Danilo Rea – La Grande Opera in Jazz: il progetto perfetto del “jazzista imperfetto”

A maggio di quest’anno ho avuto l’onore di intervistare il grande pianista ed improvvisatore Danilo Rea, esibitosi al Festival dell’Acqua di Staranzano (Go). In quell’occasione, durante la cena prima del concerto, ebbi modo di dialogare a lungo con Danilo e tra le cose che mi disse mi raccontò del progetto che aveva presentato in anteprima mondiale al Teatro Antico di Taormina: “La Grande Opera in Jazz”; Danilo ne parlò in termini così appassionati che, una volta giunta a casa, andai a cercare immagini e notizie del progetto innamorandomene all’istante!
Nei giorni scorsi, di ritorno da Roma, scopro che il progetto è nel cartellone musicale, curato da Simone D’Eusanio, del Teatro Comunale “Marlena Bonezzi” della mia città, il 1° dicembre. Potevo perderlo? Naturalmente no! Cercherò quindi di contagiarvi emotivamente, sperando di riuscire a condividere l’emozione che io ho provato in modo diretto in una forma istintuale di empatia «scintilla che fa scaturire l’interesse umano per gli altri», sentenziava lo psicologo Martin Hoffman, generata dalle mie parole.
Credo non sia necessario dirvi chi è Danilo Rea, pianista romano, maestro dell’improvvisazione, tra i maggiori esponenti del jazz italiano e internazionale, dotato di una straordinaria padronanza della tecnica e dell’armonia del pianoforte classico e jazz; se volete saperne di più vi rimando all’intervista sopra accennata (http://www.online-jazz.net/?s=danilo+rea ).

Danilo non è nuovo ad esperimenti di contaminazione con le arie d’opera, vedi “Lirico” (Egea Records, 2003), del resto stiamo parlando di un artista mai domo, capace di abbattere recinzioni e confini tra generi musicali per creare qualcosa di unico, congiungendo mondi all’apparenza lontani.
Ed unico è stato anche il concerto monfalconese: unico e probabilmente irripetibile, visto che Danilo, improvvisatore totale, inserisce in ogni sua performance citazioni sempre diverse, seguendo ispirazioni hic et nunc, dove nulla è preventivamente programmato, dove il suo estro creativo e la sua profonda conoscenza musicale gli consentono di vagabondare seguendo un corpus narrativo nel quale trovano spazio il jazz, la musica d’autore italiana e internazionale e, come in questo caso, le arie d’opera.
Unico dogma imprescindibile è il rispetto che Danilo ha nei confronti della melodia, che egli forgia aprendo inedite prospettive di ascolto.
Quindi, non chiedetegli mai una scaletta perché lui odia averne, Danilo è uno che ama inventare storie sempre nuove, uno che traduce in musica il suo lessico emotivo condividendolo generosamente con il suo pubblico.
Ritornando alla Grande Opera In Jazz, sul palco del Comunale, dove fa bella mostra di sé un meraviglioso gran coda Fazioli, si alternano note, voci e immagini che raccontano la storia del melodramma italiano. È Danilo stesso ad azionare un dispositivo che fa partire, sullo schermo alle sue spalle, il materiale visivo e sonoro; al di là del certosino lavoro di ricerca delle incisioni originali d’epoca, con le voci ripulite dalla parte strumentale, una citazione speciale va alla pittrice Rossella Fumasoni, che firma delicati e coloratissimi dipinti di volti e di corpi dove danzano, in movimenti evocativi di leggerezza e sospensione, petali, rose, farfalle, foglie, colibrì, di grande fascino.
Non si percepisce alcun distacco spazio-temporale tra le voci dei grandi cantanti lirici del passato e il pianoforte di Danilo Rea, che duetta con estrema naturalezza con Maria Callas (inarrivabili le sue interpretazioni di Casta Diva, la cavatina dalla Norma, preghiera elevata alla luna…) con Elisabeth Schwarzkopf (soprano tedesco dotata di una timbrica cristallina e di un’innata eleganza espressiva) con i grandi Mario Del Monaco, Enrico Caruso, Tito Schipa, Beniamino Gigli, Giacomo Lauri-Volpi e ancora con Maria Caniglia, Amelita Galli-Curci, Nazzareno De Angelis… nelle arie delle Opere più conosciute: Norma, Turandot, Traviata, L’Elisir d’Amore, Cavalleria Rusticana, Madama Butterfly, Tosca.

Ciò che stupisce maggiormente è il modo in cui Danilo riesce a raccordare, con una semplicità che disarma chi lo ascolta, i temi principali delle arie ad infinite citazioni… ed ecco, ad esempio, che Lucevan  le stelle si trasforma in Les Feuilles Mortes e questa è solo una delle interazioni che il pianista romano crea nel corso dello spettacolo, così tante che è impossibile ricordarle tutte… cito My Favorite Things di Coltrane, la Barcarola di Offenbach, Bésame Mucho della Velázquez Torres e America di Leonard Bernstein con Libiamo ne’ lieti calici dalla Traviata di Verdi e poi le dolcissime Over the Rainbow che si mescola con Maria di Bernstein.
Il pianismo di Danilo è fluido e circolare – e talvolta lo sono anche i suoi movimenti mentre suona, quando le sue braccia disegnano orbite e le sue mani traiettorie imprevedibili – ed egli s’impossessa di ogni spazio abitabile del suo strumento, intercettando ogni minima sfumatura che un suono può contenere. Ed è così che in una fredda sera d’inizio dicembre, rapita da cotanta bellezza, dalla voce di Enrico Caruso e dalle architetture improvvisative di questo “jazzista imperfetto”, che trascendono qualsivoglia teoria musicale, negli occhi miei spuntò Una Furtiva Lagrima, mentre sullo schermo scorrono le immagini di una ballerina en pointe che danza con grazia, di vortici di foglie che si lasciano trasportare dal vento verso l’inesorabilità del loro destino autunnale, di due innamorati che si tengono per mano, scambiandosi tenerezze al crepuscolo. Omnia vincit amor et nos cedamus amori.

Danilo Rea – ph Luigi Ceccon

A completare il repertorio proposto nel corso della serata, oltre alla già citata Callas, Rea accompagna Mario Del Monaco in Nessun dorma, la Schwarzkopf in Addio al passato e in O mio babbino caro, l’Ave Maria cantata da Tito Schipa e poi Amelita Galli-Curci in Un bel dì vedremo dalla Madama Butterfly di Puccini, Giacomo Lauri Volpi in Di quella pira (con immagini di streghe al rogo…), Beniamino Gigli in E lucevan le stelle, e Nazzareno De Angelis in Dal tuo stellato soglio dal Mosè in Egitto di Rossini (sullo schermo appare anche il maestoso e furioso Mosè michelangiolesco che, come vorrebbe la leggenda, pare sia stato preso a martellate dallo stesso – altrettanto irascibile – scultore, piccato per non aver ricevuto risposta alla sua domanda «Perché non parli?», per quanto gli sembrava vivo e perfetto!).
In conclusione di serata, ritroviamo ancora Enrico Caruso in Tu ca nun chiagne e ‘O sole mio, brano che Rea interpreta magistralmente con passione ed enfasi, accennando nel finale alcune note di Nessun dorma. Splendide le immagini d’epoca di Napoli e New York, le città di Caruso e comunque curata nel dettaglio tutta la narrazione grafica e visual, compresi i suggestivi scorci di Roma, la città di Danilo.
Se pensate che il pubblico monfalconese lo abbia lasciato andar via dopo la superba esecuzione di ‘O Sole mio vi sbagliate di grosso.
Una selva di applausi ha convinto il nostro musicista a sedersi nuovamente al piano per regalarci ancora qualche scampolo della sua visione musicale, fatta di scomposizioni e ricomposizioni, di arrangiamenti e riarrangiamenti, di modellamenti e rimodellamenti, di demolizioni e ricostruzioni à sa manière, che ci hanno restituito un medley di brani di De André (La canzone dell’amore perduto e La Canzone di Marinella), di Tenco (Un giorno dopo l’altro), del suo sodale e compagno di tante avventure Gino Paoli (Sapore di Sale) e di Bindi (Il nostro concerto), in una concatenazione di sbalorditive improvvisazioni, a cavallo tra virtuosismo e lirismo, che gli hanno fatto meritatamente guadagnare l’appellativo di “grande poeta” tra i musicisti di jazz, oltre ad essere spesso accostato all’immenso Keith Jarrett… e scusate se è poco!

Marina Tuni ©

A Proposito di Jazz ringrazia l’Ufficio Teatro del Comune di Monfalcone e la fotografa Katia Bonaventura per le immagini

Casa del Jazz: grande successo per l’eroina dell’improvvisazione: Marilena Paradisi / Convince l’eclettismo di Erika Petti

Il penultimo appuntamento della serie “L’altra metà del Jazz” si è tenuto lunedì 20 novembre in concomitanza con la partita di qualificazioni della Nazionale contro l’Ucraina, evento che però non ha impedito alla sala di gremirsi di interessati e attenti spettatori.
Calcisticamente parlando, il primo tempo della serata ha visto protagonista la cantante Marilena Paradisi, accompagnata dal pianista cosentino Carlo Manna, di cui non ha mancato più volte (a ragione! N.d.A) di tessere le lodi.
Analizzando le ospiti di questi incontri, Marilena può essere considerata una figura atipica sotto alcuni aspetti: innanzitutto la sua formazione di musicista jazz, avvenuta più tardi rispetto a molte altre artiste, dal momento che lei aveva intrapreso la carriera di ballerina di danza contemporanea; poi, a seguito di un viaggio a New York e all’ascolto di numerosi dischi di musica jazz, primo tra tutti Ballads di John Coltrane, arriva il colpo di fulmine e l’innamoramento verso questo genere. Una volta rientrata a Roma, prende per cinque anni lezioni di canto dalla cantante lirica Fausta Coppetti Corti: «l’unica capace di tirarmi fuori la voce!» – dichiara Marilena.
Altro aspetto di discontinuità rispetto alle ospiti precedenti è l’aver preferito iniziare la serata cantando e non già rispondendo alle domande di Gatto, perché cantare, dice, le dà energia, quell’energia creativa che in qualche modo temeva di disperdere se prima avesse dovuto parlare.
La serata, dopo i saluti del direttore della Casa del Jazz, Luciano Linzi e l’introduzione di Gerlando Gatto, inizia con la Paradisi, accompagnata al piano dall’ottimo Carlo Manna (una vera scoperta!), che intona la dolcissima ballad di McCoy Tyner You Taught My Heart to Sing declinata in riverberi di scat e vocalese.
C’è da dire che, al di là di questo inizio classico, la principale cifra stilistica della Paradisi è l’aver improntato gran parte della sua opera musicale sulla sperimentazione e sulla pura improvvisazione; in particolare Marilena ha raccontato della sua esperienza con la soprano nipponica (dalla timbrica eccezionale) Michiko Hirayama, icona del canto contemporaneo (nota anche per il suo stretto legame artistico con Giacinto Scelsi) e della registrazione congiunta del disco Prelude for Voice and Silence (2011): quasi un’ora di pura improvvisazione vocale e di geniali “silenzi sonori”,  in cui, dato curioso, la Hirayama, alora ottantottenne, avrebbe dovuto partecipare solo a due tracce delle 34 registrate e delle 22 selezionate mentre in realtà è presente in otto.
Alla domanda del critico su quali siano stati i suoi riferimenti jazzistici, Paradisi non ha esitazione alcuna ad indicare Chet Baker, nella sua veste di cantante e non solo come trombettista, che collega ad Hellen Merril, due voci bianche caratterizzate dallo stesso minimalismo vocale. Di Chet, Marilena dice: «suona la voce come la tromba…».
La cantante ha poi illustrato la registrazione del disco The Cave (2013), realizzato in collaborazione con il percussionista Ivan Macera. Registrato all’interno del Teatro Il Cantiere di Roma, il disco è ispirato ad un articolo del musicologo Iégor Reznikoff che disquisiva sulla correlazione tra le pitture rupestri presenti nelle caverne preistoriche e la risonanza sonora; l’intenzione dell’album è appunto quella di trasportare l’ascoltatore in un’immaginaria caverna paleolitica dove ogni suono viene microfonato e amplificato. Un accenno anche al suo disco di improvvisazione testuale inciso con la  pianista Stefania Tallini (peraltro ospite della prossima e ultima serata di mercoledì 29 novembre, N.d.A. – info qui). Paradisi spiega che improvvisare parole è un esercizio di “scavo” e definisce il suo metodo come piccoli momenti poetici, assimilabili a haiku giapponesi.
Infine, ricorda con particolare affetto la sua collaborazione con Eliot Zigmund, batterista di Bill Evans, nata da una mail mandata da Marilena al musicista americano, dalla quale la vocalist non si sarebbe mai aspettata una risposta, tantomeno positiva,  e da cui, dopo un lavoro di organizzazione da parte della cantante durato circa quattro mesi, ha avuto origine il disco I’ll Never Be The Same (2002): di Zigmund ricorda soprattutto la generosità e il rispetto per le tradizioni che il batterista le ha saputo tramandare.
Dopo la citata You Taught my Heart to Sing, Marilena Paradisi è passata a Passion Dance sempre di Tyner e ad una stupefacente versione di Lawns – un omaggio alla grande Carla Bley – venuta a mancare recentemente – in una versione con l’arrangiamento vocale composto dalla stessa Paradisi, per finire con Would You Believe di Cy Coleman, brano reso famoso da Carmen McRae.

Nel secondo tempo della bella serata, al contrario degli attaccanti azzurri, la cantante e chitarrista molisana Erika Petti non ha mancato l’occasione avuta per presentarsi! L’intervista inizia parlando della sua formazione musicale e del fatto di essere cresciuta in una famiglia di musicisti: il padre è un trombettista, il fratello un fisarmonicista e la sorella pianista. Erika studia chitarra classica al conservatorio ma in realtà,  per un periodo, la sua carriera musicale passa in secondo piano in favore dei suoi studi universitari e della sua laurea in lettere: la Petti ci confessa infatti che se non avesse scelto la musica probabilmente avrebbe studiato filologia medioevale. Così non è andata, per nostra fortuna, ed Erika intraprende un percorso di studi biennale con la cantante e didatta di grande valore Carla Marcotulli.

In merito alla sua musica, descrive il suo genere come un jazz contaminato da influenze derivanti da vari stilemi come il pop, la bossa nova, il samba e la canzone italiana, primo tra tutti Pino Daniele, del quale la musicista apprezza la vis compositiva in primis e le lunghe linee melodiche. A onor del vero, Erika cita tra i suoi riferimenti musicali, come esempi di contaminazione, anche gli Earth, Wind&Fire… e come darle torto?  Queste caratteristiche appaiono evidenti nel suo album Sophisticated uscito proprio in questi giorni, un omaggio a grandi compositori quali Duke Ellington, Michel Legrand e Burt Bacharach, scomparso a febbraio di quest’anno. Parlando di queste commistioni, Erika enuncia quello che inconsapevolmente è diventato il filo rosso che collega tutte le musiciste invitate a queste serate, ovvero un unico tipo di distinzione tra buona e scarsa musica, senza discriminazione tra generi.
Inoltre, parlando dell’annoso tema delle difficoltà incontrate da una jazzista donna in un ambiente prevalentemente maschile, Erika racconta di aver incontrato alcuni ostacoli: tra questi l’impossibilità di suonare nella banda del suo paese natale in quanto donna, la sorpresa, da parte di alcuni, nel notare che la persona dietro ad un’abile esecuzione sia una donna e il fatto che in certi ambienti si sia ritrovata a dover citare uomini per qualificare un determinato ambiente di provenienza. E su questo postulato, la vostra redattrice rabbrividisce sdegnata… perché anche basta!
Infine, alla domanda postale da Gatto sullo stato della musica pop attuale in Italia, lei risponde invitando il pubblico a riflettere su come l’industria discografica possa influire pesantemente, per mere esigenze del mercato musicale, a conformare l’opera dei musicisti, a volte stravolgendola per adeguarla senza remore ai trend del momento…
I brani eseguiti dalla Petti, sono stati: Close To You di Bacharach in versione chitarra e voce e, nel celeberrimo riff finale, cantata anche dal pubblico in sala, e due pezzi di sua composizione, suonati insieme al pianista Pietro Caroleo: Amar y Vivir, con testo del poeta e cantante venezuelano José Carlos Morgana (accompagnandosi anche alla chitarra) ed E Tornerai, stavolta solo piano e voce.

Marina Tuni

ℹ️ INFO UTILI:
Casa del Jazz – Viale di Porta Ardeatina 55 – Roma
tel. 0680241281 –
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19:00 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

Trascinante Judith Hill
Più riflessiva la musica di Peirani

È proprio vero che programmare è una cosa, attuare è un’altra. Quest’anno mi ero ripromesso di vedere cinque concerti del recente Roma Jazz Festival che mi era parso ben strutturato e con proposte nuove e interessanti.
Purtroppo non è andata come volevo e sono stato costretto ad assistere solo a tre concerti perdendomi quelli del pianista sudafricano Nduduzo Makhathini (il 9 novembre) e del gruppo Yellowjackets (11 novembre) che seguo da tempo immemore.
Dell’anteprima di Ibrahim Maalouf il 12 ottobre “A proposito di jazz” ha già riferito; oggi vi do conto degli altri due concerti cui ho assistito: Judith Hill il 4 novembre, Vincent Peirani Trio il 5 novembre.
Preceduta da una fama non immeritata, Judith Hill si è esibita alla Sala Petrassi dell’Auditorium dinnanzi ad un pubblico entusiasta e assai numeroso. Veramente particolare la formazione dal momento che la vocalist afro-americana aveva accanto a sé la madre Michiko alle tastiere e all’organo e il padre Robert (alias Pee Wee) al basso elettrico; alla batteria l’unico “estraneo”, il vulcanico John Staten.
Nata a Los Angeles, Judith viene, quindi, da una famiglia di origini nipponico/afroamericane che può a ben ragione definirsi “musicale”, nell’accezione più completa del termine. Ha dedicato tutta la sua vita alla musica tanto da essere attualmente, oltre che un’ottima vocalist, anche un’eccellente pianista e chitarrista. Dopo aver sviluppato le sue attitudini lavorando come cronista a fianco di vere e proprie icone della musica quali Michael Jackson, Stevie Wonder e Prince ha intrapreso una strada da solista che le sta assicurando grande successo presso le platee di tutto il mondo. In effetti le performance della Hill, stando a quanto s’è visto e ascoltato a Roma, sono davvero trascinanti. La sua voce calda, la sua intonazione, il preciso senso del ritmo le consentono, infatti, di transitare con estrema disinvoltura dal soul al R&B, dal funk al blues il tutto in un’atmosfera sempre “assai calda” che vede il continuo coinvolgimento del pubblico.
Efficace in tutte le interpretazioni personalmente l’ho particolarmente apprezzata in “Angel in the Dark” una composizione di Prince, “Better Days” e “Beautiful Life” scritte dalla stessa Hill mentre tra i brani più scatenati, particolarmente coinvolgente “That Power”

Di natura completamente diversa il concerto del fisarmonicista francese Vincent Peirani in trio con il chitarrista italiano ma oggi stabilmente a Parigi Federico Casagrande, e il batterista di origine israeliana Ziv Ravitz, oggi cittadino di New York. Ho seguito la carriera di Peirani da quando nel 2009 si affacciò sul mondo del jazz con un album particolarmente originale e promettente. Promesse mantenute negli anni successivi che hanno consacrato Peirani come uno dei migliori fisarmonicisti al mondo. Ma, se devo dire la verità, quest’ultima strada intrapresa da Vincent, così come evidenziato dal concerto romano, non mi convince più di tanto. Certo la maestria dell’artista è sempre là, così come la sua classe nell’arrangiare i pezzi, e la sua profonda conoscenza dell’universo jazzistico. Ma questo immergersi in atmosfere molto slargate (un po’ alla nordica, tanto per intenderci) i continui riferimenti alla musica “moderna” , la prevalenza della struttura sull’improvvisazione, e soprattutto il continuo ripetere di brevi segmenti melodici hanno fatto perdere un po’ di mordente alla sua musica.
Nel repertorio del concerto romano figurano alcuni brani presenti nell’ultimo album “Jokers” pubblicato nel 2022 con la stessa formazione presentata nella Capitale: tra questi “River” tratta da ‘Church of Scars’  (2018) della cantante Bishop Briggs, in cui il canto viene sostituito dalla fisarmonica; particolarmente interessante “Salsa Fake” il cui titolo è tutto un programma: in effetti il brano inizia con un assolo di chitarra che ci porta in atmosfere latine assecondato dalle note suadenti e melanconiche della fisarmonica, ma ben presto le cose cambiano: intervengono batteria e chitarra, il clima del pezzo muta completamente, adesso ci si avvicina ad una forma sofisticata di rock a segnare, a mio avviso, il punto più alto dell’intero concerto proprio perché le concezioni di Peirani riescono a elaborare una ricetta nuova e coinvolgente.
Il concerto si chiude con “Ninna nanna” eseguito come bis, sicuramente il brano più melodico dell’intera serata in cui sono evidenti i riflessi di certe melopee italiche.

Gerlando Gatto

Ciao Dino “gran signore del jazz”

Se n’è andato anche lui dopo una vita straordinaria, dedicata alla musica: all’età di 94 anni ci ha lasciati Dino Piana uno degli artisti che ha contribuito in primissima persona con il suo trombone a scrivere la storia del jazz italiano. Anni attraversati con straordinaria raffinatezza, leggiadria, gentilezza. In effetti si può benissimo essere grandi musicisti senza per questo essere particolarmente simpatici: bene Dino Piana ha invece rappresentato quel che nel mondo “normale” si intende “Un vero signore”.

E per un momento lasciamo da parte i suoi meriti musicali per soffermarci sul Piana uomo: l’ho conosciuto parecchi anni fa ed una volta ho avuto l’onore di ospitarlo nel salotto di casa mia, assieme al figlio Franco, per una interessante chiacchierata sullo stato di salute del jazz italiano. L’ho sempre trovato, oltre che di una innata ed invidiabile eleganza, sempre disponibile, cortese, con il sorriso sulle labbra, bendisposto verso tutti… e soprattutto contento della vita di musicista. Talmente contento che queste qualità le ha trasmesse al figlio Franco, anch’egli persona e musicista di assoluto livello, al quale vanno le più sentite condoglianze mie personali e di tutta la redazione di “A proposito di jazz”… senza dimenticare la compagna di una vita che l’ha sempre sostenuto in questa innata passione.
Passione che si può ben riassumere in una frase che Dino pronunciò nel corso di un’intervista rilasciataci nel 2010: «Ti posso dire che io vivo la performance sempre allo stesso modo, e cioè, quando io vado a fare un concerto sono in uno stato… di follia. È una follia, una gioia, che diventano quasi un… un malessere, ecco». E per quei quattro o cinque che non conoscono Dino Piana, cerchiamo di riassumere in poche righe una carriera di oltre sessant’anni… Dino inizia il suo cammino nel 1959 quando si presenta al concorso radiofonico “La coppa del Jazz”, mettendosi immediatamente in luce come solista. Quindi entra nel quintetto Basso-Valdambrini e nelle orchestre radiofoniche e televisive, continuando l’attività jazzistica. Nella sua lunga carriera prende parte a numerosi festival nazionali ed internazionali fra cui: Comblain-la-Tour, Lugano, Berlino, Lubiana, Nizza… nonché a numerosi concerti per la RTF a Parigi, per la RTB a Bruxelles, per l’UER di Stoccolma, Oslo, Barcellona, Londra, Copenaghen. Ovviamente, sono  innumerevoli le collaborazioni con straordinari musicisti quali, tanto per fare qualche nome, Chet Baker, Frank Rosolino, Slide Hampton, Kenny Klarke, Charles Mingus, Pedro Iturralde, Paco de Lucia, George Coleman, Kay Winding, con il quale ha inciso il disco “Duo Bones”. Suona nelle Big Band di Thad Jones, Mel Lewis, Bob Brookmeyer. Il 12 maggio 1993  si esibisce in una reunion del sestetto “Basso-Valdambrini” alla Town Hall di New York.
Parallelamente, molti sono i dischi in cui è possibile ascoltarlo, sia come leader sia come side man; tra gli ultimi: “Reflections” a nome Dino & Franco Piana Ensemble e soprattutto “Al gir dal bughi” (il giro del Boogie) registrato nel 2019.
Ciao Dino chissà quante belle orchestre troverai lassù.

Gerlando Gatto

Wynton Marsalis vince il Praemium Imperiale 2023

Celmins per la pittura, Eliasson per la scultura, Kéré per l’architettura, Marsalis per la musica, Wilson per il teatro/cinema – Al Rural Studio e alla Harlem School of the Arts la Borsa di Studio per Giovani Artisti


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(La Japan Art Association ha annunciato i vincitori della trentaquattresima edizione del Praemium Imperiale: Vija Celmins (USA) per la pittura, Olafur Eliasson (Islanda/Danimarca) per la scultura, Diébédo Francis Kéré (Burkina Faso/Germania) per l’architettura, Wynton Marsalis (USA) per la musica, Robert Wilson (USA) per il teatro/cinema.
Gli artisti sono premiati per i risultati conseguiti, per l’influenza da essi esercitata sul mondo dell’arte a livello internazionale e per il contributo dato alla comunità mondiale con la loro attività.
Ciascuno dei vincitori riceverà un premio di 15 milioni di yen (circa 96.000 euro), un diploma e una medaglia. Quest’ultima sarà conferita dal Patrono onorario della Japan Art Association, il Principe Hitachi, durante la cerimonia di premiazione che si terrà a Tokyo il prossimo 18 ottobre.


Musicista dai molti talenti, Wynton Marsalis nato a New Orleans, Louisiana il 18 ottobre 1961, è universalmente apprezzato per le sue eccezionali doti di trombettista ed è stato premiato per le sue composizioni essendo un punto di riferimento per l’educazione musicale. Amante della musica in tutte le sue forme, la sua fama è legata in particolare al suo rapporto con il jazz, che considera la più grande forma d’arte originale d’America, alla pari con la musica classica occidentale.
Wynton è cresciuto in una famiglia ricca di talento musicale. Suo padre Ellis era un pianista jazz, nonché direttore del programma di jazz del New Orleans Center for the Creative Arts (NOCCA). Il fratello maggiore, Branford, è un celebre sassofonista, mentre i due fratelli più giovani, Delfeayo e Jason, sono affermati, rispettivamente, come trombonista e come percussionista. Marsalis ha frequentato il NOCCA durante le scuole superiori e ha studiato musica classica e jazz, suonando regolarmente con numerose jazz band a New Orleans, nonché con orchestre di musica classica ed ensemble.

Photo by JIM LO SCALZO/EPA-EFE

Marsalis si è anche distinto come compositore. I suoi lavori, in ambito jazz e classico, fanno di lui un autore capace di spaziare in modo eccezionale. Le composizioni Think of One e Haydn, Hummel, L. Mozart: Trumpet Concertos gli sono valse nel 1983 i Grammy Awards per la musica jazz e per la musica classica. Divenne così il primo musicista a essere premiato in entrambe le categorie nello stesso anno. Nel 1997 si aggiudicò il Premio Pulitzer con la composizione Blood on the Fields, un oratorio jazz che racconta la storia della schiavitù. In questo capolavoro Marsalis ci mostra il profondo legame che unisce la musica all’esperienza umana rappresentata.
Insieme a un gruppo di persone altrettanto appassionate, nel 1996 Marsalis ha fondato il Jazz at Lincoln Center come parte costitutiva del Lincoln Center, una istituzione di pari livello rispetto alla Filarmonica di New York, al New York City Ballet e al Metropolitan Opera. Attuale direttore generale e artistico del Jazz at Lincoln Center, nonché direttore della Jazz at Lincoln Center Orchestra, direttore di Jazz Studies alla Juilliard School e presidente della Louis Armstrong Educational Foundation, Marsalis rimane uno strenuo difensore dell’importanza della musica e in particolare della musica jazz. Egli ritiene che educare alla musica e interpretarla siano i due pilastri di questa missione.
Come trombettista che ha saputo dimostrare doti tecniche impeccabili, capacità di improvvisazione e una profonda conoscenza della tradizione jazz, Winton Marsalis ha svolto un ruolo importante nel superamento degli stereotipi “musica jazz per i neri” e “musica classica per i bianchi”. Come compositore, docente e promotore della musica jazz, è inoltre apprezzato per l’influenza significativa che ha esercitato sul mondo musicale.
Il Praemium Imperiale è il più importante premio d’arte esistente e viene assegnato in cinque discipline: pittura, scultura, architettura, musica, teatro/cinema. Esso conferisce un riconoscimento internazionale in campo artistico pari a quello dei Premi Nobel in campo scientifico.
I vincitori del 2023 andranno ad aggiungersi ai 170 artisti già insigniti del premio, tra i quali Claudio Abbado, Gae Aulenti, Ingmar Bergman, Luciano Berio, Cecco Bonanotte, Leonard Bernstein, Peter Brook, Anthony Caro, Enrico Castellani, Christo e Jeanne-Claude, Federico Fellini, Dietrich Fischer-Dieskau, Norman Foster, Frank Gehry, Jean-Luc Godard, David Hockney, Willem de Kooning, Akira Kurosawa, Wolfgang Laib, Sophia Loren, Umberto Mastroianni, Mario Merz, Issey Miyake, Riccardo Muti, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Dominique Perrault, Oscar Peterson, Renzo Piano, Michelangelo Pistoletto, Maya Plisetskaya, Maurizio Pollini, Arnaldo Pomodoro, Robert Rauschenberg, Mstislav Rostropovich, Ravi Shankar, Mitsuko Uchida, Giuliano Vangi.
La Japan Art Association è la più antica fondazione culturale del Giappone. Costituita nel 1887, organizza mostre d’arte e gestisce l’Ueno Royal Museum, situato nel Parco di Ueno a Tokyo.
La carica di Patrono onorario della Japan Art Association è sempre stata ricoperta da membri della Casa Imperiale, a partire dal Principe Arisugawa. Dal 1987, Patrono onorario è il Principe Hitachi, fratello minore dell’Imperatore emerito Akihito.
Nel 1988, per celebrare il centenario della Japan Art Association, fu istituito il Praemium Imperiale.
Il premio fu dedicato al Principe Nobuhito Takamatsu (1905-1987), Patrono onorario dell’associazione per 58 anni, sino alla sua scomparsa nel 1987. Fratello minore dell’Imperatore Hirohito, di cui non condivideva la politica militare, il Principe Takamatsu era profondamente convinto che il Giappone dovesse promuovere la pace nel mondo attraverso le arti. Questa sua convinzione è ancora oggi il motivo ispiratore del Praemium Imperiale.
Appositi Comitati presieduti dai Consiglieri internazionali presentano annualmente liste di candidati nelle cinque categorie.
Tra i Consiglieri internazionali figurano statisti ed esponenti di spicco del mondo imprenditoriale, finanziario e culturale: Lamberto Dini (ex-primo ministro italiano), Christopher Patten (cancelliere dell’Università di Oxford), Klaus-Dieter Lehmann (ex-presidente del Goethe-Institut), Jean-Pierre Raffarin (ex-primo ministro francese) e Hillary Rodham Clinton (ex-segretario di Stato degli Stati Uniti d’America).
I Comitati di selezione della Japan Art Association valutano le candidature e per ogni categoria selezionano un vincitore, che riceve l’approvazione finale dal consiglio di amministrazione dell’Associazione.
La prima cerimonia di premiazione ebbe luogo nel 1989. Da allora, ogni anno nel mese di ottobre si tiene al Meiji Memorial Hall di Tokyo una solenne cerimonia, alla presenza del Principe e della Principessa Hitachi e con tutti i vincitori. A causa della pandemia di covid-19 l’assegnazione del 32° Praemium Imperiale del 2020 è stata posticipata al 2021, in singole cerimonie tenutesi nelle sedi delle Ambasciate del Giappone dei Paesi di ciascun premiato. Nel 2022 si è ritornati alla cerimonia di premiazione a Tokyo.
La Borsa di Studio del Praemium Imperiale 2023 per Giovani Artisti è stata assegnata a Rural Studio (USA) e Harlem School of the Arts (USA).
L’annuncio e il conferimento della Borsa hanno avuto luogo il 12 settembre a New York, in una conferenza stampa presieduta dal Consigliere internazionale americano, l’ex-segretario di Stato Hillary Rodham Clinton. Ognuna delle due organizzazioni ha ricevuto un diploma e un contributo di 2,5 milioni di yen (circa 16.000 euro).
La Borsa è stata istituita nel 1997 per sostenere e incoraggiare i giovani artisti, in linea con gli obiettivi delle attività della Japan Art Association. Sono eligibili giovani promettenti artisti o organizzazioni che contribuiscano attivamente allo sviluppo dei giovani talenti. Gli artisti devono essere professionisti o in formazione. A rotazione ciascun Consigliere internazionale, consultandosi con il proprio comitato, seleziona il destinatario della borsa di studio e lo comunica alla Japan Art Association, che lo approva.
Il premio – un diploma e un contributo di 5 milioni di yen (circa 32.000 euro) che viene suddiviso tra i vincitori qualora ve ne sia più di uno – è conferito contestualmente all’annuncio del Praemium Imperiale nel Paese del Consigliere cui spetta la segnalazione. Quest’anno la scelta è stata fatta dal Consigliere internazionale americano Hillary Rodham Clinton.

(Redazione)

DA MARTEDÌ 5 SETTEMBRE A DOMENICA 10 SETTEMBRE, LA DECIMA EDIZIONE DI FRANCAVILLA È JAZZ

Quest’anno Francavilla è Jazz (Francavilla Fontana, provincia di Brindisi) festeggia il decennale. Un traguardo importantissimo quello raggiunto dal festival, grazie al suo deus ex machina Alfredo Iaia, direttore artistico della rassegna, al costante ed encomiabile impegno culturale ed economico dell’Amministrazione Comunale di Francavilla Fontana, che investe sempre più risorse per questo fiore all’occhiello dell’estate francavillese, e al prezioso contributo degli sponsor privati che crescono numericamente di anno in anno per sostenere la kermesse. Anche la decima edizione di Francavilla è Jazz sarà all’insegna di protagonisti assoluti del circuito jazzistico nazionale e mondiale.

Piazza Giovanni XXIII, Largo San Marco e Corso Umberto I saranno le location dei sei concerti, tutti a ingresso gratuito come da tradizione, in calendario per il decennale.

Martedì 5 settembre alle 21:00 (orario d’inizio di tutti i concerti) sarà Richard Galliano New York Tango Trio, in Piazza Giovanni XXIII, ad aprire i battenti del festival. Galliano, uno fra i più grandi fisarmonicisti jazz degli ultimi cinquant’anni, calcherà il palco insieme ai formidabili Adrien Moignard (chitarra) e Diego Imbert (contrabbasso). Il trio alla testa del musicista francese presenterà Cully 2022, suo nuovo disco in cui sono presenti composizioni originali e tributi ad Astor Piazzolla. Un connubio, dunque, fra jazz e tango, ad alta intensità emozionale.

Si proseguirà il 6, a Largo San Marco, con Lisa Manosperti – “Omaggio a Mia Martini”, un caloroso tributo in chiave jazz della raffinata cantante pugliese a una fra le interpreti italiane più amate di sempre. Con lei, i talentuosi Aldo Di Caterino (flauto) e Andrea Gargiulo (pianoforte).

Il 7, in Corso Umberto I, D.U.O. Francesca Tandoi (voce e pianoforte) & Eleonora Strino (voce e chitarra), due giovani e brillanti musiciste che renderanno omaggio alla tradizione jazzistica, segnatamente al bebop, fra standard e proprie composizioni originali.

Venerdì 8, in Piazza Giovanni XXIII, sarà la volta di Enrico Pieranunzi Trio. Questa formazione diretta da uno fra i più conosciuti e acclamati pianisti jazz presenti sulla scena mondiale, completata da due eccezionali partner del calibro di Thomas Fonnesbaek (contrabbasso) e Roberto Gatto (batteria), proporrà un repertorio di sue composizioni originali unitamente ad alcuni standard della tradizione jazzistica, per un live garanzia di eccelsa qualità.

Sabato, ancora in Piazza Giovanni XXIII, Chico Freeman & Antonio Faraò Quartet: il primo, una leggenda vivente del sassofono jazz, il secondo una punta di diamante del piano jazz particolarmente osannato all’estero. A completare la sezione ritmica, due eccellenti compagni di viaggio come Makar Novikov (contrabbasso) e Pasquale Fiore (batteria). Pietre miliari (ri)arrangiate dell’immenso John Coltrane e brani originali autografati da Freeman e Faraò coinvolgeranno il pubblico in un concerto sinonimo di travolgente energia comunicativa e pura adrenalina.

Domenica 10 settembre, sempre in Piazza Giovanni XXIII, i riflettori si spegneranno con Gegè Telesforo – “Big Mama Legacy”, nuovo progetto di uno fra i più famosi cantanti jazz italiani degli ultimi quarant’anni. Accompagnato da un quintetto di giovani talenti della scena jazzistica italiana formato da Matteo Cutello (tromba), Giovanni Cutello (sax alto), Christian Mascetta (chitarra), Vittorio Solimene (organo Hammond e tastiere) e Michele Santoleri (batteria), il noto artista di origine foggiana presenterà un repertorio incentrato su un personale tributo al blues e al sound delle formazioni jazz della fine degli anni Cinquanta.

Gerlando Gatto