MASSIMO URBANI

Si dice che lo strumento musicale più vicino alla voce umana sia il violoncello. Questione di frequenze, di timbro, di oscillazione. Certamente. Un sassofono è un’altra cosa: non è dalle frequenze che si misura la voce umana del sassofono, ma dalla profondità e dall’intensità dell’espressione del linguaggio ad esso abbinato. Si comunica il cosa, che influenza certamente anche il come. Parlare Jazz, come parlare inglese, o spagnolo. Il jazz è l’idioma perfetto per la dolcezza e la sofferenza, per la morbidezza e l’urlo. I contrasti dell’Uomo del ‘900 ritrovano in questa musica una lingua imprescindibile, autentica, deliziosa-gentile-cattiva. Il demoniaco ed il paradisiaco in un corpo solo. Un po’ come ritroviamo in alcune partiture leggendarie dell’800 romantico. Certo. Cosa è cambiato dunque? Semplicemente questa volta non vi è premeditazione nella descrizione umana, vi è altresì estemporaneità, quella stessa del linguaggio parlato. Come facile deduzione di questo ragionamento, possiamo dunque parlare di rassomiglianza del romanticismo all’uomo riflessivo e forse scrivente, più che parlante. Il jazz sarebbe dunque lo strumento più straordinariamente simile alla parola, poiché essa stessa, in qualsiasi idioma, è frutto di miscellanea improvvisazione su di un bagaglio contenente gli strumenti necessari al linguaggio stesso.

Il sassofono non è dunque, per frequenze e timbro, lo strumento dal suono più simile all’umana dannazione. Il sassofono quando suona del jazz però, spesso lo è. Massimo Urbani quando soffia nel sax alto, lo è più di chiunque altro.

Nato a Roma nel quartiere di Monte Mario l’8 maggio 1957, ascolta la prima banda di paese in villeggiatura estiva nei pressi di Ladispoli, la Riccione degli anni ’60 per i romani. Secondo Maurizio Urbani, fratello di 4 anni più piccolo e grande tenorista, tutto partì da una di quelle vacanze con i nonni tant’è che, tornati a Roma, gli comprarono un clarinetto. Aveva 11 anni.

La serie di circostanze che accaddero da lì ai successivi 3 anni sembrano uscite da una sceneggiatura a metà tra il cinema neorealista e la follia felliniana. Massimo suona nella banda di Monte Mario, ascolta i racconti del suo parente Luciano Urbani (che grazie al padre in quel periodo assisteva alle mitiche edizioni di Jazz Concerto di Adriano Mazzoletti alla RAI), ascolta i dischi di Charlie Parker del padre (che non era musicista, faceva l’infermiere a Santa Maria della Pietà) e frequenta la casa del compianto sassofonista Tony Formichella, che gli fa ascoltare i primi dischi di rhythm’n’blues e di jazz e lo porta alle prime jam session romane.

Tutto torna? No, se il risultato è che, a soli 14 anni in un quartiere popolare di Roma, senza quasi sapere cosa fosse un conservatorio di musica, Massimo improvvisava come fosse stato la reincarnazione di Parker.

Roma degli anni ’70 viveva un fermento musicale di altissimo livello. Tra le tante iniziative che segnarono la vita di tutti i più importanti musicisti di allora e dei successivi decenni, voglio citarne due di fondamentale importanza: l’apertura nel 1971 del Music Inn da parte di Pepito e Picchi Pignatelli, e il corso sperimentale di Jazz che partì, grazie a Giorgio Gaslini, al Conservatorio Santa Cecilia. Gli esterni al Conservatorio potevano partecipare al corso solamente da uditori: in quel periodo Massimo Urbani e Maurizio Giammarco si iscrissero. Gaslini permise l’iscrizione agli esterni poiché affermò che, se avessero richiesto il diploma a Louis Armstrong o a Ella Fitzgerald, non avrebbero potuto partecipare ad un corso di jazz (comprendendo da subito dunque la difficile, già dal principio, coesistenza dello studio del jazz a livello accademico).

Gli albori di Massimo Urbani, fondamentali per capire le basi di tutta la sua vita musicale.

 

Max suonava dunque il bop come un demonio, ma frequentava l’avanguardia di Gaslini e il free di Mario Schiano con cui registrò ad esempio, a soli 16 anni, il suo primo album in studio. La fama di questo incredibile ragazzino vestito da bopper navigato arrivò al grande trombettista Enrico Rava, il quale andò a Roma apposta per sentirlo suonare. Nel 1976 lo portò in tour negli States. Intervistai Rava su Urbani qualche anno fa, il quale mi raccontò: “In tutte le jam session newyorkesi Massimo faceva fuori tutti gli altri sassofonisti uno dopo l’altro, non c’era partita”. Ma Max era pur sempre un ragazzo poco più che adolescente di Monte Mario. Celebre fu l’episodio in cui, pieno di vergogna per aver rotto un registratore in casa del trombettista, sparì per due notti dormendo al Central Park e tornò, poco prima di un’esibizione per la TV americana, con la febbre alta e senza vestiti da poter indossare. Massimo Urbani era un puro, non aveva filtri e non apparteneva di certo a quel mondo borghese che, volenti o nolenti, stava già risucchiando le energie della musica afroamericana trasformandola successivamente in qualcosa di eccessivamente elitario. Max incarnava la purezza di alcuni leggendari personaggi che avevano letteralmente segnato la storia di questa musica. Intendiamoci, non sto assolutamente cavalcando cliché sull’artista maledetto, sul genio squattrinato o incompreso, sulla rivalsa di questa musica come riscossa dei ceti popolari. Penso invece che la storia del jazz si sia attorniata di figure provenienti dal mondo popolare quanto da quello borghese e che sia stato proprio questo connubio, democraticamente, a far arrivare alle nostre orecchie capolavori senza tempo. Certamente però, oggigiorno, non possiamo far finta di non notare quanto questa musica si sia eccessivamente imborghesita, negli ambienti più che nelle note, perdendo talvolta uno spirito divulgativo e spensierato che si poteva ritrovare, ad esempio nel blues e nella musica nera, tra le fasce sociali più deboli.

La più celebre frase di Urbani, detta spontaneamente e senza giri di parole “L’avanguardia è nei sentimenti”, sintetizza tutto il mio discorso nel modo più alto e semplice possibile.

Tra la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ‘80 Massimo Urbani, pur rimanendo un ragazzo di quartiere, divenne dunque un sassofonista di successo richiesto in lungo e in largo, sia come leader che come sideman. Cresciuto nell’epoca della sperimentazione, la frase sopra citata è la sua risposta a chi gli chiede il motivo dell’essersi allontanato, all’apice della sua carriera, dal free e dalle cosiddette avanguardie che egli aveva ben conosciuto ad esempio con Rava o ancor di più con Schiano e Gaslini. Max riscopre il bop ma lo fa da musicista navigato e colmo di moltitudini di esperienze: oltre al suo ruolo nel periodo free lo ritroviamo ad esempio, seppur brevemente, a fianco degli Area nel jazz-rock come addirittura in un disco della Nannini. Non è il suo mondo però. Non lo è nemmeno il bop, in realtà. Massimo Urbani è Massimo Urbani.

Lo sanno bene anche i numerosi artisti internazionali con cui collabora (attorniato da tutti coloro che sono stati protagonisti attivi del periodo più incredibile della storia del jazz italiano). Qualche nome: da Chet Baker a Steve Grossman, da Mike Melillo a Red Rodney, da John Surman a Jack DeJohnette, da Lester Bowie a Kenny Wheeler, da Steve Lacy ad Art Farmer. Con Enrico Rava poi, lo ricordiamo accompagnato dalle ritmiche Hill/Astarita e dal celebre tandem norvegese Daniellson e Christensen negli stessi anni in cui registravano nel quartetto europeo di Keith Jarrett e Jan Garbarek.

Tra gli album a suo nome particolarmente di impatto vi sono certamente “Urlo” con Massimo Faraò, Pietro Leveratto e Gianni Cazzola e ancor di più “Easy to love” con Furio di Castri e Roberto Gatto alla ritmica ed un indimenticabile Luca Flores al pianoforte. Ricordando in un’intervista con Roberto Gatto questo album, Roberto mi faceva notare (a ragione) come Flores anticipi il modo di suonare di Brad Mehldau di almeno un decennio; fu un incontro tra solisti immensi, due giganti, che per uno strano scherzo del destino non abitano più entrambi su questa Terra.

Altri album che hanno destato la mia attenzione sono “Via G.T.” di Giovanni Tommaso del 1987 con Danilo Rea, Paolo Fresu e Roberto Gatto (da cui un celebre tour newyorkese) e “The Blessing”, ultimo disco in studio a suo nome registrato nel febbraio 1993, pochi mesi prima della sua scomparsa, praticamente con la stessa formazione di Via G.T. ad eccezione del solo Paolo Fresu e con l’aggiunta di Maurizio Urbani al sax tenore, prodotto dallo stesso Roberto Gatto.

L’epilogo arrivò nel giugno del 1993, dopo una storica settimana all’Alexander Platz Jazz Club di Roma per quelli che furono gli ultimi concerti ufficiali (ben documentati nel disco live che ne seguì) di Max, in compagnia di Andrea Beneventano, Dario Rosciglione, Gegè Munari e con ospite Red Rodney.

Fu proprio all’Alexander Platz che, nel marzo 2020, decisi di fare un grande omaggio a Massimo in quella che fu una storica diretta radiofonica di quasi 3 ore, con protagonisti racconti e musica partoriti da buona parte di coloro che collaborarono con lui. Per chi volesse riascoltare quella mitica puntata andata in onda sull’emittente Radio Città Aperta, mi permetto di allegare qui il podcast integrale.

https://www.radiocittaperta.it/podcast/speak-low-con-danilo-blaiotta-del-03-03-2020/

In questo sintetico ma sentito racconto della gigantesca carriera di Massimo Urbani, non ho volutamente citato i suoi noti problemi legati all’eroina, che portarono a quella maledetta notte tra il 23 e il 24 giugno 1993. Per chi avesse qualche dubbio, vorrei fortemente sottolineare che la musica di Max non è legata al suo essere alterato dagli effetti delle droghe. Massimo Urbani era libertà ma grande attinenza e precisione ritmica, era dotato di un orecchio bionico come di un senso del timing fuori dal normale. La musica di Max era lucida, limpida, oserei dire “nonostante” gli eccipienti, e non “grazie a”.

Il cliché del musicista che altera le proprie condizioni per suonare meglio ed in modo più ispirato la musica ed in particolare il jazz, è totalmente distante dall’universo di Urbani. Max era libero ma musicalmente lucido, come gran parte dei musicisti che hanno fatto uso di droghe, nel bop newyorkese dei favolosi anni ’40 come successivamente nell’Europa di fine anni ’60, e poi nel trentennio successivo.

Massimo Urbani era libero, limpido e brillava di luce luminosa: le note del suo sax alto scintillavano tanto su un fast quanto su un’improvvisazione libera. Alle volte gridava, si, con gli armonici, forse come avrebbe voluto gridare una sua qualche insicurezza legata alla vita reale? Non ci è dato saperlo e non ci deve nemmeno interessare. Che ci interessi, invece, l’emozione di quell’urlo come di quelle scale vorticose. Che ci interessi il canto meraviglioso dell’improvvisazione su ‘Lover Man’, uscito dal soffio di Max come dall’ugola di una Maria Callas vestita di ance e adornata di chiavi.

Vediamoci ciò che vogliamo, ma forse, più di ogni altra cosa, il sentimento di un artista profondo come pochi, vero come pochi, talentuoso come pochi, nella storia di questa straordinaria musica che tutti noi continuiamo a voler, imperterriti e forse anche un po’ contro ogni razionalità, portare avanti.

Danilo Blaiotta

I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

HARRY BELAFONTE

L’America del 900, questo strano intreccio di possibilità e impossibilità, di scoperte straordinarie e di libertà negate, di nuove entusiasmanti arti e di negazione dei più basilari diritti dell’uomo.

Fin dalla nascita, Harry Belafonte sembra un predestinato ad incarnare la decisamente parziale sintesi contenuta nel mio incipit. Genitori cresciuti in Giamaica, che come tutte le isole caraibiche è un crogiuolo di incontri nati da crocevia. La madre è infatti figlia a sua volta di discendenti scozzesi e africani, il padre, di un’afroamericana e un olandese, quest’ultimo però di origine sefardita. Potremmo immediatamente rubare una definizione coniata nell’autobiografia di un altro grande della musica del ‘900, Charles Mingus: “l’America tutta in un uomo”.

Il piccolo Harry nasce ad Harlem, NYC, nel 1927. Divide gli anni dell’infanzia tra New York e la Giamaica. Nel 1939 si stabilisce nuovamente nella Grande Mela, questa volta in modo definitivo, frequenta la George Washington High School e si arruola in marina durante la Seconda guerra mondiale.

L’esordio avvenne alla fine degli anni ’40, come molti afroamericani di allora, calcando anche il palco dell’ American Negro Theatre di Harlem. Nei primi anni ’50 venne scritturato dalla RCA. Oltre al singolo “Matilda” (1952) che lo portò immediatamente in auge, i successivi album “Belafonte” e soprattutto “Calypso” gli diedero un successo planetario. “Calypso” vendette oltre un milione di copie, primo album della storia a raggiungere tale risultato. Il Mondo intero canticchiava brani come “Banana Boat song” e “Jamaica Farewell”, addirittura più di quelli di un’autentica icona di allora come di oggi, Elvis Presley. Harry Belafonte divenne quindi non solo artista popolare come pochi nella storia, ma un’autentica bandiera della musica caraibica.

Decisamente sulla cresta dell’onda, Belafonte venne scritturato in alcuni leggendari film di Hollywood di quei tempi, come “L’isola nel sole”, “Carmen Jones”, “Strategia di una rapina” e “La fine del mondo”.

Arrivati a questo inaspettato successo globale, al suo posto la maggior parte degli artisti si sarebbero goduti notorietà e denaro, scendendo a forzati compromessi che la società statunitense di quel tempo imponeva agli afroamericani, a tutte le latitudini sociali. A Belafonte venivano ad esempio proposti ruoli per il cinema alquanto discriminatori, che il re del calypso sistematicamente cominciò a rifiutare.

Divenne amico di Martin Luther King e sposò la causa dei diritti civili più di ogni altro: partecipava a raduni, manifestazioni, finanziava i giovani studenti attivisti, fu addirittura tra gli organizzatori della celebre marcia del 1963, quella che tutti ricordiamo per il discorso “I have a Dream” pronunciato dal Reverendo King.

In quegli anni, tutti i più celebri artisti neri di successo cercavano di far passare messaggi antisegregazionisti dall’interno dei loro ruoli. Belafonte non si accontentò di ciò. Lo ritroviamo ad esempio nelle marce per l’uguaglianza in Alabama a gridare “Bombingham” nella cittadina di Birmingham, dove il Ku Klux Klan soleva organizzare continui attentati alla comunità afroamericana. Di conseguenza, sappiamo che l’FBI controllò Belafonte a partire dagli anni ’50 per quasi un trentennio.

L’ America ed i suoi contrasti; la bellezza dell’avvento di musiche che hanno segnato la storia nel Mondo Contemporaneo, dal blues, al jazz, alla musica caraibica, a quella della Motown e a molte altre, di fronte ad uno scenario umano devastante portato a compimento dall’odio razziale.

Nel 2019 sono stato invitato a suonare nello Stato di Washington. Tra i momenti che hanno più segnato la mia prima breve permanenza negli States c’è sicuramente la visita al National Museum of African American History and Culture, inaugurato nel 2016 da Barack Obama.  Dal quarto piano sottoterra al quarto in superficie, si percorre la tragedia di un popolo e il suo troppo recente percorso di emancipazione.

“Ma da dove nasce tutto questo odio?” diceva William Dafoe a Gene Hackman in “Mississippi Burning: le radici dell’odio” di Alan Parker del 1988.

Harry Belafonte si tuffa in tutto questo con voce piena, e lo fa a prescindere dalla sua arte: in prima persona, come cittadino, come portavoce, prima ancora che come artista.

La straordinaria personalità di questo monumento caraibico non si fermò mai, fino agli ultimi anni della sua esistenza. Negli anni ’80 fu tra gli artisti che cantarono “We are the World”, negli anni 2000 criticò apertamente l’amministrazione Bush per la guerra in Iraq, e nel frattempo scrive anche alcuni libri in difesa dell’uguaglianza e dei diritti umani.

Harry Belafonte muore nella sua casa dell’Upper West Side di Manhattan, all’età di 96 anni.

Alcuni anni fa, la biblioteca del Congresso ha onorato Belafonte includendo l’album “Calypso” tra le grandi opere americane di sempre. Un Belafonte già ultranovantenne ha pronunciato una splendida frase che è destinata certamente a rimanere nella Storia non solo della sua straordinaria esistenza, ma di quella degli interi Stati Uniti d’America: “l’America è corrosa dal razzismo, ha un DNA fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finché vivrò”.

Danilo Blaiotta

Christian McBride: la mia passione è suonare il contrabbasso

Nell’odierna realtà jazzistica se c’è un personaggio che riesce a racchiudere tutte quelle qualità che fanno di un buon musicista un eccezionale artista questi è sicuramente Christian McBride. Strumentista portentoso, compositore e arrangiatore di sicuro livello, didatta coscienzioso (con la moglie, la cantante Melissa Walker, diplomata anche come educatrice, crea a Montclair, New Jersey, una scuola la Jazz house Kids), sembra mai accontentarsi e così nel marzo 2016 viene nominato direttore artistico del Newport Jazz Festival. Il tutto condito da una serie di riconoscimenti ufficiali tra cui ben otto Grammy.

Originario di Filadelfia, classe 1972, ha un aspetto imponente: alto, massiccio, con una bella voce profonda e leggermente roca all’apparenza non sembra certo il tipo con cui vorresti avere qualche incontro ravvicinato del terzo tipo. Ma quando lo incontri e gli parli, l’impressione cambia radicalmente: Christian è persona squisita, gentile, comprensivo, che parla volentieri e non elude alcuna domanda.

Cominciamo da un fatto che mi incuriosisce parecchio. Lei è molto giovane eppure ha già fatto davvero tante, tante cose. Tournée, didattica, produzione, composizione, direzione di big band, tecnica straordinaria sullo strumento…e potrei continuare. Cosa preferisce fare?
“Innanzitutto vorrei precisare che non sono così giovane. Ad oggi sono cinquant’anni. Quel che ho fatto non è stato tutto pianificato, è venuto così dove mi ha portato la mia anima. Quando sono andato a vivere a New York per la prima volta, trentadue anni fa, volevo solo suonare con i miei eroi e molto di questo è successo. Per quanto concerne ciò che è venuto dopo, ho solo proseguito lungo il cammino. Comunque tornando alla sua domanda preferisco suonare il basso…e non sto scherzando. Da sempre suonare il contrabbasso è la mia passione, ciò che realmente mi riempie il cuore di gioia. Io davvero mi auguro che tutti i musicisti abbiano queste stesse possibilità, di sentirsi felici quando suonano il proprio strumento”.

Data questa sua passione per il contrabbasso, lei preferisce suonarlo nell’ambito di un’orchestra o di un combo?
“Per me è assolutamente lo stesso. Metto lo stesso impegno, la stessa passione e mi diverto allo stesso modo sia se suono all’interno di una big band, sia che mi trovo a far parte di un trio o un quartetto”.

Cosa ricorda di una delle sue prime collaborazioni, quella con Bobby Watson parecchi anni fa, se non sbaglio nel 1989?
“Ero alle primissime settimane di college quando qualcuno mi ha detto ‘ehi c’è uno strano tipo che ti sta cercando, ma non sappiamo il suo nome’. Così me ne sono andato a seguire la successiva lezione ma altri studenti mi hanno ripetuto che qualcuno mi stava cercando. Così quando sono andato a pranzo, seduto ad un tavolo leggendo un giornale l’ho visto: era Bobby Watson che già conoscevo. Appena sono entrato e l’ho visto, l’ho salutato calorosamente e lui mi ha risposto: ‘ehi, ti stavo cercando; che fai questo fine settimana? Ho un regalo per te. Suoniamo al Birdland con James Williams che suona il piano, Victor Lewis alla batteria”. Cosa ricordo di questo episodio? Che ero molto, molto spaventato. Quel pomeriggio abbiamo provato e poi è andato tutto bene. Sono rimasto nella band di Bobby Watson per due anni”

Così poco? Io avevo letto che avevate suonato assieme per più tempo…
“No, con la stessa band sono rimasto due anni. Poi, sai come succede, se uno si fa un nome finisce con il suonare con un sacco di gente. E ovviamente a me è capitato anche in seguito di suonare con Bobby. Ma nello stesso tempo ho avuto modo di suonare con altri grandissimi musicisti quali, tanto per fare qualche nome in ordine cronologico, ho lavorato dapprima con Ray Hargrove, quindi con Benny Golson, e poi con Freddie Hubbard. Tra il 1989 e il 1992 ho fatto molti concerti con diversi leader”.

Un altro dei grandi musicisti cui Lei è particolarmente affezionato è sicuramente Chick Corea. Come ricorda questo artista?
“Lui è stato una delle persone più straordinarie, meravigliose che io abbia incontrato nel corso della mia vita. Certo era un grande compositore, un grandissimo pianista, ma soprattutto una bellissima persona”.

In che senso?
“Abbiamo collaborato per ben ventisei anni e in questo lungo periodo mai una volta l’ho visto rivolgersi male verso qualcuno, essere sgarbato…insomma era davvero una brava persona, una persona per bene: nel mondo ci sarebbe bisogno di molte più persone come lui. Da un punto di vista più strettamente musicale, Chick mi spronava sempre a comporre aggiungendo che lo facevo bene. Ma egualmente io mi sentivo in imbarazzo davanti a lui in quanto, mi creda, Chick Corea è stato uno dei compositori più illuminati del secolo scorso”.

Chick a parte, qual è la collaborazione che ricorda con più piacere?
“Quella con James Brown, l’eroe della mia infanzia. Suonare con lui per me è stato come realizzare un sogno. Quando mi ha chiamato io ero, in un certo senso, più che preparato…conoscevo ogni suo pezzo, conoscevo tutto ciò che aveva fatto nel corso della sua carriera. Quindi nel momento in cui, quando festeggiava il suo 64simo compleanno, nel corso di una sorta di jam session mi chiamò sul palco, ero letteralmente al settimo cielo. Poi ho prodotto uno dei suoi ultimi spettacoli ed è stata un’esperienza unica, straordinaria, meravigliosa”.

Bene. E cosa pensi di Marvin Gaye?
“Anche lui è una leggenda. Ci sono molti cantanti r&b, soul che sono anche eccellenti musicisti jazz. Herbie Hancock racconta questa bella storia di quando entrando in uno studio di registrazione ha incontrato per la prima volta Marvin Gaye che intonava magnificamente al pianoforte “Maiden Voyage” (Uno dei brani più conosciuti di Hancock ndr). Non so se Winton Marsalis, entrando in uno studio, potrebbe incontrare John Legend che intona uno dei suoi brani. Mi piace moltissimo anche Stevie Wonder: lui è il re”

Cosa pensa del cd. ‘modern jazz’?
“Onestamente devo dire che non lo amo particolarmente. Bisogna però intendersi meglio. Oggi per modern jazz si intende la musica suonata per lo più da ventenni. In realtà molti giovani suonano mescolando ad esempio suoni acustici con l’elettronica, cosa certo non nuova, e alle volte devo ascoltare questa musica anche due volte per entrarci dentro ma ciò mi piace. Insomma in linea di massima questo tipo di espressione non mi soddisfa pienamente anche se devo riconoscere che ci sono cose interessanti”.

Pensa sia possibile parlare oggi di jazz americano, jazz europeo, jazz italiano?
“Non sono molto bravo ad operare simili distinzioni. Io penso che il jazz è jazz: il jazz è nato in America e da lì tutto deriva, anche la musica improvvisata europea, anche quella asiatica seppure innervata da elementi tratti dalle culture locali. Ciò non toglie, ovviamente, che ci siano eccellenti musicisti di jazz in tutto il mondo”.

Cosa conosce del jazz made in Italy?
“Tete Montoliou, Michel Petrucciani…”

Mi scusi ma l’uno è spagnolo e l’altro di origine italiana ma francese…
“Stefano Di Battista…”

Sì con lui ci siamo, e poi?
“Il contrabbassista Giuseppe Bassi che è un mio caro amico e poi naturalmente Paolo Fresu”.

Perché lo stato della popolazione afroamericana negli States è sempre così complessa, per usare un eufemismo?
“Io penso che in tutto il mondo, ma particolarmente negli Stati Uniti, ci sia un problema di razza e allo stesso tempo di classe sociale, di soldi. Se tu sei ricco nessun problema; viceversa i bianchi che sono poveri hanno gli stessi problemi dei neri poveri, degli asiatici poveri, dei latini poveri. A ciò si aggiunga il razzismo verso la gente di colore che negli States è ancora forte. E’ molto difficile che quanti hanno tanti soldi si prendano cura di chi è realmente povero. Questa è la grande sfida da affrontare subito”.

Personalmente Lei ha avuto brutte esperienze in tal senso?
“Certo che sì. Ogni cittadino americano di colore tra i sedici e i settantacinque anni potrebbe raccontare episodi del genere. Io stesso più volte sono stato fermato dalla polizia ho sempre reagito nel migliore dei modi, educatamente, salutando cordialmente. Ma non sempre funziona: io sono grande, grosso e nero e ciò basta per suscitare qualche sospetto, per pensare che sia violento. Per non parlare dell’enorme problema costituito dalla presenza delle armi che andrebbero bandite perché gli americani quando si parla di armi è come se diventassero bambini”.

Pensa che in Europa sia diverso?
“Onestamente non lo so. Uno dei miei più cari amici che vive a Roma da quattro anni, Greg Hutchinson, mi racconta che non importa dove vai, qualcuno ti guarderà sempre in modo sciocco. Per quanto concerne moleste della polizia e razzismo non so come sarebbe in Europa; conosco molti musicisti neri che hanno lasciato l’America tra gli anni ’40 e ’50 e sembrano felici

Qual è il suo album che preferisce?
“Francamente è difficile rispondere. Comunque, pensandoci meglio, credo che le mie preferenze vadano al primo album, “Gettin’ to It”, per la Verve nel 1995 con Roy Hargrove tromba e flicorno, Joshua Redman tenor saxophone, Steve Turre  trombone, Cyrus Chestnut  piano, Lewis Nash  batteria, Ray Brown e Milt Hinton  basso on ‘Splanky’ “.

Qual è la musica che preferisce suonare oggi?
“Tutta, purché sia buona musica. Voglio essere cittadino del mondo”.

Gerlando Gatto

In mostra le splendide foto di Silvia Lelli e Roberto Masotti

Chi abita in Italia ed ama il jazz non può non aver incontrato, almeno una volta nella vita, le straordinarie foto di Silvia Lelli e Roberto Masotti la coppia, – nella vita e nel lavoro – di fotografi ravennati di nascita e milanesi d’adozione, che ha saputo raccontare il mondo delle performing arts e della musica attraverso la sensibilità del loro sguardo.

Silvia Lelli e Roberto Masotti

Purtroppo Masotti ci ha lasciati nell’aprile dello scorso anno all’età di 75 anni, dopo una malattia che l’aveva colpito più di un anno fa, ma il suo ricordo è ben presente nel mondo del jazz.

Benissimo ha fatto, quindi, l’Associazione Tempi Moderni a organizzare la mostra SGUARDI che fino al 4 giugno abiterà le stanze e i saloni di Palazzo Fruscione (Salerno). Curata da Silvia Lelli la mostra SGUARDI racchiude le opere frutto di oltre 40 anni di carriera della stessa Lelli e di Roberto Masotti. Si tratta di una produzione davvero estesa e di eccezionale livello tanto da essere dichiarata dal Ministero dei Beni Culturali, nel 2018, “bene di interesse storico”.

La mostra si suddivide in tre sezioni: Musiche/Kontakthof-Kontrapunkt/Nucleus che a Palazzo Fruscione saranno declinate nei tre piani.

Musiche (fotografie di Lelli e Masotti). In questa sezione si scava nell’archivio di Lelli e Masotti che, come scriveva Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale di Milano che nel 2019 ospitò la grande mostra, è una miniera inesauribile di conoscenza e di memoria che consente di ricostruire e rivivere quasi mezzo secolo di storia del teatro, della musica, della danza, di performing arts, di vedere “all’opera” migliaia di personalità, di avere una visione puntuale anche dei cambiamenti sociali e culturali che si sono verificati. Una sezione composta da 109 fotografie e un’installazione video dal titolo Musiche Revisited.

Kontakthof- Kontrapunkt (fotografie di Silvia Lelli). La sezione è composta da 20 opere fotografiche e ripercorre la storia di 3 rappresentazioni in 30 anni, del celebre lavoro dedicato alla complessità dei rapporti uomo-donna della coreografa e regista tedesca Pina Bausch. Leonetta Bentivoglio, così descrive il lavoro della Lelli: Le foto che rappresentano il frutto del viaggio di Silvia attraverso i tre “Kontakthof”, definite da una beltà essenziale e vigorosa, mai affettata o patinata, ci danno un’ottica in più sulla sostanza di quella specie di monumento al teatrodanza che è lo spettacolo di Pina nato nel ‘78. Lo sguardo della fotografa non si limita a registrare l’attimo, ma ce lo fa vedere tramite il filtro di una sensibilità per così dire “aggiuntiva”.

Nucleus (fotografie di Roberto Masotti). La sezione è un omaggio al lavoro di Roberto Masotti e al suo rapporto di lungo corso, professionale e umano, con il cantautore catanese Franco Battiato, scomparso nel maggio 2021. L’esposizione è una anteprima internazionale e si compone di 16 scatti, che, come scrive Carlo Maria Cella, sono un viaggio nel tempo, dai primi anni 70, in cui Battiato si forma e si afferma nel mondo della musica, fino al 1997 dei grandi concerti, in cui i fan di quasi tre generazioni, comprese alcune nemmeno nate quando certe canzoni erano state scritte, lo innalzano nel cielo delle stelle fisse.

Unitamente all’esposizione per il settimo anno ritornano i Racconti del Contemporaneo: ASCOLTI. Parole/Note/Suoni/Visioni. L’idea, nel solco del format consolidato delle ultime sei edizioni, è quella di promuovere, all’interno di Palazzo Fruscione, eventi gratuiti di approfondimento della tematica generale affrontata nella mostra di quest’anno. Il calendario della VII Rassegna dei Racconti del Contemporaneo prevede talk, concerti ed incontri musicali e il consueto ciclo di cinema d’essai, con presentazioni d’autore, della domenica pomeriggio. Ad aprire quest’ultima sezione la proiezione (domenica 16 aprile – ore 19) la storica pellicola di Herzog, “Fitzcarraldo”. Ma le Visioni domenicali a Palazzo Fruscione prevedono anche la proiezione de “Il Concerto”; “Pina”; “Birdman”; “La sera della prima”; “Il cigno nero”; “New York, New York”.

Tra i vari appuntamenti, da segnalare infine che, nella giornata del 24 aprile dedicata al primo anniversario dalla scomparsa di Roberto Masotti, si esibiranno il sassofonista Roberto Ottaviano, il violoncellista, esperto di sonorizzazione ambientale, Walter Prati e il Carla Marciano Quartet. Infine per la sezione Note il giornalista e critico musicale, Riccardo Bertoncelli ha immaginato cinque appuntamenti legati a cinque dischi storici in perfetto dialogo con le fotografie di Roberto Masotti. Dagli Area a Keith Jarrett passando per Battiato, John Cage e Philip Glass.

Gerlando Gatto

Presente e futuro nel Roma Jazz Festival

Sono solo quattro i concerti che ho potuto seguire nel corso dell’annuale Roma Jazz Festival, ma se il livello di tutte le manifestazioni è paragonabile a quello dei musicisti che ho ascoltato, bisogna dare atto a Ciampà e compagni di aver ancora una volta scelto assai bene gli artisti da presentare al pubblico romano.

Ma procediamo con ordine. C’è voluto molto tempo prima che alla Fusion venisse riconosciuta quella dignità che merita. Una delle band che maggiormente ha contribuito all’affermazione della Fusion è stata Spyro Gyra, esibitasi all’Auditorium Parco della Musica il 12 novembre scorso. Siamo a New York a metà degli anni ’70 quando il sassofonista Jay Beckenstein, assieme al pianista Jeremy Wall, mette su un gruppo che curiosamente chiama Spyro Gyra da una famiglia di alghe, appunto le spirogire, la cui grafia viene cambiata dal gestore del locale dove si esibiscono per la prima volta. Nel 1978 viene inciso Spyro Gyra, ma il successo vero arriva l’anno dopo con Morning Dance che si piazza tra le quaranta migliori vendite di album negli Stati Uniti, con la title-track fra i singoli più venduti sempre negli USA. Da questo momento è tutto un susseguirsi di successi: oltre 10 milioni di album venduti, oltrepassati i 40 anni di attività, più di 30 album all’attivo. Ovviamente nel corso di tutti questi anni il gruppo ha cambiato spesso organico: Beckenstein, classe 1951, è rimasto a guidare il gruppo sino ad oggi condividendo la direzione della band con il pianista Jeremy Wall fino alla fine degli anni ’80. Ciò che è rimasto sostanzialmente invariato è la forza d’urto che questo gruppo sa esprimere sul palco: un cocktail di rhythm & blues, melodie popolari, riferimenti a ritmi caraibici in cui si innestano assolo di chiara impronta jazzistica. Ad interpretare questa formula vincente a Roma è un insieme di grandi musicisti che affiancano il leader ancora in gran spolvero: Tom Schuman, piano, Scott Ambush, basso, Julio Fernandez, chitarra e Lionel Cordew, batteria. Tutti sono apparsi assolutamente all’altezza del compito regalando agli spettatori alcuni momenti davvero spettacolari come un duetto, artisticamente pregevole, tra batteria e contrabbasso, alcuni momenti in cui il leader ha imbracciato contemporaneamente i suoi due strumenti sax alto e flauto, e un brano di chiara ispirazione cubana, De la Luz interpretato con sincera partecipazione dal chitarrista, per l’appunto cubano, Julio Fernandez che è membro di Spyro Gyra dal 1984.

Si inizia un po’ in sordina con Walk The Walk che fa parte del repertorio Spyro Gyra già dai primi anni ’90; la band sembra piuttosto freddina ma già con il secondo pezzo le cose cambiano. Groovin’ for Grover evidenzia un Tom Schuman in gran forma che sfodera un pianismo modale allo stesso tempo toccante e trascinante. Seguono in rapida successione altri brani tratti dai tantissimi album del gruppo: Captain Karma, Shaker Song che ritroviamo addirittura nel primo album inciso dalla band nel 1978, I Believe in You di Tom Schuman tratto da Alternating Currents, ottavo album in studio del gruppo pubblicato nel giugno 1985 e classificato al terzo posto dalla rivista settimanale statunitense Billboard per la categoria Top Jazz Album, il già citato De la Luz, l’originale versione di Tempted By The Fruit Of Another incisa dagli Squeeze nel 1981… Insomma un concerto che è andato in crescendo tra gli appalusi di un pubblico chiaramente appassionato del genere.

Il giorno dopo altro appuntamento straordinario con la Mingus Big Band. Probabilmente a ben ragione la big-band è considerata da molti la quinta essenza del jazz dal momento che ne contiene tutti gli elementi fondamentali: scrittura, arrangiamenti, improvvisazione, senso del collettivo, bravura solistica. Purtroppo in questo periodo è sempre più difficile ascoltare una grande orchestra sia dal vivo sia su disco. È quindi con il massimo interesse che mi sono recato all’Auditorium Parco della Musica per ascoltare una delle orchestre più prestigiose di questi ultimi anni: la Mingus Big Band. Nata nel 1991 per la volontà di Sue Mingus di perpetuare il repertorio del genio di Nogales, celebrandone la musica in tutti i suoi molteplici aspetti,  la band vanta attualmente undici album, di cui sei nominati per i Grammy, e nell’ottobre scorso ha pubblicato The Charles Mingus Centennial Sessions (Jazz Workshop) a 100 anni per l’appunto dalla nascita dell’artista; attualmente consta di quattordici elementi tra cui alcuni dei più grandi musicisti di New York, quali il trombonista Robin Eubanks, i trombettisti Alex Sipiagin e Philip Harper (dal 1986 al 1988 membro degli Art Blakey´s Jazz Messengers ) e Earl Mcintyre trombone basso, tuba, già a fianco dello stesso Mingus. Ben diretta dal contrabbassista russo Boris Kozlov, l’orchestra è in tournée per la prima volta dopo la morte di Sue Mingus a 92 anni nel dicembre scorso, e il successo è clamoroso ovunque si esibisce grazie all’elevato tasso artistico dei singoli musicisti. La loro musica si richiama espressamente allo spirito della musica mingusiana, un viaggio nell’affascinante universo del celebre contrabbassista e compositore. Gli elementi che hanno reso indimenticabile Mingus ci sono tutti: i repentini cambiamenti di ritmo, le melodie alle volte sghembe ma sempre affascinanti, i maestosi collettivi, gli assolo scoppiettanti, il potere trascinante, una miriade di sfaccettature che ben difficilmente si ritrovano in altre composizioni, la tensione che si riesce a trasmettere, l’immediatezza e l’universalità del linguaggio.

Molti i brani celebri in programma: dall’esplosivo Jump Monk, al trascinante Sue’s Changes tratto dallo straordinario “Changes One” inciso nel 1975 da una bellissima formazione comprendente Jack Walrath alla tromba, George Adams al sassofono tenore, Don Pullen al piano e Dannie Richmond alle percussioni. Ma i brani forse più riusciti sono stati So Long Eric e Self-Portrait in Three Colors. Il primo è stato scritto da Mingus per invitare l’amico e collega Eric Dolphy a tornare nella band dopo che questi, a seguito di una fortunata tournée, aveva deciso, nel 1964, di rimanere in Europa; ironia della sorte la sera del 29 giugno dello stesso 1964, a Berlino Ovest durante un concerto Eric ebbe un malore determinato da una grave forma di diabete che lo condusse alla morte. Self-Portrait in Three Colors è uno dei pezzi più classici di Mingus: lo stesso contrabbassista amava descriversi così nell’incipit di Peggio di un Bastardo (la sua autobiografia), uno e trino allo stesso tempo. Insomma, tornando al concerto, una serata memorabile grazie ad una musica straordinaria eseguita da un gruppo di eccellenti musicisti.

Martedì 15 almeno a mio avviso la più bella sorpresa del Festival: il concerto del pianista e compositore azero Isfar Sarabski. Avevo già ascoltato qualche brano dell’artista tratto dall’album Planet del 2021 ma sentirlo all’opera dal vivo è tutt’altra cosa. Ben coadiuvato da Behruz Zeynal al tar (strumento a sei corde simile al liuto che viene suonato con un piccolo plettro d’ottone), Makar Novikov al contrabbasso e Sasha Mashin alla batteria, il pianista si è espresso su altissimi livelli meritandosi i convinti applausi del pubblico. In realtà il concerto non era iniziato nel migliore dei modi: affidato soprattutto alle capacità solistiche di Behruz Zeynal la serata sembrava indirizzata lungo i binari di quel mélange tra jazz e medio-oriente di cui abbiamo già molte testimonianze. Per fortuna dal secondo pezzo le atmosfere sono cambiate e siamo entrati prepotentemente su un terreno assolutamente originale e poco frequentato in cui è difficile distinguere le influenze che fluttuano l’una sull’altra, dall’etno al jazz propriamente detto, dal folk alla musica classica senza trascurare l’elettronica, il tutto in un contesto strutturale ben delimitato. In effetti tutti i pezzi erano costruiti allo stesso modo: una lunga introduzione affidata volta per volta ad un singolo strumento per poi lasciare il campo all’ensemble che per la maggior parte del tempo si è espresso nella formula del trio, senza Zeynal. Ed è così emersa la straordinaria figura del leader. Nato nel 1989 a Baku, in Azerbaijan, Isfar Sarabski si forma presso il Berklee College of Music di Boston, per poi vincere nel 2009 la Solo Piano Competition del Montreux Jazz Festival. Per il piccolo Isfar la musica è un elemento immediatamente familiare: il padre è un grande appassionato di musica, la madre insegna violino mentre il suo bisnonno era Huseyngulu Sarabski, figura leggendaria della musica azera. Evidentemente tutto ciò ha contribuito in maniera determinante a creare un artista assolutamente straordinario che ha voluto condividere con il pubblico romano buona parte del repertorio contenuto nel già citato album Planet; splendida la riproposizione di Clair de lune di Claude Debussy interpretata con rara delicatezza e totale partecipazione.

E veniamo alla serata finale del festival, il 19 scorso, con Steve Coleman alla testa dei suoi Five Elements, vale a dire Jonathan Finlayson alla tromba, Sean Rickman alla batteria, Rich Brown al basso elettrico e il rapper Kokayi con il quale Coleman collabora fin dal 1985. Illustri colleghi hanno scritto meraviglie di questo concerto, e, una tantum consentitemi di dissentire. Intendiamoci: nessuno, tanto meno chi scrive, mette in dubbio le capacità di Coleman che in tutti questi anni ha dato prova di essere un grande artista; nessuno contesta la sua abilità nel rifarsi a musiche dell’Africa occidentale e dell’Asia meridionale; nessuno nega la sua profonda conoscenza della cd. “street culture”. Ma tutto ciò produce un certo tipo di musica che non trova il mio personalissimo interesse: non mi trascina (tutt’altro) la ripetizione per parecchi minuti dello stesso frammento melodico, non mi appassiona la matericità della sua musica, non mi convincono gli interventi del rapper anche perché nel passato ci sono stati esempi ben più probanti di integrazione tra jazzisti e rapper. Assolutamente apprezzabile, viceversa, il richiamo alla tradizione testimoniato dalla citazione di Confirmation, cavallo di battaglia di un certo Charlie Parker. Comunque il pubblico, non numerosissimo, ha gradito e l’esibizione è stata salutata da scroscianti applausi.

Il Festival si è così concluso con un bilancio ancora una volta largamente positivo: oltre 5000 presenze in due settimane di programmazione fra l’Auditorium, la Casa del Jazz e il Monk, con il coinvolgimento di ben 115 artisti provenienti da tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Azerbaigian, dalla Gran Bretagna alla Romania, passando per il Bahrain. “In tante edizioni, raramente ho visto un così grande entusiasmo del pubblico in ogni concerto, sia per gli artisti più famosi che per le novità. – Ha commentato Mario Ciampà, direttore artistico del festival. – Un pubblico trasversale, bambini, giovani e adulti che hanno voglia di buona musica e nuove proposte. Un successo che ci incoraggia a proseguire ulteriormente sulle traiettorie che hanno segnato questa edizione: il dialogo fra musica e innovazione tecnologica, il protagonismo femminile, la programmazione dedicata ai più piccoli e l’equilibrio fra i nomi storici del jazz e gli artisti più in sintonia con il gusto delle nuove generazioni come gli esponenti della nuova scena british, e non solo”

Gerlando Gatto