerti de L’Aquila. Il tutto senza minimamente incidere sulla qualità delle sue produzioni artistiche. E ne abbiamo un altro esempio in questi due album, l’uno più bello dell’altro.
In “Two Minuettos”, ad 8 anni di distanza dall’ultima collaborazione documentata dall’album “Think” uscito per la Blue Note/Emi, Fresu è tornato a duettare con il pianista Uri Caine in occasione dei tre concerti milanesi che il duo tenne al Teatro dell’Elfo dal 27 febbraio al 1 marzo 2015. Si, tratta, quindi di un live articolato su nove brani molto differenti che vanno da Bach a Bruno Lauzi passando attraverso Gershwin, Mahler, Joni Mitchell, Eden Ahbez e Barbara Strozzi, compositrice e soprano (1619 -1677), figura di rilievo della musica barocca veneta, oggi conosciuta soltanto da pochi esperti, a conferma di quanto possa essere vasto e completo l’universo musicale frequentato dal trombettista sardo. Ed è un vero godimento per le orecchie ascoltare con quanta passione, competenza, determinazione i due affrontano pagine musicali talmente distanti tra di loro. Il flicorno di Fresu disegna, con la solita eleganza, eleganti linee melodiche ben sorrette da un Uri Caine, con il suo classico contrappunto, assolutamente a suo agio nel completare quell’universo jazzistico in cui inserire le esecuzioni. Ecco quindi le note dei due che si incastonano a meraviglia sì da far assurgere a nuova modernità quei pezzi classici cui prima si faceva riferimento.
“Magister Giotto” è un album particolare: il trombettista sardo, in occasione dell’esposizione “Magister Giotto”, in programma dal 13 luglio al 5 novembre prossimo, presso la Scuola Grande della Misericordia a Venezia, per i 750 anni della nascita del grande artista fiorentino, ha realizzato uno speciale CD, dal titolo omonimo e dal formato assolutamente atipico, con in copertina una delle immagini celebri di Giotto, “Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro”, per gentile concessione del Comune di Padova. Graficamente splendido anche il libretto d’accompagno con una serie di foto che richiamano diversi colori e che contengono le indicazioni sui brani. A quest’ultimo riguardo occorre precisare che Fresu ha scelto alcuni pezzi del già ricco catalogo Tuk Music, la casa discografica da lui stesso fondata, per creare una sorta di colonna sonora che accompagna il pubblico durante il suo viaggio alla scoperta di Giotto. Così accanto al trombettista abbiamo modo di ascoltare, divisi in vari organici ancora Uri Caine, Omar Sosa, Jaques Morelembaum, Daniele di Bonaventura, Gianluca Petrella, I Virtuosi Italiani, Michele Rabbia, Leila Shirvani, William Greco, Marco Bardoscia, Emanuele Maniscalco. Insomma una realizzazione molto, molto particolare che non a caso inaugura la Tuk Art, sezione della Tuk Music dedicata alle forme del figurativo.

Roberto Gatto – “Now!” abeat 172
Roberto Gatto è unanimemente considerato uno dei migliori batteristi, non solo italiani, attualmente in esercizio. Sorretto da una grandissima passione, si è fatto le ossa studiando sodo e collaborando con artisti di assoluto livello quali Johnny Griffin, George Coleman, Joe Zawinul, Curtis Fuller … tra gli altri. Oggi ovunque si vada Roberto è uno dei non molti jazzisti italiani conosciuti ed apprezzati. E questo album conferma quanto già di buono si sapeva sul suo conto non solo come batterista ma anche come leader e fautore di validi progetti. Ad accompagnarlo Alessandro Presti alla tromba, Alessandro Lanzoni al piano (vincitore del TOP JAZZ 2013, nella categoria Miglior Nuovo Talento) e Matteo Bortone al contrabbasso (cui è stato assegnato il premio Maletto del Top Jazz 2015). Insomma un quartetto di eccellenti musicisti che si misura su un repertorio che annovera nove originals, due standards (“I’ve Got You Under My Skin” di Cole Porter e “Thelonious” di Monk) e una moderna composizione di Chris Potter “Tick Tock”. Il terreno su cui si muovono i quattro è quello prettamente jazzistico, senza se e senza ma, vale a dire la giusta carica di swing, il piacere dell’interplay, la propensione ad improvvisare… e soprattutto quel lirismo, quel gusto per le belle melodie che sono patrimonio precipuo dei jazzisti italiani. Roberto sostiene il gruppo con il suo impeccabile drumming, con quel senso del tempo che tutti gli riconoscono e riesce così di volta in volta a lanciare i vari solisti che hanno modo di estrinsecare tutte le proprie potenzialità. Ad esempio ascoltiamo Alessandro Presti disegnare le ardite volute di “Tick Tock” con un suono netto, quasi senza vibrato e interpretare con sincera partecipazione il suo brano “Amastratum” mentre Matteo Bortone, valido partner di Gatto in tutto il disco, si fa particolarmente apprezzare sia in “Thelonious” sia nella sua “May”; infine Lanzoni dimostra di essere musicista oramai maturo anche dal punto di vista compositivo grazie al suo convincente “Brendy”.

Tigran Hamasyan – “Atmosphères” ECM 2414/15
“An Ancient Observer”
Tigran Hamasyan, giovane e dotato pianista di origine armena, si ripresenta con due realizzazioni discografiche: un doppio CD per la ECM e un album per la Nonesuch. Ambedue gli album confermano appieno quanto di buono già si conosceva di questo talento anche perché lo si ascolta in contesti diversi. Ma procediamo con ordine.
Il titolo “Atmosphères” illustra assai bene il relativo contenuto musicale, vale a dire le atmosfere cangianti, ora oniriche, ora più materiche (si ascolti “Trace II”) proprie della cifra stilistica del pianista armeno. L’album, registrato nel giugno del 2014 presso l’Auditorio della Radiotelevisione Svizzera a Lugano, coglie Tigran accompagnato da un trio di straordinari musicisti norvegesi quali Arve Henriksen alla tromba (magnifici i suoi assolo in “Traces IV” e in “Garun A”), Eivind Aarset alla chitarra e Jang Bang ai campionamenti. Sciolti da ogni legame precostituito, i quattro danno libero sfogo alla propria creatività producendo una musica in cui non è facile distinguere tra pagina scritta e parti improvvisate… ammesso che ciò sia importante. Invece è determinante il fatto che Hamasyan e compagni riescono a coniugare il linguaggio jazzistico – anche il più spinto – con la tradizione armena; funzionale a tale obiettivo è la scelta del repertorio costituito sia da composizioni originali sia da brani di Padre Komitas Vardapet, forse il più importante rappresentante della moderna musica armena. Di grande sostanza il pianismo di Tigran, che senza esagerare, senza forzare, gioca sulla dinamiche, sul timbro dello strumento ottenendo risultati del tutto personali. Dal canto loro i musicisti norvegesi – ma non è certo una sorpresa – seguono perfettamente gli intenti del leader aggiungendo un tocco di sognante impressionismo che qualifica ulteriormente l’album.
In “An Ancient Observer” ritroviamo Tigran Hamasyan in solitaria, impegnato sia al pianoforte sia alla voce, sia alle tastiere e agli effetti elettronici. E le impressioni non mutano, salvo il fatto che non sentendosi in qualche modo vincolato dalla presenza di altri musicisti, il pianista dà libero sfogo al proprio talento riuscendo ad esprimere appieno tutte le varie sfaccettature della sua complessa personalità. In qualche caso, specie quando abbandona il pianoforte, ciò lo porta ad esagerare, ad abbandonare quella sorta di minimalismo che invece caratterizzava il precedente doppio album. Eccolo comunque, passare con disinvoltura dalla danza barocca all’hip-hop, dalla musica da camera al cantautorato, dal jazz al folk tenendo, però, sempre ben presente le sonorità del suo paese. Tigran esegue dieci nuove composizioni che, come egli stesso afferma, sono “delle osservazioni musicali sul mondo nel quale viviamo, e sul peso della storia che portiamo con noi.” E sono composizioni che evidenziano appieno il suo profondo senso compositivo, con equilibrio strutturale e linee melodiche alle volte di straordinaria suggestione.

Hard Up Trio – “Waves” – CDLN
Quando si parla di post free, di jazz informale, di musica improvvisata…o comunque la si voglia chiamare credo sia giunto il momento di porre qualche punto fermo ad evitare che si ascolti musica di nulla o scarsa valenza. Ecco, a mio avviso, quando ci si cimenta con questo genere di linguaggio, occorre che sia rispettata almeno una delle seguenti condizioni: che si tratti di musica totalmente improvvisata sì da configurare una sorta di composizione istantanea (alla De Mattia tanto per intenderci), o che gli artisti siano talmente ad alto livello da presentare un jazz originale che non contenga alcunché di scontato. Purtroppo in questo album non sentiamo soddisfatta alcuna delle suddette condizioni. L’ “Hard Up Trio”, al secolo Andrea Morelli sax tenore, soprano, sopranino, Massimo “Maso” Spano contrabbasso, Alessandro Garau batteria sono musicisti ben preparati, conoscono i rispettivi strumenti e possono anche contare su una buona intesa dato che suonano assieme da qualche tempo e questo è il loro secondo album. Ma tutto ciò non basta. La loro è una musica che si lascia ascoltare, a tratti anche con interesse dato il mélange di diversi input, ma non si avverte alcun guizzo che ridesti l’attenzione dell’ascoltatore né dal punto di vista esecutivo né da quello compositivo (tutti i nove brani sono composizioni originali, tre di Garau, cinque di Morelli e una di Spano). Insomma, per dirla con Ashley Khan, manca quel quid “di casual e organico che può fare di una band molto di più della somma delle sue parti”.

Sean Jones – “Live From Jazz at The Bistro” – Mack Avenue
Registrato a St. Louis’ Jazz al the Bistro club dal 3 al 5 dicembre del 2015, questo album ci presenta l’abituale quartetto guidato dal trombettista e flicornista Sean Jones con il pianista Orrin Evans, il bassista Luques Curtis e il batterista Obed Calvaire, sostituito in quattro brani da Mark Whitfield Jr. mentre in altri quattro pezzi si ascolta un altro vecchio e caro amico di Jones, vale a dire il sassofonista alto e soprano Brian Hogans. La prima impressione che si ricava dall’ascolto dell’album – l’ottavo firmato da Sean per la Mack Avenue – è quella di una perfetta intesa e ciò si spiega con il fatto che il quartetto di Jones lavora assieme da ben undici anni, cosa di certo poco comune nell’attuale panorama jazzistico internazionale. In un contesto talmente ben collaudato è risultato facile l’inserimento degli altri due musicisti cosicché l’album nulla perde della sua intrinseca coerenza a prescindere dall’organico. In programma sette composizioni originali di cui quattro del leader, una cadauno rispettivamente di Brian Hogans e Orrin Evans e il traditional “Amazing Grace”. Sin dalle primissime note, tutti i brani evidenziano quella compattezza cui prima si accennava (si ascolti già nel brano d’apertura “”Art’s Variable” dedicato a Art Blakey l’entusiasmante intesa tra il leader e la sezione ritmica con il pianista Orrin Evans che si produce in un notevole assolo) e la capacità dei musicisti di porsi a totale servizio della musica pur conservando ampi spazi di improvvisazione. Comunque in primo piano è quasi sempre Sean Jones con il suo sound così caldo, corposo, capace di transitare con facilità da atmosfere melodiche a climi ben più arroventati. (altro…)