I nostri CD: jazz di viaggio

Si viaggiare. Con i dischi lo si può fare low cost, a rischio zero quanto a code, disdette, scioperi, ritardi, scali, turbolenze e chi ne ha più ne metta. Basta avere gli album giusti dove ci si trova ed un po’ di fantasia da stimolare attraverso l’ascolto. Eccone alcuni di quelli utili a immaginare viaggi virtuali verso mete vicine o lontane.

Parlando di Jazz di Viaggio, non potevamo non iniziare con la recensione di un cd inviataci da un critico musicale italiano che vive da tempo a Hong Kong. Il suo nome è Franco Savadori, esperto di jazz, diplomato al Conservatorio G. Tartini di Trieste in timpani e strumenti a percussione e da oltre 25 anni qualificato mercante d’arte e manager di importanti gallerie. Savadori recensisce il cd dei Green Tea inFusion, gruppo del Nord-Est formatosi di recente che annovera tra i suoi componenti tre veterani della fusion e un giovanissimo talento. (Redazione)

GreenTea inFusion, “GreenTea inFusion” (Autop.)

È proprio vero: le vecchie abitudini sono dure a morire… E così, in maniera a dir vero inaspettata, spunta questa nuovissima raccolta di tracce sonore svolte ed elaborate dagli immaginifici fratelli Fabris, Franco alle tastiere e Maurizio alle percussioni, integrati, per volere di sincronico destino, dal polistrumentista Gianni Iardino, nonché dal tornito e solido basso del giovanissimo Pietro Liut. Come d’abitudine propria al navigato Franco, non a caso forgiatosi anche sui campi di calcio, anche in questa circostanza è stata data piena preminenza al gioco di squadra collettivo, in un contesto di perfetta parità all’interno dei singoli ruoli esecutivi, per quanto sei degli otto brani incisi siano nati dalla felice vena compositiva di Gianni Iardino, pianista d’estrazione accademica, ma saxofonista per immagamento timbrico, come ben si può cogliere dall’ascolto di questa manciata di acquarelli timbrico-armonici. Una musica, questa, veramente posta in (in)fusione), ove le sensazioni speziate delle sonorità riportano ad un mélange ricco di rimandi, ispirazioni, citazioni appena accennate, fondali sonori che in parte inducono alla nostalgia per gusti antichi, all’improvviso riaffiorati per via retronasale, di quelli celati negli anfratti più reconditi di memorie archiviate, ma mai del tutto sopite. Tutto può accadere, e tutto accade, entro le mura all’apparenza ordinate di questi brani. La celebrazione della post-post-modernità in musica? L’amore per il bricolage di generi, stili e prassi organizzative? Forse, può darsi: ma lungi dall’essere una musica preparata “a tavolino”, questi brani procedono lisci e senza alcuna forzatura proprio al pari d’una suadente e profumata tisana dai risvolti concilianti e dagli intenti lenitivi.
Queste composizioni sono toccate e benedette dalla capacità comune all’intero gruppo di tendere ad una sorta di laconicità opulenta, tra cetre russe, kalimbe equatoriali, koti estremo orientali e tanto altro ancora, che, ben si noti, trova la propria base nel mozartiano lavoro compiuto da Maurizio Fabris alle percussioni, dove la pesantezza batteristica viene sostituita da una elegantissima levità percussiva, tanto timbricamente varia quanto dinamicamente contenuta nell’alveo della sonorità generale. Bello pure l’intreccio dei fondali, distribuiti tra le tastiere di Franco e Gianni, a supporto del traboccante itinerare del contralto dello stesso Iardino, mai dimentico della passionalità melodica, con probabilità la vera carta vincente della godibilità totale di questo fresco e delicato lavoro. Un’operazione portata a termine da quattro anime empaticamente musicali, il cui scopo primario era quello di riuscire a replicare su CD una musica scaturita per il puro gusto di creare assieme la giusta miscela timbrica per le vostre assetate orecchie. Quindi: buon ascolto e buona bevuta. (Franco Savadori)

*** ed ora, spazio alle recensioni di Amedeo Furfaro

Tatiana Valle & Giovanni Guaccero – “Canto Estrangeiro” – Encore Music

E’ come se alla storia piacesse … shakerare e sperimentare, nel proprio scorrere, nuovi cocktail. L’alchimia è avvenuta con la musica del Brasile dove la cultura dei conquistadores portoghesi, mixata con “spezie” locali, ha plasmato uno specifico heritage generando forme come choro, maxixe e samba, così “distanti” da fado e fandango, a volerne sottolineare la distanza dall’eredità culturale della madrepatria. Con la quale peraltro il rapporto è continuato ad esistere e vive tuttora in Europa, Italia compresa, a causa dell’approdarvi di artisti brasiliani in analogia ad altri colleghi ispanoamericani. Canto Estrangeiro, album della Encore Music a firma della vocalist Tatiana Valle e del pianista Giovanni Guaccero, è una tela sonora e canora del Brasile fuori dal Brasile, un paese-doppio, un’immagine riflessa richiamata e ricamata da Guaccero sui versi di Luis Elòi Stein a partire da Lingua Minha che precede una dozzina di splendide composizioni. Ne ha scritto la musica da “straniero” che ha assimilato Jobim, de Hollanda, Nascimento, il poeta de Moraes….per un viaggio “di ritorno” verso il Rio Grande do Sul, dal Tevere, il cui “voucher” è un compact carioca curato in ogni particolare. Vi hanno partecipato il batterista Bruno Marcozzi, la flautista Barbara Piperno, il chitarrista-mandolinista Marco Ruviaro, con ospiti Giancarlo Bianchetti alla chitarra elettrica, Henrique Cazes al cavaquinho, Fred Martins al canto, Carlos Cèsar Motta alle percussioni e Francesco Maria Parazzoli al cello. Nell’insieme il Brasile di Guaccero-Stein e della Valle non risulta oleografico né saporifero di vintage bensì è partecipe dell’oggi in ruoli di protagonista fra le nuove correnti della musica tropicale ad influsso jazz che spirano forti oltre l’Atlantico.

Aiòn – “Me vs Myself” – Alterjinga

Ricorda a momenti le elucubrazioni fonetiche di Bobby McFerrin l’album di Aiòn Me Vs Myself (Giorgio Pinardi) edito da Alterjinga, per lo scavo, a livello di vocalizzazione, effettuato su realtà musicali remote. Non cambia l’approccio sia che provengano dall’Africa della tribù Dagara inYelbongura” o dal gaelico in “Scriob” o dal danese arcaico di “Hyggelig”. C’è, in genere, una “manipolazione” dei materiali musicali trattati – e questo accade ancora in “Leys” – che forse lo stesso Demetrio Stratos oggi non avrebbe disdegnato nelle proprie “investigazioni” tendenti a far “cantare la voce”. Il lavoro continua con “Waldeinsamkeit”, impronunciabile termine tedesco che non ha una diretta traduzione in inglese e che vuol dire essere in connessione con la natura (e con la musica) e con “Rwty” (Sfinge in antico egiziano) a riprova di come, in musica, la ricerca etimologica si possa coniugare con quella etnologica. Chiudono l’album il desertico “Kamtar” quindi “aPHaSIa” (stesso significato in italiano) e “Nèkya” ovverossia la discesa agli inferi dei greci, detta in termini psicanalitici il processo younghiano di scoperta dell’inconscio.

Bincoletto-Vio-Trabucco-Drago – “Duende” – Abeat Records

Il Duende, per Garcia Lorca, è un imprecisato non so che proprio di alcuni toreri, pittori, poeti, musicisti, uno “stile vivo”, “creaciòn en acto”, fluido irresistibile che arriva al pubblico e che, nei “suoni neri” del jazz, è stato da alcuni associato alla Holiday ed a Miles Davis. Il ribattezzare Duende un progetto discografico, come hanno fatto la vocalist Rita Bincoletto, il chitarrista Diego Vio, il percussionista Max Trabucco e l’ospite Anais Drago, violinista, assume l’intento di traslare la cultura flamenca del poeta spagnolo ricercando le relazioni di quel “potere” nel pianeta liquido del Mediterraneo. La loro traversata geOnirica in un ondoso campo largo li porta fino alla Grecia del traditional “Amygdalaki Tsakisa” ed al Medio Oriente di “Isfahan Trip”; quindi, tramite “Desert Way”, eccoli incrociare figure reali (“Isola”) e mitologiche (“Tres Sirenas”). Un lavoro “waterworld” pubblicato da Abeat Records che consta di nove brani in tutto per la maggior parte scritti e/o arrangiati da Bincoletto, Vio e Trabucco, navigatori fra i suoni marini.

Vincenzo Caruso – “Chansons sous les Doigts” – Dodicilune

Chansons sous les doigts è una selezione di 19 canzoni francesi arrangiate per piano da Vincenzo Caruso che ci ricorda quanto ci siano vicini, in musica, i cugini transalpini. Sono tratteggiate, nell’album Dodicilune, in modo essenziale, scarnificate del testo con focus sulla melodia e l’armonizzazione con sensibilità moderna. Caruso se ne innamorò giovanissimo tramite gli spartiti inviatigli dallo zio Antonio Di Domenico, chansonnier ed editore a Parigi, coltivando nel tempo una passione pianistica che lo avrebbe portato a collaborare a Irma la Douce, la famosa commedia musicata da Marguerite Monnot, di cui ripropone nel disco la “Piccola Suite per Piano”. I temi proposti sono di nomi altisonanti come Henry Salvador (“Syracuse”), Gilbert Becaud (“Quand il est mort le poète”), Georges Brassens (“J’ai rendez vous avec vous”) … L’antologia rappresenta un omaggio alla chanson in cui il pianoforte contende lo scettro di strumento principe alla fisarmonica e, nel contempo, ne offre un’ampia gamma – “Le tango corse”, lo swing di “On est pas là pour se faire engueler”, l’incipit musorgskiano di “Comèdie”, il walzer di “Domani”, il distillar note alla Satie di “Le deserteur” – che ne saggia la tavolozza espressiva e coloristica. Il disco è chiuso da “Après l’ourage” che potrebbe, perche no, commentare un film di Méliès, muto, tanto la narrazione è affidata alle dieci dita, les doigts, sulla tastiera.

TMR – “Tuscany Music Revolution” – Aut Records

Ci sono tre quarti d’ora buoni di musica nell’album TMR Tuscany Music Revolution, prodotto dalla label tedesca Aut Records, divisa in sette parti di durata varia che va dai due agli otto minuti. Ne è protagonista l’Improvvisazione con consonanze (II) e minimalismi (III), africanerie (IV) e simil-musica d’oggi (V)… Il parterre artistico internazionale (V. Sutera, v; M. Mazzini, cl; E. Novali, pf; A. Braida, pf; F. Calcagno, cl; A. Bolzoni, g; L. Pissavini, cb; S. Di Benedetto, cb; D. Koutè (perc); S. Scucces (vib.), G. Lattuada (perc); L. D’Erasmo (frame dr); S. Grasso (dr) non “inscena” un ritorno al postfree semmai si pone in termini di attualizzazione e “rivoluzionaria” evoluzione di quell’area creativa che l’ Europa, Italia compresa, ha espresso anche in anni recenti dall’asse anglo-olandese fin giù a scendere sulla cartina geomusicale. Il collettivo è un esempio di interazione democratica e paritaria che, al pari di stormi liberi ma coordinati, delinea impreviste dinamie sonore e traiettorie mutaforma, in un fluttuare a volte sincronico altre no comunque ancorato alla struttura dei vari insiemi che si avvicendano.

Pietro Lazazzara – “Gypsy Jazz Style” – Stradivarius

Il chitarrismo manouche, quello praticato a livelli alti di nomadismo dei polpastrelli, può talora lasciar trasparire una certa patina di “monadismo”, per così dire, quando vi si riscontra unità inclusiva del connotato stilistico di base. E’ il caso dell’album Gypsy Jazz Style di Pietro Lazazzara (Stradivarius), seconda uscita discografica a sua firma, con una dozzina di inediti eseguiti all’insegna della convergenza di varietà e contaminazioni. L’ ensemble annovera Antonio Solazzo al basso, Francesco Clemente e Sabrina Loforese al volino, Maria Pia Lazazzara al violoncello, Luigi Vania alla viola, Nicoletta Di Sabato al flauto e Giuseppe Magistro al tamburello. Campeggia sullo sfondo, sin dal primo brano “Mister Swing”, l’ologramma di Django. Poi la musica, strada facendo, si fa intima in “Precious”, intinta di classico in “La via di Pia”, melò in “Walk with Me”, walzer notturno in “The Tale of the Moon”, flamenco in “La tela di Picasso”, tarant(ell)a in “Puglia”, moderato swing in “Blue Night”, sostenuto in “La joie de vivre”, è balcanica in “Circus”, tutta coracon in “Spanish Boulevard”, infine tripudio di note in “Impro in D Minor” con il gruppo che si trasforma in Gypsy Jazz Style Kings.

Giovanni Angelini – “Freedom Rhythm” – A.MA Records

“Voyager” è uno dei brani di punta del secondo album firmato dal batterista Giovanni Angelini dal titolo Freedom Rhythm, otto brani, scritti di proprio pugno, dal groove eclettico che mette assieme jazz funk afro soul e che non disdegna il guardare indietro, fino ai fab ’70. Ovviamente si tratta di un jazzista moderno ma con il piacere di far “viaggiare” la propria musica nello spaziotempo pilotandola da bandleader. Piace pensare che il “ritmo in libertà” sia anche quello del drummer che si svincola, crea, costruisce, si autointerpreta. Ed è infatti la veste di compositore quella che vi rispecchia le qualità di ideatore di strutture compless(iv)e caratterizzate da franca immediatezza e circolarità di un suono plasmato con Vince Abbracciante al piano, Dario Giacovelli al basso, Alberto Parmegiani alla chitarra, Gaetano Partipilo all’alto sax, Giuseppe Todisco alla tromba, Antonio Fallacara al trombone quindi Giovanni Astorino al cello. Ai quali si aggiunge il canto di Simona Severini con la “gemma” di “I Need Your Smile”. La sezione dei tre fiati assume un ruolo energico nello sviluppo dei temi (e nell’alternarsi improvvisativo) dalle linee melodiche che effettivamente rimangono impresse, un po’ tutte, da “Subway” fino a “Unity”, “Release The Monkey”, “Wuelva”, “Compass”, e nel contempo si muovono su scansioni metriche e schemi accordali nient’affatto scontati. Insomma ancora un bel prodotto del catalogo A.Ma Records!

Massimo Barbiero – “In Hora Mortis”

Con In Hora Mortis la ricerca musicale del percussionista Massimo Barbiero, ancora una volta al confine fra filosofia e psicanalisi, si ritrova ad investigare, per il tramite del suono inteso come elemento vitale primario, il momento terminale del vivere. Un argomento che da Platone a Epicuro a Freud ha appassionato e arrovellato il pensiero umano antico e moderno. Barbiero lo affronta con gli “strumenti” che gli sono più congeniali e cioè quelli del suo ricco set percussivo. Per l’occasione suddivide l’hora in più momenti temporali gradualizzandola secondo una scala emotiva augmentante che non tradisce pathos mortiferi o pianti greci. La musica “domina” la possibile angoscia, la esorcizza, prende atto che i minuti che preludono all’ultimo atto dell’esistenza sono vita tout court e come tali possono essere vissuti magari riprodotti e sonorizzati da gong campane ritmi… Barbiero materializza così la propria “fantasia di sparizione” (Fagioli) in un disco coraggioso per Il tema che affronta e offre una lettura del tutto originale del fine vita che va ad installarsi in un percorso artistico di sperimentata coerenza culturale.

Amedeo Furfaro

Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita.

Dopo la triennale parentesi balneare di Grado, è tornata nella sua sede naturale di Udine la storica manifestazione Udin&Jazz che ha dimostrato, con la sua 32 edizione, di essere uno dei punti di riferimento per il jazz non solo a livello italiano.


Lo ha ribadito autorevolmente con una serie di straordinari eventi musicali ma anche con tutta una serie di attività culturali collaterali che da sempre sono parte integrante di un modo di intendere la musica non solo come intrattenimento ma prima di tutto come rivendicazione di istanze democratiche e libertarie che considerano le blue note in tutte le loro sfumature come strumento di conoscenza, condivisione e rispetto di diritti inalienabili nei confronti dei nostri fratelli meno fortunati e di tutti.
Il jazz può essere inteso in molti modi: può essere un modo un po’ esotico e snob di estraniarsi dalla realtà per qualche ottusa élite oppure il grido di dolore che si alza dai campi dell’ingiustizia e della discriminazione che scuote il potere con l’intento di abbatterlo a colpi di note. Non a caso la rassegna si è aperta con il film “Gli Stati Uniti vs Billie Holiday” di Lee Daniels (Usa 2021) che a modo suo ricostruisce la persecuzione giudiziaria che subì la grande cantante per aver denunciato attraverso la propria arte gli orrori dei linciaggi contro gli afroamericani in “Strange Fruit”.
Il Jazz è uno strano frutto che penzola dall’albero dell’ingiustizia sociale ma che non muore mai continuando a scalciare contro ogni sopruso senza che nessuno possa mai far tacere la sua voce di denuncia e di protesta.
L’associazione Euritmica con il suo patron Giancarlo Velliscig, che da sempre organizza il festival, lo sa bene e da sempre si batte per gli alti valori in cui crede e professa. Il motto della manifestazione di quest’anno lo diceva chiaramente: “Play Jazz, Not War” semplice e diretto ma per nulla scontato in un momento nel quale stiamo assistendo ad una nuova pericolosa corsa al riarmo generale, mentre i soliti mentecatti credono che solo dotandosi di missili più potenti si possa “vincere la pace”. Stiamo passando dalle tragicomiche “missioni di pace” a suon di bombardamenti a tappeto (Iraq, Afghanistan, Siria ecc.) alle “Operazioni speciali di difesa democratica” con i droni telecomandati e con i lanciamissili portatili. Gli imperialisti sono sempre gli altri così come molti di noi dicono: “Sono pacifista ma…”, affermano tranquillamente anche “Non sono razzista ma…”come in una canzone, tristemente ironica, di Willie Peyote.
Di seguito daremo conto brevemente degli eventi principali del festival, solo una piccola parte di tanta meraviglia che per essere davvero compresa ha bisogno di essere vissuta personalmente, per questo si considerino le righe che seguono solo come un’indicazione e un invito a partecipare alla prossima edizione.
Gianpaolo Rinaldi con il suo rodato trio è in grado di affascinare e divertire in qualunque situazione anche la più improbabile. Udin&Jazz quest’anno più che mai ha voluto sperimentare nuovi angoli della città per alcune delle proprie esibizioni in cartellone. Come preambolo al festival ha creato un’apposita sezione chiamata semplicemente : “Aspettando Udin&Jazz”. A Rinaldi e ai suoi è toccato un bel giardino nel pieno centro cittadino perfettamente attrezzato con aree giochi per bambini e un fornitissimo chiosco per quelli che bambini non lo sono più da un pezzo e possono annegare negli spritz tutti i rimpianti e le nostalgie mentre i loro bambini fanno il diavolo a quattro su altalene, tappeto elastico e cavallucci a molla. Non è facile suonare in un luogo del genere ma è davvero affascinante, vivo, reale; non si può contare sulle liturgie della sala da concerto e nemmeno sulla dimensione intima del club, è stato vero jazz in plein air con i bambini che scorrazzavano e il vociare delle famiglie al parco mentre i tanti intervenuti per il concerto si godevano i suoni meravigliosi della vita reale che si univano dinamicamente in perfetta sinergia a quelli dei musicisti.

L’ultima ambiziosa incisione del trio con composizioni originali di Rinaldi, “Sapiens doesen’t mean Sapiens” è stata ispirata al best seller Sapiens, da animali a dei di Yuval Noah Harari e, almeno nelle intenzioni, vuole tracciare un arcobaleno di note tra la scimmia che eravamo e i quadrumani che diventiamo mano a mano che pervertiamo le nostre esigenze di esseri umani. E’ un fatto ormai acclarato che tanta abilità e adattamento evolutivo non hanno portato solamente a miglioramenti nella nostra esistenza; la catastrofe ecologica che abbiamo provocato su scala planetaria ci dimostra chiaramente che di certo siamo Homo ma che sul Sapiens si può discutere. Rinaldi traduce impeccabilmente questo discorso in musica dal proprio punto di vista di pianista talentuoso alle prese con un mondo difficile da capire ma che la musica può aiutarci a comprendere.
Il tutto è suggerito da Rinaldi in modo lieve ma per nulla superficiale, il linguaggio della sua musica è alto ma perfettamente comprensibile a tutti. Nel trio si distingue anche il batterista Marco D’Orlando dalla grande fantasia poliritmica che usa anche gli stridii delle bacchette sui piatti e altri bizzarri rumori per esprimere al meglio inquietudini e illuminazioni. Ottima la calibratura dell’insieme attraverso il contrabbasso di Mattia Magatelli.
Armando Battiston è uno dei decani del pianismo jazz friulano e si è esibito per “Aspettando Udin&Jazz” in duo con il proprio storico batterista Daniele Comuzzi al Caffè Caucigh, uno dei luoghi storici della buona musica udinese con un cartellone fitto di eventi, jam sessions e readings.
La versatilità del pianista, la lunghissima esperienza gli permettono di guardare avanti e progettare futuri imperscrutabili e inauditi. Per l’occasione ha sfoggiato la sua conoscenza e predisposizione verso il Latin Jazz con una certa vena tangheira. Moltissimi anche gli standard più classici interpretati dalla sua particolarissima sensibilità e dal suo gusto che va dalle più spericolate sperimentazioni free form al jazz main stream e confidenziale venato dalla tradizione della canzone italiana melodica. E’ davvero un gran piacere ascoltarlo; la sua musica è un vero balsamo vivificante, la sua fluviale esibizione in perfetto interscambio ed equilibrio con il batterista Comuzzi in uno degli angoli più suggestivi della città medievale ha respirato al ritmo della serata estiva e dei suoi incanti.
La manifestazione è entrata nel vivo spostando i propri eventi centrali al Teatro Palamostre. Tra i primi ad esibirsi in quella sede il pianista Emanuele Filippi che presentava per l’occasione il suo nuovo lavoro, fresco di stampa, in duo con Seamus Blake: “Heart Chant”. Il sassofonista inglese, purtroppo non ha potuto essere presente a Udine perché impegnato nella tournée americana di Roger Waters, d’altronde un nome come “Seamus” deve ricordare sicuramente qualcosa al fondatore dei Pink Floyd (Meddle, 1971). Solo da questo, che non è per nulla un particolare irrilevante, possiamo capire la rilevanza internazionale di Blake e il conseguente alto valore del sodalizio con il giovane pianista friulano. Il lavoro discografico che ne è scaturito è di una bellezza meditativa e sospesa. A sostituire il musicista inglese per il concerto udinese, Ben van Gelder da Amsterdam, giovane di talento e di grandi prospettive ma comprensibilmente, non proprio allo stesso livello.
La musica è sembrata molto solida dal punto di vista compositivo ma fin troppo sorvegliata per quanto riguarda il Pathos. Di certo, almeno dal vivo, il cambio di partner all’ultimo momento non ha giovato al risultato finale che comunque ha regalato alcuni momenti di grande intensità.

A seguire, in una serata dal doppio concerto, il quartetto del funambolico trombettista Fabrizio Bosso che ha trascinato il pubblico in un’atmosfera gioiosa di divertimento dai suoni scintillanti e preziosi fatti di grandissimo virtuosismo ma anche di tanta emozione elegante. Bosso non è mai eccessivo e non vuole stupire il pubblico a tutti i costi con equilibrismi trombettistici fine a se stessi così come i suoi musicisti che pur lanciati a folli velocità da ritmi prodigiosi mantengono sempre la barra a dritta. Nessuno di loro vuole fare il “fenomeno”. Fin da subito hanno saputo creare un’atmosfera piacevole, senza tensioni eccessive o liturgie narcisistiche, solo tanta buona musica che lascia Good Vibrations e che fa sognare ad occhi aperti. Ogni tanto ci vuole proprio.
Udin&Jazz presentava anche una personale dedicata della pittrice Ivana Burello dal significativo titolo “I colori del Jazz”. Nel ridotto del Palamostre, dedicato a Carmelo Bene e ricavato sotto una delle scalinate dell’auditorium, erano esposti alcuni ritratti di grandi icone del jazz, (Sonny Rollins, John Coltrane, Miles Davis, Billie Holiday) frutto di varie tecniche pittoriche soprattutto relative all’espressionismo astratto e all’action painting. L’effetto era quello di un’improvvisazione musicale per spatole e pennelli non del tutto inedita o assolutamente originale ma sicuramente di grande impatto.

Nel corso della manifestazione è stata anche presentata quella che ormai è giustamente diventata la migliore e più venduta graphic novel di Jazz nel nostro paese: Mingus di Flavio Massarutto e Pasquale Todisco “Squaz” dal quale, per concludere questa prima parte della recensione, rubiamo impunemente l’explicit che può davvero servirci come nuovo inizio per future riflessioni: Mingus “è la storia di un intellettuale autodidatta in lotta perenne con una società che lo vorrebbe marginale e subalterno. La storia di un Martin Eden meticcio, la si potrebbe definire anche una biografia apocrifa. Come ebbe a scrivere Ingeborg Bachmann – Lo scrittore apocrifo non gioca con la storia, non divaga con i destini, non costruisce biografie: prende una vita umana, consegnata all’erbario delle storie dell’arte, della poesia e della filosofia, e la provoca, la smaschera, la interroga: le fa rivelare sorprendenti segreti, fantasie più vere della realtà, che fanno esplodere tutte le storie e tutti i cimiteri, riconsegnando alla vita quanto di una vita è stato immaginato vivente.”
(continua)

Flaviano Bosco

JAZZ E SIGLE TV

La televisione è stata spesso oggetto di critiche in quanto possibile veicolo di regresso culturale delle masse. Umberto Eco, a proposito dell’uomo circuìto dai mass media, scriveva che “poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l’evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e quelli con cui si possa stabilire una tensione” (Diario Minimo, 1961). La tematica dei rapporti fra musica e mass media investe anche un genere non definibile “narcotizzante” come il jazz nella sua relazione con la tv. In proposito, in Italia, si sono verificati dei momenti di avvicinamento fra i due termini del rapporto che consentono di abbozzare dei lineamenti di storia televisiva “vista” attraverso il fil rouge delle sigle jazz.

Donald Bogle ha osservato che “attorno al 1950 i sets tv arrivavano nelle case degli americani trasformandone gradualmente abitudini e prospettive” (Blacks in American Films and Television, New York, Fireside, 1989). E David Johnson di recente ha annotato che “come la tv si insinuava nell’entertainment dell’America di metà 900, musicisti e compositori, molti con esperienze jazz, venivano chiamati a scrivere temi ed “attacchi” per varietà e programmi” (Heard It On The Tv: Jazz Takes On Television Themes, indianapublicmedia.org, 12/5/2021). Osservazioni in parte trasferibili, con le dovute proporzioni, all’Italia che, dal 1954, dai primi vagiti della neonata tv, subiva il modificarsi di usi, linguaggio, immaginario collettivo in un contesto di rapida trasformazione economica, sociale e culturale, a causa anche alla spinta dei mass media. Su queste colonne, fra le sottotracce della nostra storia televisiva, abbiamo provato a “rintracciare” un argomento abbastanza sottaciuto, quello delle sigle (e intersigle) che sono poi l’antipasto e il post prandium del programma televisivo, nello specifico quelle dialoganti lato sensu in jazz o comunque prodotte od associabili a jazzisti. Come “la radio degli anni Cinquanta è a cavallo tra conservazione e trasformazione” (cfr. sub voce Cultura e educazione, l’Universale Radio, Milano, 2006) così il nuovo medium, già dai primi anni di vita, attenzionava sonorità che erano espressione di differenti musiche del mondo. Su un tale sfondo il jazz riusciva man mano a ritagliarsi spazi nei palinsesti e ad essere presente in filmati, notiziari, dossier, speciali, spot e jingle (cfr. Jazz e pubblicità, “A proposito di Jazz”, 9/4/2021), programmi a quiz, a premi e a cotillon, varietà, sceneggiati e “originali televisivi”, serie tv. Già nell’Italia della ricostruzione postbellica la dimensione locale non più autarchica si era confrontata sulla globale “importando” liberamente musica che durante il regime era proibita. Con l’avvento del medium tv le sigle di fatto fungevano da possibile cavallo di Troia per conquistare al jazz spazio in audio/video e lasciar trapelare le note di Woody Herman, Stan Kenton, Duke Ellington, Toots Thielemans … e vari artefici di una musica che in quegli anni non veniva più percepita solo come intrattenimento omologante bensì anche quale propaggine di quella cultura neroamericana propria di una comunità oppressa non dominante. Una comunità in fibrillante opposizione politica e spiccato antagonismo sociale i cui risvolti rimbalzavano nelle lettere, nelle arti, nella musica. Ma entriamo nel dettaglio. In Italia, nel 1957, coetanea di Carosello, vedeva la luce in tv Telematch. La trasmissione a premi era introdotta dalle note di “Marching Strings” dell’orchestra di Ray Martin, il bandleader di “The Swingin’ Marchin’ Band” (RCA, 1958). Light music, la sua, che rappresentava però un’apertura internazionale verso la musica easy listening d’oltrefrontiera sul Programma Nazionale e in prima serata. Parallelamente, alla radio, nel 1960, Adriano Mazzoletti, da un anno collaboratore della Rai, debuttava con la Coppa del Jazz promuovendo in tal modo una più stabile programmazione in senso jazzistico sul mezzo radiofonico i cui primordi risalgono all’antenato Eiar Jazz del 1929.

A dire il vero, dopo il primo melodico Sanremo del ’51, una decisa aura jazz si era avvertita in Nati per la Musica, un programma con Jula De Palma, Quartetto Cetra, Teddy Reno che si avvaleva delle orchestre di ritmi moderni di Gorni Kramer e Lelio Luttazzi, la cui sigla è ascoltabile sul Portale della Canzone Italiana dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (www.canzone italiana.it/1zlns). Sorella Radio avrebbe dato anche in seguito significativi contributi alla causa jazzistica – si pensi all’uso fatto da Radio1 dello stacco di “Country“ tratto dal cd “My Song” di Jarrett con Garbarek, Danielson e Christensen (ECM, 1977) –  ma il copioso materiale di Mamma Rai, con il ricchissimo archivio sonoro ad oggi digitalizzato, meriterebbe di essere approfondito in altra sede. Torniamo allora al come eravamo tramite il cosa guardavamo. Dopo la vittoria di Modugno all’Ariston nel ’58, con una “Nel blu dipinto di blu” a ritmo swing, nell’anno di grazia televisivo 1961 passavano in video le immagini di Moderato Swing che era anche il titolo della sigla di Piero Umiliani.  Un biennio ancora per poi sentire il canto e la tromba di Nini Rosso echeggiare in “I ragazzi del jazz”, sigla di Fuori I ’Orchestra, epica trasmissione, per la regia di Lino Procacci, che si avvaleva della direzione musicale dello stesso Umiliani. Si trattava di una rubrica che si occupava “di musica equidistante fra quella leggerissima e quella classica“ (www.umiliani.com) che rimane una pietra miliare della televisione italiana. Fra i numeri fissi c’erano quello dedicato al Jazz made in Italy ed l’altro spazio denominato Parole e musica che registrava partecipazioni lussuose tipo la cantante Helen Merrill. Da segnalare che Umiliani avrebbe poi collaborato con I Marc 4 (acronimo di Maurizio Majorana, Antonello Vannucchi, Roberto Podio, Carlo Pes), gruppo operante fra ’60 e ’76, a cui è da ascrivere la sigla di Prima Visione (su album Ricordi, 1974). Il 1963 resta un anno significativo per il jazz sul piccolo schermo anche perché decollava in Italia, con TV7, l’idea di utilizzare un brano jazz come intro di un programma d’inchiesta. Per l’occasione la scelta cadeva su “Intermission Riff” di Stan Kenton, poi sostituita con una storica versione dell’Equipe 84. A fine decennio toccava alla serie tv Nero Wolf diretta da Giuliana Berlinguer con Tino Buazzelli, vedere impressi i titoli di testa e di coda dalla tromba di Nunzio Rotondo sulla base elettronica di Romolo Grano, musica da noir con echi dal lungometraggio di Louis Malle Ascenseur pour l’échafaud, del ’58, sonorizzato da Miles Davis, trombettista a cui Rotondo è stato spesso accostato. Ed avrebbe “aperto” un thriller televisivo il compositore Berto Pisano con la sua “Blue Shadow”, sigla lounge dello sceneggiato Ho incontrato un’ombra del 1974, che figura nella classifica stilata da “Rolling Stone” il 26 agosto 2020 in Fantasmi e storie maledette. Le migliori sigle della tv italiana del mistero degli anni ’70. In tema di rotocalchi da menzionare che AZ un fatto come e perché (in onda dal ‘70 fino al luglio ’76) adottava un pezzo del repertorio jazz, esattamente “Hard to Keep My Mind of You”, di Woody Herman.

Dal giornalismo d’inchiesta a quello sportivo: nel ’78 era il turno di Jazz Band di Hengel Gualdi a far da “preludio” a Novantesimo minuto, storica rubrica di RaiSport, e come non citare, dal campionario di La Domenica Sportiva, “Dribbling” di Piero Umiliani (1967), “Winning The West” della Buddy Rich Big Band (1973), “Mexico” di Danilo Rea e Roberto Gatto (1985), “Breakout” di Spyro Gira (1991)? Spostandoci alla “pagina” spettacoli, fra il ’76 e il ‘78, Rete 2 dava spazio in Odeon al pianista Keith Emerson (senza Lake e Palmer) in “Odeon Rag” arrangiamento di “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin, subentrato in luogo del precedente “Honky Tonk Train Blues”, autore il pianista Meade Lux Lewis. Il filone spettacolistico avrebbe registrato più in là significativi esempi con lo scat di Lucio Dalla con gli Stadio che annuncia Lunedifilm  per un buon ventennio fino al 2002 e l’ellingtoniano “Take The A Train” di Strayhorn a fare da intro ai trailer cinematografici assemblati da AnicaFlash per la rassegna delle novità cinematografiche “di stagione”. Si diceva come luogo fertile per la semina tv di suoni jazz da filtrare nelle orecchie dei telespettatori fosse l’informazione. Gettonatissima rimane al riguardo la sigla di Mixer (1980-1996) ovvero “Jazz Carnival” dei brasiliani Azimuth, specialisti del samba doido, genere fusion-funky. Latin come nelle radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dove Herb Alpert e Tijuana Brass interpretano “A Taste of Honey”, brano di stampo pop, in repertorio a Beatles e Giganti (“In paese è festa”). Per la tv italiana va ricordato che, fuori dal reticolo giornalistico, si contano altre occasioni più dirette di esposizione per la musica jazz filtrata tramite il piccolo schermo. La Portobello Jazz Band di Lino Patruno “presentava” il programma di Enzo Tortora (cfr. La tana delle sigle in tds.sigletv.net) nel 1978, stesso anno dello sceneggiato in 3 puntate Jazz Band di Pupi Avati, colonna sonora di Amedeo Tommasi, con il clarino di Hengel Gualdi in evidenza nelle sigle di apertura e chiusura, “Jazz Band” e “Swing Time” ; poi ancora Di Jazz in Jazz, programma “dedicato” con relativa sigla a cura dell’Orchestra Big Band della Rai diretta da Giampiero Boneschi e Franco Cerri (www.teche.rai.it). “Schegge”, queste ultime, che costituivano una vetrina per il jazz di casa nostra in una situazione in cui il format varietà si teneva alquanto distante, a differenza di quanto avveniva negli U.S.A. . Dalle nostre parti vanno citati comunque Milleluci, show datato 1974, nella cui sigla finale “Non gioco più” Mina duetta con l’armonica di Toots Thielemans,  Palcoscenico, in onda fra 1980 e 1981, con Milva accompagnata da Astor Piazzolla mentre scorrono i titoli di coda in “Fumo e odore di caffè” e Premiatissima del 1985 dove il crooner Johnny Dorelli canta “La cosa si fa“ su base swing “metropolitano. Lo sdoganamento delle sigle jazz nei varietà proseguiva con Renzo Arbore (e Gegè Telesforo) a cui si deve “Smorza e’ lights (Such a night)” incipit di Telepatria International, inizio trasmissioni il 6 dicembre 1981 (www.arboristeria.itRenzo Arbore Channel). Per la cronaca il 18 marzo 1981, e fino al 1989, sarebbe andata in onda la prima edizione di Quark di Piero Angela, conduttore nonché apprezzato pianista jazz. La trasmissione di divulgazione scientifica sarebbe stata simbioticamente legata alla sigla, la “Air for G String” di Bach, eseguita da The Swingle Singers, pubblicata nell’album “Jazz Sèbastian Bach” (1963), peraltro incisa anche insieme al Modern Jazz Quartet in “Place Vendòme”, album del ’68 della Philips. Terminiamo questa breve carrellata, che non include per sintesi le emittenti private/commerciali pro-tempore, per ricordare la sigla swing di DOC Musica e altro a denominazione d’origine controllata (1987-1988) di Arbore, Telesforo e Monica Nannini, esempio di come coinvolgere il jazz in un contenitore di buona musica. Il breve excursus è stato uno squarcio fugace su una jazz age, grossomodo racchiusa fra ’54 e ’94, un fugace momento di (bel) spaesizzazione musicale segnato, al proprio interno, dal passaggio dall’analogico al digitale, fase che precedeva la successiva della tv satellite e quella attuale della connessione via internet con la diffusione dei social e di new media come le web-tv con piattaforme on demand. E’ stato osservato che nella tv generalista di oggi “il jazz non ha più la stessa presa pubblica di un tempo” (cfr. Il jazz e le sigle radiotelevisive, riccardofacchi.wordpress.com, 2/8/2016). E “CiakClub.it” ha pubblicato, a firma di Alberto Candiani, un elenco con Le 20 migliori sigle televisive di sempre: Da Friends a Il trono di spade la lista delle più affascinanti iconiche e meglio congeniate sigle delle serie tv senza che ne compaia qualcuna (simil)jazz. Vero! Ci sono molti set televisivi in cui il jazz fa comparse episodiche. C’è poi che, a causa dell’affinarsi delle tecnologie digitali, molte sigle vengono confezionate a tavolino e, perdendo in istantaneità, sono sempre meno frutto di incisioni live né tantomeno vengono selezionate fra materiali preesistenti. Ed è forse tutto ciò che ammanta quei “primi quarant’anni” di tv “eterea” di un irripetibile sapore amarcord.

 

Amedeo Furfaro

I nostri libri

Ted Gioia – “Storia del Jazz” – EDT – pgg. 614 – € 35,00

Non molto tempo fa discutevo con un amico musicista (ma anche scrittore e più in generale attento osservatore della realtà) se nell’attuale situazione fosse o meno giustificata la pubblicazione di una nuova storia del jazz. Trovare un punto di intesa non è stato difficile: certo oramai molto si è scritto sulla storia della musica afro-americana ma molto resta ancora da scrivere, da scoprire, da chiarire. In buona sostanza una storia del jazz oggi si giustifica se risponde ad alcuni ben precisi requisiti: innanzitutto che sul passato ci dica qualcosa di nuovo rispetto a quanto finora scritto, sul presente che ci illumini su quanto sta accadendo sulla scena internazionale, sul futuro che vengano lumeggiate le nuove linee di tendenza. Il tutto accompagnato da una fluidità di racconto che eviti il più possibile incorniciati e box che finiscono con il distrarre e far perdere il filo del discorso.
Ebbene questi requisiti sono tutti presenti nella nuova edizione della “Storia del Jazz” di Ted Gioia pubblicata dalla EDT in collaborazione con Fondazione Siena Jazz – Accademia nazionale del jazz Centro di attività e formazione musicale, che si avvale della precisa traduzione di Francesco Martinelli il quale, com’è suo costume, scrive in maniera fluida, scattante, priva di qualsiasi autocompiacimento letterario sicché lo spirito dell’autore viene pienamente rispettato.
Il volume è diviso in undici capitoli (da “La preistoria del jazz” a “La resurrezione del jazz”) con l’aggiunta di quattro Note dedicate rispettivamente a “Letture consigliate”, “Ascolti consigliati”, “Ringraziamenti” e il sempre indispensabile “Indice analitico”. Da questa partizione si capisce come l’Autore parta dalle origini della musica afro-americana per giungere sino ai nostri giorni. Così, nella narrazione di Gioia, ritroviamo tutte le figure più importanti del jazz – da Jelly Roll Morton a Louis Armstrong, da Duke Ellington al Cotton Club, ai giganti del cool come Gerry Mulligan, Stan Getz, e Lester Young, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Ornette Coleman…fino ai postmodernisti della scena downtown – inseriti in una cornice politica e socio-economica che costituisce uno dei punti di forza delle opere di Gioia. In effetti la musica non nasce spontaneamente come una sorta di fungo ma è il portato di tutta una serie di esperienze: di qui fondamentale comprendere il contesto in cui un certo linguaggio nasce e si sviluppa. E Gioia è davvero un maestro nel descrivere tutto ciò, nel farci capire – ad esempio – che cosa significò per i musicisti di colore negli States rivolgersi al be-bop mentre la seconda guerra mondiale volgeva al termine.
Ma è nella seconda parte del libro che a nostro avviso troviamo le notazioni più interessanti. Sono le pagine in cui l’Autore esamina “La resurrezione del jazz” partendo dalla “Resurrezione del cantante di jazz”.
Convincente la tesi sostenuta da Gioia per cui, in questi ultimissimi decenni, il jazz ha riscoperto in qualche modo le sue radici di musica del popolo avviando un dialogo nuovo e non programmato con la cultura di massa. E il ponte che ha permesso tutto ciò è stato varato da artisti quali Kamasi Washington, Robert Glasper, Esperanza Spalding i quali – sono parole di Gioia – “hanno dimostrato che possono utilizzare tutta la gamma stilistica delle canzoni odierne senza perdere le proprie radici jazzistiche”.  Una visione, come si nota, assolutamente rivoluzionaria che rende finalmente obsoleto il dibattito circa la presunta “morte del jazz”. In tale quadro anche i cantanti hanno svolto un ruolo di primissimo piano tenendo strettamente collegato il jazz alla musica commerciale. Quasi inutile sottolineare come accanto alle notazioni di carattere sociale, Gioia mai dimentica di indicare le registrazioni che meglio possono corroborare il suo discorso.
Di grande utilità pratica le letture consigliate e gli ascolti consigliati che possono costituire una guida sia per chi voglia approfondire la materia sia per chi ad essa si avvicini per la prima volta
Insomma un volume che non può mancare nella libreria di chi ama la musica.

Amedeo Furfaro, Lionello Pogliani – “Musiche in mente” – The Writer – pgg. 127 – € 12,00

Scritto a due mani dal nostro collaboratore Amedeo Furfaro e da Lionello Pogliani, rispettivamente giornalista e critico musicale il primo, e collaboratore scientifico dell’Università di Valencia, il secondo, il volume affronta il problema del linguaggio musicale sotto il profilo sia delle cosiddette scienze sociali e umane sia delle scienze strettamente intese. Di qui una lettura interessante in quanto si intersecano due tipi di logica in un momento in cui, viceversa, si tende a parcellizzare ogni discorso e quindi a esaltare il ruolo della specializzazione sempre e comunque. In buona sostanza obiettivo del lavoro, perfettamente centrato, è mettere in campo una concezione organica della musica che viene ricondotta in un unico arco culturale combinando idee che in genere non sono messe in correlazione fra di loro. In particolare, nella prima parte Pogliani, avvalendosi anche della collaborazione di Michel Villaz e Laurent Vercueil, si muove tra fisica, chimica, astronomia, biologia, acustica, medicina, mentre nella seconda parte Furfaro, partendo dalla sua formazione storico-politologica e antroposociale oltre che musicale, illustra le sue idee traendo ispirazione dalle occasioni più disparate come una lettura, una serata al cinema, una foto, una ricorrenza, un’intervista tutte su filo del discorso musicale.
In conclusione un volume che vuole essere uno stimolo ad una riflessione complessiva su come lo sviluppo dell’arte musicale abbia interessato ed investito tutto l’arco dello scibile umano.

Amedeo Furfaro – “Pasolini – Luoghi, incontri, suoni” – The Writer – pgg. 103 – € 12,00

In questo ulteriore volume, pubblicato nei primi mesi di quest’anno, Furfaro raccoglie i suoi scritti dedicati a Pasolini e riguardanti essenzialmente tre aspetti, luoghi, incontri e suoni. Di particolare importanza, per quanto concerne “A proposito di jazz”, la terza tranche in cui si tenta una panoramica del rapporto di Pasolini con la musica. L’Autore esamina quindi i vari aspetti delle relazioni di Pasolini con la musica partendo dalle colonne sonore dei suoi film per passare ad una discografia essenziale (jazz escluso) che copre gli anni dal 1960 al 1975 in cui sono elencati brani che vedono Pasolini nella veste di paroliere. Negli anni ’80 si collocano alcuni lavori discografici che hanno il merito di ripercorrere tappe importanti dell’excursus creativo pasoliniano, come “La musica nel cinema di Pasolini” (General Music 1984) in cui Morricone riassume le sue musiche per cinque pellicole firmate Pasolini. Interessante anche un altro lavoro, sempre dell’84, “Pour Pier Paolo, Poèmes de Pier Paolo Pasolini mis en musique par Giovanna Marini (Le Chant du monde). Negli anni seguenti Pasolini continua ad ispirare molte pagine musicali, dagli omaggi espliciti di cantanti e gruppi come Pino Marino, Massimiliano Larocca, Radio Dervish fino a compositori come Nicola Piovani e a registi come Nanni Moretti.
Ovviamente anche il mondo del jazz ha omaggiato Pasolini; Furfaro ricorda al riguardo la performance del Roberto Gatto in “Accattone” e la “Suite per Pierpaolo” a cura di Glauco Venier con Alba Nacicovitch. Ma è in “Appunti per un’Orestiade Africana” che la relazione fra Pasolini e il jazz trova il suo baricentro; ciò in ragione del fatto che buona parte della colonna sonora è affidata a jazzisti quali Gato Barbieri, Marcello Melis e Famoudou Don Moye. A seguire una discografia in cui il jazz “latu sensu” tiene a sottolineare Amedeo, compare a fianco della figura di Pasolini.

Guido Michelone – “Il jazz e i mondi” – Arcana – pgg. 390 – € 24,00

Davvero infaticabile Guido Michelone, didatta, studioso, giornalista e scrittore tra i più prolifici che il mondo del jazz italiano conosca. Ecco, quindi, una sua nuova fatica editoriale significativamente intitolata “Il jazz e i mondi”. Un titolo che può esplicativo non potrebbe essere. Nelle circa 400 pagine del volume, l’Autore, grazie ai numerosi viaggi compiuti tra Usa, Brasile, Giappone, Canada, Nord Africa e Medioriente, ci racconta, in maniera chiara ed esplicita com’è suo costume, il come e perché il jazz ha trovato diritto di cittadinanza in tutti questi Paesi
Si tratta di una narrazione a tratti affascinante in quanto si capisce finalmente come il jazz abbia potuto perdere le sue caratteristiche originarie per assumere le connotazioni di una musica universale senza più confini ma specchio della civiltà di ogni singolo Paese, come risultato necessario di quella contaminazione tra le diverse culture di ogni angolo del mondo. Di qui una sorta di viaggio straordinario, suddiviso in 29 capitoli dedicati ognuno ad una parte del mondo, elencate in ordine alfabetico, per cui si parte dall’Afghanistan per chiudere con “Zingari in jazz” dedicato alla musica manouche. Nel libro, accanto a nome e cognome di ogni jazzman, viene indicato lo strumento musicale mentre alla fine di ogni capitolo è riportata tra parentesi la data, grosso modo compresa tra il 2001 e il 2022, ad indicare il periodo in cui viene redatto il resoconto musicale del viaggio compiuto nella nazione indicata.
Ogni capitolo è impreziosito da una accurata discografia mentre il volume nel suo insieme è completato da una sempre utile bibliografia. Purtroppo manca quell’indice analitico che in un volume del genere sarebbe risultato particolarmente importante.

Renzo Ruggeri – “Elementi di Musica Jazz: CORSO BASE per fisarmonica” – Voglia d’Arte Production – pgg.165 – € 25,00

“Questo lavoro di Ruggieri – condotto con serietà e competenza – è un avvenimento per la fisarmonica.” Gianni Coscia
Con queste parole il grande patriarca della fisarmonica jazz italiana ha tenuto a battesimo l’uscita della prima versione del testo, circa 25 anni fa, quando esso rappresentava il primo libro internazionale per questo strumento con elementi di jazz moderno.
Ruggieri – da esperto didatta – affronta la materia in maniera profonda proponendo una suddivisione razionale dei capitoli, non lesinando esercizi pratici di grande efficacia. La nuova versione si propone una riscrittura del testo, un ampliamento degli argomenti in base alle esperienze degli anni di utilizzo, una razionalizzazione degli schemi e degli esercizi. Sicuramente è stato il primo testo ad introdurre in maniera approfondita dei “policordi” ovvero la pressione di più tasti contemporaneamente nella mano sinistra, tecnica che lo stesso Ruggieri definisce imperfetta ma molto efficace.
La vera novità è rappresentata, comunque, dalle “backing tracks” dei brani del metodo (nuove composizioni sulle strutture armoniche di famosi standard) suonate da affermati professionisti: Maurizio Rolli (contrabbasso), Mauro De Federicis (chitarra), Niki Barulli (batteria). Quest’ultime tutte disponibili gratuitamente sui circuiti online sia in versione completa che “minus bass”, o “minus harmony”, o “minus drums” a simulare le diverse situazioni che lo studente incontrerà.
Da sottolineare la sempre “elegante ed efficace” vena melodica di Ruggieri che si manifesta anche negli esercizi.
Di prossima uscita la versione inglese e nei prossimi anni quella INTERMEDIA e AVANZATA.
Distribuito in tutto il mondo da AMAZON è possibile acquistarlo direttamente su:
https://www.amazon.it/dp/B095GD37SN
Le basi sono disponibili gratuitamente su:
SPOTIFY
https://open.spotify.com/album/3gupaPMqTIuQekv9J8cwzL?si=NG6oHNIfTKa9eGMQQDIyXA
YOUTUBE
https://youtu.be/r0EVSxyEOB4

Vincenzo Staiano – “Solid – Quel diavolo di Scott LaFaro” – Arcana – pgg. 174 – € 16,00

Ecco un volume che sarà ben accolto da tutti gli appassionati di jazz, in special modo dai pianisti e dai contrabbassisti. Racconta, infatti, la storia di un connubio assolutamente straordinario, un incontro che ha cambiato la storia del jazz in relazione al classico combo pianoforte, batteria, contrabbasso. Ci si riferisce ovviamente alla straordinaria intesa che nell’arco di pochissimo tempo si costituì tra Bill Evans e Scott LaFaro, un’intesa che sconvolse definitivamente la gerarchia degli strumenti nel trio (completato all’epoca da Paul Motian) cosicché il pianoforte perse il ruolo di guida per essere affiancato, a pari condizioni, da batteria e contrabbasso. Certo, a dirlo oggi, sembra qualcosa di scontato ma se si risale all’epoca in cui Evans e LaFaro si incontrarono, vale a dire il 1959, si scoprirà come la musica proposta dal trio fosse assolutamente rivoluzionaria. In questo suo scritto Staiano pone l’accento sulla figura del contrabbassista prematuramente scomparso nel 1961, offrendone un ritratto illuminante anche perché ci fa comprendere come, già prima di incontrare Bill Evans, fosse artista in possesso di una propria ben specifica cifra stilistica. Particolare attenzione viene, così, dedicata al periodo che va dal 1955, quando Scott lascia l’università di Itaca per iniziare il suo primo tour come professionista, sino a quel tragico incidente che il 6 luglio del 1961 gli costa la vita. Grazie ad un racconto ben articolato, sorretto da una prosa che conosce l’italiano, il volume si legge quasi tutto d’un fiato arricchito da una serie di contributi originali. In effetti in Italia pochissimo era stato scritto su LaFaro per cui il libro di Vincenzo Staiano assume un’importanza particolare. L’autore, per questa sua prima pregevole monografia, si è avvalso della biografia di Scotty (con questo nomignolo era noto LaFaro e questo si utilizza nel libro) redatta dalla sorella Helene, nonché di una grande quantità di contributi sull’artista, come l’intervista di Martin Williams apparsa sul periodico “Jazz Review”, un articolo del 1968 di Jean-Pierre Binchet su “Jazz Magazine”, un sito web a lui dedicato nel 1998 da Charles A. Ralston, nonché di moltissimi altri contributi elencati nella ricca appendice bibliografica e webgrafica, cui si affianca una discografia.
La figura di LaFaro assume così una valenza particolare sottolineata anche dal titolo del libro, “Solid”, che come ci spiega lo stesso Staiano richiama l’essenza di un messaggio inviato a Scott da Miles Davis, un messaggio con cui il trombettista gli faceva capire di volerlo nella sua formazione come contrabbassista.

Jazz: se agli animali piace smooth…

Lo scorso 8 febbraio è stato approvato dalla Camera, dopo il Senato, il disegno di legge di riforma costituzionale che prevede fra l’altro un nuovo comma dell’art. 9 della Costituzione che statuisce il rinvio al legislatore ordinario della definizione di modi e forme per la tutela degli animali (oltre che, finalmente, dell’ambiente e non solo del paesaggio).
La riserva di legge è una novità che recepisce i contenuti del Trattato sul Funzionamento UE nel punto di cui all’art. 13  laddove è sancito che “ l’Unione e gli stati membri devono, poiché gli animali sono esseri  senzienti,  porre attenzione totale alle necessità degli animali”. La senzienza è ora dunque uno status giuridico riconosciuto agli animali nell’ordinamento giuridico italiano. Ed è lo spunto per alcune riflessioni, su queste colonne, su che tipo eventuale di senzienza musicale possa sussistere fra l’ animale e l’uomo.

È il caso anzitutto di sottolineare che diversi compositori si sono ispirati al mondo animale. La fantasia zoologica del Carnevale degli animali di Saint-Saëns è una splendida occasione celebrativa del legame fra uomo e animali attraverso le note. Così dicasi della fiaba Pierino e il lupo di Prokof’ev, che cinquant’anni dopo, nel 1936, “doppia” gli animali con gli strumenti (uccellino/flauto, anatra/oboe, gatto/clarinetto, lupo/corni). Un ventennio ancora ed è Olivier Messiaen a scrivere le partiture pianistiche del Catalogue d’Oiseaux con i canti di uccello classificati, nella prefazione, in gridi, strofe, cadenze-assoli …  ciò a otto secoli dal Cantico delle Creature!
Immaginazione, ispirazione, onomatopea. La Animal House offre un campionario di possibili suoni per concerti e dischi.
La primordiale polifonia del Concordu e Tenore di Orosei, coro sardo che ha collaborato fra gli altri con Salis e Sissoko, si fonda sull’armonia di contra (verso della pecora), bassu (imitazione del bue) e mesuvoche (fischio del vento).
Non solo le voci, anche gli strumenti giocano una loro parte. Nel jazz c’è chi, come il sax di Dewey Redman nell’album Look for the Black Star del 1975, produce animaleschi suoni gutturali. O come il percussionista Airto Moreira che usa con Miles Davis la cuica, tamburo ad attrito brasiliano tipico del samba, il cui suono, alle origini, in Africa, era associato al ruggito della leonessa (secondo altri vicino al vocio della scimmia).
Oltre alla aneddotica, la prospettiva può riguardare progetti più ampi e persino trend stilistici.
Il trombettista Wynton Marsalis, in Spaces, ha associato i movimenti della suite affidata alla Lincoln Center Orchestra di volta in volta a galline, leoni, rane…(S. Mohamed, npr.org/2016 ).
Molto prima di lui era stato Ellington a creare nei ’20s il leopardato ed esotico jungle style che ricreava in note le atmosfere della giungla africana. Non solo. Gli animali a volte possono diventare attori in scena.
Nel 1990 fece scalpore, all’Europa Jazz Festival di Noci, una mucca che sfilava davanti al palco durante il concerto del pianista russo Sergey Kuryokhin.
Nei live il compianto leader dei Pop Mekhanika era solito inserire cavalli, oche con bande musicali (come avvenuto nella rassegna pugliese), il tutto per una scena “totale” con situazioni “allargate” bipedi-quadrupedi di spettacolarità circense. Era la sua una maniera follemente geniale di stravolgere l’idea stessa di concerto coinvolgendo nella esibizione esseri viventi presi dall’ambiente circostante, (re)incarnando una tradizione che vede il jazz lasciarsi alle spalle l’accademia per farsi pura performance.

Gli animali, è notorio, fanno capolino in tanti testi e titoli di brani musicali.
Si sfogli al riguardo la classifica “per mucche” stilata nel 2001 dal “Music Research Group” di Leicester che vede ai primi posti REM, Simon and Garfunkel davanti al Beethoven ovviamente della Pastorale. Senza essere esperti di zoomusicologia si è incuriositi dalla circostanza che grazie alla musica i maiali ingrassino meglio e le pecore producano lana in quantità superiore.
Certamente più che il guardare il “gatto pianista” su YouTube o l’esecuzione “a quattro zampe” su tastiera di una coppia di micetti del tutto speciale od anche la jazz band che suonando “When The Saints” ravvicina a sè un gruppo di vacche al pascolo.
Gesti meccanici, certo. Non è lecito immaginare nella realtà una fattoria degli animali canterina come Nella vecchia fattoria. Tuttavia viene da riflettere sull’accoglienza che, nel nostro immaginario musicale, hanno gli animali. Al punto di redigere graduatorie come “30 Best Horse Songs” (horseillustrated.com) e di dedicare intere cover a mucche tipo Atom Heart Mother , quinto album dei Pink Floyd.
Guardando in dettaglio al repertorio jazzistico si annoverano Silver Swan Rag di Joplin e Tiger Rag della ODJB, Watch Dog, nella versione di Etta James, la Animal Dance del Modern Jazz Quartet, e perché no il sincopato Maramao perché sei morto. Rinviamo comunque alla lettura delle Songs about animals riportate da John Dennis su www.theguardian il 28/4/2011 per un quadro più completo (sarebbe interessante stilarlo anche per le songs italiane, a partire magari da Una zebra a pois).
Nei testi della popular, citazione d’obbligo per The Dog Song di Nellie McKay e per le orecchiabili Felix The Cat e Dolce Lassie, ed ancora da serie tv La canzone di Rin Tin Tin , le varie sigle dell’inossidabile Commissario Rex e nei cartoni animati quella di Titti e (gatto) Silvestro.
Ci sarebbe poi una marea di canzoni “ juniores “– da Johnny Bassotto di Lauzi ad Al lupo al lupo di Dalla, da Occhi di gatto a 44 gatti,  e alle varie melodie dedicate ai vari Micio e Fido di casa nostra, molti dei quali, diciamoci la verità, funzionano da antistress per i rispettivi padroni.
Ma la senzienza ci porta infine ad approfondire l’altro “punto di vista” nel rapporto musicale di cui sopra , quello animale.
Esiste un filone di studi, si prenda ad esempio il “Journal of Feline Medicine and Surgery” dell’Università della Louisiana, relativo a ricerche che comprovano le proprietà tranquillizzanti di certa musica nei confronti di cani e gatti. Il film degli Aristogatti aveva visto lontano? In un certo senso si, ma la propensione verso il jazz non è diffusa.
Secondo il “Vet.Journal” dello scorso 19 gennaio, in uno scritto di materia musicoterapica specifico sui gatti, i compositori preferiti sarebbero Bach e Chopin le cui melodie darebbero un effetto calmante nel far superare loro il logorio della moderna vita da cani (e gatti). Una croccante scoperta, questa, in linea con gli esperimenti sulle galline che fanno più uova sentendo Mozart e sulle vacche che, nell’ascoltare sinfonica, producono più latte per come a suo tempo assodato da altri accreditati studiosi statunitensi ed all’esperienza della Muzak Inc. che produceva musica poi diffusa in stalle e pollai.

Alcuni ricercatori hanno spostato il tiro verso reggae e soft rock che, a detta della Scottish SPCA, associazione che collabora con l’università di Glasgow, pare piacciano ai cani (midogguide.com/it/dog) che per contro odierebbero l’heavy metal.
Per tornare al jazz, chissà se, come avvenuto per Elègie di Gabriel Fauret, l’amico animale intra moenia non si senta sopito, sedotto da Bill Evans!
A dire il vero il dailyJournal.net del 13 luglio 2017 ci ha rassicurato al riguardo – “gli animali possono gioire dei suoni smooth del jazz” – nel presentare una serie di concerti allo zoo di Indianapolis. Ma la cronaca giornalistica non è detto combaci con la evidenza scientifica. Sul jazz, a proposito di animali acquatici e suoni del mare, sarebbero gli squali, secondo uno studio australiano pubblicato su “Animal Cognition” ripreso da “National Geographic”, a manifestare “propensione per questo genere musicale” (corriere.it, 21/5/2018).
E David Rothenberg, filosofo compositore e clarinettista jazz, è giunto alla conclusione che “è possibile creare sicuramente un linguaggio di interposizione, anche casualmente jazz, che si raccorda per raccogliere segnali non decifrabili in prima approssimazione” (cfr. E. Garzia, Jazz ed ispirazione “animalista”, percorsimusicali.eu, 1/9/2015).
Resta il fatto che molti risultati scientifici inerenti ai “senzienti” felini e canidi domestici paiono a tutti gli effetti acquisiti. Col timore per i collezionisti che cani e gatti alla fine se ne possano contendere i dischi di jazz a suono di morsi e graffi!

Amedeo Furfaro

My Favorite Things, le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia – part 2

Flaviano Bosco – My Favorite Things, le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia – part 2 Udin&Jazz Winter 2

L’Associazione culturale Euritmica, che da tre decenni e oltre organizza la manifestazione jazzistica udinese, si è sempre distinta per il proprio impegno sociale e politico. In tutti questi anni di successi, che l’hanno vista estendere le proprie programmazioni e rassegne a tutto il circuito regionale e ben oltre, non ha mai dimenticato le proprie origini militanti. Fare musica, soprattutto jazz, non può e non deve essere solo puro intrattenimento.
Quella musica è nata per dare voce agli ultimi della terra e deve continuare a farlo, porta con se un’energia, una voglia di giustizia e di riscatto che sono insopprimibili, far finta di non sentire le voci e le grida di dolore che si porta dietro anche nelle melodie più delicate significa impedirsi di capirne l’importanza e le prospettive. Se dopo più di cento anni di evoluzioni e di stili possiamo ancora goderne, è perché il Jazz ha saputo farsi portavoce di tutte le diversità culturali e sociali del mondo, la sua forma malleabile, flessibile e ora anche liquida, la sua anti-convenzionalità ne hanno fatto lo strumento ideale per esprimere e trasmettere le sofferenze e la gioia di chi non ha altro modo per farsi sentire; ancor di più attraverso il jazz si è potuto trovare un linguaggio musicale universale in grado di parlare contemporaneamente a tutti i cuori e a tutti i cervelli contemporaneamente in tutto il mondo.
Proprio dalla profonda consapevolezza di questa dimensione globale e militante della musica d’ispirazione afro-americana vengono modulate le proposte di Euritmica, che certo non trascurano la parte di divertimento e di svago che la musica porta con se ma non fine a se stessa. Nell’edizione invernale di Udin&Jazz, tenutasi dal 6 all’8 dicembre 2021 al teatro Palamostre di Udine, il focus è stato centrato sulle rotte dei migranti, sia quella balcanica che ha la regione FVG come punto d’arrivo sia quelle Mediterranee che, più in generale, toccano le coste del nostro paese tutto intero.

Esprimere e sottolineare con la musica quell’esodo non è solo un dovere ma un imperativo morale inderogabile. Solo chi chiude occhi, orecchie e cuore può ritenerla una fastidiosa questione di ordine pubblico. Al contrario, quei fatti atroci che ogni giorno avvengono a pochi passi delle nostre case chiedono la nostra attenzione, invocano il nostro aiuto in qualunque modo. La musica, come potentissimo mezzo di comunicazione, deve servire da megafono per denunciare ogni insipienza e ogni indifferenza.
La seconda edizione di Udin&Jazz Winter segue in realtà di pochi mesi la prima, che fu spostata in avanti fino alla primavera per i ben noti problemi con l’epidemia. Tre intense giornate di grande musica hanno confermato sia il gradimento del pubblico per l’estemporanea collocazione della rassegna, sia la grande versatilità degli organizzatori in grado di costruire cartelloni sempre interessanti e perfino insoliti, in tempi che definire complicati è un eufemismo, potendo contare su una lunga teoria di collaborazioni e contatti con i musicisti più importanti della scena nazionale e oltre.
Particolare attenzione come sempre è stata rivolta verso le produzioni regionali che sanno distinguersi sempre per la qualità altissima delle proposte validate anche dall’interesse delle più blasonate riviste di settore e dei mezzi d’informazione. Il jazz friulano conferma da almeno 50 anni la sua presenza significativa nel nostro paese e Udin&Jazz ne è sempre stato un ottimo testimone coniugando tradizione e innovazione senza mai smentirsi, anzi rilanciando continuamente il proprio impegno in questo senso con un’attenzione alle produzioni artistiche locali di grande respiro d’orizzonte.
“Jazz Noir – Indagine sulla misteriosa morte del leggendario Chet” (My Foolish Heart) di Rolf van Ejik (2018): la rassegna si è aperta con un omaggio a Chet Baker attraverso la proiezione di un film biografico che però non rende giustizia allo sfortunato trombettista. Il lungometraggio gioca sui soliti stereotipi dell’artista maledetto per raccontare una storia del tutto inconsistente a sfondo vagamente psicoanalitico. È vero che il trombettista alla fine della propria vita era ridotto davvero male, il ritratto che se ne ha da parte di conoscenti e amici è davvero squallido; è vero anche che dal punto di vista strettamente tecnico e creativo la consistenza è sempre stata poca se lo paragoniamo ai suoi coetanei (ad es. Miles Davis) ma da qui a farne un mascherone senza arte né parte ce ne corre. Il film di Rolf van Ejik, al suo esordio, costruito come un noir investigativo, si rivela davvero fiacco soprattutto quando cerca di parlare di musica. Non una sola nota della colonna sonora è di Chet in una reinterpretazione che con il suo stile ha davvero poco a che fare.
Tony Momrelle “Best is yet to come”: quello del cantante degli Incognito è stato di certo uno dei concerti più sorprendenti dell’intera rassegna. Lo spettatore medio si aspettava acid-jazz, suadente, ballabile e facile-facile, si è invece trovato davanti ad un raffinatissimo soul contemporaneo cantato con voce morbida e setosa piena di romanticismo, intima e dolce. In alcuni momenti il pensiero andava alle composizioni più riuscite di Stevie Wonder ed è tutto dire. Momrelle tiene insieme la tradizione del soul più classico con le visioni di un futuro che la sua musica è capace di farci immaginare, gioioso e felice. Non è poco di questi tempi.
Angelo Comisso Trio “Numen”: Angelo Comisso, pianoforte; Alessandro Turchet, Contrabbasso; Luca Colussi, Batteria. A proposito di “risorse locali” o di “jazz a chilometri zero” questo trio tutto friulano è una splendida realtà di livello internazionale. Sono davvero talenti brillanti e preclari con una lunga serie di collaborazioni attive in varie formazioni. Il progetto musicale presentato, frutto della creatività dell’ottimo pianista Comisso, ha visto la luce del laser in un’incisione a cura di Artesuono di Stefano Amerio, altra gloria locale conosciuta ovunque per la sua infinita qualità. Il termine “Numen” per gli antichi significava la potenza e la presenza della manifestazione divina, la sua epifania nel mondo fisico; è proprio questa presenza, che in modo del tutto laico, s’avverte durante l’esibizione del Trio. È la musica che si manifesta nel virtuosismo misurato e intimo degli interpreti e nel loro suono per immagini, quasi cinematografiche, che evocano paesaggi e strutture aeree nell’aria calda di un pomeriggio assolato.

Art Trio: Andrea Centazzo, Percussioni; Roberto Ottaviano, sax soprano; Franco Feruglio, Contrabbasso. Questa formazione rappresenta l’antica sorgente del nuovo jazz regionale, anzi udinese, in un certo senso sono quelli che hanno permesso al trio di Comisso di cui parlavamo più sopra di esistere. Il suo leader è, infatti, uno dei decani della musica sperimentale italiana tra i più innovatori, creativi e ancora attivi. Centazzo, che ormai è cittadino di Los Angeles, non dimentica le sue origini friulane. In modo molto ironico, presentandosi, ha voluto ricordare i molti concerti tenuti sul medesimo palcoscenico del Palamostre dal 1972, dimostrando di essere non solo memoria viva ma un musicista in grado di attraversare le epoche e gli stili in un continuo rinnovamento e progettualità. Non sono stati da meno i suoi compagni di viaggio, vecchi amici che lo accompagnano da quasi cinquant’anni. Nessuna nostalgia nel ricordare l’amico Steve Lacy.
Nicoletta Taricani “In un mare di voci” con Fabrizio Gatti. Un progetto davvero ambizioso, dallo slancio sociale e ideologico encomiabile per la sua esortazione alla fratellanza e alla riflessione sui temi della solidarietà e sulla tragedia dei migranti. Purtroppo il risultato non è stato calibrato allo sforzo e all’eticità del progetto. Quello che è mancato, soprattutto, è un senso registico del coordinamento drammaturgico tra la parte recitata e letta dallo stesso Gatti e la parte musicale che prevedeva un doppio quartetto jazz e d’archi, alcune vocalist e un’ulteriore lettrice. L’effetto finale è stato caotico e tutto è sembrato sovradimensionato, sopra le righe, ridondante, in una parola, eccessivo.

Andrea Motis Trio: Andrea Motis, Tromba, sax soprano, voce; Josep Traver Llado, chitarra; Giuseppe Campisi,  Contrabbasso. Una voce d’angelo con un’eleganza innata che ricorda la migliore Audrey Hepburn di “Colazione da Tiffany”, Andrea Motis è un miracolo, un’apparizione da lasciare senza parole. Il suo repertorio spazia dai brani originali, agli standard più classici, un po’ di  saudade brasileira, fino al pop catalano contemporaneo e tanta anima latina. Tutto filtrato dalla  grazia straordinaria di un canto sussurrato da incantatrice di serpenti anche quando soffia dentro la sua tromba o nel sax sopranino.

Muudpodcast@ud&jazz winter. Novità di questa seconda edizione invernale della rassegna gli incontri a tarda sera, dopo gli spettacoli, nella “cripta” del Teatro Palamostre di Udine. Esattamente sotto il palcoscenico principale, intitolato a “Pier Paolo Pasolini” è stata ricavata una piccola ma accogliente sala sotterranea che, giustamente, è stata dedicata a Carmelo Bene suprema “macchina attoriale”. Il format è stato quello attualissimo del podcast di un piccolo spettacolo dal vivo tra talk show con gli artisti che si erano appena esibiti, tante chiacchiere e piccole, interessanti, preziose jam session con il meglio dei musicisti regionali. Il tutto, naturalmente, in diretta live sui principali social e piattaforme on line, dove le serate sono ancora disponibili a futura memoria.
Tanta è stata la musica che si è potuta ascoltare in Friuli Venezia Giulia in questo “beato anno del castigo” epidemico, ma siamo sicuri che “tutto il meglio deve ancora venire” come ha cantato Momrelle.

Flaviano Bosco