I nostri CD. Collezione autunno/inverno

a proposito di jazz - i nostri cd

L’Autunno, tempo di feuilles mortes che anticipa di poco l’inverno, è periodo prolifico per il jazz “di stagione”.
Coi primi, e i secondi, freddi, niente di meglio che sentire un disco a qualunque ora della giornata, compresi aperitivi e post prandium, e magari singing in the rain.
Abbiamo provato, come di consueto, a selezionare alcuni album di un certo appeal e a farli “sfilare” a mò di “collezione autunno-inverno” come consigli per gli acquisti in occasione delle festività o per semplice uso privato da parte del lettore.
I brand delle label sono di ottimo livello e così dicasi dei musicisti in “passerella”. L’ultima parola come sempre resta comunque affidata, uno per uno, ai componenti il pubblico.

THREE LOWER COLOURS, RED EARLY RECORDINGS (CALIGOLA)

L’album Red. Early Recordings (Caligola) ci restituisce la musica di Marco Tamburini nel trio “bassless” con Stefano Onorati alle tastiere e Stefano Paolini alla batteria (e tutti e tre ai live electronics).
Che dire davanti a questo lavoro del compianto trombettista cesenate? Sarà forse scontato ma il primo pensiero è come la musica, un cer- to tipo di musica così reattiva, riesca ancora oggi, a poco più di una dozzina d’anni dalla registrazione, a comunicare una freschezza che
contrasta con il destino che ha spento anzitempo uno degli artisti più ispirati della scena jazz. In tale formazione, il jazz-rock di stampo davisiano è riverniciato a nuovo con impasti tech che lo rendono ancorato più al futuro che al passato.
Negli otto brani, con “Naima”, “Blue in Green”, “Knives Out” ed il resto originali, Marco and partners, i Three Lower Colours, intingono il tutto di Red, colore fondamentale, secondo Lüscher, nelle sue diverse varianti.
Nel disco l’anima musicale di Tamburini pare trasmigrare, rigenerando energia espansiva allo stato puro. Cosa che al jazz, al suo jazz rosso rubino, riesce ancora una volta.

DINO BETTI VAN DER NOOT, THE SILENCE OF THE BROKEN LUTE (AUDISSEA)

The Silence of the broken Lute, il nuovo album di Dino Betti van der Noot prodotto da Audissea, si apre con un brano così intitolato ed è già in primis un segnale di riconquista di uno Spazio da parte del Suono, occupato nei mesi della pandemia dal Silenzio qui simboleggiato da un liuto rotto.
Immagine pittorica, questa, con richiami ad altre arti secondo un ap- proccio umanistico a cui il compositore ci ha da tempo abituati.
Ancor più stavolta Betti è homo orchestralis, scrive partiture pensate come un articolato siste- ma nervoso con diversi gangli periferici le cui arterie sono irrorate dagli apporti dei musicisti
che le eseguono (LoBello, Mandarini, Mariotti, De Ceglie, Begonia, Calcagno, Allavena, Marchesi, Cerino, Ciceri, Visibelli, Manzoli, Tarocco, Gusella, Parrini, Cattaneo, Rinaldo, Zitello, Alberti, Bertoli, Tononi, Sanesi).
Anche il successivo “Listen for the Sea-Surge” si rifà ad un verso di Ezra Pound nel presuppo- sto che la sua Musica non abbia “distanziamento” con le altre culture e non lo abbia neanche all’interno del progetto in questione tant’è che vi possono coesistere, in un organico di stampo jazzistico, sitar e tablas, arpa celtica e viola così come neroamericanità e classicità, poesia e figurazione.
E mentre “Here Comes Springtime”, datato 1985, si presta benissimo alla improvvisazione grazie alla struttura di blues che ne è alla base, in “Our Nostos” è il mito greco del ritorno (odisseico) a far da filo d’Arianna nello snodo armonico che si affastella e si frattaglia prima di schiudersi ad arcaici quadri bucolici.
Infine “Souriante èpanouie ravie”, citazione da Prevert, è permeata come tutto il disco da sen- so corale e afflato di speranza e curiosità verso quanto ci circonda ancora oggi, nel day after. Betti è l’artigiano che ha tolto il liuto rotto dal Vuoto Sonoro che lo circondava, riportando la vita, come la Musica, ad libitum…

CLAUDIO FASOLI 4et, NEXT (ABEAT)

Abeat Records pubblica Next, nuovo album di Claudio Fasoli in 4et. Per l’occasione il sassofonista si avvale della partnership del chitarrista Simone Massaron, del contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer e del batterista Stefano Grasso nel proporre un lavoro articolato in dieci steps, il primo dei quali offre subito un assaggio della sua/sue musica/musiche. A volerla definire per negazione non si tratta di musica d’uso eppure è ben fruibile specie quando
la si ascolta nei momenti di tensione ritmica e pulsazione: non fa filtrare tout court sentimen- talismi eppure ha sincere modulazioni espressive, è coerente a sé stessa e nonostante tutto appare molteplice, divagante, diffratta. La voce del sax, riconoscibile a distanza, pare affac- ciarsi ogni volta su una distesa inventiva… next… protesa-sospesa (i latini usavano il costrutto sintattico della “perifrastica attiva” per indicare lo “stare per”) in un accavallarsi di strutture, skylines melodiche, guglie improvvisative, pause silenzi adagi. La sezione ritmica, fonda- mentale, e la chitarra, trattata con mano sapiente alla Goodrick, sistemano i suoni in modo che quello del leader possa meglio svilupparsi e così rappresentare al meglio la propria Identità.

LORENA FONTANA, TANGO FOR IDA (KOINÈ, DODICILUNE)

Il tango-cancion è la risultante di più strati sedimentati approdati alla forma musicale compiuta di Carlos Gardel a seguire fino a Piazzolla ed al suo Nuevo tango.
Per questo motivo album come Tango for Ida della cantante Lorena Fontana (Koinè-Dodicilune) sono più che mai benvenuti perché raccordano diversi filoni entro cui trovano accoglienza De Moraes e Toquinho oltre ai vari Solanas, Discepolo, Canaro, Blasquez… Il cd contiene tredici brani che nel loro insieme, per
come la Fontana li ha saputi inanellare, con il giusto spirito interpretativo, costituiscono un carillon di echi sparsi di un pianeta, quello argentino, che ha maglie larghe quanto l’orbita terrestre.
Vi si trovano classici come “Torno al Sud (Vuelvo al Sur)”, “Oblivion”, “La fiera delle Pulci (Calambache)”, “Volesse il cielo (Quem me Dera)”.
I particolari adattamenti in lingua italiana rendono questo disco a suo modo unico anche per la assimilazione del linguaggio del tango da parte della Fontana, essa stessa autrice di “Dubi- tango” e “Chorinho da Boa Sorte”.
E c’è anche in scaletta “Youkali” di Weill e Bertrand quasi a rimarcare la circolarità dell’ab- braccio della Fontana a questa musica sempre “nueva”.
Una cultura, quella tanguera, ancor più di un genere capace di infondere poesia, varietà e mestizia nella propria musica chiaroscura. Nel lavoro in questione, è pennellata a misura la scelta dell’organico di base con Fabrizio Mocata al piano ed Enrico Guerzoni al cello arric- chito dagli ospiti Geoff Warren (fl), Roberto Rossi (per), Gianluigi Giannatempo (string arr.), Eugjien Gargiola e Massimiliano Brutti (v.), Eva Impellizzeri (viola) Silvia Dal Paos (cello).

GIUSEPPINA CIARLA, A TICKET HOME, AUTOPRODUZIONE

Arpa e voce. Si può descrivere così in pillole A Ticket Home, l’album di Giuseppina Ciarla uscito in questo 2021 discografico? Certamente no. La domanda retorica cela comunque una verità di base e cioè che molta musica può essere ricondotta a degli elementi primari quali il canto sulla trama di un accompagnamento come quello degli antichi citarioti con il risultato, tramite la “spoliazione” di ornamenti e sovrap- posizioni, di riscoprire l’essenziale ricchezza che lo compone. L’artista, statunitense d’adozione, “torna a casa” rimanendo cittadina
del mondo operando in tale guisa sia che maneggi Piazzolla o Michael Jackson ovvero una canzone napoletana come “Maria Marì” o uno standard come “Nature Boy” od anche un latin come “Que Sera” o una ballad come quella di Sacco e Vanzetti di Morricone: va al fondo me- lodico e, con l’arpa, armonico delle cose… musicali. In questo caso ci consegna undici brani in cui figura, oltre a un paio di propria scrittura, un arrangiamento originale di “Bella Ciao”. E non era facile per una partitura che le tante versioni in circolazione tendono a logorare ma la abilità della Ciarla, detto fatto, l’ha elegantemente ristrutturata.

FALOMI-TURCHET-TRABUCCO, feat DI BONAVENTURA, NAVIGANTI E SOGNATORI (ABEAT)

Meditare erraneo. Mediterraneo, in quanto termine, potrebbe essere visto così, con la caduta di are, come un grande lago che “ai naviganti intenerisce il core” nel solcarlo pensierosi. Una distesa di (m)are a cui l’album Naviganti e Sognatori (Abeat) si ispira come si evince già dai titoli dei brani iniziali, “Terra e mare”, “Rotte mediterranee”, “Le vie del mondo”… In tale multiverso si sono incrociati percorsi salma- stri di musicisti provenienti da due repubbliche marinare, genovese e
veneziana, con propaggini nordadriatiche. Rispondono ai nomi di Luca Falomi alla chitarra, Alessandro Turchet al contrabbasso, Max Trabucco a batteria e percussioni, ospite Daniele Di Bonaventura al bandoneon.
Fra le nove tracce sono inserite due arie popolari – “La nova gelosia”, “Lanterna de Zena” – arrangiate da Falomi che firma gran parte dei brani (l’altro autore è Trabucco nei primi due) mentre Turchet ha rielaborato il traditional “Voi che son dos stelis”.
È una musica che veleggia, come sospinta da moto poco increspato dei flutti, con motivi che schiudono orizzonti inediti all’ascolto.

MARCO SINOPOLI EXTRADICTION, CHROMATIC LANDSCAPES (PARCO DELLA MUSICA)

L’estradizione è figura giuridica. Metaforicamente la si può però “estradare” in altri ambiti lessicali così come succede in musica con il Marco Sinopoli Extradiction.
Il chitarrista, nel nuovo album Chromatic Landscape inciso per Parco della Musica Records, in effetti vi opera delle traslazioni di timbri ed immagini che si rincorrono l’un l’altra, in un effluvio
di impressioni e suggestioni in movimento.
Sono nove tracce in tutto nelle quali il chitarrista e compositore “mette a servizio” il proprio strumento allo sviluppo dell’insieme sonoro imbastito dagli apporti al flauto da Bruno Paolo Lombardi e dell’ospite Nicola Stilo, al clarinetto di Luca Cipriano, al bassoon di Fabio Gia- nolla, al piano di Alessandro Gwis, al basso di Toto Giornelli e alla batteria di Alessandro Marzi. L’ensemble funziona perfettamente da… ensemble nel senso che la musica procede con coralità costante creando e ricreando colori cangianti e tonalità variopinte, su cui si (e) stendono melodie esternate tramite quella (extra)dizione che è propria del jazz in quanto arte dell’extra – dire dell’esprimere “oltre”, verso i paesaggi cromatici di possibili Altrove.

MASSIMO DONÀ ENSEMBLE, IPERBOLICHE DISTANZE. LE PAROLE DI ANDREA EMO (CALIGOLA)

“L’eco è lo specchio dei suoni come lo specchio è l’eco delle immagi- ni”.
È uno degli aforismi di Andrea Emo, forse fra i più sintetici ed illumi- nanti.
A voler leggere altri scritti del filosofo veneto, oltre l’ “Aforismario”, egli appare, un po’ come Jackson Pollock, rifuggire dal sistematico, “macchiare” il foglio quasi fosse una tavolozza, esprimendo concetti
sparsi che hanno un fil rouge sottile non sempre, a primo acchito, facile da individuare. Il jazz per certi versi è così, può apparire sfilacciato per poi vedersi i fili riannodati.
L’album Iperboliche Distanze. Le parole di Andrea Emo (Caligola Records) del Massimo Donà Ensemble è prova del nove di come i testi di Emo possano diventare materiale da leggìo per musicisti che su quella base esercitano il loro pensiero in note.
“La musica è una plenitudine che sorge da un vuoto” recita David Riondino, anche se “vi è una parentela fra il vuoto e la sonorità” interconnesse dallo Special Ensemble (Baldan, Gne- sutta, Olivato, Polga, Ponchiroli, Trionfo, Ragazzoni feat. Calgaro, Damiani, Fasoli, Mirra, Rava) che avvolge con telo ritmico/armonico parole che Emo scrisse in prosa parapoetica e che ora rivestono la propria voce di un nuovo fraseggio.

Fabrizio Zampini e Stef Giordi al TrentinoInJazz

Martedì 20 luglio 2021
ore 21:00
Piazza Regina Elena
Malé (TN)
In caso di pioggia: Teatro Comunale

FRANCESCO ZAMPINI QUINTET

Cosimo Boni – tromba
Francesco Zampini – chitarra
Xavi Torres – pianoforte
Matteo Anelli – contrabbasso
Mattia Galeotti – batteria

ingresso gratuito con prenotazione

Mercoledì 21 luglio 2021
ore 21:00
Piazza Padre Eusebio Chini
Predaia (TN)
In caso di pioggia: Tres, sala polifunzionale Pra Da Lac

STEF GIORDI & CONNECTED

Stefano Giordani: chitarra acustica, effetti, sampler
Roberto Zecchinelli: basso elettrico, synth
Matteo Giordani: batteria

Martedì 20 luglio a Malé (TN) e mercoledì 21 a Predaia (TN) un appuntamento legato alla chitarra per il decennale del TrentinoInJazz. Il primo concerto sarà quello del quintetto di Francesco Zampini, che presenta dal vivo il nuovo album Unknown Path, una sintesi tra spiccate individualità e lavoro d’insieme, tra scrittura e improvvisazione, moderna tradizione jazzistica e volontà di interpretarla con carattere. Sono proprio le composizioni di Zampini il punto di forza del quintetto: l’eredità del bop è evidente, ma anche la voglia di sviluppare i momenti melodici e di sperimentare talvolta la rottura delle strutture armonico-ritmiche. La scrittura è registica, attenta alla visione d’insieme, all’arrangiamento e al mood dei brani, quando interviene lui questo avviene sempre con pertinenza col suo strumento, mentre il carattere pregevole dei temi musicali, evidenzia una propensione alla “cantabilità” e all’equilibrio melodico.

Il concerto di Predaia vedrà protagonista Stef Giordi, al secolo Stefano Giordani, insieme al suo trio. Insieme ai brani originali, il chitarrista trentino ama esplorare anche il repertorio jazz tradizionale e moderno. Composizioni rarefatte e sfuggenti si alternano a brani più ritmici ed articolati, che si avvicinano al linguaggio essenziale e diretto del rock. Ai tre piace unire la grande eredità jazzistica del passato con il presente, cercando di raggiungere una sintesi personale, navigando tra le sonorità mediterranee e quelle urbane tipiche della scena jazz newyorkese, con accesi elementi rock, funk, soul dentro un groove poliritmico di forte impatto. Giordani ha una lunga esperienza sulla scena londinese e due album di chitarra solo, L’ordine delle cose e Question Marks: presenterà al TrentinoInJazz il nuovo disco History Teaches.

I NOSTRI CD. Il jazz italiano omaggia Morricone

Cari amici, prima di andare in vacanza, “A proposito di jazz” vi propone una serie di album, italiani e stranieri, che vale la pena ascoltare. E si comincia con tre eccellenti CD dedicati al cinema.

Stefano Di Battista – “Morricone stories” – Warner

Questo del sassofonista Stefano Di Battista è il primo dei tre album dedicati al cinema che viene ospitato nella nostra abituale rassegna discografica. L’album è particolare in quanto Di Battista, ben coadiuvato da Fred Nardin al pianoforte, Daniele Sorrentino al contrabbasso e il fantastico André Ceccarelli alla batteria, dedica questa sua ultima impresa discografica a Ennio Morricone, uno dei più grandi musicisti italiani degli ultimi tempi, al quale era legato da profonda e sincera amicizia. E lo fa nel modo migliore, vale a dire tralasciando i brani più noti, quelli che tutti conosciamo, per far ricorso ad alcune vere e proprie perle del Maestro che purtroppo non sempre godono di grande popolarità. Così l’unico brano universalmente conosciuto è “Metti una sera a cena” dall’omonimo film del 1969 diretto da Giuseppe Patroni Griffi, con Lino Capolicchio e Florinda Bolkan magnifici interpreti. Di Battista ce lo ripropone in una versione swingante in cui il sassofonista si produce in uno degli assolo più riusciti dell’intero album, che nulla toglie all’originaria bellezza del pezzo. Toccante, così come l’originale, “Tema di Deborah” da “C’era una volta in America” mentre in “Gabriel’s Oboe” da “Mission” Di Battista sostituisce il suo sax soprano all’originario oboe, con risultati straordinari nel mantenere sempre e comunque l’originaria bellezza della scrittura ‘morriconiana’. E questa sorta di devozione si avverte anche nel modo in cui la musica viene eseguita: niente muscolose esibizioni di bravura, niente arrangiamenti particolarmente sofisticati, insomma nessun escamotage per stupire l’ascoltatore, ma solo il piacere di suonare una musica evidentemente amata e profondamente vissuta. Splendida, e come poteva essere diversamente, anche l’interpretazione di “Flora” un pezzo che Morricone scrisse appositamente per Di Battista. Il disco è stato preceduto dai tre singoli “Peur sur la ville” (uscito il 29 gennaio), “Cosa avete fatto a Solange?” (uscito il 26 febbraio) e “Gabriel’s Oboe” (uscito il 19 marzo).

Marco Fumo – “Il mio Morricone” – Oradek

Ecco il secondo album dedicato a Morricone, firmato da Marco Fumo che more solito si esprime in solitudine. Anche questa volta la scelta dei brani è ben meditata: per la successione dei brani è stato scelto l’ordine cronologico mentre per i contenuti è lo stesso Fumo a venirci incontro nelle note che accompagnano l’album. Così i quattro preludi (“Cane bianco”, “Star System”, “Metti una sera a cena”, “Indagine”) e le quattro canzoni (“Il deserto dei tartari”, “Le due stagioni della vita”, “Got mit Uns” “Il potere degli angeli”) più “Nuovo cinema Paradiso” sono stati scelti in quanto da sempre fanno parte del repertorio di Fumo così come “scelta obbligata” è stata anche quella di “Rag in frantumi”, scritto da Morricone nel lontano febbraio 1986 ed espressamente dedicato proprio a Marco Fumo. Interessante sottolineare come Fumo mai abbia inciso le musiche di Morricone avendole, invece, eseguite spesso dal vivo (eccezion fatta per il già citato “Rag in frantumi” presente in vari album del pianista). Insomma un CD profondamente sentito, a dimostrazione di come Morricone fosse amato anche dai suoi colleghi e di quanto profondo, in particolare, fosse il legame che intercorreva tra Morricone e Fumo. “Questo – conclude le sue note Marco Fumo – è quello che sento e posso fare, dal cuore”. Dal punto di vista prettamente musicale, lo stile di Fumo è oramai riconoscibile: una assoluta conoscenza della letteratura pianistica – in particolar modo jazzistica – un sound fresco ma incisivo frutto di una solida preparazione di base, doti interpretative non comuni. Così, sotto le sue sapienti mani, i brani di Morricone rivivono letteralmente imponendosi all’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto.

Renzo Ruggieri, Mauro De Federicis – “Ciak” – Vap

Il terzo album in qualche modo dedicato al cinema è questo “Ciak” che vede impegnati Renzo Ruggieri alla fisarmonica e Marino De Federicis alla chitarra. Si tratta di un duo ampiamente collaudato che ha già inciso un album, “Terre” (2008), e che si è esibito con successo in Finlandia e Austria, oltre che in diversi festival italiani. Adesso tornano a presentarsi al pubblico del jazz con questo nuovo album composto da cinque brani per un totale di circa ventisette minuti di musica comunque di eccellente qualità. Il fatto è che Renzo Ruggieri si è oramai imposto all’attenzione del pubblico internazionale come uno dei migliori fisarmonicisti non solo italiani e può vantare una certa parsimonia nell’entrare in sala di registrazione: tutti i suoi album conservano uno standard qualitativo molto elevato grazie al fatto che Renzo decide di incidere un disco solo se ha qualcosa da dire. Dal canto suo Mauro De Federicis può esibire una preparazione di base di assoluto rispetto e una continua frequentazione con l’olimpo del jazz testimoniato dalle collaborazioni con nomi prestigiosi quali Dee Dee Bridgewater, Paolo Fresu, Bob Mintzer, tanto per fare qualche esempio. In questo album, dedicato al cinema, i due hanno scelto di eseguire due composizioni originali e tre brani di assoluto spessore come “Il postino” di Luis Bacalov, Riccardo Del Turco e Paolo Margheri, “La gita in barca” di Piero Piccioni e “Speak Softly Love” di Rota tratto da “Il Padrino”. Una scelta coraggiosa non fosse altro che per aver tralasciato quel Morricone cui viceversa sono dedicati i due precedenti album. Particolarmente interessante il modo in cui i due attualizzano le atmosfere proprie di giganti del cinema dedicando loro due brani, “De Niro” (Marino De Federicis) e “Fellini” (Ruggieri). Comunque il pezzo che più mi ha toccato è stato “Il Postino” il cui originario pathos è stato perfettamente riproposto. E devo dire che in questo tipo di riletture Ruggieri è davvero un maestro: basti dire che ogni qualvolta lo ascolto eseguire “Caruso” mi è difficile contenere la commozione.

*****

Claudio Angeleri – “Music from the Castle of Crossed Destinies” – Dodicilune

Conosco e apprezzo oramai da molti anni Claudio Angeleri e non credo di sbagliare di molto se affermo che questo album è uno dei migliori che il pianista bergamasco abbia prodotto nel corso della sua oramai lunga carriera. A coadiuvarlo in questa ennesima fatica un gruppo di eccellenti musicisti: Giulio Visibelli (sax soprano, flauto), Paola Milzani (voce), Virginia Sutera (violino), Michele Gentilini (chitarra elettrica), Marco Esposito (basso elettrico), Luca Bongiovanni (batteria, percussioni) e, nel brano “Two or three stories”, Gabriele Comeglio (sax alto). Oltre al celebrato “Round about Midnight” di Monk, l’album consta di otto composizioni dello stesso Angeleri liberamente tratti dal breve romanzo fantastico “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino. “L’idea di realizzare un nuovo progetto intorno alla letteratura di Italo Calvino – afferma lo stesso Angeleri – scaturisce da un invito del MIT Jazz Festival di Musica Oggi al Piccolo Teatro di Milano nello scorso novembre 2019. Lo spettacolo è stato poi replicato a gennaio al Blue Note, per essere messo in scena a luglio alla rassegna che ha significato la ripresa dal vivo dopo il lockdown a Bergamo”. E di certo bisogna avere una fervida immaginazione e soprattutto molto coraggio per trasporre in musica la scrittura non facile e mai banale di Italo Calvino. Di qui una musica ricca di colori in cui non sempre è facile distinguere le parti improvvisate da quelle scritte. Una musica in cui i vari strumenti diventano essi stessi voci narranti sì da rappresentare, – spiega ancora Angeleri – “per il loro carattere sonoro specifici personaggi”. Come si evince da queste poche note un compito davvero difficile che solo un musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, in possesso di una solida preparazione non solo come strumentista, poteva pensare di intraprendere e di traghettare alla meta con successo.

Nik Bärtsch – “Entendre” – ECM

Per chi ancora non conoscesse questo straordinario pianista e compositore svizzero, ecco un’ottima occasione per colmare questa lacuna. Nel panorama jazzistico internazionale oggi Bärtsch è personaggio imprescindibile tale e tanta è l’importanza che man mano va assumendo grazie anche ad alcune produzioni discografiche di eccellente livello. E’ questo il caso di “Entendre” declinato attraverso sei originali tutti composti da Nik e tutti eseguiti al piano solo. Lo stile dell’artista è assolutamente personale in quanto risultato da molti anni di continue sperimentazioni in cui Bärtsch ha cercato – e trovato – una soddisfacente sintesi tra jazz, minimalismo, poliritmie. Molti dei brani (quasi tutti intitolati Modul + numero, secondo consuetudine di Bärtsch) sono già stati presentati in altri album ma il pianista li rivisita apportando modifiche non di poco conto. Così ora tralascia precedenti climi jazz-rock per affidarsi unicamente alle sonorità dello strumento, ora si affida al giuoco minimalista alla ricerca con grande personalità di sottili variazioni timbriche. Il tutto completato da straordinarie capacità interpretative che portano l’artista a misurarsi anche sul piano dell’espressività. Si ascolti con attenzione l’apertura di “Modul 5” già proposto in “Llyrìa” (2010): la ricerca spazio-temporale in cui Bärtsch inserisce il suo pianismo è assolutamente straordinaria e mai conosce un attimo di stanca pur articolandosi su poche note che comunque delineano un quadro ben preciso. L’album si chiude con lo splendido “Déjà-vu, Vienna”, il pezzo più breve di “Entendre” (5:15), dal vago sapore impressionistico e dalla riconoscibile linea melodica elemento non certo usuale nelle concezioni di Bärtsch.

Enzo Carniel, Filippo Vignato – “Aria” – Menace

E’ davvero un piacere presentare questi due giovani straordinari musicisti che ancora non sono molto conosciuti dal pubblico italiano, ma la cui collaborazione era forse scritta negli astri dal momento che ambedue sono nati nel 1987. Enzo Carniel è un pianista francese dedito allo studio dello strumento sin da giovanissimo; sale agli onori della cronaca nel 2019 quando incide, con il gruppo House Of Echo, l’album ‘Wallsdown’. Filippo Vignato è a ben ragione considerato l‘astro nascente del trombonismo jazz italiano; anch’egli ha cominciato a studiare musica sin da bambino (a dieci anni) e oggi può vantare uno stile e una tecnica assolutamente personali. Ad onta delle difficoltà notoriamente insite in un duo, soprattutto se due artisti si cimentano per la prima volta in un organico del genere, questo “Aria” evidenzia una profonda empatia, un’intesa che trova la sua ragion d’essere nell’idem sentire dei due musicisti. Così il dialogo si svolge su binari sicuri anche se non banali, mai dando così all’ascoltatore l’impressione del ‘già sentito’ o peggio ancora di moduli predefiniti. Il risultato è un sound del tutto particolare determinato anche dall’uso del Fender Rhodes e dei sintetizzatori, la visione di un universo musicale multicolore, in cui i due artisti improvvisano continuamente essendo perfettamente in grado l’uno di capire le intenzioni dell’altro, in un susseguirsi si input, di stimoli, di processi creativi che si susseguono senza soluzione di continuità. Il tutto impreziosito da una riuscita ricerca sulle linee melodiche che costituiscono l’ossatura stessa dell’intero repertorio, otto brani tra cui spicca per intensità emotiva “Aria” la composizione che apre l’album in acustica per chiuderlo in versione elettronica. L’album, uscito il 16 aprile scorso per l’etichetta franco-giapponese Menace è stato anticipato da due singoli: la title-track Aria uscito il 5 febbraio e Babele uscito il 10 marzo.

Vittorio Cuculo Quartet – “Ensemble” – Wow Records

Lo stato di maturità del jazz italiano è dimostrato, seppur ce ne fosse ancora bisogno, dal proliferare di nuovi talenti. Tra questi c’è senza dubbio alcuno il ventisettenne sassofonista romano (alto e soprano) Vittorio Cuculo al suo secondo album. Il titolo è determinato dal fatto che il quartetto capitanato da Cuculo incontra i sassofoni della Filarmonica Sabina “Foronovana” con risultati eccellenti ma di cui parleremo tra poco. Il quartetto comprende, altre al leader, Danilo Blaiotta al pianoforte, Enrico Mianulli al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e in veste di special guest Lucia Filaci che interpreta con coraggio e bravura la cover di “Brava”, il pezzo di Bruno Canfora portato al successo da Mina. Il resto del repertorio è costituito da sei brani standard appartenenti alla tradizione jazz frutto della verve compositiva di alcuni grandi quali Charlie Parker, Errol Garner, Juan Tizol, Thelonius Monk, Rogers & Hart e due composizioni originali di Roberto Spadoni. Ciò detto vediamo più da vicino la musica proposta. Si tratta di un jazz mainstream che si rifà chiaramente agli stilemi del bop e dell’hard-bop interpretato con efficacia dal gruppo nel suo complesso che ben si amalgama con i fiati della Filarmonica, dando vita ad un sound particolare. Ovviamente sempre in primo piano il leader che data la scelta del repertorio comunica apertamente l’intento di volersi confrontare con un certo tipo di jazz sebbene avvalendosi di nuovi arrangiamenti, firmati da Riccardo Nebbiosi, Mario Corvini, Roberto Spadoni e Massimo Valentini. Ora che un giovane musicista scelga di suonare bop, ci sta tutto…ci mancherebbe altro. Solo che ci piacerebbe ascoltare Cuculo anche in contesti diversi in cui magari le eccelse capacità tecniche non sono poi così fondamentali.

Joe Debono Quintet – “Acquapazza” – Anaglyphos

Dino Rubino alla tromba e al flicorno, Rino Cirinnà al sax tenore, Joe Debono al pianoforte, Nello Toscano al contrabbasso e Paolo Vicari alla batteria sono i componenti del Joe Debono Quintet. Prodotto dall’etichetta discografica Anaglyphos Records e supportato da Malta Arts Fund – Arts Council Malta, la tracklist del CD è formata da otto composizioni originali del pianista, e da “Innu Lil San Guzepp”, un inno di San Giuseppe composto dal compositore maltese Carlo Diacono all’inizio del ventesimo secolo. In un momento come l’attuale, in cui il jazz si sta praticamente frammentando in moltissimi rivoli, in cui non sempre è facile trovare tracce di un passato anche se non remoto, questo album ci riporta in piena atmosfera jazz, senza equivoci di sorta. Il linguaggio di tutti è perfettamente in linea con le migliori tradizioni della musica afro-americana senza per ciò peccare di pedissequa imitazione. Ottima la ricerca sul sound come dimostra l’impasto sonoro determinato dalle parti suonate all’unisono da sassofono e tromba, sempre ben sostenute da una eccellente sezione ritmica. E al riguardo non si può non sottolineare da un canto la conferma a livelli straordinari di un musicista come Dino Rubino (che forse molti non lo sanno ma suona benissimo anche il pianoforte) e la rapida ascesa di Paolo Vicari batterista giovane ma già in possesso di una buona tecnica. Ovviamente più che positivo l’apporto di Rino Cirinnà sassofonista di vaglia e di Nello Toscano contrabbassista siciliano tra i più validi a livello nazionale. Bisogna comunque dare atto a Joe Debono, pianista e compositore maltese, di aver saputo costituire un quintetto capace di produrre un jazz elegante, raffinato, con un repertorio assolutamente confacente alle caratteristiche dei singoli musicisti. Si ascolti al riguardo “Gigi”, brano dolcissimo introdotto dallo stesso Debono e ben sviluppato dai fiati.

Alessandro Deledda – “La linea del vento” – Le Vele

Undici brani originali declinati attraverso una interpretazione per piano solo. Con questo album Alessandro Deledda, jazzista sardo che abita a Perugia, abbandona la strada tracciata in precedenza sia con l’elettro-jazz di “Conception & Contamination” del 2011 assieme a Simone Alessandrini, sax e Mirko Ferrantini, dj, ritmiche, sia con il CD del 2014, “Morbid Dialogues” in cui era alla guida di un quartetto di chiara impronta jazzistica con Francesco Bearzatti al sassofono, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria. Infatti questa volta si presenta al pubblico nella duplice veste di compositore (il repertorio è tutto da lui scritto) ed esecutore. Il risultato è apprezzabile: le composizioni sono ben strutturate, con una bella linea melodica, e inserite in un ambito in cui le sensazioni più intimiste sembrano prevalere sul resto. Non a caso alcuni titoli – “Ginevra”, “Sulla strada di casa tua”, “L’Aquilone”, “Gino e l’ulivo” – sembrano riferirsi ad esperienze direttamente vissute dal musicista. Così ad esempio “Madreterra” è un esplicito omaggio alla terra natia mentre “Ginevra”, afferma Deledda, “è la storia di una cagnolina, chiamata Ginevra che ritrova nella sua nuova famiglia il suo sorriso, abbandonato nel bosco con le sue fragilità, per andare a vivere fedele una nuova melodia”. Dal punto di vista esecutivo lo stile pianistico di Deledda rifugge sia da qualsivoglia sperimentazione sia da passaggi particolarmente complessi e arditi per frequentare terreni più aperti alla comprensione, in cui i riferimenti al jazz si mescolano con quelli alla popular music.

Massimo Donà – “Magister Puck” – Caligola

A solo un anno da “Iperboliche distanze”, ecco tornare sulle scene discografiche il filosofo–trombettista Massimo Donà (nell’occasione anche chitarrista e rapper), alla testa di un ampio organico in cui spiccano i nomi del sassofonista Michele Polga e del batterista Davide Ragazzoni, quest’ultimo unico musicista presente, insieme al leader, in ogni traccia del Cd; in un solo brano (“E chi no”) è possibile ascoltare anche Francesco Bearzatti. Questo nuovo album, “Magister Puck”, si sostanzia, quindi, di colori, atmosfere assai diversificate pur mantenendo una sua coerenza di fondo. Ecco, quindi, in apertura “Topi in terrazza” di chiara impronta funky così come “Tagology” che non a caso presenta quasi lo stesso organico del pezzo di apertura con, oltre al leader, Michele Polga al sax tenore, Maurizio Trionfo alla chitarra, Stefano Olivato basso e clavinet, Davide Ragazzoni batteria, assente, quindi, Bebo Baldan al sintetizzatore. Più influenzato dal pop, seppure di classe, “I’m in Love” impreziosito dalla voce di Paola Donà e con un bell’assolo, vagamente davisiano, del leader. Anche “Magister Puck’s Theory” sembra seguire le orme del precedente “I’m in Love” prima di trasformarsi in un incalzante rap dal testo significativamente ironico. Nel brano decisamente più lungo dell’intero album, “E chi no”, si rinnova la collaborazione tra Massimo Donà e David Riondino che frutti succosi aveva già dato nel precedente album dello stesso trombettista, “Iperboliche distanze”, dedicato alla figura del grande filosofo veneto Andrea Emo. Il disco si chiude con una registrazione del 1989, “Irrisoluzione cromatica”, ad opera di un sestetto di chiara derivazione davisiana post ’69.

Cettina Donato, Ninni Bruschetta – “I siciliani – Vero succo di poesia” – Alfa Music

Pochi anni fa ero stato fin troppo facile profeta nel prevedere che Cettina Donato sarebbe divenuta una delle punte di diamante del jazz mady in Italy. Ciò perché sin dall’inizio l’artista messinese mostrava una completezza straordinaria essendo allo stesso tempo, pianista preparata, compositrice assai feconda, capace direttrice anche di grosse formazioni. Il tutto è ben compendiato in questo ultimo album in cui si fortifica quella stretta collaborazione che oramai va avanti da qualche tempo tra Cettina e l’attore, regista anch’egli siciliano, Ninni Bruschetta. I due sono reduci dai successi teatrali de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, i quali, dopo aver interpretato un testo di impegno civile servendosi solo di voce e pianoforte presentano adesso il volto poetico e letterario dell’isola. Di qui l’album “I siciliani”: otto pezzi originali scritti dalla Donato con testi dello scrittore siciliano Antonio Caldarella scomparso nel 2008, interpretati da un gruppo con Dario Cecchini (clarinetto basso, sax soprano e baritono), Dario Rosciglione (contrabbasso e basso elettrico), Mimmo Campanale (batteria e percussioni) con l’aggiunta degli archi della B.I.M. Orchestra e dell’attrice e cantante Celeste Gugliandolo (che interpreta “Le siciliane”). Tutti gli altri brani sono affidati alla voce spesso roca e graffiante di Bruschetta che si amalgama in maniera straordinaria con il pianismo della Donato e più in generale con il sound dell’ensemble. Come sottolineato in apertura, la Donato trova quindi terreno fertile per evidenziare tutte le sue capacità, di strumentista, di compositrice, di arrangiatrice e di direttrice d’orchestra, in un alternarsi di atmosfere che forse solo un siciliano doc può capire sino in fondo. Una musica che sottolinea alcune peculiarità di una terra tanto straordinaria quanto ancora oggi ben difficile da vivere.

Ganelin, Kruglov, Yudanov – “Access Point” –Losen Records

Ecco un trio di assoluto livello internazionale composto da Slava Ganelin al pianoforte, tastiere, live electronics e percussioni, Alexey Kruglov sax alto e soprano, Oleg Yudanov batteria e percussioni, vale a dire tre dei migliori esponenti del free jazz russo. Quindi un organico non usuale caratterizzato dalla mancanza del contrabbasso, impegnato in un repertorio di sei brani interamente scritto dai tre. Registrato il 13 novembre del 2017, l’album rappresenta uno dei migliori esempi di free jazz realizzato in Europa in quest’ultimo decennio. La cosa non stupisce più di tanto ove si consideri la statura artistica del russo Ganelin già noto al pubblico del jazz per il suo fantastico trio con Tarasov e Chekasin. Questa volta a completare il trio sono due altri jazzisti ma il risultato finale non cambia granché. Nato nel 2012 il trio frequenta il terreno della libera improvvisazione in cui non esistono strutture predefinite che viceversa si creano nel momento stesso in cui si suona, quindi in quello strettissimo lasso di tempo che passa dall’idea musicale all’esecuzione. Quasi inutile sottolineare come la musica sia caratterizzata da una forte energia creativa che trova in Ornette Coleman il suo nume tutelare e che mai conosce un attimo di stanca con i tre musicisti che riescono a ritagliarsi spazi appropriati alle loro grandi possibilità. Il clima generale dell’album è perfettamente disegnato sin dal primo brano, quando dopo una sorta di introduzione a tempo lento il sassofonista prende in mano le redini del gruppo e si lancia in una trascinante improvvisazione, seguito a ruota da Ganelin mentre Yudanov sorregge il tutto con precisione; a circa 2:40 Ganelin si sostituisce a Kruglov mantenendo un clima incandescente che non muta quando a circa tre quarti dell’esecuzione Kruglov passa al sax soprano. E sarà poi questa l’atmosfera che si respirerà durante tutto l’arco dell’album.

Vijay Iyer – “Uneasy” – ECM

Nato ad Albany da genitori indiani di etnia dravidica Tamil, Vijay a cinquant’anni viene giustamente considerato uno dei migliori pianisti jazz oggi in esercizio. Considerazione conquistata grazie ad un talento cristallino e ad una personalità molto forte che è riuscita a coniugare un profondo sapere extra-musicale (è laureato in matematica e fisica alla Yale, insegnante ad Harvard, esperto in psicologia cognitiva con specifico riferimento alla capacità psico-fisica di relazionarsi ai vari linguaggi musicali) con una straordinaria dedizione alla musica essendo giunto al ventiquattresimo disco da leader, senza considerare le moltissime composizioni eseguite anche da formazioni non jazzistiche. In questo “Uneasy” Vijay suona in trio con Linda May Han Oh, contrabbassista di origine malese ma cresciuta in Australia e poi negli States e Tyshawn Sorey alla batteria, personaggio ben apprezzato sia nella musica classica sia nel jazz. In repertorio dieci composizioni tutte scritte dal pianista eccezion fatta per “Night and Day” di Cole Porter e “Drummer’s Song” di Gery Allen. Il clima nel cui ambito si muove Iyer è quello bop e post-bop, quindi un jazz sanguigno che si rifà alle radici più autentiche della musica afro-americana e che proprio per questo necessita di una profonda conoscenza della materia. Conoscenza che sicuramente non manca nel bagaglio dell’artista, il cui pianismo si svolge solido per tutta la durata dell’album validamente supportato da batteria e contrabbasso precisi e propositivi nella loro costante azione. Non si esagera affermando che tutti i brani meritano un attento ascolto anche se lo standard “Night and Day” si fa particolarmente apprezzare per come l’artista riesce a personalizzare il brano senza alcunché perdere né dell’originaria riconoscibilità né tanto meno della sua splendida linea melodica. Particolarmente interessante anche “Entrustment, brano di profonda suggestione, intimista, a chiudere nel modo migliore un album assolutamente consigliato.

Sinikka Langeland – “Wolf Rune” – ECM

Il Kantele è lo strumento tipico della musica folkloristica finlandese e Sinikka Langeland è specialista di questo strumento nonché cantante folk di Finnskogen, la « foresta finlandese » norvegese. In questo sesto album targato ECM, Sinikka, diversamente da altri album, si appalesa in splendida solitudine utilizzando ben tre tipi di kantele, a cinque, a quindici e a trentanove corde, facendoci così apprezzare le innumerevoli sfaccettature dello strumento. Nella maggior parte dei brani Sinikka si esprime anche vocalmente, il tutto ad elaborare un’espressività che questa volta nulla ha da spartire con il linguaggio jazzistico, restando, comunque, sulla scorta di un’estetica che nella ECM ha trovato la sua più completa estrinsecazione. Insomma una musica tutta giocata su melodie ampie, ariose, spesso evocative, alle volte venate da quella sorta di dolce malinconia che attraversa le atmosfere nordiche. Una profondità d’ispirazione che caratterizza oramai le realizzazioni della Langeland, ispirazione che specie se, come chi scrive, conosci quei luoghi, non può non toccarti nel profondo. Dal punto di vista testuale, Sinikka ha tratto ispirazione da molte fonti: ecco quindi il drammaturgo Jon Fosse accanto al filosofo e mistico del tredicesimo secolo Meister Eckhart… e ancora il poeta norvegese Olav H. Hauge. In tale contesto suggerire un brano in particolare è impresa quanto mai ardua anche se la title track appare degna di particolare attenzione: brano molto delicato ed intimista racconta l’inverno, ovvero quello stato della natura in cui tutto pare fermarsi prima del risveglio primaverile. Per raccontarci tutto ciò l’artista alterna l’archetto al pizzichio delle dita sullo strumento e chiude il brano con la sua voce che si alza stentorea sull’accompagnamento strumentale.

Giovanni Maier, Massimo De Mattia – “Tilt – Improvised Concerto for Flute and Chamber Orchestra” – Artesuono

Ecco una preziosa realizzazione della Artesuono concepita per festeggiare la sua duecentesima produzione discografica: un cofanetto in edizione limitata di 300 copie, numerate a mano, contenente un CD audio, le tavole con le partiture pittoriche realizzate da Giovanni Maier, e le foto delle registrazioni scattate da Luca D’Agostino.
L’album è stato registrato dal vivo al teatro Revoltella di Trieste il 19 e 20 giugno 2019 durante il festival “Le Nuove Rotte del Jazz 2019”. Ora, al di là della bellissima confezione, la musica che viene proposta è di altissimo livello essendo stata concepita ed eseguita da due dei nostri migliori improvvisatori quali il flautista Massimo De Mattia e Giovanni Maier quest’ultimo nelle vesti anche di conduttore dell’organico comprendente musicisti e allievi del Conservatorio ‘G. Tartini’ di Trieste: Angelica Groppi, Rachele Castellano e Giovanni Dalle Aste (Viola), Simone Lanzi (Contrabbasso), Iva Bobanović (Chitarra classica), Piercarlo Favro (Chitarra), Anna Talbot (Arpa), Luigi Vitale (Vibrafono, Percussioni). Qui siamo nel campo della totale improvvisazione: la prassi esecutiva è quella della “conduction” per cui Maier fornisce agli esecutori una serie di comandi che fanno evolvere il flusso musicale in un senso piuttosto che in un altro. Certo questa tecnica produrrebbe frutti amari se non ci fossero artisti in grado di ben interpretarla: ecco Massimo De Mattia credo che sia in senso assoluto uno dei migliori del nostro Paese; improvvisatore dotato di una eccezionale musicalità è in grado di assorbire nella propria musica (e gliel’ho sentito fare personalmente) l’inaspettato cinguettio di un uccello così come il risuonare delle campane. Notevole anche il ruolo del vibrafonista Luigi Vitale che alterna un ruolo da solista a quello di rinforzo dell’orchestra. Partendo da queste premesse è facile capire come l’album, per chi sa ascoltare con orecchie e mente ben aperte, è da gustare nella sua interezza.

Michael Mantler – Coda, Orchestra Suite – ECM

Album davvero particolare questo di Michael Mantler, che si inserisce nel solco tracciato dal precedente album “Jazz Composer’s Orchestra Update” osannato dalla critica internazionale. Questa volta Mantler compie un’operazione ancora più audace; sceglie, nell’ambito della sua larga produzione, alcuni brani che considera particolarmente significativi e li riarrangia in forma di suite per farli eseguire da un’orchestra comprendente musicisti jazz e classici. Così i brani che ascoltiamo provengono dai seguenti album: “13 and ¾”, “Cerco un paese innocente”, “Alien”, “Folly Seeing All This”, “For Two” e “Hide And Seek”. Il risultato è semplicemente spettacolare grazie anche ai solisti di vaglia presenti in orchestra: Maximilian Kanzler acclamato come uno dei migliori giovani percussionisti e vibrafonisti del momento; il chitarrista Bjarne Roupé, membro fondamentale della Mantler’s Chamber Music and Songs Ensemble; il pianista austriaco David Helbock che a soli 37 anni è già un’icona della scena jazz europea… per non parlare dello stesso leader che si fa apprezzare, more solito, come eccellente trombettista. A tutto ciò si aggiunga la preziosa opera dell’Orchestra nel suo insieme (ben 26 elementi) e si avrà un quadro più preciso del perché si è definito spettacolare l’esecuzione di questa compagine. Tra i membri dell’orchestra da segnalare la presenza della croata violoncellista Asja Valcic che aveva già collaborato con Mantler nell’incisione dell’album “Jazz Composer’s Orchestra Update”. Coda è stato registrato al “Vienna’s Porgy & Bess Studio” nel settembre del 2019, e missato presso gli studi La Buissonne in Francia.

Mike Melillo – “In Free Association” – Notami

Il pianista americano Mike Melillo pubblica il suo nuovo album “In Free Association”, tratto da un radio-concerto effettuato nella primavera del 1974 in quartetto con Roy Cumming (contrabbasso), Glenn Davis (batteria) e Harry Leahey (chitarra). Essendo oggi impossibile ammirare ancora questo gruppo data la dipartita di Harry Leahey, l’ascolto di queste registrazioni, finora inedite, risulta ancora più interessante. La genesi del combo viene riassunta brevemente dallo stesso Melillo nelle note che accompagnano l’album. Apprendiamo, così, che inizialmente si trattava di un trio (senza Leahey) per cui Melillo componeva pezzi orchestrali e da camera sperimentali, Nel ’71, con l’arrivo di Leahey, il trio è diventato un quartetto che ha avuto un buon successo grazie alla qualità della musica proposta e che ritroviamo in questo album. In repertorio sei brani di cui tre scritti dal leader e gli altri tre vere e proprie perle del jazz come “Criss Cross” di Thelonious Monk, “Mimi” di Rodgers e Hart e “What’ll I Do” di Irving Berlin. Il tutto a costituire un insieme omogeneo e di grande livello. In effetti quello proposto dal gruppo è un Jazz senza se e senza ma, un jazz che si rifà agli stilemi del bop e dell’hard-bop con un Melillo che mette in evidenza le sue doti migliori. Un pianismo sorretto da una formidabile tecnica di base, che affronta con eguale bravura sia temi particolarmente complessi e sorretti da un ritmo veloce come “Criss Cross” e “See Hunt and Liddy” in cui si fa apprezzare anche la chitarra di Harry Leahey, sia brani più melodici come “A Little Piece” dello stesso Melillo e “What’ll I Do”. Impeccabile la sezione ritmica. Infine una notazione di carattere tecnico: nonostante si tratti di una ripresa da trasmissione radiofonica, la resa complessiva è più che accettabile.

Stephan Micus – “Winter’s End” – ECM

Ascoltare la musica del tedesco Stephan Micus (classe 1953) è come addentrarsi in una foresta incantata, impreziosita da episodi di rara bellezza. Episodi determinati dalle sorprese che in ogni sua avventura questo personaggio ci propone. In qualunque contesto si abbia la fortuna di incontrare l’arte di Micus, la mente vaga ben al di là del contingente, alla ricerca di un approdo che mai risulta facile trovare, e ciò indipendentemente dalla preparazione musicale di ciascuno. Siamo trasportati in un mondo “altro” in cui le certezze vacillano alla ricerca di un qualche appiglio sonoro che ci restituisca punti fermi, conoscenze a cui rifarsi. In effetti la musica di Micus non ammette di essere incasellata in un genere ben preciso per cui si mantiene ben lontana da qualsivoglia proposta commercialmente allettante. Più sopra si accennava alle sorprese che ogni volta il musicista ci riserva: questa volta la novità consiste nell’utilizzo di due strumenti presentati da Micus per la prima volta: il chikulo e il tongue drum. Il primo, come spiega lo stesso Micus nelle note di copertina, è uno xilofono basso del Mozambico utilizzato in gruppi che solitamente comprendono una dozzina di xilofoni, mentre il tongue drum è una scatola di legno originaria dell’Africa che può essere suonata con le mani o con le bacchette. Ora detta così non ci sarebbe alcunché di strano … salvo il fatto che Micus non è solo un compositore e un sorprendente polistrumentista ma un etnomusicologo costantemente in evoluzione e in viaggio, soprattutto in Asia e in Africa, con l’intento di scovare e studiare strumenti desueti, talvolta addirittura dimenticati. Una volta trovati, li modifica con nuove accordature prima di adoperarli, con risultati strabilianti. È impressionante il numero di strumenti che padroneggia, strumenti che si ascoltano nelle musiche originali di tutti i continenti. Ciò detto risulta facile immaginare la musica di quest’ultimo album in cui Micus, come al solito in assoluta solitudine, ci racconta a modo suo il fluire della vita attraverso il succedersi delle stagioni. Un album sicuramente impegnativo ma altrettanto certamente di sicuro interesse.

Mirabassi – Di Modugno – Balducci – “Tabacco e caffè” – Dodicilune

Così come nello sport non basta assemblare ottimi giocatori per fare una buona squadra, così nella musica non è detto che tre pur bravi musicisti riescano a produrre qualcosa di buono. Certo che se poi i tre musicisti rispondono ai nomi di Gabriele Mirabassi al clarinetto, Nando Di Modugno alla chitarra e Pierluigi Balducci alla chitarra basso le probabilità di ascoltare dell’ottima musica aumentano… e di tanto. Ed in effetti ottima musica è quella che si ascolta in questo “Tabacco e caffè” registrato sei anni dopo “Amori sospesi” che vedeva impegnato lo stesso trio. La linea ispirativa rimane sostanzialmente la stessa: una sorta di viaggio sulla rotta Mediterraneo, America del Sud attraverso un linguaggio originale in cui coesistono jazz, folk, tradizione classica. E non è certo un caso che in repertorio figurino nove brani di cui quattro composizioni originali rispettivamente di Mirabassi (“Espinha de truta”), Di Modugno (“Salgado”) e Balducci (“Tobaco y cafè” e “La ballata dei giorni piovosi”) e cinque riletture di brani più o meno celebri di Toninho Horta (“Party in Olinda”), Henry Mancini (“Two for the road”), Egberto Gismonti (“Frevo”), Guinga (“Ellingtoniana”) e della conclusiva “Choro bandido” firmata da Edu Lobo e Chico Buarque. Indipendentemente dal pezzo affrontato, l’interpretazione rimane calda, oseremmo dire intimista, con i tre che dialogano piacevolmente, in piena rilassatezza senza un solo momento in cui il trio sembra spinto verso lidi che non siano comuni ai tre. Interessanti le note di copertina di Gabriele Mirabassi in cui il clarinettista illustra l’importanza del tabacco e del caffè considerati vizi ma che in realtà “più di tutto sono modi di stare insieme. In Italia poi, veri fondamenti della cultura nazionale”.

Dino Plasmati, Antonio Tosques, Guitar Quartet – “On Air” – Caligola

Dino Plasmati chitarra, Antonio Tosques chitarra, Bruno Montrone organo e Marcello Nisi batteria sono i protagonisti di questa nuova produzione firmata Caligola. Particolarmente impegnativo il programma dal momento che comprende una serie di brani ‘storici’ con un solo pezzo originale scritto da Plasmati, “Boundless Energy”. Come recita il nome del gruppo, a indirizzare il tutto sono le due chitarre di Plasmati e Tosques suonate con tecnica tradizionale, senza cioè l’ausilio dell’elettronica, e questa “guida” si avverte ben certa per tutta la durata dell’album anche se non mancano, ovviamente, momenti in cui in primo piano sale l’Organo Hammond nelle sapienti mani di Bruno Montone; è il caso dell’original cui si faceva riferimento. Per il resto i due leader guidano il gruppo con mano sicura per nell’affrontare temi che sulla carta mal si prestano ad interpretazioni chitarristiche: è il caso ad esempio del brano d’apertura, “Airegin”, scritto da Sonny Rollins. Ma da questo punto di vista le sorprese non mancano: ecco quindi la convincente disinvoltura con cui eseguono “Your own Sweet Way” di Dave Brubeck o la delicatezza con cui cesellano “I’ve Accustomed to Her Face” di Loewe Lerner complice anche il bel lavoro di Montrone all’Hammond. O ancora la pertinenza di linguaggio con i ritmi sudamericani di “When Sunny Gets Blue” di Fisher-Segal, in cui si apprezza anche l’eccellente supporto di Nisi alla batteria. A chiudere una convincente interpretazione del colemaniano “Turnaround” eseguito dai due chitarristi senza sezione ritmica.

Emanuele Sartoris, Daniele Di Bonaventura – “Notturni” – Caligola

Ancora un duo e ancora bella musica. Protagonisti Emanuele Sartoris al pianoforte e Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Vista la struttura dell’organico, si poteva temere una certa staticità dell’album a discapito del possibile interesse dell’ascoltatore. Pericolo assolutamente evitato dai due artisti che invece sfoggiano una verve fantastica dando vita a otto composizioni originali scritte dai due singolarmente o in cooperazione, che tengono desta l’attenzione dalla prima all’ultima nota. Merito da un canto della bellezza dei temi tutti caratterizzati da un’accurata ricerca melodica, dall’altro dalla perizia strumentale dei due che pur non sfoggiando alcuna particolare ricercatezza tecnica, suonano comunque con grande partecipazione e intensità. Doti che non si affievoliscono – anzi – quando decidono di reinterpretare due notturni di Chopin vale a dire il Notturno op.9 n.1 e il Notturno op.9 n.2, che non a caso aprono e chiudono l’album. Insomma un disco più che interessante scaturito dall’incontro tra il pianoforte di Emanuele Sartoris, musicista che ben conosce anche la musica classica, e il bandoneon di Daniele di Bonaventura, uno dei maggiori interpreti internazionali dello strumento. Un disco che sembra quasi invitarci ad una sorta di viaggio interiore alla scoperta di ciò che è veramente importante. E ci piace chiudere questa breve presentazione citando le parole con cui il violoncellista di fama internazionale Mario Brunello conclude le sue preziose note di copertina: “Un viaggio slow, un cammino nel vissuto della musica, a cui si aggiungono le improvvisazioni e l’ispirazione di due formidabili e coraggiosi musicisti che hanno il talento sincero per avvicinarsi ed addentrarsi nella magica atmosfera dei Notturni”.

Thomas Strønen, Ayumi Tanaka, Marthe Lea – “Bayou” – ECM

Album d’esordio per questo trio composto dal batterista Thomas Strønen, dalla pianista Ayumi Tanaka e dalla clarinettista, vocalist, percussionista Marthe Lea. L’album si inserisce in quella corrente che a partire dagli anni ’70 ha portato il jazz norvegese ai massimi livelli delle scene jazzistiche internazionali. Vale a dire una musica che si rifà al patrimonio folkloristico delle popolazioni nordiche (in particolare norvegesi) declinata attraverso un linguaggio che incorpora elementi tratti dal jazz, dalla musica classica e ovviamente dal folk. Non a caso in programma ci sono dieci brani tutti scritti dai tre musicisti ma tutti basati sul folk norvegese. Quindi una musica delicata, intimista, che affronta spazi aperti quali sono quelli che si aprono alla nostra mente quando pensiamo ai paesaggi nordici. Ascoltare l’intero album è un’esperienza singolare tanto che ad un certo punto è come se il concetto spazio-temporale si perda per assorbici totalmente nell’atmosfera creata dai tre musicisti che denotano, improvvisando costantemente, un affiatamento non comune. D’altro canto la genesi del gruppo spiega la ragione di tale empatia: dapprima si trattava di un duo composto da pianista e batterista cui in un secondo tempo si è aggiunta Marthe Lea. I tre si sono, quindi, trovati assieme alla “Oslo’s Royal Academy of Music” dove per ben due anni hanno provato assieme ogni settimana alla ricerca di un quid che permettesse loro di suonare musica improvvisata. Evidentemente questo quid l’hanno trovato e così è nato questo “Bayou” frutto come afferma lo stesso Strønen di quelle esperienze: “Noi suonavamo sempre liberamente – afferma – mescolando elementi di musica classica contemporanea, folk, jazz, a seconda di come ciascuno di noi era ispirato al momento. Alle volte la musica era molto calma, delicata e minimalista: suonando assieme si sono generate alcune speciali esperienze”: Quelle stesse esperienze che si avvertono ascoltando l’album.

Trøen, Arbesen Quartet – “Tread Lightly” – Losen

La sassofonista norvegese Elisabeth Lid Trøen (eccellente anche al flauto) si presenta alla testa di un quartetto con Dag Arnesen al piano, Ole Marius Sandberg al basso e Sigurd Steinkopf alla batteria. Il repertorio è costituito da dieci brani di cui otto scritti dalla leader e due dal pianista. Due le linee direttrici dell’album: da un canto la ricerca della linea melodica, dall’altro la capacità di improvvisare sulla stessa. Per rendersi conto, ad esempio, della capacità dei quattro di tener fede a quanto sopra detto basta ascoltare “Just Thinking”: il brano si apre su tempo lento con una linea perfettamente riconoscibile ma dopo l’esposizione del tema con la Trøen al flauto ecco un assolo di pianoforte che si avventura nelle pieghe del brano per scoprirne e lumeggiarne ogni più nascosto anfratto mentre sul finale si riascolta il flauto della leader. “Sarah’s Bounce” si apre a tempo di marcia sospinta dalla batteria di Steinkopf il quale, nello scorrere del brano, dimostra di poter avere anche un approccio melodico allo strumento. In ogni caso il pallino resta nelle mani di sassofonista e pianista che dimostrano di essere complementari nel loro linguaggio dato che le sortite solistiche dell’una vengono riprese ed rilanciate a tutto tondo dall’altro. Altro brano particolarmente interessante “Partysvensken” che si distacca piuttosto nettamente dalle atmosfere degli altri brani data la sua vicinanza, in alcuni momenti, agli stilemi del free jazz. L’album si chiude con “Denne” il pezzo che maggiormente richiama le atmosfere nordiche grazie soprattutto ad un meditativo assolo del pianista; di rilievo anche l’assolo del bassista Ole Marius Sandberg. Ma a proposito di atmosfere nordiche, l’ascoltatore più attento non potrà non rilevare qua e là, spiccate influenze della musica popolare norvegese che tanta importanza ha avuto sulla musica di quel Paese grazie ad artisti quali Jan Garbarek e Terje Rypdal.

Blues Connection – “Italian Way to Feel Blues” – Notami

E’ con vero piacere che vi segnalo questo “Italian Way to Feel Blues” non solo per la validità del progetto ma anche perché è presente un musicista a cui sono legato da particolari legami affettivi, un organista che ho conosciuto quando ancora abitavo in Sicilia (quindi primissimi anni ’70) e che ancora a mio avviso non ha ottenuto i riconoscimenti che merita. Sto parlando di Pippo Guarnera nell’occasione non solo all’organo Hammond ma anche al pianoforte. Oltre a lui e ovviamente al leader Vince Vallicelli alle percussioni, troviamo Nahuel Schiumarini alla chitarra elettrica, Andrea Valeri alla chitarra acustica, Roberto Luti al dobro e Felice Del Gaudio al basso. Come si può facilmente intuire da quanto sin qui detto, la musica è trascinante con tutti gli artisti in grado di ritagliarsi importanti spazi di improvvisazione. Ecco quindi Pippo Guarnera primeggiare all’organo in “Art” di Vallicelli, per lasciare successivamente spazio alle chitarre di Schiumarini e Valeri nonché al dobro di Roberto Luti, il tutto sorretto da una metronomica sezione ritmica con batteria e basso che non sbagliano un colpo. Insomma musica che fa battere il classico piedino sia che si affrontino temi originali (ben sette sui nove proposti dall’album) sia che si rileggano pagine importanti come “After Hours” di Avery Parrish standard jazz tra i più eseguiti che venne registrato per la prima volta dal suo stesso autore con la Erskine Hawkins Orchestra, il 10 giugno 1940 o “Windy e Warm” di John D. Loudermilk considerato a ben ragione un classico del fingerstyle, ripreso da artisti di assoluto livello quali Chet Atkins, Doc Watson e Tommy Emmanuel.

Esce l’album dedicato a Frida Kahlo dell’Euro Latin Winner Israel Varela

Il 10° disco di un artista incredibile che dal cuore del Messico mette in musica le lettere di Frida Kahlo al marito Diego Rivera, insieme ad un cast stellare di caratura mondiale tra cui Shai Maestro, Rita Marcotulli, Ben Wendel, Nguyen Le, Michel Benita, Julian Heredia, Humberto Flores, Luis Villalobos, Rudyck Vidal, Serena Brancale.
Musica ai massimi livelli tecnici, espressivi ed emozionali.
Una vera esperienza per l’ascoltatore.

Esce mercoledì 14 luglio il nuovo album del grande compositore, batterista, vocalist e producer messicano Israel Varela, vincitore dell’Euro Latin Award. Artista incredibile che unisce più anime musicali, è tra i più importanti esponenti internazionali di flamenco jazz. Grazie alla sua originalità e al suo stile ha stretto collaborazioni e suonato con grandi della musica mondiale come Pat Metheny, Charlie Haden, Mike Stern, Pino Daniele, Joaquin Cortez, Andrea Bocelli, Diego Amador.

“Frida en Silencio”, pubblicato dall’etichetta Forward Music Italy, è il suo 10° lavoro discografico, che Varela ha dedicato alla rivoluzionaria pittrice messicana Frida Kahlo: la sua Arte, attraverso le sue parole nelle lettere scritte all’amato marito Diego Rivera, rivive nel disco attraverso 12 brani e un cast davvero stellare con 20 musicisti di caratura mondiale.

Batteria, percussioni, pianoforte, sax, contrabbasso, archi ed oggetti simbolici usati percussivamente – come la macchina da scrivere – uniti al suono della danza “percussiva” della eccezionale Karen Rubio Lugo innovatrice e sperimentatrice del flamenco moderno – e una all-star band per un album che spinge la Musica ai suoi massimi livelli in termini tecnici, espressivi, emozionali.

Recitate da Karen Rubio Lugo e intonate dalla splendida voce di Israel Varela, le parole di Frida sono il leit motiv del disco, che è stato concepito proprio in Messico, durante la visita alla celebre Casa Azul della pittrice. La vita della grande artista è dunque raccontata dalla musicalità e dalla personalità fuori dal comune del virtuoso batterista.

Le comuni radici messicane (Varela è originario di Tijuana, Lugo di Guadalajara), espresse anche nel loro esplosivo progetto in duo “Made In Mexico”, danno a questo disco una profondità in piú: amore, passione, nostalgia e presagi fanno parte dell’arte di Frida Kahlo come di quella di Israel Varela, che per questo disco ha voluto con sé grandi artisti internazionali, insieme a meravigliosi talenti del panorama jazz italiano. Due stelle del pianismo mondiale, Shai Maestro e Rita Marcotulli, legati a Varela da tante collaborazioni live e discografiche (Marcotulli con Varela ha stretto un sodalizio in duo con il disco “Yin and Yang” realizzato con la Cam Jazz), l’incredibile sassofonista statunitense Ben Wendel, il celebre chitarrista francese/vienamita Nguyên Lê, al grande contrabbassista francese Michel Benita, il bassista spagnolo Julian Heredia, i tre artisti messicani Humberto Flores, Luis Villalobos, Rudyck Vidal, la cantante Serena Brancale che per questo disco firma il brano “Silencio”, il pianista Claudio Filippini, i contrabbassisti Jacopo Ferrazza e Giuseppe Romagnoli, la vocalist Paola Repele e il giovanissimo Josei Varela.

Un ensemble di immenso livello artistico che sarà protagonista di un lungo tour, a partire da luglio – con le prime date italiane – fino al 2022 con la tournée internazionale tra Stati Uniti, Asia e Europa.

La vita di Frida Kahlo, nata nel 1907 a Coyoacán in Messico è stata caratterizzata da passioni, sventura. Ribelle, insofferente delle costrizioni e nemica del nazismo, fu obbligata dalla sua colonna vertebrale bifida e da un incidente d’autobus, a subire innumerevoli operazioni chirurgiche. Ogni volta costretta per mesi a letto, dipingeva semiseduta, concentrandosi sul tema dell’autoritratto, sempre più crudele e primitivo, nonostante la bellezza del suo viso e delle trecce, costantemente attorniate da fiori. Oltre al grande amore Diego Rivera, Frida ebbe relazioni con l’artista André Beton e con Lev Trotsky. Morì a causa delle sue condizioni fisiche nel 1954, a soli 47 anni, mentre preparava una mostra a Città del Messico.

Registrato nei bellissimi Forward Studio di Grottaferrata con ulteriori incisioni realizzate a New York, Los Angeles, Parigi, Granada, Monterrey, Minnesota, Mexico D.F., il disco “Frida en silencio” si distingue per il suo lirismo e sonorità ariose quanto passionali, per lo stile personale che rispecchia il pensiero artistico di Israel Varela, per le tematiche profonde e universali. Una esperienza per chi lo ascolta, a partire dalle radici della cultura messicana, passando per il jazz contemporaneo e il flamenco.

Il 25 giugno è uscito il primo singolo “Espejo de la Noche”, con un videoclip realizzato dal vivo con la danza di Karen Lugo e un quartetto d’archi, mentre il brano “Colores de Tayen” è protagonista del  video musicale girato dal regista Alberto Nacci, con Israel Varela e Karen Lugo, che ha vinto in molti Festival internazionali (New York, California, India, Osaka) il Primo Premio come miglior video musicale.

Israel Varela, che ha visto le sue musiche arrangiate ed eseguite dalla OSEM-Orchestra Sinfonica dello Stato del Messico, traccia con questo decimo album una summa delle grandi esperienze di tutta la sua carriera, e apre le porte ad ulteriore nuova sperimentazione. Da decenni impegnato in tour mondiali che hanno toccato oltre 30 Paesi, sui palchi dei più grandi teatri e festival jazz, Israel Varela ha creato un suo stile strumentale e compositivo che coniuga in maniera assolutamente perfetta jazz, latin e flamenco. La sua voce, ha il potere di incantare e rendere ancora più mistico e profondo il senso della sua musica, arricchisce la sua ricerca di poesia, suono, ritmo ed emozione. La sua unicità si è unita sul palco, durante i tour mondiali che hanno toccato i più grandi teatri e Festival del mondo, con quella di tanti grandi artisti come Pat Metheny, Charlie Haden, Mike Stern, YO-YO-MA, George Benson, Joaquin Cortes, Andrea Bocelli, Alex Acuna, Victor Bailey, Abe Laboriel, Pino Daniele, Diego Amador, Rita Marcotulli, Karen Lugo, Jorge Pardo, Markus Stockhausen, Kamal Musallam, Richard Bona, Chano Dominguez, Michel Benita, Andy Sheppard, Maria Pia de Vito, Javier Colina.

La tracklist: 1.Veo Horizontes  2. Espejo de la noche  3.Autorretrato  4.Flores  5.Ausecia de ti  6.Colores de Tayen  7.Huye  8.Silencio  9.Lo que el agua  10.Elvenadito  11.Azul  12.Las dos Fridas

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Management: www.newageproductions.it
Ufficio Stampa: Fiorenza Gherardi De Candei – tel. 328.1743236  info@fiorenzagherardi.com

Joe Barbieri: quando la musica diventa poesia

Alle volte capita, anzi capita più spesso di quanto si possa immaginare, che conosciuto personalmente un artista ne rimani profondamente deluso. Ciò perché la personalità e la statura umana non sempre coincidono con la statura artistica.
Di qui il mio compiacimento nel constatare come l’idea che mi ero fatta di Joe Barbieri corrisponde appieno alla statura umana e intellettuale del Barbieri uomo.
L’altro giorno ho avuto il piacere di partecipare ad una affollata conferenza stampa, naturalmente online, per la presentazione del nuovo album del cantautore napoletano – “Tratto da una storia vera” (Microcosmo Dischi/Warner Music Italy), – disponibile dal 16 aprile in Europa e dal 22 aprile in Giappone sia in digitale sia in formato fisico.
Barbieri si è sottoposto ad un vero e proprio tiro incrociato che lo ha visto rispondere sempre in maniera molto intelligente, pertinente e, quel che mai guasta, con grande gentilezza ed educazione, mai mostrando un solo attimo di fastidio. Così all’immagine più che positiva dell’artista, si è aggiunta l’immagine, anch’essa più che positiva, dell’uomo mai saccente, che risponde compiutamente alle domande, cercando di trovare i concetti e le parole giuste, che non si atteggia a grande artista…insomma una persona con cui si può dialogare piacevolmente.

In particolare, parlando dell’album, Barbieri ha tra l’altro ribadito come lo stesso definisca meglio di mille parole chi è Joe Barbieri dal momento che tutti i brani prendono vita dal suo vissuto più profondo, aggiungendo che il disco ha bisogno di essere pensato e osservato nella sua interezza. Quanto poi alla valenza delle varie tracce, Barbieri ha sottolineato come l’ultimo pezzo, quello solo strumentale, ha per lui un valore particolare rappresentando una sorta di ponte tra ciò che sta facendo e ciò che vorrebbe fare in un futuro non lontano, cioè centellinare le parole, sceglierle con ancor più cura e, perché no, farne anche a meno per una musica solo strumentale.
Rispondendo ad una mia domanda se, sulla scorta di quanto accade nel free-jazz, il musicista deve preoccuparsi solo di esprimere sé stesso attraverso la propria arte o se invece è sempre indispensabile il confronto con l’ascoltatore, Barbieri ha risposto che nella prima fase, quella di creazione, l’artista è solo con sé stesso e la musica ha bisogno di non essere corrotta dal confronto, anche se poi, in un secondo momento, a fatica compiuta, il confronto  diventa vitale perché la musica è come una pianta che ha bisogno di germogliare, di crescere…”Io poi, ha proseguito Barbieri, nel corso del tempo ho avuto il privilegio di vedere svilupparsi intorno alle cose che modestamente faccio, una piccola comunità di persone che si sentono legate, in qualche modo, alla mia musica per cui, inevitabilmente, quando faccio un disco nuovo penso a loro, quindi ci penso due, tre , quattro volte prima di presentare un nuovo disco, una nuova canzone”.
E non c’è dubbio alcuno che questa piccola comunità cui Barbieri fa riferimento, avrà accolto con entusiasmo questo “Tratto da una storia vera”.
L’album è infatti di indubbia valenza grazie ad una serie di elementi. Innanzitutto la bellezza della linea melodica che caratterizza oramai da tempo le produzioni di Barbieri coniugata con una scelta di testi coerenti, mai banali. In secondo luogo la preziosità degli arrangiamenti tutti assai ben curati. In terzo luogo le straordinarie capacità interpretative del vocalist il cui stile oramai trascende i confini della musica pop, per situarsi in una sorta di sfera atemporale in cui è possibile trovare influssi provenienti da più fonti, dalla tradizione napoletana, alla musica brasiliana, dalla world music, al jazz, dalla bossa nova al cantautorato. A tutto ciò occorre aggiungere la sapienza con cui Barbieri ha saputo circondarsi di musicisti strepitosi: ecco quindi la tromba di Fabrizio Bosso in “La Giusta Distanza” e “Tu, Io E Domani”, mentre il trombone di Mauro Ottolini si fa apprezzare in “Promemoria”. E ancora, Jaques Morelenbaum con il suo violoncello in “Niente Di Grave”, Luca Bulgarelli col suo contrabbasso, le voci di Carmen Consoli, di Tosca (con la quale Barbieri ha già altre volte collaborato) e di Sergio Cammariere, l’organo Hammond di Alberto Marsico in “Vedi Napoli E Poi Canta”. Il tutto senza inficiare di una sola virgola l’unitarietà dell’album assicurata da un Barbieri sempre presente ma non per questo debordante. Insomma un artista sobrio, maturo, elegante, perfettamente consapevole dei propri mezzi vocali messi sempre al servizio dell’espressività di una musica a tratti sinceramente toccante. Come la riproposizione di “Lazzari Felici”, un omaggio esplicito al grande Pino Daniele, proposto con originalità ma, allo stesso tempo, rispettando la valenza originaria del brano.

Gerlando Gatto

Dal Salento le mille sfumature “Blue” del pianista Marco Rollo: è il nuovo singolo dall’album “Pinwheel”

È uscito il nuovo singolo “Blue” dal disco Pinwheel del compositore e pianista leccese Marco Rollo, accompagnato dal videoclip (https://youtu.be/SOgHcFss3Ew) con le immagini girate dal documentarista Roberto Leone: mille sfumature di “blue”, dai paesaggi del Salento a lande incontaminate e immobili distese d’acqua.

Preceduto da un altro singolo, “Light Blue”, che ha conquistato le playlist di Deezer (100 Top Italy) e Apple Music (Classical Motivation https://apple.co/3rXlsHGe e Classical Edge https://apple.co/3eO3LXv), Il nuovo album segna una nuova tappa nella carriera multiforme di Marco Rollo, alla ricerca costante di nuovi suoni e sperimentazioni. Tra le sue collaborazioni importanti, quelle con il sassofonista Raffaele Casarano e Paolo Fresu nel disco Argento, e con Roy Paci per Emergency.
Dopo molteplici esperienze tra balkan e funk, Marco Rollo si avvicina al mondo della musica elettronica con un sound neo-classical tra jazz e modernità dove il punto di forza sono le sonorità del pianoforte acustico con elettronica, synth analogici e pedaliere. È qui che trova la sua connotazione, la sua comfort zone.

La sua ricerca ha tracciato percorsi nel jazz con incursioni nel dub step, per poi passare alle sonorità progressive, fino ad arrivare ai suoni elettronici del nord Europa uniti alle melodie morbide di pianisti come Esbjorn Svensson e Tord Gustavsen. Morcuf, Erik Truffaz, Cinematic Orchestra e Zero 7 sono alcuni degli artisti che hanno ispirato il suo modo di comporre, proponendo un nuovo stile cui perno assoluto è il pianoforte.

Uscito con l’etichetta Rainbow Score Recordings (distr. digit. Believe) e disponibile in streaming e order al link https://backl.ink/145528164, Pinwheel è stato scritto di getto, una “one take” dal cuore direttamente ai tasti di uno Steinway & Sons gran coda del 1918. Il suo sound minimalista esprime le emozioni più intime e sincere: la solitudine di questo tempo accanto alla voglia sfrenata di condividere e abbracciare l’ascoltatore attraverso atmosfere dolci e accattivanti, melodie intense e struggenti appoggiate su tappeti sonori caldi e avvolgenti.
In ognuno dei brani di Pinwheel ha preso forma un colore, come nel singolo Light Blue “il suono del colore del cielo di una nuova primavera che non vediamo l’ora arrivi”.
Ad ogni colore corrisponde un’emozione diversa: il disco è una girandola, Pinwheel, la stessa girandola di stati d’animo che l’umanità affronta in questo momento di difficoltà globale, dove voglia di riscatto e speranza si alternano a spaesamento e timore.
La girandola, è un simbolo ricorrente nella vita e nella musica di Marco Rollo: “Quando ero alle prime armi con lo studio del pianoforte, da bambino, sulla finestra di fronte a me ce ne era una, variopinta, sembrava ballasse sulle mie note. Ogni colore rappresentava una diversa emozione.”
Nel disco sono 10 i brani e i “colori” – tra cui una ninna nanna, presente in ogni album di Marco Rollo: 1.Violet 2.Yellow 3.Light Blue 4.Blue 5.Orange 6.Red 7.Lulluby 8.Green 9.White 10.Black.

Classe 1977, Marco Rollo è originario di Lecce. Fluid (2017 – Three Hands Records) è il suo disco d’esordio in solo (più di 250 mila play). Il secondo EP “Drops” (Irma Records) ha registrato oltre 160mila ascolti, mentre il suo brano Enchantment è stato inserito nella compilation “Côte D’Azur” – Exclusive Party by PAPA DJ di Radio Monte Carlo. Tra le altre collaborazioni: Neffa nel disco “Balkan Trip” (Irma Records) dei Vudz, il progetto “Triace” (terzo nel 2010 al Premio Andrea Parodi) prodotto da Elena Ledda e da Michele Palmas, e “Opa Cupa” di Cesare Dell’Anna.

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