I nostri CD. JAZZ, L’ARTE DEL TRIO

Una “ terza via “, a livello di gruppi jazz, potrebbe essere definita quella del trio, con un proprio fascino, comunque essa sia composto. L’assortimento degli strumenti è importante ma lo è ancor più quello degli strumentisti visto che i jazzisti, per definizione, sono artisti che, per creatività, abitudine all’improvvisazione, adattabilità ai contesti più diversi, sono a forte tasso di imprevedibilità in base al tipo d’insieme cui danno luogo. In tal modo avviene che le soluzioni adottate nel “rimescolamento” offrano, a partire dai piccoli gruppi come appunto il trio, un’ampia gamma di possibilità. Amedeo Furfaro ne ha selezionate alcune fra le novità discografiche della più recente tornata produttiva.

M. Barbiero, E. Manera, E. Sartoris, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Music Studio.

Poesia che sa di blues, quella di Cesare Pavese, e non solo per ritmo e musicalità ma per un pensiero imbevuto di amara malinconia. D’altra parte si tratta di un autore, spesso collocato fra Leopardi e Lee Masters, che guarda all’America, al jazz, pur se il suo cuore pulsa per le Langhe, il Piemonte. Un’identità spiccata, non spaccata, la sua, e con due anime, una affacciata verso la visibilità, l’esterno, l’internazionale, l’altra, quella intimistica, volta al privato, al paese, alla città. Entità sospese, il mondo fuori ed il resto dentro, che a volte configgono, come la vita e la morte. L’album Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, a firma del percussionista Massimo Barbiero, della violinista Eloisa Manera e del pianista Emanuele Sartoris, ne ripercorre liberamente alcuni passaggi esistenziali tramite sei brani originali – “Campanula”, “Night you Slept”, “Sangue & Respiro”, “The cat will Know”, “A Connie da Cesare”, “Morning” – inframmezzati da cinque interludi e chiusi da una coda per piano solo. Vi si ritrovano, in musica, elementi tipici della scrittura poetica pavesiana come vibranti valori tonali, narrazione epica, pause ricorrenti, spontanea essenzialità pur nella elaborazione concettuale, ricamati espedienti retorici trasposti dal discorso poetico a quello musicale grazie alla sensibile traduzione resa dai tre musicisti.

Marco Castelli New Organ Trio, “Space Age”, Caligola Records

Ventesimo album da leader per il sassofonista Marco Castelli, il terzo per Caligola Records, uno dei quali, Porti di mare, avevamo già avuto modo di recensire. Lo si era definito uno strano viaggiatore, non un semplice visitor o un musicista da crociera bensì una sorta di etnologo che imbraccia un sax al posto del registratore. Stavolta, in Space Age, l’on the road si allarga dai luoghi reali a spazi anche astrali, portandosi appresso un bagaglio di filamenti ska reggae latin ricuciti addosso ad un abito jazzato. Anche nel nuovo disco c’è una puntata su Verdi, l’aria “Morrò ma prima in maschera” da “Il ballo in maschera”. Ed ancora qui, specie nel brano iniziale omonimo del cd, paiono verificarsi momentanei trasfert sonori del suo sax tenore con quello di Gato Barbieri.
Fin qui le analogie. Vediamo le differenze. Una, sostanziale, è l’organico con l’hammond di Matteo Alfonso e la/le batteria/percussioni di Marco Vattovani. Il che dà un nuovo riassetto ad un combo che ad alta temperatura ritmica, pur in assenza di quel contrabbasso cui la mano sinistra del giovane organista supplisce disinvoltamente.
L’altra è il repertorio che contempla sia brani originali – “Space Age”, “Good Weather”, “Zanzibar”, “Bandando”, “Farvuoto” – che reinterpretazioni che vanno dal Carosone di “Tu vuò fa l’americano” all’Ibrahim di “African Marketplace” con una puntata nell’ellingtoniana “In A Sentimental Mood”. Stavolta l’errare di Castelli, essendo l’album registrato durante lo stop indotto dalla pandemia, è più verosimile che vero. Un po’ come un libro di Salgari scritto per curiosità immaginativa, per quella pulsione che anche la musica riesce a soddisfare, senza check in da effettuare né green pass da esibire. Al jazz, repubblica della fantasia e della libertà creativa, riesce anche meglio.

Roberto Macry Correale, “A Simple Day”, Workin Label

Nel jazz, il guitar trio con organo e batteria è formula non nuova, vedansi al riguardo i casi di Wes Montgomery con Mel Rhyne e Paul Parker, Scofield con Goldings e DeJohnette, Abercrombie con Wall e Nussbaum, Mc Laughlin con De Francesco e Chambers. L’uso del Rhodes in luogo del più maneggiato Hammond, con tutti i diversi registri timbrici che ciò comporta, è il primo elemento che caratterizza l’album, targato Workin Label, A Simple Day, secondo titolo della tracklist. Lo firma il giovane chitarrista Roberto Macry Correale in veste anche di compositore, un musicista che ha esposto in sei brani una teoria della non complessità del tutto personale con i giusti assist del tastierista Antonio Freno e la batteria di Marco Morabito a dettarne le dinamiche.
Curioso il titolo del primo, “Resilience”, termine che dalla neongua e dal PNRR è approdato anche al jazz, una musica che resiste all’invasione di massificati ultracorpi commerciali di tanta, dominante, musica precotta.
Artisti come Macry Correale perseguono dunque un’idea originale evidenziata dai chiaroscuri di “Over The Moon”, dai giochi di atmosfere di “Contrasts of light”, dai toni blusati di “Blue Mood”, nel tratteggiare in note i momenti di una semplice giornata, non a foggy day che, di questi tempi, capita sempre più spesso di dover vivere.

Entanglement Trio, “A Brief History of Time”, nusica.org

Raccontare il tempo si può. Anche con la musica. Lo ha sperimentato la ricerca dell’Entanglement Trio nell’album A Brief History of Time edito da nusica.org.
Qui si stagliano come un drone i vocalizi e i fonemi di Beatrice Arrigoni sugli affastellamenti elettronici del compositore, il contrabbassista Matteo Lorito e sullo sfavillio ritmico innescato dal batterista Andrea Ruggeri.
C’è, alla base, una ispirazione avviluppata fra scienza e arte: le teorie di Stephen Hawking, storico del Tempo dal Big Bang ai Buchi Neri, intrecciate ai versi di T. S. Eliot, nello specifico dalla prima sezione dei Four Quartet. Il postulato del terzetto, di tipo cosmogonico, è che il linguaggio musicale abbia origine da una materia inizialmente informe che via via si co-relaziona in una rete di suoni organizzati e organizzabili in discorso musicale.
La successione di sette “rappresentazioni” – Time Present/Echoes, Hidden Music, Formal Patterns, Sunlight, The Surface, A Cloud, Eternally Present – gradualizza il passaggio del suono dal caos ad un ordine aperto all’improvvisazione, con sullo sfondo effetti acustici e rumorii concreti, col racchiuderne la sequenza in un cd come “l’universo in un guscio di noce”. Sono lembi di scrittura jazz ovvero angoli intenzionali rispetto all’accidentale, in un’Odissea che ha del kubrickiano nel cui tempo poter agire e non più essere passivamente agiti.

Roberto Occhipinti, “The Next Step”, Modica Music

Anche il buon jazz, come il buon whisky, può essere canadian. E’ il caso di The Next Step, album prodotto a Toronto da Modica Music a cura del bassista Roberto Occhipinti con il pianista Andrea Farrugia e il batterista Larnell Lewis. Un trio “olistico”, per usare un termine trendy, perché in grado di conformare un “tutto” sonoro coeso e coerente, cristallino ed energico al punto giusto.
Essendo, su un totale di nove brani, ben sei firmati da Occhipinti – “The Next Step” (ballad a cui l’archetto conferisce un sapiente tocco classico) , “Emancipation Day” (col piano “emancipato” in evidenza sulla base latin e pregevole impro del contrabbasso), “Il Muro” (dai continui e coerenti scambi accordali), “Three Man Crew” (dalle modalità evolute e cangianti), “Steveland” (evocativo e visionario), “A Tynerish Swing” (con la batteria, fantasiosa e puntuale come un cronometro, dal brillante senso swing) – ne consegue che dall’ascolto risultino e risaltino anzitutto le doti di compositore di un leader dalla fantasia fertile e dalla nitida capacità reinventiva. Che si illumina in particolare allorquando si tratta di metter mano a standard di icone sacre come Jaco Pastorius, dal cui songbook è ripresa “Opus Pocus” e di un musician’s musician come Jimmy Rowles, con la riproposizione di “The Peacocks”, ambedue affidati alla affilata interazione del gruppo.
A metà disco è collocata, di Alessandro Scarlatti, “O cessate di piagarmi”, con la sovrapposizione vocale di Ilaria Crociante, un tuffo nel passato storico/musicale e nel contempo una vetrina “eurocolta” per il progetto di cui sopra. Ciò nel presupposto che anche il buon jazz, come il buon whisky, possa essere blended e cioè orientarsi verso più fronti(ere) sonore per miscelarsi con più fonti ispirative – Occhipinti ha collaborazioni che vanno da Cage a Wonder – raccordate per distillare un gusto sempre diverso.

Lello Petrarca Trio, “Napoli Jazzology”, Dodicilune.

Napoli è mille colori, compresi quelli del jazz. Ed è così che ‘A città e Pulecenella’, col gioco di dita sul piano di Lello Petrarca, allarga e di parecchio i confini sonori del Golfo. Succede in Napoli Jazzology (Dodicilune), rivisitazione di un repertorio di brani intramontabili a partire da “‘0 Sole Mio”, ripresa, certo, persino da Presley, che qui diventa una musica jazz a dir poco verace. Al pianista si aggiungono Vincenzo Faraldo al contrabbasso e Aldo Fucile alla batteria per una sintesi in cui è anzitutto la ritmica a rifare l’impasto, con timbri latin, a ”Funiculì Funiculà” mentre l’arrangiamento trasforma “Reginella” in una sorta di evansiano “Waltz for Debbie” partenopeo, ballad soffusa come la successiva “Era De Maggio”.
Modale (con citazione iniziale da “Footprints”) è “Passione” al pari di una “Tammurriata Nera” con bagliori swing nel ritornello. Dai classici ai moderni: voila “Resta Cu ‘mme” di Modugno adornare questa cartolina di Napoli con il mitico Pino … Daniele le cui note di “Gente Distratta” la decorano melodicamente come chiusura dolcezza del disco.

V. Saetta, G. Francesca, E. Bolognini, “TRIAPOLOGY, Iridescent”, Tùk Music.

Fra il Rock e il Pop c’è di mezzo il … Jazz. Che non è lì a far da terzo incomodo bensì a dare un nuovo profilo di una data canzone nel presupposto che i tre generi musicali non siano compartimenti stagno. In effetti les liasons (non) dangereuses sono tante specie per quei jazzisti che hanno metabolizzato il linguaggio pop e rock. A dire la loro ci hanno provato, con il disco Iridescent, Vincenzo Saetta (sax alto, effetti), Giovanni Francesca (chitarra, effetti) Ernesto Bolognini (batteria), TRIAPOLOGY edito da Tùk Music. Una Apologia del trio (senza basso) in quanto formazione basica per sperimentare in che modo brani di Prince (“Sign 0’ The Time”) e Justin Vernon (“Holocene”), Neil Young (“Old Man”) e Brian Blade (“Stoner Hill”) siano interpretabili in chiave jazz senza per questo avvertire capogiri e vertigini di sorta. Tale scostamento di genere prevede ovviamente di assegnare il canto – si ascolti ad esempio la particolare versione di “I Still Haven’t What I’m Looking For” degli U2 – ad uno strumento portante che può essere il sax o la chitarra, ammantati da leggeri strattoni percussivi. Idem dicasi per “Dream Brother” di Buckley dove la melodia, anche qui devocalizzata, si apre a “campi immensi” (Gialal Al-Din Rumi) con sviluppi in più direzioni. Infine “Paranoid Android”, “Eleanor Rigby” e “Fat Bottomed Girls”, rispettivamente di Radio Head, Beatles e Queen, chiudono l’album la cui lussuosa cover è vergata dalla spagnola Cinta Vidal.

World Expansion, “World Expansion”, Prima o Poi,

Colombo, Vespucci, Magellano, un trio di esploratori sospinti dalla volontà di ricercare nuove terre e continenti sconosciuti!
Ma un mondo in espansione può essere anche, a mezzo millennio di distanza, quello intravedibile da moderni pionieri provetti nel destreggiarsi fra le note ed a veleggiare fra gli stili per scrutare nuovi orizzonti sonanti.
World Espansion, gruppo ideato dal batterista Francesco Lomangino, col sassofonista Gaetano Partipilo e il tastierista Fabio Giachino, è anche l’album omonimo prodotto da Prima o Poi, label di Petra Magoni, ospite nel brano “Two O’ Clock and Everything is Ok” di cui ha scritto il testo. Per la cronaca c’è anche da registrare in “Free” la presenza del chitarrista Marco Schnabl.
Intendiamoci. Chi si approcciasse al primo brano non si troverà davanti ad un “ignoto uno”. Perché già appunto “Seventeen”, ampia anticamera dell’idea che si tende a realizzare, rientra nel contemporary, con un’attenzione milli/metrica alla scansione ritmica (è solo un caso che World Expansion sia anche un disco di Steve Coleman?) con di suo elettronica e sinth a far spesso da sfondo melo/armonico. Il valore dei singoli jazzisti è noto e si conferma fino all’ultima delle otto tracce, la più che gradevole “P Song”. Nel lavoro si sposano più valenze che nel contempo vengono allacciate in un sounding granulare e strutturato. Si configura alla fine un mondo musicale “espanso” tramite un fraseggio articolato che fa da preciso vettore linguistico. Come se tre navigatori fossero imbarcati su una unica caravella alla volta di territori lontani trascinati da onde disposte a pentagramma.

I NOSTRI CD. Un disco (jazz) per dopo l’estate…

Segnadisco per sette, come le note, album di altrettante label (elencate qui in ordine alfabetico). Li segnaliamo in un panorama jazzistico più che qualificato, estraneo al can can estivo perché relativo a musica che non si esaurirà col deporre ombrelloni e sdraio e alle prime cadute delle foglie dagli alberi. Ecco allora una possibile Top Seven, una Jazz Parade che sottoponiamo al vaglio del lettore.

Trio Kàla – “Indaco Hanami” – Abeat Records

Fra le novità 2021 della Abeat spicca “Indaco Hanami” del Trio Kàla, album inciso presso Artesuono destinato a lasciare il segno nel corrente anno discografico. Per caratura dei musicisti, la pianista Rita Marcotulli, il contrabbassista Ares Tavolazzi e il batterista Alfredo Golino, anzitutto. Perchè dagli studi di registrazione di Stefano Amerio è ancora una volta uscito un prodotto di fattura impeccabile, in cui mixaggio e masterizzazione sono fasi finali determinanti del processo produttivo che porta al cd. Ma soprattutto la musica, in parte originale – come i due brani introduttivi della Marcotulli (“Indaco”, “Bobo’s Code”) oltre a “ Dialogues” scritto a sei mani dal trio ed a “Cose da dire” – che si congiunge ad un quinterno di cover imbellettate con sopraffino gusto jazzistico. Oltre a “Quando” e “ Napule è” di Pino Daniele, alla beatlesiana “Lady Madonna” vi figura, di Randy Newman, “I Think It’s Going To Rain” anche questa arrangiata con sapienza in confezione per standard trio. Anche nella conclusiva “Romeo and Juliet” di Nino Rota il sensuale groove della tastiera ci riporta in mente il dubbio che il sesso del pianoforte sia femmina tanto l’immedesimazione della Marcotulli col suo suono appare organica, di una strana solarità attenuata dall’indaco.
Il trio, questo trio nella fattispecie, ne rafforza la “visibilità” per chi, nell’ascolto, immaginasse di trovarsi al di qua della “quarta parete”, col pensiero astratto da quelle note e da quelle linee improv- visative.

Luigi Bonafede – “Lokas” – Caligola Records.

Certo jazz fa pensare all’alta moda, per eleganza, stile, alchimia nel creare senza demolire la lezione dei grandi maestri. E quando il brand è griffato Luigi Bonafede, musicista ben piazzato nel ranking dei pianisti jazz, allora c’è da aspettarsi l’uscita di album come “Lokas”, su etichetta Caligola Records, ospite la vocalist di origine caraibica Dawn Mitchell, un cd dedicato alla cantante Anna Lokas, a sei anni dalla sua scomparsa. Il jazzista piemontese, che si esibisce in una formazione più che testata, una sorta di “think tank” musicale di esperti strumentisti con Gaspare Pasini al sax alto e soprano, Marco Vaggi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria, dà vita ad un mood di ampio respiro e di freschezza rigenerante, gravitante in più J Zones, fra swing e be/hard bop, attraverso vari format, dalla ballad (“She”, “Wake Up”) allo spiritual (“Silently”), dall’elettronico (“Curse of Pan”) al latin (“Running of my Way”), dal modaleggiante (“Lokas”, “Flash”) al climax vocalese (“Looking Around”) in genere con prati e praterie per gli steps improvvisativi lasciati scoperti dal pianoforte. Come avviene in “Balance”, in apertura, allorchè sotto la voce bluesy della Mitchell, compare, inconfondibile, il Logo Bonafede.

Javier Girotto, Vince Abbracciante – “Santuario” – Dodicilune

Capita che il jazz sia un pensiero triste che si suona… quando incontra il tango. Capita che il tango riscopra inedite possibilità di sviluppo lirico e melodico… quando due strumenti come un sax soprano o baritono o un quena flute si sovrappongono alle armonie rese da una fisarmonica ed inseguono la partitura di un choro.  Capita tutto ciò quando ad imbracciarli quegli strumenti sono due jazzisti latini completi e creativi come Javier Girotto e Vince Abbracciante, ambedue in diverso modo legati al DNA piazzolliano. “Santuario” è l’album Dodicilune che racchiude al meglio, artisticamente parlando, questa esperienza che ancora una volta unisce Puglia e Argentina su un filo sonoro che corre e scorre da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico in direzione sud, con Tavoliere e Ande rispettivi capolinea. Tra le cose più belle del disco il pedale introduttivo di “Santuario degli animali”, il barocco girovagant e “tono su tono” di” “Fugorona”, l’atmosfera pastorale di “Ninar”, la metrica “spezzata” da contrattempi in “Trama della Natura”, il pathos intimo di “En Mi”, la melodia andante di “2 de Abril”, l’articolato fraseggio tanguero in “Fuga a Sud”, il “Pango” più tango del compact, la avviluppante tessitura accordale di “Aramboty”. E, a chiusura sipario, “Soprano” e “L’ultima chance”, degno suggello del lavoro del duo prodotto dalla label leccese.

Andrea Rea Trio – “El Viajero” – Filibusta

L’album “El Viajero” (Filibusta) “registra” un Andrea Rea Trio in gran spolvero. Intanto il pianista campano vi esplicita una notevole verve sia interpretativa che esecutiva nonché attrezzi compositivi di prim’ordine nei tre brani a sua firma, “Dillo”, “Tales of Freedom” e “El Viajero”. Lo caratterizzano una robusta forza negli “ostinati” mentre il tocco sui tasti ne rivela uno spanish heart che spiega anche l’adozione di un termine ispanico come titolo del disco.L’anima latina sta anche alla base della scelta di un brano di Hamilton De Hollanda in tracklist esattamente “Capricho de Espanha” nonché “Milonga Gris” di C. Aguirre ed è condivisa dai musicisti del combo, il contrabbassista Daniele Sorrentino e il batterista Lorenzo Tucci (nel cd Losen “Impasse” del 2018 il drummer era Marcello De Leonardo). Ma il “viaggiatore” Rea nel proprio personale errare si sposta anche su territori differenti, ed eccolo alle prese con “The Man Who Sold The World” di David Bowie e “Till There Was You” di M. Wilson districarsi con il solito estro, la consueta abilità e l’immancabile inventiva fra paesaggi sonori pop e jazz ad origliare i suoni del mondo da riprodurre sul pianoforte. Non sarà un caso se il brano forse più intenso fra gli otto totali ci pare “En la Orilla del Mundo” di M. Rochas, reso celebre da Charlie Haden e Gonzalo Rubalcaba, che è poi quello in cui il gruppo si trasforma in 4et arricchito dall’inclusione qualificata di Giacomo Tantillo alla tromba.

Livio Minafra, Eugenia Cherkazova – “Round Trip Apulia Balkans” – Incipit/Egea.

Si era appena intravisto Livio Minafra in veste di autore di manuali didattici (120 finestre sull’improvvisazione. Teoria e pratica dell’Improvvisazione libera e idiomatica, Timoteo, 2020) che lo si ritrova di lì a poco nei consueti panni di musicista, nell’album “Round Trip Apulia Balkans”, in duo con la fisarmonicista greco-ucraina Eugenia Cherkazova, su marchio Incipit, distribuito da Egea. Le otto registrazioni sono state effettuate in tre festival pugliesi, Wanda Landowska 2018, Euterpe Festival 2018 e Talos 2019, kermesse appena tenutasi a metà luglio di quest’anno nella cornice di Ruvo di Puglia. L’ affacciata sui Balcani – confessa il pianista nelle liner notes – risale ai 13 anni, al primo ascolto del “tempo 7/8. Era l’Along Came Jazz Festival di Tivoli e l’Italian Instabile Orchestra eseguiva uno speciale arrangiamento di “Ergen Deda” del bulgaro Petar Liondev”. Quel suono fu una folgorazione! Da allora l’Adriatico, propaggine del Mediterraneo, è stato visto e vissuto dal Nostro come una semplice piattaforma d’acqua, non una barriera, che connetteva due sponde marine e due catene montuose, appunto i Balcani con l’Antiappennino apulo-garganico. La musica, l’improvvisazione, anche in questo compact, risente dello spostamento del bari/centro dal cuore afroeuroamericano in direzione indoeuropea, con tutto quanto ciò comporta. Anzitutto nel repertorio che comprende tarantelle di Rossini e Kircher oltre ad una ruvese, una “Danza Tartara” ideata dal pianista come del resto altre composizioni (“Lacrime Stelle”, “Zefiro Torna”, “Boomerang”) unitamente a un “Mix Tartar” a firma congiunta con N. Marziale e C. De Leo. E poi nell’interpretazione mutuante e mutante, senza cesure né diaframmi al fluire dei suoni anche nei momenti di ralenty melodico e ritmico. La fisa è a dir poco esemplare nell’assecondare e nel sostituirsi ad un pianoforte a volte metamorfizzato in cymbalon rumeno. Il progetto, inserito nel circuito concertistico di Puglia Sounds, si inquadra in una visione non centrica ma circolare della storia della musica.

EMAB Connection – “Unsaid” – Nusica.org

Unsaid degli Emab Connection, il titolo non inganni, è album di fitto dialogo strumentale, di jazz il cui “dire” è composto di segni, interplay comunicante, interfacciarsi frontale e laterale, feeling inten- so nel duettare e dettare cadenze, modulare timbri, levigare suoni. Il 4et, nato sull’asse adriatica Emilia-Abruzzo dei componenti e cioè Manuel Caliumi all’alto sax, Giulio Gentile al piano e Fender Rhodes, David Paulis al contrabbasso e Luca Di Battista alla batteria, conia una musica ricca di espressioni, frasi, costrutti liberi ed originali anche quando, come in “So- liloquy”, il “non detto” potrebbe sembrare lasciar spazio alla meditazione personale sulla collettiva, cioè a quella che scava e scova verità nascoste nella propria identità creativa. Ed il gruppo anche nelle altre sei tracce originali del compact si dimostra coeso nel perseguire l’obiettivo di una musica che ricuce eloquentemente impressioni ed atmosfere nell’omaggiare tutto ciò che è tacito.

Costanza Alegiani – “Folkways” – Parco della Musica

Le strade del folk sono in/finite?
E chi, nello specifico, si ritrova ancora a calcare le orme di maestri come Woody Guthrie o Bob Dylan? E poi, stante l’attualità di poeti ancora oggi pop(ular) come Lee Masters o la Dickinson, che spazio (r)esiste per chi si cimenti in lyrics a loro ispirate? Una risposta, non caduta nel vento, la suggerisce la vocalist Costanza Alegiani con l’album “Folkways”, prodotto da Parco della Musica Records, label della Fondazione Musica per Roma, distribuito da Egea Music. La cantante ci offre una misticanza sonora di traditional, composizioni originali e cover dei mitici folksinger soprariportati, denotando doti di originalità e sensibilità vocale già evidenziate nei due precedenti dischi a propria firma, “Fair is Foul and Foul is Fair” del 2014 e “Grace in Town” del 2018 con il batterista Fabrizio Sferra. Stavolta il suo progetto punta a comprovare come uno dei possibili percorsi per il folk born in U.S.A., forse il più energizzante, sia proprio il jazz. Ed in tale ottica si muovono gli altri musicisti che partecipano al lavoro, il sassofonista Marcello Allulli all’opera anche con apparati elettronici come il contrabbassista Riccardo Gola. Il tutto viene integrato dagli apporti degli ospiti, il chitarrista Francesco Diodati in tre tracce e il menzionato Sferra in quattro delle nove tracce complessive.
Ne vien fuori un florilegio multicolore di note in cui la voce affiora e riaffiora lasciando spesso fiato al fiato, il sax, aprendo sovente varchi al “battito” alla ritmica, per poi riprendere scena e microfono da cui far trapelare echi della Mitchell e della Baez nel lasciar sfilare una ideale galleria di personaggi letterari reali e immaginari.
Per la cronaca l’album, presentato in giugno alla Casa del Jazz di Roma, era stato anticipato dalla pubblicazione dei due singoli “It Ain’t My Babe” e “When I Was A Young Girl”.

Il Jazz, una musica che ha i numeri

Stefano Bollani – “El Chakracanta” –
Se allo Steinway e Sons siede Stefano Bollani ed al suo cospetto sta un’orchestra “tipica” come la Sin Fin diretta da Exequeil Mantega, non si sa se aspettarsi un’atmosfera più jazz o più classica avendo ben nota la versatilità del musicista a destreggiarsi in più ambiti e “ambienti”. Se si guarda al “Concerto Azzurro” che impegna e impregna una buona mezzora dell’album Alobar “El Chakracanta, Live in Buenos Aires”, commissionatogli da Kristjan Järvi e dalla MDR – Leipzig Radio Symphony di Lipsia, se ne constata la struttura classica di base in tempi allegro, adagio ed allegro molto. Una suddivisione che peraltro lascia ampio spazio alla libertà ed all’improvvisazione dell’interprete-compositore Bollani nello schema orchestrale disegnato da Paolo Silvestri. La risposta data dall’ascolto ha due facce che diventano una poiché sin dalle prime note se ne evidenzia l’impasto ibrido che coniuga latin tinge e mood nordamericano, emisferi coesi da una tastiera cosparsa di riflessi timbrici di quel nuovo mondo che incuriosí Debussy, Poulenc, Ravel…misti a spirito contemporaneo. L’azzurro è il colore del quinto chakra, della gola, ed è quello, come osserva lo stesso pianista in un web/video del Centro Culturale Kirchner di Baires “che sovraintende alla espressione”. Per farlo “star bene” è utile che si dica quello che si ha da dire e si esprima ciò che si vuole esprimere in un dato momento della vita. Ed il jazzista, in questa particolare fase della propria carriera artistica, sta denudando sempre più un’anima spanish che va ad infonderne sia la vis compositiva che la pratica esecutiva. Lavoro di ampio respiro melodico è quindi “Concerto Verde” dove il pigmento bollaniano, intinto nel quarto Chakra del Cuore e dell’Amore, si cimenta in un saliscendi di sincopi e contrattempi di tanghi e milonghe collocate in quel suolo in cui il pianista ha esportato, oltre ad un certo estro mozartiano, una valigia zeppa di suoni ed armonie. Il disco è completato da due brani arrangiati ed orchestrati da Diego Schissi, il piazzolliano “Libertango”, doveroso omaggio all’ideatore del Nuevo Tango e “Don Agustín Bardi”, di Horacio Salgán, che la performance con l’orchestra trasforma in rito collettivo di tributo ad un altro grande musicista argentino.

Francesco Chiapperini – “On The Bare Rocks and Glaciers” – Caligola Records.
Ogni montagna è, a modo suo, incantata. Sarà la maestosità, sarà il senso di infinito che ispira il contemplarla, sarà la magia che la ricopre… la montagna ha dei suoni; ed ha degli echi, oltre quelli naturali, che le provengono dal passato, dalla storia che ne ha attraversato rocce, valichi, passi, sentieri, versanti, ghiacciai… Il clarinettista Francesco Chiapperini ha inteso dedicare l’album “On The Bare Rocks and Glaciers” (Caligola Records) al mondo alpino riprendendo il titolo del lavoro dalla “Preghiera degli Alpini” di Giovanni Veneri recitata in chiusura dall’ospite Maurizio Arena. Con un sestetto di taglio cameristico, formato da un “coro” di fiati (Vito Emanuele Galante, tromba; Mario Mariotti, cornet; Roger Roota, bassoon, Andrea Ferrari, sax baritono) e un violino (Virginia Sutera) ha inteso ricreare una particolare coralità che consentisse la rappresentazione musicale di un ambiente che è stato testimone di vicende umane, anche quelle più tragiche come la guerra. La sensazione che si avverte nelle diciotto tracce, tutte in tema, alcune tradizionali altre di autori come Steve Swallow (“The Green Mountains”), Pergolesi (“Stabat Mater”), Grieg (“I Dovregubbens Hall”) oltre che di Chiapperini, Bregani, Malatesta, De Marzi, è di una pervadente wilderness tutta spirituale. L’ incontaminata “altezza” è “scalata” da note musicali che quasi paiono arrampicarsi in cordata per trasmetterci l’ebbrezza dell’altitudine. Un’impressione che viene interrotta a volte da valanghe di suoni per poi rientrare nell’atmosfera composta di un sempre millenario, fra i deserti d’alta quota di una montagna bella impossibile.

Luca DalPozzo Quintet – “Rust” – Nusica.org
Luca DalPozzo, contrabbassista leader del 5et che annovera Frank Martino alla chitarra, Manuel Caliumi all’alto sax, Giulio Stermieri al piano e Marco Frattini alla batteria, ha concepito l’album “Rust” dopo essere rimasto folgorato, durante una visita in una mostra bolognese nel 2018, dalle opere di Hiroshige e di Hokusai. La pittura di quest’ultimo, in particolare, ispirata a “immagini del mondo fluttuante” nel Giappone di inizio ottocento, consta di vedute dall’alto, contorni dettagliati, ed è antesignana di prospettiva. Dal canto suo, l’incisore Hiroshige, suo contemporaneo, fu un grande “paesaggista” il cui tratto figurativo venne apprezzato dagli stessi impressionisti in Europa. Si intende allora l’input di questo disco il cui titolo lo si può riferire al noto videogioco od all’omologo linguaggio di programmazione, certamente Rust non starà per ruggine a volerne seguire la traduzione letterale. All’origine vi sono due figure simbolo del movimento “Ukiyo-E” a cui è dedicato l’incipit fra le sette tracce del cd. E già lì la musica del 5et appare di ondulata viralità ed eclissante circolarità nell’iniettarsi lo spirito di quell’antica arte nipponica ed applicarla al contemporary. Che diventa fusion in “Alamar” per rientrare, dopo la soffusa “Day a Dream”, al guscio di suggestioni dettate da Ligeti in “Gyorgy Cluster Dance”: grappoli di acciaccature a sovraintendere le iterazioni in chiave di basso e di violino verso un effetto d’insieme scioccante e talora stralunante. Ancora. “Swirl” è caratterizzata da un tempo increspato, indistinto, fuzzy, con progressioni armoniche libere un pò alla Ornette Coleman. “Upward Drop” è un brano pregno di riverberazioni e riflessi siamo cioè ancora nel grembo di una musica in qualche modo “di rappresentazione”. Carattere che il conclusivo “Blues for Larry (going ballistic)” non fa che confermare per capacità traslativa di idee in note musicali.

Francesco Maccianti – “Attese” – Abeat
La solitudine dei numeri primi ha nell’uno, nell’unità, una dimensione tutta sua. Può essere isolamento misantropico, autoesilio individualistico, autoconfinamento ma può significare ritiro spirituale, (ri)pensamento solipsistico, monologo interiore. Che tale non è più nel momento in cui ci si esteriorizza per il tramite, ad esempio, della musica.
Cosa che fa il pianista-compositore Francesco Maccianti con l’album per piano solo “Attese. Live at Lyceum Club Internazionale di Firenze”, pubblicato da Abeat. Questi, dopo aver immesso una sorta di microspia che ne registra la “confessione” live, si espone al pubblico apprezzamento di una platea potenzialmente più vasta, gli ascoltatori del cd, rispetto agli spettatori della sala concerti toscana che nel disco applaude vivamente. La qual cosa, specie in un momento di fermo dei concerti, a dir poco scuote in senso positivo. Già perché cosí anche il suono “da remoto” che offre il cd, specie se ripetuto, anche se monco dell’impressione d’ambleu che è quella che in genere può folgorare, o lasciar di sasso, ma non è questo il caso, consente di capire. Carpire, captare le nicchie più riposte di una musica pianistica fatta di ridondanze (‘Cubic Dance’) ed echi (‘Falling Up’), di modi razionali (‘Attese’) e fragori improvvisi (‘Hombres’), immersioni catartiche (‘Solstizio’) e ridondanze (‘Palomar’), di profondità armoniche (‘Requiem’) e di ricami/richiami a musica altrui (‘Exactly Like You’ di Jimmy Mc Hugh) che, per fluidità di discorso melodico e improvvisativo, pare essere sua. A riprova di come, anche per i numeri primi, nella musica e nel jazz non si può in genere parlare di solitudine.

Painting Jazz Duo – “Classica” – Dodicilune
Partiamo da Dvoràk, dalla sua Sinfonia n. 9 Dal Nuovo Mondo, dalla scoperta che il compositore boemo fece negli U.S.A. della musica popolare dei neri e dei nativi d’America.È un summit con la musica europea cosiddetta “colta” a far da epilogo all’album “Classica” del Painting Jazz Duo e cioè Emanuele Passerini ai sax e Galag Massimiliano Belloni al pianoforte, con il tema principale collocato alla fine a far da suggello simbolico. La formazione è abituata a promuovere incontri fra civiltà musicali ed a coniugare pagine autoriali classiche con altre jazzistiche e qui punta a rilevare e rivelare i legami fra musiche del nuovo mondo e del vecchio continente, quelle il cui sviluppo, secondo una miope visione storica, era sembrato potesse procedere autonomamente, a prescindere da quanto stava avvenendo di là dall’Oceano. Ecco allora spiegato l’inglobare nel cd di “Le Solitaire” di Erik Satie, in un approccio che sposa impressionismo postromantico e jazz ma vi trova spazio anche l’esuberanza realista del Mahler nel ” Titano ” (Sinfonia n. 1). C’è ancora un trittico di autori russi, Borodin, Shostakovich e Tchaikovsky, alcune pagine dei quali vengono di fatto messe a confronto con “Mareblu”, “Nordic Sun”, “Valentina”, “City Life” scritte da Passerini. Come dire la storia della musica e la sua attualità vanno a braccetto, tenute insieme da una medesima idea ispirativa legata all’istantaneità del momento vissuta dalla coppia di musicisti. Il due, non a caso, è da associarsi all’istintualità, ingrediente utile anche per rivisitare degli “standards classici”.

Stefano Tamborrino – “Seacup” – Tūk Musik
“Seacup” titolo dell’album di Stefano Tamborrino della Tūk, sta per “tazza di acqua marina”, una formula dell’acqua in cui le note non sono sciami “che si radunano e si disperdono a seconda dell’occasione” (Bauman). La “liquidità” della musica che vi viene raccolta è semmai parte di un mare interiore “informe e multiforme” (Jankélévitch) e nel contempo modulato e modulare, suscettibile di continue variazioni di armonie, timbri, colori, toni. E ritmi. Già perché il musicista toscano, prima di essere compositore, è anzitutto un batterista di valore aperto all’elettronica ed alla (sua) vocalità (ma in “Purple Whales” compare la voce di Naomi Berrill). Un percussionismo, il suo, che il sestetto con Ilaria Lanzoni al violino, Katia Moling alla viola, Dan Kinzelman al sax, Andrea Beninati al cello e Gabriele Evangelista al contrabbasso, sembrerebbe esser lasciato “sotto traccia”, per la presenza costante della sezione d’archi. Ma il beat c’è, più che evidente nella scansione metrica di brani jazz/minimali come “Jakarta” per diventare cadenza ondulata in “Almost Jesus”. È un moto perpetuo, mai ristagno, anche nella stasi melodica di “Coda”, nell’intimità estatica di “Noli Me Tangere”, nella spirale barocca degli archi in “Escher” … e se cresce in intensità in “Olifante” per la dialettica fra strumenti più “jazz” e altri più “classici”, in “Bird Vertigo” ė la spazialità ad estendersi come in mare aperto. Da rimarcare, in “Arcadia”, gli echi che vanno dai Kronos Quartet fino al serialismo e, in “Gamelan”, la linea melodica a dir poco struggente. Insomma una sorta di flânerie sonora fra volumi di gocce, racchiuse, metaforicamente, in questo strano contenitore di H2O, con estratti di oceano o di un gran lago salato, magari apparsi in sogno e al risveglio tradotti in musica.

Ugoless – “ Soul Church” – Parco della Musica.
Soul Church Music, album targato Parco della Musica, è di Ugoless, gruppo che interpreta proprie composizioni. Di base è un trio con Daniele Tittarelli al sax, Fabio Sasso alla batteria e Andrea Guastadisegni ai sintetizzatori che qui è arricchito dell’apporto del tastierista Domenico Sanna. Dunque una “band dei quattro” (che numerologicamente sta per organizzazione, stabilità) che lavora sull’intertestualità fra musica e citazioni, tant’è che lo stesso titolo riprende da Cannonball Adderley la spiegazione, ripresa da “Bach Chorale”, sulla forma di un suo brano che ricorda i gospel eseguiti in chiesa. È una fattispecie di “jazz di relazione” con modelli che possono essere in “Curvone” la struttura di “Central Park West” di Coltrane ovvero in “Bon Suarè” e “Soirèe” temi del compianto Pino Daniele. Da segnalare il tramite vocalmetallico che va ad arricchire l’apparato strumentale il quale, sarà forse superfluo precisarlo, è di prim’ordine. Così, fra un omaggio a Bud Spencer in “Bambino” e un repechage di Freud in “Nada”, l’excursus allappa e allaccia drum machine e sintetizzatori a sax e tastiere. Un modo, questo, di non lasciare il suono nudo e crudo e di ornarlo – in “Kul” sono echi da Star Wars – con l’elettronica. Quando si è campioni in campionature, se c’è gusto melodico ed inventiva e il ritmo prevale sull’ algoritmo, allora l’elemento cogitans, non l’intelligenza artificiale, dispiega appieno il proprio costrutto musicale mettendo il braccio tech al servizio della ragione creativa.

I NOSTRI CD. Le forme del duo

Daniele Di Bonaventura, Michele Di Toro – “Vola Vola” – Caligola Records.
Nel jazz la coppia scoppia … di salute. È il caso di “Vola Vola”, l’album, edito da Caligola Records, in cui il bandoneon di Daniele Di Bonaventura sposa il pianoforte di Michele Di Toro nel mettere le ali a dieci brani esemplari dell’estetica musicale della partnership. Diceva Horacio Ferrer che “il bandoneon è una fatalità del tango”. Non solo tango, verrebbe da aggiungere ascoltando questo lavoro intitolato ad una delle canzoni abruzzesi più famose reinterpretata, fra le altre, su arrangiamento dello stesso bandoneonista. Perché un tale strumento dal suono struggente, se accostato ad una tastiera ispirata, anche quando fuoriesce dal ventre latino, amplia la gamma di possibilità espressive, per aprirsi ad una varietà sconfinata di opzioni.
Con Di Bonaventura e Di Toro la musica “trasvola”, scivola via in modo aeriforme, non imbocca false piste né infila uscite tortuose. E se può sembrare che il giusto grembo per quelle note sia il Piazzolla di “Jeanne y Paul” e i Gardel-Le Pera di “Soledad” e “Sus Ojos se cerraron”, la eccentricità del duo risalta quando è alle prese con “Blossom” di Keith Jarrett. Non c’è, intendiamoci, nessuna “slatinizzazione” del repertorio semmai si è all’approdo verso nuovi mondi sonori. Sono quelli per cui i due musicisti si fanno attori di spirali armoniche, propulsori di sintesi calde fra dimensioni tecnica ed artistica, addensatori colto-popular in pezzi quali “Touch Her Soft Lips And Part” di William Turner Walton. I due solisti si destreggiano inoltre in partiture proprie – Di Bonaventura in “Sogno di primavera”, Di Toro in “Corale” e in “Ninna nanna” – e quando si cimentano con la poesia insita in un brano altrui tipo “One Day I’ll Fly Away” applicano al meglio i propri elegiaci modi al lirismo vibrante di questa intensa composizione di Nils Landgren e Joe Sampler.

Alice Ricciardi, Pietro Lussu –“Catch A Falling Star” – Gibigiana Records.
Come zumare insomma inquadrare dei soggetti musicali tramite la macchina da presa uditiva? Facciamo l’esempio del canto femminile: qual è il contesto strumentale più idoneo a focalizzarne le doti? La soluzione proposta con il disco “Catch A Falling Star” della vocalist Alice Ricciardi col pianista Pietro Lussu è più che idonea: la voce, semplicemente cruda, affidata alla “cura” della tastiera, elettrica in questo caso. Beninteso la materia prima, quella canora, ed il contorno armonico della tastiera devono essere di prim’ordine perché il risultato sia adeguato alle aspettative.
Ed è quanto avviene con la Ricciardi, artista di stile e raffinatezza non comuni, che propone nell’album tredici brani sia di propria scrittura (fra cui spiccano “Clues Blues” a firma anche del pianista e”Y-Am”con i testi di Eva Macali) che standards di Berlin, Vance (vedansi il titolo del cd), Rodgers-Hammerstein, Gershwin, Van Heusen, Porter, Ellington ed una originale immersione nel pop d’annata con “Good Vibrations” dei Beach Boys. La forza del lavoro sta ulteriormente nella capacità di Lussu di inseguire in punta di piedi le di lei giravolte sui registri più acuti, nell’orchestrarla di ornamenti ed arabeschi, nell’abilità di rarefarne le atmosfere swing, nella discrezione nel defilarsi al momento opportuno e lasciare che la cantante segua il proprio filo d’Arianna, jazzisticamente proteso, con l’orientamento deciso che le è proprio.

Josh Deutsch, Nico Soffiato – “Redshift” – Nusica.org
Sembra alquanto inusuale la struttura binomica del piccolo gruppo formato dal trombettista John Deutsch – Grammy Award 2019 per il miglior album latin jazz – con Nico Soffiato alla chitarra baritona. Il duo, artisticamente nato a Boston, nel terzo disco, Redshift appena edito da Nusica.org, si arricchisce di loop, sinth e sovratracce, e si “rinforza” in diversi brani grazie alla presenza “extra” di due batteristi come Allison Miller alternato a Dan Weiss. Dunque un duo plus se si considera il featuring degli ospiti citati che vanno a ben incidere sulla tenuta ritmico-percussiva delle esecuzioni senza per questo minimizzare la validità del costrutto sonoro impastato dalla coppia leader. Il sodalizio ultradecennale di Josh e Nico si basa su una “bilancia” musicale, in bilico fra acustica ed elettronica, su due creste, estetica jazz/rock/pop ed anima classica (“44.2” è un riarrangiamento da Robert Schumann mentre “John My Beloved” è la nota cover di Sufjan Stevens laddove con “Paul” siamo nell’indie rock degli statunitensi Big Thief). Le composizioni di Soffiato si distinguono per scelta sussequenziale di accordi funzionali allo sviluppo melodico ed ad impro contenute (“Endnote”, “Remember”) con qualche deviazione funky (“Tooch Taach”). Dal canto suo il Deutsch autore si caratterizza per l’ondeggiare gravitazionale della tromba che va ad illuminare di rossastro gli antri sonori di “Time Lapse” o le luci basse di “Arrival” mentre in “Triad Tune” e nella stessa “Consolation Prize”, scritta a quattro mani col chitarrista, dà sfogo ad un eloquio modulato e intenso, istintivo e profondo, per rimanere a descrizioni “dual”. Il tutto viene shakerato avendo sullo sfondo la skyline di New York, metropoli in cui i nostri eroi si sono da tempo trasferiti assorbendone in pieno lo spirito innovativo. Da precisare che Redshift, oltre ad essere il nome della storica band inglese fondata da Mark Shreeve, sta ad indicare la maggiore lunghezza d’onda di un qualcosa che si allontana. Da qui il richiamo subliminale al gioco più/meno di frequenze del duo in questione.

I NOSTRI CD

Emanuele Coluccia – “Birthplace” – Workin Label
Emanuele Coluccia, pianista e multistrumentista, presenta “Birthplace”, cd edito da Workin Label in collaborazione con Puglia Sound.  Un disco in cui si relaziona ai validi Luca Alemanno al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria, che ha come idea di partenza anzi di ritorno il rientro a casa dopo lo smarrimento del viaggio, l’approdo al luogo di nascita, inteso come proprio presente emotivo, vita interiore, come culla di sentimenti ed espressione creativa. Sono otto suoi brani, a parte “Azzurro” di Paolo Conte, che all’origine si configurano come semplici appunti, idee melodiche affiorate nei momenti più imprevedibili della giornata, non dunque come ci si potrebbe aspettare sollecitate davanti ad un pianoforte, un sax, una chitarra, ma fuori, in movimento, fissate in genere sul cellulare.  Schizzi che poi al momento opportuno vengono organizzati sul piano armonico e inquadrati seguendo una sintassi jazzistica all’interno di una cornice che è appunto quella stilistica del mondo musicale d’appartenenza, formatasi anche tramite la pluriennale esperienza artistica in Europa ed a New York.
L’album si presenta come note di un diario di note, genius loci di storia umana e artistica, in una narrazione fatta di temi (in uno dei quali, “Eagle’s Wish”, c’ė l’apporto della vocalist Carolina Bubbico) costruiti con attenzione al suono, al suo scorrere, resi con un pianismo immediato, dai riflessi coloristici mutevoli, fluido, come la placenta di un grembo materno, sia detto metaforicamente, per indicare quel luogo di provenienza e d’arrivo a cui l’album, tutto, protende.

Double Cut – “Mappe” – Parco della Musica Records
Il quartetto Double cut presenta “Mappe”, secondo album pubblicato da Parco della Musica Records. La formazione, abbastanza inusuale, annovera i due sassofoni di Tino Tracanna e Massimiliano Milesi, con una sezione ritmica composta Giulio Corini al contrabbasso e Filippo Sala alla batteria e affini. Ma perché mai Mappe? Proviamo ad immaginare un navigatore satellitare che non sia ben aggiornato e che porti, si, a destinazione ma attraverso un percorso frastagliato, più lungo, certamente più panoramico e variegato. È così che si passa da un brano alla Ornette Coleman (“Spiritual Legacy”) ad un omaggio a Jimmy Giuffre con la riproposizione della sua “The Train and The River” a mò di boogie-shuffle; dall’omaggio divertito a Tom Waits in “Love and Love Again” ai giochi infantili dell’onirico “Biglie e Castelli di Sabbia”, scritto dal batterista (le altre composizioni sono in alternanza di Milesi e Tracanna). Il sat nav ci porta su e giù per la carta geomusicale, fra esplosioni ritmiche (“Olii esausti”) e contrasti armonici (“Triads”), twist (“Charivari”) e improvvisazioni corali (“Settepersette”) fino a “Pow How”, l’indianino animato dei Caroselli di una volta che diventa titolo per un brano basato su una nota sola (no, la samba omonima non c’entra!) legata ad una sequenza ben ritmicizzata. Buon per Tracanna aver trovato un alter ego ideale in Milesi. C’era gente, nel jazz, come Roland Kirk che i due sax se li suonava da solo! I due musicisti, per quanto di personalità differente, lavorano, è il caso di dire, di concerto, impiegando energia e voglia di sperimentazione in congiunzione. Double Cut, Doppio taglio, allora, per I Due Tenori (ma anche soprano e strumentario vario) sta per questo approccio duplice al materiale da segnare durante il percorso: put on the map.

Marco Magnelli – “Dress Code” – Nusica.org
In diverso modo legata allo stato d’animo degli artisti è la proposta discografica del chitarrista trentaseienne Marco Magnelli, cosentino di nascita, bolognese d’adozione, che licenzia in Trio, per i tipi musicali di Nusica.org, l’album “Dress Code”. Titolo che dà l’idea di una musica che “veste” la nudità del vuoto, con una chitarra struccata che abbiglia il suono in modo circolare, lo avvolge di accessori funk e rock, lo avviluppa entro collane di note e si mostra, come in un fashion show, su una pedana dove una compiacente sezione ritmica ne sostiene il passo a volte felpato altre volte calcato con decisione. I modelli, in senso musicale, sono Brill Frisell e Esbjörn Svensson ma la trama del tessuto è di conio artigianale, preparata in team con Federico Gueci al contrabbasso e Simone Sferruzza alla batteria. Il “Dress Code” di Magnelli and partners è casual, nelle parti improvvisate; sofisticato, nei momenti più soft dell’esecuzione; a tratti di taglio semiformale. La scaletta si alterna fra “Ironic Smile” e “Piccoli Idilli” per trasformarsi infine in “Wild”, che è il brano in cui partecipa l’ospite Mariolino Stancati, musicista sperimentale conterraneo di Magnelli. Quasi come se il cerchio si facesse quadrato per occupare integralmente l’habitus entro cui i musicisti si son mossi fino a qualche momento prima.

Federica Michisanti – “Silent Rides“ – Filibusta Records
Stefano Bonnot di Condillac riconduceva le facoltà attive dell’anima alle sensazioni.
Le quali, secondo il filosofo, si trasformavano in azione attraverso fibre nervose e movimenti non essendo l’anima, senza il corpo, in grado di generare alcuno sviluppo. Questo è quanto ricordava, nel 1832, lo storico della filosofia Guglielmo Tennenmann nel suo manuale storico-filosofico. E questo è quanto è venuto in mente al cospetto dell’album “Silent Rides”, del Federica Michisanti Horn Trio, edito da Filibusta Records. In effetti la giovane contrabbassista romana potrebbe esser vista come una ideale continuatrice di Condillac per il rilievo che l’impulso delle sensazioni assume nella sua pratica musicale. Fatta di un jazz molto “a pelle” in cui lo strumento ė funzionale ad “animare” armonie attraverso contrappunti, fraseggi in sequenza, linee improvvisative… qualità che si vanno sempre più riscontrando nella consolidanda tradizione del contrabbassismo femminile. In questa direzione l’essere affiancata, nella suite in otto tracce, dal sax e clarinetto di Francesco Bigoni e dalla tromba di Francesco Lento, la affranca ulteriormente da quei compiti canonici che di norma vengono assegnati ai bassisti. Per girare o meglio viaggiare (Rides) verso territori espressivi già silenti, senza ostruzioni e paletti stilistici e, con tono discorsivo e tocco leggero, cesellare il proprio percorso ricucendone le trame creative unificandoci gli interessanti spunti dei due fiati, spesso intersecati, protagonisti per niente complementari del progetto.

Fazzini-Fedrigo XY Quartet @ Zingarò Jazz Club, Faenza

Le nuove strade compositive del Fazzini-Fedrigo XY Quartet in concerto allo Zingarò Jazz Club di Faenza.

Fazzini-Fedrigo XY Quartet
Nicola Fazzini. sax alto
Alessandro Fedrigo. basso acustico
Saverio Tasca. vibrafono
Luca Colussi. batteria

Mercoledì 26 ottobre 2016. ore 22

Zingarò Jazz Club
Faenza (RA). Via Campidori, 11.
web: www.twitter.com/zingarojazzclub ; www.ristorantezingaro.com

Mercoledì 26 ottobre 2016, il concerto settimanale dello Zingarò Jazz Club di Faenza avraà come protagonista il Fazzini-Fedrigo XY Quartet. Il quartetto è composta da Nicola Fazzini al sax alto, Alessandro Fedrigo al basso acustico, Saverio Tasca al vibrafono e Luca Colussi alla batteria. Il concerto avrà inizio alle 22 ed è ad ingresso libero.

Il Fazzini-Fedrigo XY Quartet attraversa diversi linguaggi musicali e artistici per aggiornarli alla contemporaneità: i brani originali dei due leader esplorano nuove strade compositive con un approccio curioso che si può definire “oltre-jazzistico”. Il progetto è nato nel 2011 tra Veneto e Friuli, dall’incontro di due identità artistiche complementari: il sassofonista Nicola Fazzini e il bassista Alessandro Fedrigo autori di una musica scritta, originale e innovativa, provvista di profonda coerenza e omogeneità. (altro…)