Enrico Pieranunzi a Radio Tre

Di Maurizio Alvino

Se vi chiedono il nome di un pianista jazz italiano facilmente vi verrà in mente Enrico Pieranunzi. Questo sicuramente per la storia del musicista, costellata di importanti collaborazioni, una su tutte quella con Chet Baker. Ma dopo aver assistito alla serata di ieri 14 dicembre, andata in onda in diretta su Radio Tre Rai per la cura di Pino Saulo, mi viene da dire anche per le caratteristiche dell’uomo. Pieranunzi è persona colta, un bibliofilo come ebbe a dirmi qualche mese fa quando lo incontrai a Torino in occasione di un suo concerto. I suoi aneddoti sono interessanti ed ironici, nonché raccontati con grande capacità di tenere desta l’attenzione del pubblico.

La serata è in piano solo, e si apre con un paio di chorus da Body and Soul, lo standard degli standard. Il tocco del musicista fa sì che le note si materializzino come  perle una dopo l’altra, e già la magia scende nella Sala A della storica sede RAI di via Asiago, a Roma. Pieranunzi, stuzzicato da Saulo, racconta la sua vita a partire da quando, ragazzino, il papà comprò un pianoforte. Iniziò da lì un percorso a doppio binario: da una parte gli studi classici, che faceva privatamente per poi dare gli esami in conservatorio, dall’altra le giornate passate col padre chitarrista a “tirare giù” ad orecchio brani come Please Dont Talk About Me When Im Gone, di Errol Garner, e cercando di penetrare nei meandri del Bebop attraverso i velocissimi fraseggi di Charlie Parker e Bud Powell. Un mondo completamente diverso da quello che poteva essere il mondo di qualunque altro ragazzino cresciuto a Roma nel quartiere di S. Giovanni, un mondo che il giovane Enrico vive con passione ma in grande solitudine rispetto ai coetanei.

In seguito arriva il diploma e l’insegnamento. Ma Pieranunzi continua il suo percorso di jazzista, frequenta il Music Inn del principe Pepito Pignatelli dove suona, tra gli altri, con Philly Joe Jones. Enrico ci racconta che all’inizio del secondo set Philly Joe ha un violento alterco con il suo pianista, un tedesco, il quale arrabbiatissimo se ne va dal locale. Pepito cerca di convincere Enrico a sostituire il tedesco, anche perché Philly Joe ha fama di girare con un coltello di venti centimetri e non è uno che va per il sottile. Enrico si convince, si siede al piano e parte un blues. Ma qualcosa non torna, e le canoniche dodici misure diventano a volte undici, a volte dieci. Enrico suona a testa bassa senza guardare mai il resto del gruppo, e per dieci lunghissimi minuti soffre cercando di tenere duro. Alla fine, al colmo dello sconcerto, alza lo sguardo e guarda  Philly Jones che gli spalanca un sorriso ad un solo dente e si mette finalmente a suonare a tempo. Enrico ha superato la prova e si è guadagnato di poter suonare con il grande batterista.

Si parla, ovviamente, di Chet. Enrico era andato a suonare a Macerata con Roberto Gatto e Riccardo Del Fra, e in un impeto di sfrontatezza chiese a Chet di registrare un disco con lui. Fu così che nacque Soft Journey, disco di grande fascino, con un Baker lirico (da par suo) ed un Pieranunzi energico e pentatonico. Un disco che contiene, tra l’altro, Night Bird, brano scritto da Enrico per l’occasione e inciso da Chet in almeno quindici dischi.

Tante le storie, gli incontri. Si parla dei tanti anni durante i quali Pieranunzi ha lavorato per il cinema, con Ennio Morricone su tutti. E poi del trio, formazione prediletta dal pianista e da lui declinata con musicisti i più diversi, citando tra i tanti quelli del Live at the Village Vanguard, Marc Johnson e Paul Motian.

Dove va oggi Pieranunzi, grande jazzista italiano e appassionato di Domenico Scarlatti? Verso il mondo classico, a sentire i suoi progetti per il 2017. Ma quello che penso, alla fine di questa gradevolissima serata, è che artisti completi come lui sono ossigeno per i nostri polmoni. Respiro profondamente e vado a casa felice.

 

Gato Barbieri. L’artista dal suono struggente

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Il tempo passa velocemente, troppo velocemente, eppure ce ne rendiamo conto soprattutto quando riflettiamo su noi stessi. Viceversa, se riserviamo la nostra attenzione al di fuori di noi, a persone che stimiamo e amiamo, stentiamo a realizzare che il tempo passa per tutti con la stessa identica velocità. Così quando apprendo dalla televisione che anche Gato Barbieri se n’è andato, stento a credere che avesse già superato gli ottanta. Ma com’è possibile? Sembra ieri che l’ho sentito al Music Inn di Roma; sembra ieri che me l’hanno presentato dopo la fine di un applauditissimo concerto; sembra ieri che ho ascoltato per la prima volta i suoi magnifici capolavori,” The third world” registrato a New York nel novembre del ’69, la serie dedicata all’America Latina,” Chapter one: Latin America”, “Chapter Two: Hasta Siempre”, “Chapter Three: Viva Emiliano Zapata”, “Chapter four: alive in New York”, “Bolivia” registrato dal vivo a new York, “El Pampero” dal vivo al festival di Montreux e poi, ovviamente, la colonna sonora di “Ultimo Tango a Parigi” che gli valse un Grammy e di cui tante volte mi aveva parlato il caro amico Mandrake partecipe di quell’incisione effettuata nel novembre del ’72 a Roma, con un organico di straordinari musicisti tra cui Franco D’Andrea e un’orchestra diretta da Oliver Nelson.
E invece tutto ciò non accadeva ieri ma alcuni decenni fa, tanto che Barbieri al momento in cui è stato sopraffatto da una polmonite in un ospedale di New York aveva ottantatre anni, ma era stato attivo fino a pochi mesi prima. In particolare nel novembre scorso aveva vinto un Latin Grammy per l’eccellenza musicale a coronamento di una carriera straordinaria impreziosita da una quarantina di album noti e ascoltati in tutto il mondo. (altro…)

Parla Toni Lama L’epopea dello Swing Club nella Torino degli anni ’60 e ‘70

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“Compro oro” non è certo un titolo che abbia molto a che fare con il jazz…se poi, però, leggiamo il sottotitolo “Vivere Jazz Vivere Swing” la faccenda diventa più chiara: in realtà stiamo parlando di un bel documentario, uscito proprio in queste settimane, che illustra l’attività dello storico “Swing Club” di Torino. Ne abbiamo parlato a lungo con uno degli autori , Toni Lama, personaggio ben noto nel mondo del jazz anche per la sua attività di promoter che l’ha portato a produrre più di 400 concerti l’anno in tutta Europa

Da quale motivazione nasce questo documentario?
Innanzitutto dal fatto che nella mia vita quello è stato un periodo interessante, bello e che ho sempre ricordato volentieri per cui pensavo di poterlo condividere con altre persone che hanno vissuto gli stessi anni. La seconda motivazione era quella di documentare un locale e un periodo storico di una città come Torino che ritengo, per molti motivi, non tornerà: sono cambiate le situazioni ambientali, è cambiata la situazione storica , è cambiata anche e soprattutto la situazione del jazz. Il jazz di quei tempi era una musica che gli appassionati andavano a cercare sui dischi avuti o trovati in modo quasi carbonaro , si dovevano tirare giù gli spartiti da dischi vecchi, spesso rovinati… era tutto molto difficile per cui ho pensato di fare un piccolo documento su quel periodo storico.

Stiamo parlando dello “Swing Club” di Torino…
Certo. Il locale è lo “Swing Club” di Torino e il periodo va dal 1965 al 1982 quel periodo che vedeva in altre città d’Italia la nascita di altri due locali storici, il Capolinea a Milano e il Music Inn a Roma. Questi due locali, assieme allo “Chat qui pêche” a Parigi e il “Domicil” a Berlino costituivano un po’ i caposaldi del jazz d’oltre oceano in Europa. Poi c’era tutta l’attività dei Paesi scandinavi ma quella era un po’ troppo lontana dai nostri obiettivi. Lo Swing si trovava in via Botero …e oggi sarebbe un posto anacronistico perché era un piccolo locale a livello strada, poi si scendeva in una cantina che poteva ospitare da legge 99 persone ma che in realtà durante i concerti ne ospitava più di 200 e oggi potremmo veramente definirla una trappola per topi : c’era una scala di legno che scendeva ripida in questa cantina e sotto, come in tutti i locali di quei tempi, si fumava liberamente e in più c’erano anche le cucine… con il risultato che si respirava un’ aria … irrespirabile…. C’era poi una sorta di uscita di sicurezza costituita da una piccola porta situata dietro le cucine che dava su un’altra cantina che a sua volta dava in un corridoio che poi, attraverso tutte le altre cantine, portava finalmente in un cortile. Dopo i fatti dello Statuto (L’incendio del Cinema Statuto la sera del 13 febbraio 1983, con la morte di 64 persone n.d.r.) fu impossibile mettere a norma, se non con cifre iperboliche questo posto che infatti chiuse.

E’ possibile tracciare una sorta di parallelismo tra questi tre locali italiani cui prima facevi riferimento?
Sì; direi che tutti e tre erano innanzitutto caratterizzati dalle persone che lo gestivano. A Roma c’era Pepito Pignatelli, personaggio storico che ha dedicato la sua vita al jazz ma soprattutto al rapporto con i musicisti, lui era l’amico dei musicisti . A Milano c’era Vanni , Giorgio Vanni al Capolinea era anche lui un batterista come Pepito e come Pepito anche lui aveva un cuore da musicista che lo rendeva prima che gestore di un locale, amico dei musicisti. A Torino c’era questa signora che si chiamava Ninni Questa che non era una musicista, ma un’appassionata che amava il rapporto con i musicisti, infatti nel documentario Tullio De Piscopo ricorda il sorriso di questa signora che non rideva spesso – in realtà non aveva molti motivi per ridere anche perché gestire un locale per una donna in quegli anni a Torino era un’impresa molto dura… Torino era allora una città spaccata dai clan, marsigliesi e catanesi si spartivano la città sia per la prostituzione sia per le sigarette – ebbene, nonostante tutto ciò, lei aveva deciso di mantenere pulito questo locale che era uno dei pochi a rimanere aperto fino alle cinque del mattino… per cui, ovviamente, dopo le 2 arrivava di tutto.

Abbiamo parlato delle consonanze; c’erano anche delle differenze sostanziali?
Le differenze erano soprattutto di carattere ambientale. Il Music Inn di Roma rispecchiava una città che già allora, nelle sue molteplici sfaccettature, nel bene e nel male, era sempre la Capitale per cui c’erano dai nobili veri ai nobili decaduti, gente del cinema… era un locale molto variegato … definirlo alla moda è forse un po’ troppo, ma di sicuro era un locale che in quegli anni faceva tendenza. Il club di Vanni a Milano, il Capolinea, era un vecchio garage sui Navigli , quindi un po’ fuori Milano, e fu lui il precursore di questo posizionare i locali un po’ nelle periferie, ed era il ritrovo di tutti i musicisti milanesi che finivano di suonare… arrivavano lì verso mezzanotte, l’una e potevano dare sfogo alla propria passione, perché i più erano musicisti di sala, facevano liscio , facevano discoteca, facevano i turnisti … e lì potevano finalmente suonare il jazz che era la loro passione; poi verso le due, le tre, Vanni, come Pepito a Roma, si metteva alla batteria e aveva la gioia di accompagnare calibri come Dexter Gordon, Art Farmer, Johnny Griffin, Mal Waldron… e tanti, tanti altri. Lo Swing di Torino era ancora una cosa diversa perché l’habitat della città era diverso, Torino era una città in bianco e nero, una città grigia comunque non priva di un certo fascino, era una città che offriva attraverso questo locale uno spaccato di fantasia, uno spaccato di creatività; scendendo quelle scale, la gente, come fa notare Pupi Avati nella sua intervista, dimenticava un’Italia brutta, perché in quegli anni era un’Italia non bella, e immaginavi di essere a New York al Blue Note, a New Orleans…, sognavi, avevamo un angolo di sogno. Poi uscivi alle 3 alle 4 del mattino e spesso ti incrociavi con quelli che in piemontese si chiamano i “baracchini” quelli, cioè, che portavano il “baracchino” il posto dove mettevi il cibo, perché alle 6 dovevano aprire il turno in fabbrica (leggi Fiat) per cui molti uscivano da casa alle 4,30 alle 5 per essere puntuali sul posto di lavoro. Queste due realtà quasi si accarezzavano, per motivi di tempo, ma in vero erano due realtà che vivevano in modo profondamente diverso. E lo Swing era un’isola – diciamo – felice. (altro…)

Rosalba Bentivoglio Incanto di pietra lavica

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Artista di grande spessore, vocalist che si è fatta apprezzare anche al di fuori dei confini azionali, Rosalba Bentivoglio è rimasta fortemente legata alla sua terra. Di qui una scelta tanto impegnativa quanto, dal punto di vista artistico, non del tutto gratificante: restare nella propria terra, continuare a vivere nella natia Catania. Qui, ovviamente, ha proseguito la sua attività di jazzista a tutto tondo, affiancando una intensa attività didattica.
L’abbiamo intervistata di recente affrontando tutta una serie di tematiche molto delicate e abbiamo trovato una donna, un’artista intelligente, coraggiosa, ben consapevole delle proprie motivazioni, che n on ha alcun timore ad esprimere in modo chiaro, inequivocabile, le proprie idee.

-Come pensi sarebbe stata la tua carriera se avessi lasciato Catania, la Sicilia?
Intanto ti dico che qui in “provincia” risulta essere un plus valore il fatto di vivere o di rientrare dopo aver vissuto all’estero (o anche solo in nord Italia); ciò che viene da “fuori” dà più lustro, e forse non abbiamo ancora dismesso la famosa valigia con cui i nostri genitori partivano cercando riconoscimenti e fortuna fuori dal proprio Paese e magari rientrare poi con accento “estero” per essere ricollocati in modo più consono. Infatti se noti le varie presentazioni di musicisti siciliani, guarda caso, hanno tutti residenza all’estero. Comunque io ho vissuto un periodo a Parigi e in Germania a Monaco e devo dirti che si lavora bene e tutto procede in base alle tue capacità artistiche, cioè l’opposto di quello che avviene da noi. Il Jazz in Italia soprattutto in Sicilia è ancora lontano dalle nuove prospettive musicali a cui da tempo si accenna o più timidamente si cerca di parlare, forse più per un atto dovuto che per convinzione vera e propria. Della parola “difficoltà” ultimamente ho fatto il mio punto di forza; cercando di evitare l’autocommiserazione. In un Paese come il nostro in cui l’unica forma d’arte è l’apparire e dove certezza è la mancanza di strutture, di professionalità e competenze; l’indifferenza poi, completa il quadro, soprattutto per chi ha fatto delle scelte diverse. Io ho bisogno del mio luogo, dell’energia che sprigiona l’Etna e a cui spesso attingo come forma d’ispirazione. Io ho scelto di continuare a vivere a Catania, in Sicilia, per affermare me stessa nel luogo d’origine e perché sono legata alla mia terra, al mio mare, e al mio vulcano. Certo oggi questa scelta fatta anni fa mi sta stretta, penso che il vivere all’estero mi avrebbe dato di più e sarebbe stato più utile alla mia carriera; Catania, la mia città è risultata essere avara con me, con chi si è sacrificata per essa per rappresentarla al meglio.

-Come si è evoluto il Jazz nell’isola?
Come sai sono stata presidente per la Sicilia orientale dell’organizzazione ASMJ (Associazione Siciliana Musicisti Jazz) associazione nata dalla scissione dall’AMJ a livello nazionale perché non ci sentivamo ben rappresentati, comunque dopo poco tempo e dopo aver prodotto 2 cd , il progetto è naufragato; ma in quel periodo ho toccato con mano le reali necessità e disagi dei musicisti isolani, e primo tra tutti la latitanza delle istituzioni, mentre un secondo e non sottovalutato problema è quello degli organizzatori, che a volte coincidono con la figura di musicisti e che purtroppo tengono un’egemonia di potere forte e formano quadrato verso quelli che vengono visti come outsider. Da un punto squisitamente stilistico invece, credo che si cominci ad avere (oserei dire timidamente) l’esigenza di rinnovarsi (nel rispetto di alcuni parametri culturali che oggi si attenzionano più di ieri). Francesco Cafiso ad esempio ha dato una particolare valenza al jazz in Sicilia e pur essendo molto giovane ha bruciato molte tappe, maturando esperienze con gli artisti giusti e nei luoghi idonei. Forse non dovrebbe restare in Sicilia, la Sicilia orientale è bella ma forse lo lega troppo, io lo vedrei più a New York, Parigi o ad Oslo, luoghi più giusti per un artista come lui, tra l’altro ancora giovane, ed affiancarsi ad artisti e collaboratori interessanti e soprattutto innovativi nei suoni . Per le onorificenze, le targhe e le direzioni artistiche c’è ancora tempo. Con Francesco ci siamo sempre ben rappresentati sul palco, abbiamo avuto una lunga collaborazione con l’Orchestra jazz del Mediterraneo di Catania. Certo che oggi nell’era dell’informatica e con le nuove tecnologie a nostra disposizione è stato possibile uno scambio e una informazione a cui prima non eravamo abituati. E’ vero anche che la facilità di approdare e usufruire di tecnologia ha creato uno spazio antitetico al reale sviluppo creativo in cui il mezzo, la macchina, prende il sopravvento sull’intelletto umano. Quindi si dice che in Sicilia un’evoluzione o crescita nell’ambito jazzistico è avvenuta, anche se credo sia sempre sotto le briglie delle esigenze commerciali, dove i nomi o i cartelloni contano più del reale sviluppo di un intelletto artistico. Chi come me da anni si occupa di ricerca e contaminazioni non trova un mercato o interesse capace di sostenerli.

-In Sicilia esistono realtà diversificate che fanno capo a molte realtà locali; secondo te esiste una buona collaborazione o, come sostiene qualche tuo collega, ognuno va per i fatti suoi?
Rispondo subito con un no, non credo che in Sicilia esista una buona collaborazione tra le varie realtà dell’isola, ognuno ha il proprio giro di artisti e, come dicevo prima un piccolo gruppo di musicisti-organizzatori creano egemonie; ma credo che un problema simile esista anche fuori dal nostro territorio come ad esempio Roma che risulta essere una città chiusa, non ci si esibisce se non sei nel giro giusto, ad esempio sai che in tanti anni di attività io non sono mai stata invitata ad esibirmi alla Casa del Jazz ? La mia esibizione a Roma ( a parte la partecipazione a trasmissioni musicali radiofoniche in Rai, con Tony Scott e la conduzione di Adriano Mazzoletti) io ho cantato al Music Inn.

-Il mondo del jazz è stato, tradizionalmente maschilista…cosa puoi dirci al riguardo con specifico riferimento alla realtà siciliana?
Che i pregiudizi nel rapporto tra musicisti sono tutt’oggi presenti; esiste di fatto una discriminazione tra musicisti maschi e musiciste femmine, le femmine vengono viste più come vocalist che devono stare li sul palco in bella mostra a cantare e fare soffrire (musicalmente) i musicisti che le accompagnano. Diciamo che le donne non vengono viste come musiciste e compositrici complete al pari degli uomini, ma sono, anche se spesso più brave dei maschi, un orpello, un abbellimento al gruppo composto da maschi.

-Tu sei una eccellente vocalist … ma anche una compositrice di vaglia; qual è tra i due il vestito che ti senti meglio addosso?
Ambedue, perché quando compongo penso già al canto, mi esprimo con il canto, ma la composizione è la mia espressione interiore; l’intelletto, il sogno, che poi il fuoco del canto concretizza. La voce è l’unico legame tra silenzio e parola e come nei suoni invisibili di Italo Calvino voglio avere sufficiente simbolicità per andare a ricostruire quelle relazioni sommerse; interessante perciò mettere in scena tanto la sperimentazione che avviene nell’ambito colto, come ricerca sul linguaggio, anche visivo, quanto liberi passi che vengono presi nel territorio delle spericolate improvvisazioni vocali. Un bagliore rende limpido e visibile colore e forme, ed è in quest’attimo, intensa ed ispirata che libero me stessa nel non tempo.

-Come si svolge il tuo percorso compositivo?
Così come lo scrivere un libro per un filosofo è un atto del tutto personale, allo stesso modo per me è la realizzazione della mia musica nella quale la mia visione e l’utilizzo del linguaggio non viene inficiato da speculazioni commerciali, ma rappresenta sempre ciò che sono e penso in “questo momento”, fondamentalmente su un’ispirazione, una traccia sulla quale lavoro e inserisco l’armonia, mentre in altre seguo un determinato passaggio armonico che può fare scaturire una melodia evocativa. Altre volte è l’evocazione stessa, anche visiva o una emozione vissuta ad ispirarmi e da li scattare la scintilla compositiva. A volte le composizioni le completo con un testo, altre le lascio libere di vagare. Se dovessi descrivere con un’immagine il pensiero delle mie composizioni mi ritrovo trascinata in un vortice di suoni e colori che in modo forte e diretto mi fanno rivivere i colori e le composizioni di W.Kandinsky. Equilibri dinamici quelli che traccio in musica, così come Kandinsky traccia in pittura. La ricerca è un atteggiamento verso un qualche cosa, una tradizione, un linguaggio, un luogo, delle convenzioni. I suoni, come macchie di colori contrastanti ma in perfetto equilibrio fra loro , è così che nelle mie composizioni musicali inserisco un intelletto compositivo. Percio’ la maggior parte delle mie composizioni sono senza parole, con atmosfere minimaliste, e la voce e’ utilizzata come strumento che prende spunto per le proprie sonorita’, dalla natura e da suggerimenti ritmico-musicali da radici fonetico-linguistiche della mia cultura. Sono alla ricerca di una sinestesia in musica. Utilizzo la voce come un sintetizzatore vocale umano per reinventare la tecnica e l’arte del cantare ad ogni mia nuova composizione. Sviluppo elaborazioni di nuove vocalità che rievocano immagini da sogno e si snodano in susseguirsi d’invenzioni creative, di spazi sonori, di tempi, colori, citazioni letterarie. La mia è una musica estremamente evocativa. Equilibri dinamici sono quelli che cerco in musica ed utilizzo il linguaggio musicale per esprimere me stessa. Una “musica nuova” tipizzata da sperimentazione vocale proveniente da dimensioni oniriche e surreali che esprima la metafora della vita.
I Luoghi di Eolo, In the Wind he comes e Cieli di marzo si muovono con moods cangianti come gli stati d’animo ed il vento ne è il collante.
Il vento nell’essere come rinnovamento, “soffio” come corrente di vita, afflato di energia, filo conduttore che unisce il corpo umano all’universo, e il linguaggio canto implica una visione del mondo in cui non esiste più alcuna differenza tra microcosmo e macrocosmo.

– Tutti ti riconoscono una grande sensibilità interpretativa non disgiunta da una tecnica molto solida. Come sei giunta a questi risultati? Quali le tappe fondamentali della tua formazione?
Sin da bambina ho provato grande attrazione per il canto. Col passare del tempo è diventata una necessità esprimermi con la voce. E’ soprattutto attraverso questo mezzo che oggi cerco di realizzarmi. Nel jazz si ritrova quella libertà di espressione. L’ascolto di Someone to watch over me di George Gershwin col testo di Ira Gershwin, cantato da Sarah Vaughan ha fatto scattare in me la molla che è diventata una vera passione per il canto jazz. Giovanissima ho avuto esperienze rock e pop (westCost con Joni Mitchell) per poi indirizzare la mia passione verso il jazz, passando per il canto lirico in conservatorio. Poi quello che conta ( e che gli allievi oggi comprendono poco) è cantare, quindi tanta ma tanta esperienza sul palco, dove avvengono incontri, scontri e collaborazioni. L’arte è un percorso paritetico alla vita, non si sa quando comincia ma si sa che non finisce mai.

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Mario Corvini: un’orchestra di nuovi talenti per rinverdire i fasti delle big-band

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Mario Corvini nasce a Milano nel 1967 in una famiglia dove la musica, il jazz, sono di casa. Il padre è infatti Alberto Corvini, grande jazzista argentino, per molti anni prima tromba dell’orchestra della RAI, molto amico di Lalo Schifrin, Gato Barbieri, Astor Piazzolla; Corvini faceva parte di quella schiera di musicisti argentini che sono andati in giro per il mondo, stabilendosi chi negli States chi in Italia. Sotto la guida del padre Mario comincia a studiare il trombone all’età di undici anni . Comincia presto a suonare nei locali di Roma: Music Inn, Alexanderplatz, Saint Louis, Billie Holiday, Folk Studio, Caffè Latino, Classico, Palladium, Fonklea, Blue Lab, Alpheus, Mississippi, etc. Da qualche anno si sta dedicando con sincera passione ad un progetto molto ambizioso. Ed è proprio da questo progetto che inizia la nostra chiacchierata.

“Si tratta – afferma Corvini – della New Talent Jazz Orchestra, una band che, come dice lo stesso titolo, è costituita da giovani talenti che ho formato nell’ottobre del 2012. Quasi immediatamente abbiamo iniziato una intensa attività concertistica, dalle ‘guide all’ascolto’ alla Casa del Jazz di Roma alle esibizioni al Teatro di Villa Torlonia…adesso stiamo approdando al Parco della Musica dove il 14 aprile faremo un concerto con Daniele Tittarelli in veste di ospite per una produzione discografica. Si tratta di un progetto molto ambizioso in quanto coniuga vari aspetti musicali, dalla conduction alla creazione di brani originali sia di Tittarelli sia miei (due pezzi) arrangiati da me a da Gianluigi Giannatempo. Il 20 saremo di nuovo alla Casa del Jazz ove per questa serie di incontri organizzata dall’associazione dei musicisti jazz suoneremo con Maurizio Giammarco mentre il 18 maggio ci esibiremo con Cettina Donato. Ecco, con questa orchestra, sto cercando da un lato di porre in rilievo gente che lo merita, dall’altro di poter creare delle occasioni di lavoro in un momento in cui la crisi sta rendendo sempre più difficile trovare sbocchi occupazionali anche per i musicisti”.

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Malaguti in versione West-Coast con Gianmarco Lanza e Marco Loddo

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Bella atmosfera sabato 14 marzo al Teatro Studio Keiros di Roma: sul palco il trio West Coast di Lanfranco Malaguti alla chitarra con Gianmarco Lanza alla batteria e Marco Loddo al contrabbasso.

Una sessantina di persone a riempire completamente il piccolo spazio di via Padova per ascoltare le musiche del trio; ad un certo punto ho quasi avuto la bellissima sensazione di rivivere le atmosfere del glorioso Music Inn quando, tutti stipati su panche non proprio comodissime, ci si apprestava a sentire il grande di turno.

E anche al Keiros abbiamo in effetti ascoltato un grande musicista. Lanfranco Malaguti è senza dubbio alcuno uno dei più lucidi sperimentatori del mondo jazzistico non solo italiano. Matematico di formazione, ha applicato alla musica la teoria dei frattali con risultati che potete apprezzare ascoltando gli ultimi suoi lavori per la Splasc(H).

Ma, parallelamente a queste ricerche, il chitarrista porta avanti oramai da tempo un trio specializzato nel repertorio West Coast; costituito nel 2001 il combo è completato dal già citato Gianmarco Lanza e da Piero Leveratto alla batteria; con questo organico il trio ha effettuato numerosi concerti a Milano, a Firenze, a Ferrara, a Roma (Casa del Jazz) e ha inciso i CD “The revival of West Coast jazz” e “Trio live per la Splasc(h)” e, in quartetto con Bill Smith, il doppio “Concert for Mirella” per la Mox Jazz.

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