Parrhesiastes di John Zorn – Una landa franca di musiche in comunione

Una parola nuova al giorno è una di quelle tendenze che ci fa sentire più acculturati per qualche ora con delle spicce informazioni su termini spesso desueti, dimenticandoli perché mal s’incastrano alla nostra piccola isola sociale di quotidianità. Con un magheggio metalinguistico questo incipit diventa un’antipatica parresia sui tempi moderni e sul linguaggio. Ecco la parola del giorno: parresia, ossia un’attività verbale in cui il parlante esprime la verità in modo diretto, evitando qualsiasi tipo di tecnicismo retorico ma esponendosi al rischio nelle relazioni con se stesso e gli altri attraverso la critica. Questa definizione in linea coi nostri tempi ci viene regalata dalle lezioni del filosofo Michel Foucault, ma nasce dalla democrazia ateniese e in particolare nelle parole di Socrate che esaltava la parresia come una questione di vita o di morte nella lotta politica agli autoritarismi. Si sente la mancanza della parresia nella contemporaneità se pensiamo a quanto il linguaggio con cui cerchiamo di porre delle verità sia disunito e infettato dal confusionario rumore bianco della retorica dei social, dove il dialogo è una tarantella di parole persuasive e visioni distorte ed egocentriche della realtà.

Le arti fanno da specchio e antitesi a questi dilemmi sociali e nella ricerca di un crogiolo linguistico che ci accomuni è difficile non imbattersi nella figura di John Zorn.
Personaggio a cui assocerei molti poli, come polistrumentista, poliglotta, poliedrico assieme a neologismi sgangherati come policompositore, polifilosofo e poliletterato. Da quasi un decennio ha scelto di darsi anima e corpo unicamente alla composizione per svariate formazioni, assumendo il ruolo di prestigiatore che sfila dal cilindro annualmente dai tre ai quattro album pregni di quel senso di sinergia consonante tra emisferi sonori underground e l’avant-garde. La recente uscita di Parrhesiastes, per l’etichetta Tzadik fondata dallo stesso compositore nel 1995, testimonia come all’età di settant’anni la giocosità creativa di Zorn sembra fossilizzata sul rigiocare la stessa partita di Burraco, tuttavia non manca lo stupore che sa donare il rimescolamento delle carte in tavola e soprattutto la compagnia con cui si gioca è ciò che rende ogni mano una storia a sé stante. Affida questo disco alla formazione Chaos Magick, eseguendo una sorta di rituale alchemico per evocare una chimera stabile tra prog e jazz con alcuni innesti sperimentali. Un’avventura mistica con il quartetto che comincia nel 2021 con l’omonimo album Chaos Magick, proseguendo con The Ninth Circle (2021), in cui viene ripreso il viaggio agli inferi di Orfeo scritto da Offenbach, Multiplicities: A Repository Of Non-Existent Objects (2022) ispirato ai pensieri aforistici del filosofo Gilles Deleuze e infine 444 (2023), dedicato alla numerologia degli angeli. Un piano astrale che ci fa immergere in suggestioni sonore, esoteriche e filosofiche assemblate sapientemente da Zorn, che nell’ultimo album si fa più esasperato in questo apice di commistioni, mantenendo però la raffinata pragmaticità e franchezza di un parresiastes. La tracklist è un alambicco articolato in tre lunghe session che si distillano in una boccetta dall’acustica inebriante nel cui fluido vengono digerite e ridigerite le sonorità caratterizzanti dei generi amati da Zorn tra gli anni ’70 e ’80. Leggendo i titoli viene lo spauracchio che i riferimenti extramusicali ci richiedano una laurea triennale in filosofia o sociologia per essere captati. Proviamo però ad affidarci alla parresia di Zorn ed entriamo nella sua ottica di comunione linguistica senza arrovellarci alla ricerca di un ateneo a cui iscriversi.

Le coordinate celesti gettate da Zorn ci orientano nell’ascolto su un sentiero boschivo, incappando in strani solchi sul terreno… sono le orme di Hermes, messaggero degli Dei e custode della parola superiore. In The Footsteps of Hermes, possiamo seguire le impronte della divinità greca che si manifesta sotto forma di una permutazione di generi scandita passo dopo passo, minuto dopo minuto. Ogni strumento ricopre un ruolo a sé stante che si regge all’inizio in una staffetta sulla sottile soglia tra il progressive rock e il math rock; rispettivamente attraverso l’organo di John Medeski e il Fender Rhodes di Brian Marsella che cedono la parola alla chitarra di Matt Hollenberg. Quest’ultima cambia con prepotenza l’atmosfera portandoci a un focoso scontro tra solisti che assomiglia ad un match mai esistito tra Jon Lord vs. Chick Corea su un ring da boxe, muniti di tastiere al posto dei guantoni. Il groove hard rock della batteria di Kenny Grohowski sostiene questa sezione incalzante interrompendosi su brevi rullate che lasciano spazio a un intermezzo di stampo ambient ricolmo di silenzi, presto spezzato dagli inaspettati accordi metal della chitarra elettrica. In questa traccia permane con forza l’idea di perenne collisione tra le identità degli strumenti, che sgomitano alla ricerca una sintesi tra le loro individualità attraverso riferimenti stilistici elegantemente riconoscibili. Meglio apprezzare la seconda metà del brano cullati dalla sorpresa di questi interventi, piuttosto che restituirne un decalogo da telecronista. Chi segue i passi di Hermes segue l’esoterismo e la conoscenza. Questa figura per il filosofo spagnolo Luis Garagalza diventa il risolutore del problema dell’interpretazione dei linguaggi, unendo i due opposti della filosofia ermeneutica di Heidegger e Gadamer con la visione psico-antropologica di Jung che vede nel simbolismo il centro dell’esperienza umana. Traslitterando il tutto alla traccia di Zorn, seguire le orme di Hermes diventa il ponte di una schietta mediazione tra i variopinti idiomi.

The Evental Devalorization of the Perhaps cita uno scritto del filosofo Quentin Meillassoux che invoca il tema filosofico del rapporto tra eventi e caso, attraverso il pensiero di Alain Badiou che rilegge la poesia di Mallarmè Un coup de dés jamais n’abolira le hazard (Un colpo di dado non abolirà il caso). Nella poesia il fato viene raffigurato dalla morte del navigante naufragato mentre stringe tra i palmi i dadi della sorte, neanche la verità del risultato del lancio avrebbe evitato il finale nefasto. La forza costituente del brano è un mulinello di improvvisazione e noise, ma il dualismo asintotico tra verità e casualità viene richiamato nell’alternanza del generale clima incerto e onirico iniziale con gli episodi dai limpidi margini funk, blues ed acid, trovando una illusoria coesione solo per un fragile istante verso la metà. Se nel primo brano l’avvicendarsi tra le identità strumentali era una bussola della verità, qui galleggiamo sul pelo del caos, dove il preudire, nota dopo nota, diventa vano. Sorge però un problema, perché il PEUT-ÊTRE – Perhaps – dovrebbe essere il culmine inciso a lettere capitali nell’ultima pagina della poesia, una parola che mette il punto su quanto il caso sia prevaricante sugli eventi; eppure la metafora viene smorzata da un evento: l’apparizione dell’orsa maggiore, la stella polare, la salvezza oggettiva che il marinaio ha mancato e che ormai giace sul fondo assieme a lui. Una verità evenemenziale che toglie valore a quel “forse” su cui il poeta ci lascia appesi e che in Zorn corrisponde al continuo richiamo di musiche affini a cui affidarci e aggrapparci per non annegare fatalmente. La poesia visuale di Mallarmé appaia il tema della discontinuità dell’esistenza e dell’effimerità del linguaggio con un’impaginazione tipografica di parole in un fluire ondulatorio dall’alto al basso della pagina, riempiendo la carta di vuoti bianchi incisivi quanto le pause musicali nel brano. La diatriba tra il vero e il caso non trova purtroppo risoluzione nel linguaggio, un dilemma che viene marcato da un gigantesco punto di domanda acustico, la cui arcata scivolante è l’arpeggio di note evanescenti del Rhodes e il punto è l’incisivo accordo dell’organo che sfuma in un silenzio tombale.

La discrepanza tra le orme nella selva di Hermes e il galleggiare nel mare simbolista di Mallarmé genera un magnetismo che apparentemente annulla la ricerca coesiva di un crogiolo linguistico. L’indagine musicale trova però un finale di coesistenza, nell’ultimo brano Form, Object, and Desire, dove ci pensa Lacan a psicanalizzare i Chaos Magick e il loro garbuglio. La seduta comincia con una musica schizofrenica formata da attriti roventi in un susseguirsi turbolento. Una sinossi sonora dei due brani precedenti, ma in un procedimento che diventa via via più formale. Lacan è colui che assurge a demiurgo di un universo sonoro sgomitolato finalmente dal suo nevrotico intricarsi perpetuo, e così i musicisti riescono ad esprimere con lucidità le proprie inclinazioni individuali in quanto, per verbo dello psicanalista, giungono ad un epifania: il desiderio dell’oggetto non è mai indirizzato all’oggetto del desiderio. Anche se ottenuto, permane un senso di assenza e allora questa pulsione si proietta verso un nuovo oggetto e così via. La verità è che non sappiamo quello che vogliamo e non lo avremo mai, perché non è nella forma di un oggetto palpabile con i nostri sensi e quindi ogni volta che desideriamo qualcosa riceviamo una spinta che ci indirizza nel profondo della nostra interiorità, dove ci attende un oggetto che non è materiale ma esiste solo in quanto relazione tra l’umano e il linguaggio. Proprio questa visione scioglie la matassa dell’album. La parresia diventa sostanza nell’equilibrato rapporto che si crea tra le anime musicali vestite da improvvisatori che cooperano nella ricerca dell’objet petit a lacaniano. Questo, si manifesta in un brano tra il rock sofisticato e metal del chitarrismo di Hollenberg, il fraseggio bebop del piano di Marsella con ombreggiature da Cecil Taylor, il ritmo serrato da brutal prog della batteria di Grohowski, strabordando talvolta in comping degni di De Jonhette, e l’organo dal volto funk, soul e blues di Medeski. Le ultime note ripropongono un residuo di commistioni tra musica d’ascensore e innesti feroci che collimano in una tanto agognata conclusione definitiva e cadenzale.
Questa è forse la franca summa del pensiero di Zorn: una landa musicale in cui le influenze diventano comunione linguistica, accettando di affrontare assieme il caos in cui si riversa per scegliere un futuro migliore dove anche il più sognante lieto fine diventa parresia.

Alessandro Fadalti ©

Trascinante Judith Hill
Più riflessiva la musica di Peirani

È proprio vero che programmare è una cosa, attuare è un’altra. Quest’anno mi ero ripromesso di vedere cinque concerti del recente Roma Jazz Festival che mi era parso ben strutturato e con proposte nuove e interessanti.
Purtroppo non è andata come volevo e sono stato costretto ad assistere solo a tre concerti perdendomi quelli del pianista sudafricano Nduduzo Makhathini (il 9 novembre) e del gruppo Yellowjackets (11 novembre) che seguo da tempo immemore.
Dell’anteprima di Ibrahim Maalouf il 12 ottobre “A proposito di jazz” ha già riferito; oggi vi do conto degli altri due concerti cui ho assistito: Judith Hill il 4 novembre, Vincent Peirani Trio il 5 novembre.
Preceduta da una fama non immeritata, Judith Hill si è esibita alla Sala Petrassi dell’Auditorium dinnanzi ad un pubblico entusiasta e assai numeroso. Veramente particolare la formazione dal momento che la vocalist afro-americana aveva accanto a sé la madre Michiko alle tastiere e all’organo e il padre Robert (alias Pee Wee) al basso elettrico; alla batteria l’unico “estraneo”, il vulcanico John Staten.
Nata a Los Angeles, Judith viene, quindi, da una famiglia di origini nipponico/afroamericane che può a ben ragione definirsi “musicale”, nell’accezione più completa del termine. Ha dedicato tutta la sua vita alla musica tanto da essere attualmente, oltre che un’ottima vocalist, anche un’eccellente pianista e chitarrista. Dopo aver sviluppato le sue attitudini lavorando come cronista a fianco di vere e proprie icone della musica quali Michael Jackson, Stevie Wonder e Prince ha intrapreso una strada da solista che le sta assicurando grande successo presso le platee di tutto il mondo. In effetti le performance della Hill, stando a quanto s’è visto e ascoltato a Roma, sono davvero trascinanti. La sua voce calda, la sua intonazione, il preciso senso del ritmo le consentono, infatti, di transitare con estrema disinvoltura dal soul al R&B, dal funk al blues il tutto in un’atmosfera sempre “assai calda” che vede il continuo coinvolgimento del pubblico.
Efficace in tutte le interpretazioni personalmente l’ho particolarmente apprezzata in “Angel in the Dark” una composizione di Prince, “Better Days” e “Beautiful Life” scritte dalla stessa Hill mentre tra i brani più scatenati, particolarmente coinvolgente “That Power”

Di natura completamente diversa il concerto del fisarmonicista francese Vincent Peirani in trio con il chitarrista italiano ma oggi stabilmente a Parigi Federico Casagrande, e il batterista di origine israeliana Ziv Ravitz, oggi cittadino di New York. Ho seguito la carriera di Peirani da quando nel 2009 si affacciò sul mondo del jazz con un album particolarmente originale e promettente. Promesse mantenute negli anni successivi che hanno consacrato Peirani come uno dei migliori fisarmonicisti al mondo. Ma, se devo dire la verità, quest’ultima strada intrapresa da Vincent, così come evidenziato dal concerto romano, non mi convince più di tanto. Certo la maestria dell’artista è sempre là, così come la sua classe nell’arrangiare i pezzi, e la sua profonda conoscenza dell’universo jazzistico. Ma questo immergersi in atmosfere molto slargate (un po’ alla nordica, tanto per intenderci) i continui riferimenti alla musica “moderna” , la prevalenza della struttura sull’improvvisazione, e soprattutto il continuo ripetere di brevi segmenti melodici hanno fatto perdere un po’ di mordente alla sua musica.
Nel repertorio del concerto romano figurano alcuni brani presenti nell’ultimo album “Jokers” pubblicato nel 2022 con la stessa formazione presentata nella Capitale: tra questi “River” tratta da ‘Church of Scars’  (2018) della cantante Bishop Briggs, in cui il canto viene sostituito dalla fisarmonica; particolarmente interessante “Salsa Fake” il cui titolo è tutto un programma: in effetti il brano inizia con un assolo di chitarra che ci porta in atmosfere latine assecondato dalle note suadenti e melanconiche della fisarmonica, ma ben presto le cose cambiano: intervengono batteria e chitarra, il clima del pezzo muta completamente, adesso ci si avvicina ad una forma sofisticata di rock a segnare, a mio avviso, il punto più alto dell’intero concerto proprio perché le concezioni di Peirani riescono a elaborare una ricetta nuova e coinvolgente.
Il concerto si chiude con “Ninna nanna” eseguito come bis, sicuramente il brano più melodico dell’intera serata in cui sono evidenti i riflessi di certe melopee italiche.

Gerlando Gatto

DA MARTEDÌ 5 SETTEMBRE A DOMENICA 10 SETTEMBRE, LA DECIMA EDIZIONE DI FRANCAVILLA È JAZZ

Quest’anno Francavilla è Jazz (Francavilla Fontana, provincia di Brindisi) festeggia il decennale. Un traguardo importantissimo quello raggiunto dal festival, grazie al suo deus ex machina Alfredo Iaia, direttore artistico della rassegna, al costante ed encomiabile impegno culturale ed economico dell’Amministrazione Comunale di Francavilla Fontana, che investe sempre più risorse per questo fiore all’occhiello dell’estate francavillese, e al prezioso contributo degli sponsor privati che crescono numericamente di anno in anno per sostenere la kermesse. Anche la decima edizione di Francavilla è Jazz sarà all’insegna di protagonisti assoluti del circuito jazzistico nazionale e mondiale.

Piazza Giovanni XXIII, Largo San Marco e Corso Umberto I saranno le location dei sei concerti, tutti a ingresso gratuito come da tradizione, in calendario per il decennale.

Martedì 5 settembre alle 21:00 (orario d’inizio di tutti i concerti) sarà Richard Galliano New York Tango Trio, in Piazza Giovanni XXIII, ad aprire i battenti del festival. Galliano, uno fra i più grandi fisarmonicisti jazz degli ultimi cinquant’anni, calcherà il palco insieme ai formidabili Adrien Moignard (chitarra) e Diego Imbert (contrabbasso). Il trio alla testa del musicista francese presenterà Cully 2022, suo nuovo disco in cui sono presenti composizioni originali e tributi ad Astor Piazzolla. Un connubio, dunque, fra jazz e tango, ad alta intensità emozionale.

Si proseguirà il 6, a Largo San Marco, con Lisa Manosperti – “Omaggio a Mia Martini”, un caloroso tributo in chiave jazz della raffinata cantante pugliese a una fra le interpreti italiane più amate di sempre. Con lei, i talentuosi Aldo Di Caterino (flauto) e Andrea Gargiulo (pianoforte).

Il 7, in Corso Umberto I, D.U.O. Francesca Tandoi (voce e pianoforte) & Eleonora Strino (voce e chitarra), due giovani e brillanti musiciste che renderanno omaggio alla tradizione jazzistica, segnatamente al bebop, fra standard e proprie composizioni originali.

Venerdì 8, in Piazza Giovanni XXIII, sarà la volta di Enrico Pieranunzi Trio. Questa formazione diretta da uno fra i più conosciuti e acclamati pianisti jazz presenti sulla scena mondiale, completata da due eccezionali partner del calibro di Thomas Fonnesbaek (contrabbasso) e Roberto Gatto (batteria), proporrà un repertorio di sue composizioni originali unitamente ad alcuni standard della tradizione jazzistica, per un live garanzia di eccelsa qualità.

Sabato, ancora in Piazza Giovanni XXIII, Chico Freeman & Antonio Faraò Quartet: il primo, una leggenda vivente del sassofono jazz, il secondo una punta di diamante del piano jazz particolarmente osannato all’estero. A completare la sezione ritmica, due eccellenti compagni di viaggio come Makar Novikov (contrabbasso) e Pasquale Fiore (batteria). Pietre miliari (ri)arrangiate dell’immenso John Coltrane e brani originali autografati da Freeman e Faraò coinvolgeranno il pubblico in un concerto sinonimo di travolgente energia comunicativa e pura adrenalina.

Domenica 10 settembre, sempre in Piazza Giovanni XXIII, i riflettori si spegneranno con Gegè Telesforo – “Big Mama Legacy”, nuovo progetto di uno fra i più famosi cantanti jazz italiani degli ultimi quarant’anni. Accompagnato da un quintetto di giovani talenti della scena jazzistica italiana formato da Matteo Cutello (tromba), Giovanni Cutello (sax alto), Christian Mascetta (chitarra), Vittorio Solimene (organo Hammond e tastiere) e Michele Santoleri (batteria), il noto artista di origine foggiana presenterà un repertorio incentrato su un personale tributo al blues e al sound delle formazioni jazz della fine degli anni Cinquanta.

Gerlando Gatto

DECATHLON DISCOGRAFICO

La seguente selezione di dieci album è un Decathlon fatta per “disciplina” di strumento dei leader di formazione. Ovviamente la scelta è un’istantanea hic et nunc, dettata dal momento.  E’ un po’ come al Fantabasket od al Fantacalcio! Si individuano le individualità fra quelle più in forma, e si inseriscono a tavolino in una squadra virtuale che esiste solo sulla carta. Dopo un po’ è prevista una rotazione dei nomi, oltretutto quella proposta non è una classifica delle valenze ma una inquadratura parziale del materiale discografico che ci si ritrova in attesa di esaminarne dell’altro. Il team che ne vien fuori è un ipotetico ensemble di cd con sax/tromba/piano/tastiere/vibrafono/violino/contrabbasso/batteria/percussioni/musica d’insieme.

  1. Stefano Conforti Quintet, Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef, Notami Jazz

L’omaggio a Yusef Lateef (William Evans), grande tenorsassofonista flautista oboista e fagottista americano, come quello che Stefano Conforti ha prodotto per Notami Jazz è di quelli destinati a lasciare il segno. Intanto è un tributo, oggi a dieci anni dalla morte, ad un jazzista dal curriculum straordinario che annovera collaborazioni con Gillespie, Burrell, Grant Green, Mingus, Fuller, Cannonball e Nat Adderley, Lawson, Cecil McBee, ma soprattutto a chi ha sviluppato, dopo gli inizi bop, “different moods” di un “sound ricco e denso di growl “ (Barithel-Gauffre)  con influssi mediorientali. Pur consapevole nella difficoltà ad accostarsi ad un siffatto polistrumentista il sassofonista-flautista-oboista italiano vi si è cimentato disinvoltamente nell’album “Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef”, inciso per Notami Jazz, con la formazione che vede Doriano Marcucci a chitarra acustica trombone didgeridoo e percussioni, Tonino Monachesi alla chitarra elettrica, David Padella a basso elettrico e contrabbasso e Roberto Bisello alla batteria. Il quintet ha riproposto in tutto otto brani – fra i quali “Metaphor”, “Road runner”, “The Golden flùte”, “Belle isle”, “Spartacus” di Alex North – con buona resa specie se si pensa a certi tributi alla naftalina che capita di ascoltare qua e là. Le esecuzioni, se non sono calligrafiche sul piano filologico-musicale, lo sono a livello di sonorità estesa e tensione distesa nel segno di un musicista dalla narrazione inzeppata di riferimenti filosofici e poetici, espressi tramite una musica che lui stesso ha definito “auto-fisiopsichica”.

  1. Sean Lucariello, Despite It All, Caligola Records

Gli editor italiani fanno sempre più scouting. Succede anche in campo discografico con label come Caligola Records che pubblica lavori di giovani e/o esordienti per rimpolpare di forze fresche il catalogo. Una politica editoriale che spesso viene premiata dagli ok di pubblico e critica, prospettiva che saremmo pronti a sottoscrivere per l’album Despite It All del trombettista-flicornista nonché compositore Sean Lucariello.  E’ indubbio che questa coppia di strumenti principe del jazz ha sempre un fascino che seduce. Ed è di un camaleontismo unico il suo modificarsi a seconda della collocazione. Nel quintetto italo-spagnolo assortito da Lucariello che vede Edoardo Doreste Velasquez a sax soprano e alto, Sasha Lattuca al pianoforte, Francesco Bordignon al contrabbasso e Ignacio Ampurdanès Ruz alla batteria, la cornice è l’esatto contrario dello strepitio tanto è armonicamente sottile. E la tromba, il cui suono a momenti pare richiamare il Wheeler più compassato, vira sciolta la canna d’imboccatura in brani come l’introduttivo “Astral Conjunctions” scritto da Bordignon seguito da “Il Maestro e la Margherita” che il leader ha inteso dedicare a Bulgakov.  L’attenzione letteraria è comune con il pianista, autore della suite “Tendre Est La Nuit”, chiaro il riferimento al romanzo di Fitzgerald, dove pare che la tastiera rincorra il silenzio, forse la vera e segreta aspirazione della musica, nonostante tutto. Lasciando scorrere il cd dall’ulteriore “notturno” “Song With No Title” si passa poi ad una atmosfera di taglio più nettamente bop in “The Beaty of Boredom” mentre In “Five”, pezzo di Matteo Nicolin,  gli accenti si fanno più metropolitani grazie al piglio elettrico del Fender Rhodes di Lattuca.

  1. Federica Lorusso, Outside Introspections, Zennez Records/Abeat

Con un album inciso in Olanda per la Zennez Records, la Abeat Records presenta anche sul mercato italiano Outside Introspections, firmato dalla giovane pianista italiana Federica Lorusso.  La musicista fa da calamita nell’ integrato interplay del 4et con Claudio Jr. De Rosa al tenore (e ad al clarinetto in “Take A Breath”), David Macchione al contrabbasso ed Egidio Gentile alla batteria. I jazzisti dimostrano singolarmente di poter  vantare notevole “arte/fare” nei nove brani in cui il sax lascia sgolare una “voce” suasiva, il contrabbasso inchioda una probante cadenza nel timing, la batteria gioca costante sull’accentare e sincopare, la leader canta a mò di octaver, unisonica sulle note della tastiera: indizi che fanno la prova di un percorso agile per esporre, esplicare, esplicitare the hidden side of the music. Dall’inside all’extroversion, all’outside i vari gradi compositivi arricciolano un bijou di tracklist che gronda di “assorbimenti” stilistici che non vogliono essere, come il titolo del cd, degli ossimori stilistici – postbop-fusion, pop-classical – che poi tali non sono specie se innaffiati di quei semi creativi sparsi anche nella regione dei tulipani.

  1. Enrico Solazzo, Perfect Journey, Millesuoni/ Via Veneto Jazz

Se esiste una chiave per creare connessione autentica col pubblico quella è anzitutto la musica. Ed esiste un tipo di comunicazione musicale che avvicina perché la si avverte, semplicemente, coetanea. Il tastierista Enrico Solazzo ce ne dà un saggio con l’album Perfect Journey edito da Millesuoni (mai marchio fu più illuminante) della ViaVeneto Jazz. Vi sono esaltate le sue capacità di arrangiatore, oltre che di solista, unitamente a quelle di musical coach in quanto allenatore di un team che conta qualcosa come quaranta fuoriclasse. Riesce alquanto difficile elencarli tutti per ragioni di spazio. Qualche nome? Dennis Chambers, Gumbi Ortiz, John Pena, Kadir Gonzalez Lòpez, Niclas Campagnol, Baptiste Herbin, Lo Van Gorp fra gli stranieri. Roberto Gatto, Stefano Di Battista, Antonio Faraò, Fabiana Rosciglione, Tony Esposito, Gegè Munari fra gli italiani. Insomma un bel “gruppo misto” alle prese con una quindicina circa di brani fra originali e standard di musica internazionale.  Tornando al discorso iniziale come fa un professionista, quale Solazzo, è a comunicare la propria musica nell’epoca dei podcast e del gaming? Intanto non basta esser maestri dell’ entertainment. E non è sufficiente riprendere alla grande hits tipo “Crazy” o “Caruso” per avvicinare l’audience. Ogni epoca ha suoni che le si confanno. Ad esempio le keyboards midi avevano un suono che oggi risulterebbe datato come un moog così come certi effetti campionati. La particolarità di questo disco, a parte il caleidoscopio di collaborazioni, sta nell’aver lo strumentario giusto per l’oggi, nell’averne saputo introiettare lo zeitgeist più positivo con gli arrangiamenti, nel trasmetterlo ad un ampio ventaglio di fasce d’ascolto come tappe di un viaggio perfetto, quello di Enrico Solazzo, di Brindisi: da brindisi!

  1. Michele Sannelli & The Gonghers, Inner Tales, Wow Records.

Mezzo secolo dopo i ’70 si può ancora suonare progressive? La risposta è affermativa se non ci si limita a frugare nel modernariato dei suoni vintage o nei mercatini del suono usato. Il prog, alla mezz’età, si presenta quale estetica musicale vigente, contermine a rock e jazz rock. Vero è che in alcuni casi si è assistito ad un ritorno regressivo all’infanzia e in altri la senescenza ne ha incanutito sembianze e portamenti baRock. Quando però capitano fra le mani album energici e briosi come Inner Tales, della Wow, inciso dal vibrafonista Michele Sannelli & The Gonghers, si ha cognizione di come quel “non genere” abbia ancora un carattere … progressivo. Della band, finalista al contest Jam The Future – Music For A New Planet di JazzMi  nel 2019 e, nel 2022, prima al Concorso “Chicco Bettinardi” di Piacenza, fanno parte il chitarrista Davide Sartori, il tastierista Edoardo Maggioni, il bassista/contrabbassista Stefano Zambon e il batterista Fabio Danusso. Questo disco d’esordio rivela ad una platea potenzialmente più ampia dei palcoscenici che i musicisti già calcano una forgiata vis sperimentativa che è uno degli stampini del prog brand. Vi campeggiano due icone: Dave Holland in uno dei sette brani di Sannelli (“Uncle Dave”) eppoi c’è il richiamo in denominazione al gruppo space rock dei visionari Gong di Daevid Allen, fondatore degli psichedelici Soft Machine. Le “Storie interne” al compact, dalla romantica “Song for Chiara” all’iterativo “Circle”, dal marcato “Hard Times” al soffuso “Green Light”, dal dinamico “Run Mingo Run” al lirico “Just in Time to Say Goodbye”, vanno peraltro lette non solo in termini di rivisitazione di modelli esistenti bensì di riscoperta di quei modi di far musica d’insieme che risorgono ciclicamente, resistenti alle intemperie, “eterne modernità” per dirla alla Sironi.

  1. Francesco Del Prete Violinorchestra, Controvento/Dodicilune.

Fra musica e vino, dicono studi scientifici, esiste una relazione profonda. Il rapporto interessa anche i musicisti, si pensi all’opera (“Fin ch’han dal vino”, dal Don Giovanni di Mozart), ai walzer di Strauss (“Vino donna e canto”), agli standard jazz (“The Days of Wine and Roses”), al canto nero di Nina Simone (“Lilac Wine”), al blues di Amy Winehouse (“Cherry Wine”, coautore Nas), al soul/r&b di Otis Redding (“Champagne and Wine”), al pop di Adele (“Drink Wine”).   Dalle nostre parti si ritrovano gli stornelli di Gabriella Ferri (“Osteria dei magnaccioni”), le note cantautoriali di Modugno (“Stasera pago io”), Gaber (“Barbera e champagne”), Guccini (“Canzone delle osterie di fuori porta”) con il rock di Ligabue (“Lambrusco e popcorn”) e Zucchero (“Bacco perbacco”) e la “chanson” di Sergio Cammariere (“Il pane il vino la visione”).
Dalla terra dei messapi si segnala, nella corrente annata discografica, l’album Rohesia di Francesco Del Prete con la Violinorchestra (Controvento/Dodicilune). Un lavoro non della serie jazz & wine, questo del violinista salentino gravitante anche in area jazz, essendo intriso di sonorità legate al territorio in cui si vendemmiano i cinque vini della Azienda Cantele a cui sono dedicati altrettanti brani. Scrive al riguardo Maria Giovanna Barletta che “in Rohesia  Pas Dosè, Rohesia Rosso, Teresa Manara, Rohesia Rosè ed Amativo, ecco una diversità resistente che si riappropria attraverso l’arte poetica della melodia del qui e ora”.  Il compact, nel cui progetto sono partecipi Lara Ingrosso (voce), Marco Schiavone e Anna Carla Del Prete (violoncelli), Angela Così (arpa), Emanuele Coluccia (piano) e Roberto “Bob” Mangialardo (chitarre), ha un booklet-winelist  esplicativo sui “nettari degli dei” oggetto della selezione e sulla musica loro abbinata a mò di etichetta. Amalgamando pizzica e swing, elettronica ed echi mediterranei, a seconda del carattere e delle caratteristiche, non solo organolettiche, del vino da “sonorizzare”, Del Prete ha generato un prodotto originale che oltretutto fornisce un esempio di come la musica possa essere alleata di un’economia resa “circolare”. Da un disco.

  1. Marco Trabucco, X (Ics), Abeat Records

X (Ics), a marchio Abeat Records, del contrabbassista Marco Trabucco, è album che trae spunto nel titolo dal numero decafonico dei ruoli musicali che vi figurano, appunto dieci (Scaramella, pf; Colussi, dr; Vitale, mar; Ghezzo, g.; Andreatta, v.; Dalla Libera, viola; Calamai, fl.; Pennucci, cor., oltre Trabucco nella doppia veste di compositore e strumentista).  X, inoltre, rimanda, come scrive Paolo Cavallone nelle liner notes, “all’incognita che risulta dall’accostamento di sonorità cameristiche classiche con quelle del jazz”. X potrebbe stare anche per Pareggio vista l’equivalenza degli apporti fra legni-ottoni e jazz 4et di base con rivoli afrofolk a base di balanon (e marimba). I brani, in tutto cinque che è la metà di dieci (“One For Max”, “Open Space”, “Untitled”, “Meraki”, “Otranto”), scorrono limpidi come un ruscello alle falde di una montagna tant’è che non si avverte (di)stacco fra l’uno e l’altro. Segnale, questo, che la spinta inventiva ha origine da uno statuto creativo fondato su idee fluide sul come moltiplicare (ancora x) temi armonie timbri spazi improvvisativi sui due confini, classica e jazz, promossi a zona franca da etichettature di sorta.  Un disco, inoltre, contrassegnato da atmosfere rarefatte e da un lessico talora minimalista – chissammai perché la mente va al film Dieci di Kiarostami – in cui il regista Trabucco da autore si cala appieno nel “personaggio” del musicista che sa trasmettere, agli/cogli altri interpreti, il gioco instabile, tipo playing 1X2 dove è sempre la X a funzionare da centro di gravità.

  1. Andrea Penna, A New World, Workin’ Label.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Dvorjak dedicò al Nuovo Mondo la Sinfonia n. 9! Eppure l’aspirazione/ispirazione dettata dal desiderio, magari utopico, di un mondo diverso e migliore, affiora ancora fra i musicisti. Il batterista-compositore piemontese Andrea Penna, con il c.d. A New World (Workin’ Label), è uno dei pensierosi visionari che “usano” la  musica per autoproiettarvi  i riflessi interiori del proprio mondo in osservazioni (“It Was Just Like That”), ricordi (“Poki”, “In My Arms”), emozioni (“E Fuori piove”), ritratti (“1B My Dear”), flashes (“Tutto in un Momento”) ora raccolti e ordinati. Ah, ecco perché i dischi li chiamano album! Il relativo sound registra umori provenienti dalla memoria – richiami GRP, echi travel/metheniani, ibridismi similrock –  nello sfarinare una tracklist di nove brani di fusion effusiva grazie alla formazione che vede Massimo Artiglia a piano e tastiere, Luca Biggio ai sax, Mario Petracca e Andrea Mignone alle chitarre,  Umberto Mari al basso e voce,  Antonio Santoro al flauto. Se è lecito esprimere una preferenza la scelta cade sul brano d’apertura, “Parlami Ancora”, “scritto immaginando il mare, il discorrere intenso e rilassato passeggiando sulla spiaggia, con qualche brivido di gioia ed una grande voglia di libertà”. Giusto e opportuno antecederlo per far assaporare da subito il gusto della scoperta dell’immaginifico New World di Andrea Penna.

  1. Roberto Gatti, Amanolibera, Encore Music

Quello delle percussioni è un mondo a sé stante con la propria storia, le riviste, i libri, le cattedre, i miti: Don Azpiazù, Ray Barretto, Alex Acuna, Airto Moreira, Chano Pozo,  Mino Cinelu, Ralph MacDonald, James Mtume …  Quello delle percussioni non è un mondo a sé stante in quanto legato a filo doppio con gli altri strumenti che ne valorizzano al meglio le peculiarità. Sono due affermazioni uguali e contrarie. E bisognerebbe aggiungerne una terza, sempre ambivalente, che le percussioni possono rappresentare un’idea ritmica della musica, il latin, ad esempio, in cui la collocazione solistica è al tempo stesso elemento funzionale spesso imprescindibile dell’ensemble. L’album Amanolibera di Roberto Gatti, percussionista, edito da Encore Music, con circa una trentina di musicisti coinvolti nel progetto – fra gli ospiti anche Horacio El Negro Hernandez, Paoli Mejias, Oscar Valdes, Roberto Quintero, Jhair Sala, Gabriele Mirabassi, Lorenzo Bisogno, Tetraktis – documenta quanto il percussionismo, in particolare quello di spanish tinge, ne sia elemento vitale appunto insostituibile. Gatti vi si è cimentato anche a livello compositivo ragionandoci sopra con un drum set di congas, bongos, cajon, timbales, voce, tessendovi sei brani degli otto in scaletta (“Gatti Song”, “Bombetta”, “Chachaqua”, “Roberto’s Jam”, “Rumba per Giovanni”, “Jicamo 2.0”) in alcuni casi cofirmati, recitando così free hand un rosario sonoro allargato in sincronia al Sudamerica ed in diacronia a figure storiche dell’afrocubanismo. “La Comparsa” di Lecuona e “Giò Toca” di Valdes sono i due pezzi che Gatti non ha assortito dalla collezione personale, consentendo a chi ascolta un ritorno a melodie già metabolizzate con le sue percussioni a far da sorelle siamesi di una batteria con cui dialogare fittamente, da minimo comun denominatore che diventa massimo comun divisore di microscansioni particellari e poliritmie a catena.

  1. No Profit Blues Band. Helpin’ Hands. 20th Anniversary LILT di Treviso.

Musica e medicina. Un’arte e una scienza. Con tante applicazioni e “trasfusioni” dall’area sanitaria a quella musicale destinate a creare effetti benefici di vario ordine, a partire dalla musicoterapia. E sono tanti gli operatori del ramo che hanno coniugato Esculapio ed Euterpe. Pensiamo a medici-compositori come Borodin, ai cantautori Jannacci e Locasciulli, a uno stimato pianista jazz come Angelo Canelli, a trombettisti come il docente di ginecologia Nando Giardina della Doctor Dixie Jazz Band, a chitarristi come il radiologo Vittorio Camardese sperimentatore del tapping sulla seicorde, al medico-batterista Zbigniew Robert Prominski membro dei Behemoth (collaboratore degli Artrosis, tanto per rimanere in tema)… Fra gli stili il blues (e derivati) si evidenzia come una fra le più azzeccate medicine dell’anima. Sono vent’anni che lo sperimenta sul campo la No Profit Blues Band che, per il compleanno, presenta l’album Helpin’ Hands frutto della collaborazione con la LILT di Treviso. Dismessi camici e mascherine, messi nel cassetto bisturi e stetoscopi, la band di professionisti della sanità con pianoforte (Alberto Zorzi), chitarra (Maurizio Marzaro), batteria (Danilo Taffarello), basso (Matteo Gasparello), voci (Teo Pelloia, Jessica Vinci, Luisa Lo Santo, Elisabetta Monastero), saxes ( Giacomo “Jack” Berlese) e armonica (Mauro Erri) ha adoperato un altro tipo di attrezzatura per “radiografare” i dintorni del blues . Scopo dell’”operazione”? Far sorridere i pazienti della LILT trevigiana diffondendo pillole di buonumore con iniezioni di spensieratezza. Un ensemble, il loro, mosso esclusivamente dal piacere di offrire la loro musica come antidoto per quanti vi possano trovare motivo di distrazione. Va detto che i pezzi in scaletta sono stati scelti ed eseguiti con maestria e verve.  In scaletta ci sono “Smile” di Chaplin  (cavallo di battaglia del fisiatra Zorzi), “Mustang Sally” di Rice (si è  in pieno  r&b alla Pickett ), “Summertime” (Gershwin forever), “Route 66”  di Troup (con versioni che vanno da Nat King Cole agli Stones), “Unchain My Heart” di Sharp (ripreso divinamente fra gli altri da Joe Cocker), “Hoochie Coochie Man” di Dixon (Muddy Waters uber alles), “I Got A Woman” e “Halleluja I Love Her So” di Ray Charles, “Let The Good Times Roll” hit di B.B. King … Musica angelica, macchè diabolica, per lenire le ferite dello spirito.

I NOSTRI CD: IL JAZZ DI CASA NOSTRA

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Giulia Barba – “Sonoro” – BNC
Non amiamo vantare primogeniture ma siamo stati tra i primi in assoluto a presentare al pubblico italiano questa brava clarinettista dopo il suo ritorno dall’Olanda. In questo suo secondo album possiamo ascoltare 6 sue composizioni, tra cui due brani con testo di W.B. Yeats (“The Everlasting Voices” e “To an isle in the water”), e 8 pezzi di improvvisazione totalmente libera. Il testo di “Bassorilievo” e “Game Over” è stato scritto dalla stessa compositrice. Accanto alla Barba troviamo Marta Raviglia, voce, Daniele D’Alessandro, clarinetto e Andrea Rellini, violoncello. Probabilmente sono sufficienti queste poche indicazioni per capire il contesto in cui si muove Giulia: un terreno irto di difficoltà in cui la maggiore preoccupazione della leader è quella di raggiungere una raffinata qualità sonora grazie ad una accurata ricerca timbrica supportata da un’altrettanto accurata ricerca dei collaboratori. Di qui la scelta della vocalist Marta Raviglia il cui apporto risulta molto importante essendo la sua voce adoperata alle volte in modo consueto altre volte in funzione meramente strumentale e di Daniele D’Alessandro, ottimo nel ruolo di seconda voce. Parimenti determinante il ruolo di Andrea Rellini al violoncello che nella difficile opera di cucire il tutto riesce a non far sentire la mancanza di uno strumento percussivo. Comunque il merito principale della buona riuscita dell’album è senza dubbio alcuno di Giulia Barba di cui attendiamo altre prove ancora più significative.

Francesco Branciamore – “Skies of Sea” – Caligola
Musicista a 360 gradi, Francesco Branciamore si è costruita una solida reputazione come batterista avendo avuto l’opportunità di lavorare con alcuni grandi del jazz come Enrico Rava, Michel Godard, Lee Konitz, Evan Parker, Barre Philips, Ray Mantilla, Keith Tippet, Wim Mertens… e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma Francesco mai si è adagiato sugli allori: così ha dedicato questi ultimi anni ad approfondire da un lato la tecnica pianista, dall’altro le sue capacità compositive e di arrangiatore. Non a caso nel 2018 uscì “Aspiciens Pulchritudinem” suo primo album in piano solo ottenendo unanimi consensi, preceduto nel 2013 da “Remembering B. E. – A Tribute to Bill Evans” in cui Branciamore non suona alcuno strumento ma omaggia Bill Evans dirigendo un sestetto cameristico in cui l’improvvisazione non ha diritto di cittadinanza mentre la pianista Marina Gallo esegue le trascrizioni integrali degli assoli di Evans fatta da Branciamore, autore anche di tutti gli arrangiamenti. In questo “Skies of Sea” Francesco presenta una sorte di suite in quattordici bozzetti di breve durata, tutti di sua composizione, a disegnare atmosfere le più variegate, dall’ipnotica title track al trascinante “The Remaining Time” passando attraverso brani tutti gradevoli tra cui degno di particolare attenzione ci è parso il riuscito omaggio a Chick Corea, “A Prayer for Chick”.

Maniscalco, Bigoni, Solborg – “Canto” – ILK Music
Album di spessore questo proposto dal trio italo-danese composto da Emanuele Maniscalco pianoforte, piano elettrico e tastiere, Francesco Bigoni sax tenore e clarinetto e Mark Solborg chitarra elettrica. La cosa non stupisce più di tanto ove si tenga conto che il combo ha già all’attivo altri due album e che la collaborazione fra i tre risale al 2015. Quali le caratteristiche della formazione? Innanzitutto una scrittura che consente di coniugare perfettamente parti scritte e improvvisazione; in secondo luogo una costante attenzione alle dinamiche e quindi al suono; in terzo luogo la capacità di frequentare con assoluta disinvoltura un territorio di confine tra il jazz e le musiche “altre” che rende quanto mai difficile una precisa classificazione della performance…ammesso che ciò sia necessario, cosa di cui personalmente dubitiamo e non poco. Il tutto sorretto da altri due elementi assolutamente necessari: la bravura tecnica ed espressiva di tutti e tre i musicisti e una profonda empatia che consente loro di suonare in assoluta scioltezza sicuri che il compagno di strada saprà cogliere ogni minimo riferimento. Di qui una musica rarefatta, di chiara impronta cameristica che sicuramente soddisferà gli ascoltatori dal palato più raffinato.

Mauro Mussoni – “Follow The Flow” –WOW
Mauro Mussoni (contrabbasso, composizione e arrangiamenti), Simone La Maida (sax/flauto), Massimo Morganti (trombone), Massimo Morganti (trombone), Andrea Grillini (batteria), Davide Di Iorio (flauto solo nella traccia Levante) sono i responsabili di questo album registrato a Riccione nel 2020. Si tratta del secondo CD a firma di Mauro Mussoni (dopo “Lunea”) il quale si ripresenta anche come compositore dal momento che i nove bani in programma sono sue composizioni. Il titolo è significativo delle intenzioni di Mussoni il quale vuole “seguire il flusso”, un flusso che – secondo le espresse volontà del contrabbassista – è quello dell’ispirazione. Di qui una musica che trova nella gioia dell’esecuzione la sua principale ragion d’essere declinata attraverso una significativa empatia di volta in volta tra i fiati e fra i componenti del trio piano-contrabbasso-batteria senza trascurare, ovviamente, l’intesa che intercorre tra tutti i componenti del gruppo, intesa cementata da precedenti collaborazioni. E’ infatti lo stesso leader a dichiarare come la musica sia arrivata in maniera spontanea seguendo l’ispirazione del momento piuttosto che idee preesistenti. Tra i vari brani particolarmente interessanti la title track impreziosita da sontuosi assolo di Simone La Maida e Massimiliano Rocchetta, il dolcemente ballabile “Freeda” e “Latina” con un convincente assolo del leader.

Ivano Nardi – “Excursions” –
Ivano Nardi è sicuramente uno dei musicisti più rappresentativi della scena jazzistica romana. Artista tra i più coerenti, profondamente ancorato alla sua terra, profondamente attaccato al valore dell’amicizia –in primo luogo quella con Massimo Urbani – mai si è discostato dal solco di un free senza se e senza ma, un free in cui dare sfogo alla propria immaginazione, al proprio modo di vedere e sentire la musica. Ovviamente, per scelte di questo tipo, risulta fondamentare circondarsi di compagni d’avventura con cui si abbia un idem sentire. E il ‘batterista’ Nardi è stato, anche in questo senso, del tutto coerente avendo condiviso le sue esperienze con artisti del calibro del già citato Urbani, Don Cherry, Lester Bowie… Adesso ritorna a farsi sentire con un altro album dedicato a Massimo Urbani, “Excursions”, in cui a coadiuvarlo sono Giancarlo Schiaffini al trombone, Marco Colonna ai fiati, Igor Legari alla batteria, un quartetto molto affiatato che si muove con estrema disinvoltura all’interno dell’unico brano in programma, lungo 32:50. Ovviamente cercare di descrivere questa performance è impresa quanto mai ardua e forse inutile; basti sottolineare come le atmosfere sono mutevoli proponendo degli improvvisi slarghi (come al minuto 12,30 circa) quasi a voler in certo senso smorzare l’andamento tumultuoso e incalzante del quartetto, o avventurandosi in atmosfere indiane e arabeggianti (come al minuto 24 all’incirca).

NewStrikers – “The Songs Album” – Alfa Music Vinile 180 gr. Tiratura limitata

Questo album esce ad ampliamento dell’album “Musiche Insane”, ottimo esempio di come anche il free riesca a trovare nel nostro Paese interpreti degni di rilievo. Il gruppo guidato dal multistrumentista Antonio Apuzzo (compositore e arrangiatore anche di quasi tutti i brani) e completato da Marta Colombo (vocale, percussioni), Valerio Apuzzo (tromba, cornetta, flicorno), Luca Bloise (marimba, percussioni), Sandro Lalla (contrabbasso) e Michele Villetti (batteria, duduk), ripresenta un repertorio in buona parte già conosciuto in cui la musica si staglia come unica e vera protagonista, una musica ben lontana da stilemi formali e da un qualsivoglia mainstream consolatorio. Quindi un jazz graffiante, originale, fluido in cui si stagliano alcune individualità come quelle di Antonio Apuzzo e della vocalist Marta Colombo. Tra i brani non presenti nel precedente “Musiche Insane”, What Reason Could I Give” e “All My Life “ di Ornette Coleman interpretate con bella sicurezza mentre il conclusivo “Four Women” è un sentito omaggio a Nina Simone che scrisse questo brano in segno di protesta contro l’ennesimo atto di sopraffazione consumato dai bianchi nei confronti della popolazione di colore. Un consiglio non richiesto: se avete tempo andate a cercare i testi della canzone e leggeteli con attenzione.

Helga Plankensteiner – “Barionda” – JW
Baritonista di spessore, la Plankensteiner si è oramai imposta all’attenzione generale non solo come strumentista ma anche come vocalist, compositrice, arrangiatrice e leader di gruppi non proprio banali. E’ questo il caso di “Barionda” un ensemble formato da quattro baritonisti (la leader, Rossano Emili, Massimiliano Milesi e Giorgio Beberi) più un batterista che nella maggiorparte dei casi è Mauro Beggio sostituito in tre brani da Zeno De Rossi. In repertorio una serie di brani che ricordano i grandi baritonisti del jazz; ecco quindi “Hora Decubitus” di Mingus (legato alla memoria di Pepper Adams), “Sophisticated Lady” (di Ellington, nelle esecuzioni della cui orchestra spiccava Harry Carney) o “Bernie’s Tune”, cavallo di battaglia di Mulligan. Il gruppo si muove con padronanza all’interno di arrangiamenti tutt’altro che semplici in cui i quattro sassofonisti evidenziano le loro abilità ben sostenuti dai due batteristi che a turno sorreggono il tutto con un timing preciso seppur fantasioso, sicché non si avverte la carenza del contrabasso. E’ interessante sottolineare come, nonostante i quattro strumenti di base siano gli stessi, si riesce egualmente ad ottenere significative variazioni di sound a seconda di chi esegue l’assolo e di chi tali assolo accompagna. Ferma restando la valenza di tutti i musicisti coinvolti, è innegabile che il peso maggiore dell’impresa grava sulle spalle della leader che nelle brevi parole che accompagnano l’album dichiara esplicitamente il proprio amore verso il suo strumento, il sax baritono..

Ferruccio Spinetti – “Arie” – Via Veneto, Indo Jazz
Ferruccio Spinetti è contrabbassista che si è guadagnato una solida reputazione lavorando per lungo tempo con Musica Nuda, Avion Travel e  InventaRio. Adesso si presenta con il primo progetto a suo nome che lo vede alla testa di un gruppo all stars comprendente la cantante Elena Romano, il pianista Giovanni Ceccarelli, il batterista Jeff Ballard e, come unica guest, la sempre straordinaria pianista       Rita Marcotulli in due brani. L’album è in buona sostanza una sorta di omaggio al jazz italiano in quanto il repertorio è composto in massima parte da brani scritti da alcuni dei migliori jazzisti italiani tra cui Enrico Rava , Bruno  Tommaso , Rita   Marcotulli, Paolo   Fresu , Enrico   Pieranunzi       , Luca   Flores , Paolino   Dalla Porta …, con l’aggiunta di brani originali di Spinetti e Ceccarelli. E di questi autori sono stati scelti brani in cui è di tutta evidenza la ricerca della linea melodica, rinvigorita sia dalle centrate interpretazioni di Elena Romano sia dai testi, scritti appositamente dalla Romano, da Peppe Servillo e dallo stesso Spinetti, sia dagli arrangiamenti che hanno messo in evidenza le caratteristiche di tutti i musicisti tra cui una menzione particolare la merita senza dubbio alcuno Jeff Ballard, sicuramente uno dei batteristi migliori oggi in esercizio. Ovviamente un merito particolare va a Ferruccio Spinetti che ha saputo guidare il gruppo con mano sicura e piena consapevolezza.

Ivan Vicari – “Afrojazz project – Il ritorno”
Entusiasmante, trascinante, coinvolgente: queste le parole che ci sorgono spontanee dopo aver ascoltato un paio di volte questo album. Conosciamo e apprezziamo Ivan Vicari oramai da molti anni; tra i pochissimi specialisti dell’organo Hammond nel nostro Paese, è uno dei pochi artisti in Italia capaci di raccogliere e divulgare l’eredità di Jimmy Smith, vera e propria leggenda dell’Hammond. Nel suo stile si ritrovano echi provenienti dai più grandi esponenti dell’organo jazz, dal già citato Jimmy Smith, a Larry Young, da Rhoda Scott fino Joey De Francesco purtroppo recentemente scomparso. E quanto sopra detto si ritrova in questa sua recente fatica discografica. Ivan guida, con mano sicura e con tecnica superlativa, un quartetto completato da Fabrizio Aiello alle percussioni, Mauro Salvatore alla batteria, Alberto D’Alfonso sax e flauto, Luca Tozzi chitarra. Il titolo recita “Afrojazz project – Il ritorno” e fotografa bene la musica che Vicari ci propone. Una musica che si ispira all’afro ma non solo dal momento che Vicari dimostra ancora una volta di conoscere assai bene sia il jazz nell’accezione più completa del termine, sia il blues. Da sottolineare ancora che Vicari si mette in gioco anche come compositore dal momento che nel CD figurano alcuni suoi original. Un tocco di umanità che mai guasta: per esplicita dichiarazione dello stesso Vicari l’album è dedicato a due “amici musicisti” scomparsi, Karl Potter e Nunzio Barraco.

Gerlando Gatto

 

I nostri CD.

EVA E IL JAZZ. DISCHI AL FEMMINILE

Non è una novità che il jazz italiano si arricchisca sempre più di apporti al femminile generalmente in ruoli di leader o coleader e non sempre solo canori. Ciò avviene in rassegne come, ad esempio, la recente Women for Freedom in Jazz (con Zoe Pia e Valeria Sturba in apertura di un cartellone molto nutrito) o quella storica di Lucca Jazz Donna. La constatazione si può estendere anche al mercato discografico sul quale forniamo, a seguire, un succinto aggiornamento su alcune produzioni recenti redatto all’insegna della varietà di album sicuramente degni di segnalazione.

Chiara Pelloni, “Eve”, Caligola Records

Debutto discografico per Chiara Pelloni, con Eve, album a marchio Caligola Records, che “racconta” di una donna in un viaggio verso la Spagna le cui tappe sono costituite da otto canzoni: un’interprete di sé stessa, essendo anche “liricista” oltre che autrice musicale di brani eseguiti con Matteo Pontegavelli (tr.), Alvaro Zarzuela (tr.ne), Francesco Salmaso (sax ten.), Lorenzo Mazzochetti (p), Francesco Zaccanti (cb) e Riccardo Cocetti (dr.), formazione ben assortita che “pedina” il canto con discrezione. Ed una voce, quella della Pelloni, che lascia insinuare venature pop sul sostrato armonico costruitole attorno con un gusto che è tutto jazzistico. Ne vengon fuori pezzi eterei come “Eve” e “Rebirth”, intimi come “First Peace”, ballad intense come “Blue Colored Streets” e “Please Love Me Too”, latin moderati come “Vega” e poi “Memories of You” omonimo della song di Benny Goodman, infine l’accorata “Quello che conta”. Dunque il suo approdo biennale nei Paesi Baschi, dove si è perfezionata con Deborah Carter, non ci ha restituito souvenir di cante hondo o similia. Chiara è ripartita da lì portandosi appresso un bagaglio di “canzoni di viaggio” in cui ha saputo descrivere stati d’animo ed emozioni prima ancora che paesaggi e skilines. Just like the jazz.

Marta Giuliani, “Up on A Tightrope”, Encore Music

Sarebbe forse più opportuno tradurre “Up on A Tightrope”, titolo del primo album da leader di Marta Giuliani, come La corda tesa e non Sul filo del rasoio. La vocalist marchigiana presenta infatti nove propri brani in cui, più che la tensione, è la ricerca di equilibrio ad esser protagonista. Un po’ come Il funambolo che lei canta, su testo di Giovanni Paladini che firma anche “Il cielo dei Rojava” : “non è magia, non è pazzia / questo sogno che / sopra un filo va / alto sulle ali”. L’idea espressa è quella di un percorso graduale che compie con degli amici con cui condivide lo spirito creativo e il senso del procedere con un’incertezza che, alla prova dei fatti musicali, si fa sicurezza. Ed è quella da cui traspare l’impronta di fertile autrice di partiture, di testi poeticamente validi – a partire dall’iniziale “Fleeting Beauty” – e di arrangiamenti dalle soluzioni armoniche spesso inedite, di interprete avvezza all’improvvisazione “senza fili”, di bussola del combo formato da Nico Tangherlini al piano, Gabriele Pesaresi al contrabbasso e Andrea Elisei alla batteria, rete protettiva per Marta, trapezista della voce. Da sentire, in proposito, le elucubrazioni virtuosistiche di “Colibri’ e, in “So What if I Fall?”, i raddoppi voce-tastiera. Ma piacciono anche la sospensione aerea di “Clouds”, il solo nervoso del piano. Pregevole la traduzione in musica di “Beneath The Mask” del poeta afroamericano Paul Laurence Dunbar.

Battaglia – Arrigoni – Caputo – Di Battista, “Questo Tempo”, Da Vinci Jazz

Nei festival di poesia in genere la forma di dialogo fra musica e poesia più praticata è il reading, pronipote del settecentesco “recitativo accompagnato” laddove si declama mentre scorrono note musicali a commento della declamazione. Per contro in molte performances musicali accade che sia la musica a prevalere lasciando l’intermezzo poetico a far da corollario. L’unione paritetica fra le due arti, sperimentata ab initio dagli antichi greci, trova ancora oggi delle occasioni di sperimentazione. Ed è quanto fatto da Stefano Battaglia in seno al Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale a Siena Jazz. Un risultato, incentrato nello specifico sul gemellaggio fra Improvvisazione e poesia, è l’album Questo Tempo, della Da Vinci Jazz, in cui quattro musicisti si cimentano davanti a una breve antologia poetica novecentesca e contemporanea di matrice femminile con l’intento di “sonorizzarla” e “vocalizzarla”. Protagonisti del lavoro, oltre al ricordato pianista, la cantante Beatrice Arrigoni, il vibrafonista Nazareno Caputo e il batterista Luca Di Battista. Un’operazione avventurosa, quella di congiungere parametri musicali e metriche versicolari ma soprattutto due tipi di ispirazione, appunto poetica e musicale, che nell’ordinarietà seguono iter autonomi. Il quadrivio improvvisativo incrocia disinvoltamente il proprio comporre istantaneo a liriche di Chandra Livia Candiani, Amelia Rosselli, Margherita Guidacci, Paola Loreto, Laura Pugno, Anna Maria Ortese dando così luogo ad una galleria di “poete” in cui, saltato il passaggio del testo scritto, le liriche si adagiano su un letto naturale di suono e canto, gioia e pathos, antico e moderno, disteso loro dalla musicista bergamasca che ha eletto e riletto Questo Tempo: che è, scrive Laura Pugno, “lana bianca che cade dalle mani / non si chiude il vestito / la sabbia nella mente ha formato la perla / e non ha luce”.

Paola Arnesano – Vince Abbracciante, “Opera!”, Dodicilune Records

L’opera lirica in formato cameristico, priva cioè di apparato scenico, sfavillio dei costumi, movenze attoriali dei cantanti, tessitura corale presuppone, da parte di interpreti e pubblico, una concentrazione mirata sulla musica “sola”, spoglia della cornice di “spettacolo totale” propria di quel tipo di messinscena. Il che, con i limiti del caso, alla fine può anche rivelarsi un’esaltante estrapolazione del momento compositivo. Dal canto loro i jazzisti che vi si confrontino senza voler sconfinare nella provocazione o ancor più nella dissacrazione, si trovano di fronte alla necessità di effettuare una scelta sul limite entro cui contenere la novità dell’arrangiamento, la libertà interpretativa e la creatività dell’improvvisazione senza incorrere nel peccato di lesa … Melodia. La vocalist Paola Arnesano e il fisarmonicista Vince Abbracciante, nell’album Opera! edito da Dodicilune Records, contemperano il rispetto dello spirito originario della partitura con il loro specifico approccio jazz. Dal corposo “songbook” operistico il duo ha prelevato musiche di Rossini Donizetti Bellini Verdi Leoncavallo Cilea Puccini, divinità dell’Olimpo melodrammatico, e seguendo le stecche di un ventaglio che va dal (pre)romanticismo al verismo alle suggestioni espressive del primo novecento, le ha riproposte con gusto personale ed accorto dosaggio delle componenti in campo. La Arnesano – musicista ferrata in latin e ben vocata per gli standards – ed Abbracciante – nomen omen se si pensa all’abbraccio multistyle della sua fisarmonica – hanno avvolto un involucro canoro/sonoro pertinente sia pure con alcune “zone franche” a mò di antiossidanti pietre filosofali che rimodellano arie immortali. Si va da un balcaneggiante “Io Son Docile” tratto dal “Barbiere”, alla rarefatta “Ecco Respiro Appena ripresa dalla “Adriana Lecouvreur”, da “O Mio Babbino Caro”, fonte “Gianni Schicchi”, reso a swing, al pathos di “Vesti la Giubba, maschera tragica di “Pagliacci”. E’ un altalenare fra i colori tenui diIeri Son Salita Tutta Sola” dalla “Butterfly” ed il volteggiare vocale su base sincopata di “Sempre Libera Degg’io” da “La Traviata” che è anche un inno alla varietà del Repertorio Lirico Nazionale e nel contempo alla sua unicità. C’è spazio per il walzer a tinte folk di “Mercè, Dilette Amiche” da “I Vespri Siciliani” ed il “Quando Men Vo” da “La Bohème” trasformato in chanson. Fra le chicche l’aria “Di Tal Amor Che Dirsi” da “Il Trovatore” in cui le volute belcantistiche si rivelano legittime antenate del vocalese e, dalla “Tosca”, le due perle “Vissi D’arte” ed “E Lucean le Stelle”. Non potevano mancare la “Norma” con “Casta Divae “Lucrezia Borgia” con “Il Segreto Per esser Felici” a completare quest’omaggio ad una nostra tradizione tuttora pulsante.

Vanessa Tagliabue Yorke, “The Princess Theatre”, Azzurra Music

The Princess Theatre di Vanessa Tagliabue Yorke (Azzurra Music) è album che vanta un legame ideale con il piccolo (meno di 300 posti) Teatro della Principessa della 39ma strada a New York, una struttura che, un paio d’anni dopo l’apertura nel 1913 e per un buon quadriennio, ospitò shows in formato “medium” a confronto dei reboanti musical di Broadway. Fu allora che, a causa della ristrettezza degli spazi, Jerome Kern fu obbligato a formulare melodie con le orchestrazioni di Frank Sadler scritte per ensembles non numerosi, forgiando così quell’innovativo e snello teatro musicale “americano” dell’epoca che si associa al team autoriale Kern, Guy Bolton, P.G. Wodehouse. Quello che la vocalist rievoca, a distanza di un secolo e passa e dopo due anni di pandemia, è il senso della spazialità ridotta, che non è angustia, e che “costringe” a pensare la musica in modo più raccolto e introspettivo. Ed è con questi occhiali che va interpretata la tracklist in cui accanto a brani di Strayhorn (“A flower is a Lovesome Thing”), Carmichael (“Stardust”), Green (“I Cover The Waterfront”), Kern (“The Way To Look Tonight”), Kitchings-Herzog jr (“Some Other Springs”), la Tagliabue “liricizza” Strayhorn (“Ballad for Very Tired and Very Sad Lotus Eaters”) o “musicalizza” Yeats (“Aedh Wishes for the Cloths of Heaven”). Va da sé che il disco non è costruito in laboratorio ma è il live del concerto tenutosi a Malcesine (VR) lo scorso 19 dicembre 2021 in cui figura al piano l’esperto Paolo Birro, peraltro coautore di “Leon”, con gli interventi della tromba di Fabrizio Bosso in “I’ve Stolen” e “Dream” e nel citato pezzo ripreso da Yeats dove il trombettista figura come coautore. Non c’è di che scegliere fra la Tagliabue autrice di “Ever” o “Don’t Leave Me” con la jazzista che completa il quadro armonico, elegante e forbito, di un pianista del livello di Birro. Tutto è al suo posto, quello ottimale per la dimensione del Princess Theatre in quel 1915-18, al riparo dai lontani venti di guerra che ancora oggi come allora soffiano e che la buona musica riesce a placare.

Sonia Spinello – Roberto Olzer, “Silence”, Abeat

L’assenza di suono, come dimostrato da John Cage, non esiste. E neanche la pausa musicale, di per sé, è sinonimo di vuoto totale. Per questo un album che si denomini Silence, come quello della vocalist Sonia Spinello e del pianista Roberto Olzer editato da Abeat, prefigura comunque delle note o comunque delle vibrazioni che giungono al “pianoforte segreto” del nostro orecchio. E non è luogo di afasie nientificazioni o rumori ma vi fluiscono semmai consonanze sussurrate, accennate, sviluppate, interagite con il violino di Eloisa Manera e il violoncello di Daniela Savoldi oltre al soprano di Massimo Valentini in “Consequences” ed al bansuri di Andrea Zaninetti in “Tell Me”. Questo lavoro, che nasce sulla scia dei cd Abeat “Steppin’ Out” e “Wonderland”, premiato in Giappone nel 2017 come miglior album vocale dalla rivista “Critique Magazine”, nel collocarsi fra le fenditure di world music, ambient jazz e classico-moderna, regala delle occasioni di “copertura” armonica del silenzio mantenendone l’aura sullo sfondo. A voler sceverare fra la dozzina di brani del compact non si può non sottolineare la bellezza di “Softly”, i colori intimi di “Silence”, la poeticità di “Attimi”, ma è tutto il mondo sonoro evocato dai musicisti a far da contrappunto al silenzio per il sound unico di questo disco candidato, ancora una volta, a proiettarsi sul proscenio internazionale.

Barbara Casini, “Hermanos”, Encore Music

Gli Hermanos della cantante Barbara Casini, nell’album edito da Encore, sono il sassofonista Javier Girotto, il chitarrista Roberto Taufic e il pianista Seby Burgio. Fior di musicisti che partecipano all’esecuzione, oltre che con il proprio strumento, con interventi mirati come la quena di Girotto in “Hurry” dell’uruguagio Fattoruso e in “Tonada de Luna Llena” del venezuelano Simòn Diaz, la voce di Taufic in “Pasarero” di Carlos Aguirre, di Rosario, e in “Maria Landò” di Granda e Calvo in cui si sentono le claps di Burgio. Ma gli Hermanos di una Casini in gran spolvero di latin imbevuto da sempre nelle corde vocali li vediamo anche nella figura stratosferica del brasiliano Milton Nascimento che ha scritto “Milagre dos Peixes” con Fernando Brant e che il 4et interpreta mirabilmente in chiusura al disco. Una “squadra” di fuoriclasse con Taufic, nato in Honduras ma cresciuto in Brasile, l’italo-argentino Girotto e il siciliano Burgio che si affianca alla musicista fiorentina con in spalla il background di retaggi conoscenze e abilità, con intatto il proprio schietto versante jazz, ed un repertorio ricercato, vedansi “La Puerta” del messicano Luis Demetrio, “Candombe de la Azotea” e “La Maza” del grande Silvio Rodriguez. Non manca il “suo” Toninho Horta con “Viver de Amor” (cofirmata Bastos) e “Zamba de Carnaval” dell’argentino Cuchi Leguizamòn. Autori che configurano un orizzonte su cui la Casini impregna linee melodiche che tratteggiano il continente centrosudamericano senza cesura fra mpb e spanish tinge.

Juan Esteban Cuacci – Mariel Martinez y La Maquina del Tango, “Aca Lejos”, Caligola Records

Che tango ci sarà dopo il … tango? La domanda è abbastanza scontata quando è riferita a generi musicali circoscritti che potrebbero avere espresso il meglio di sé e toccato il “picco” artistico con maestri come Piazzolla per il tango. Eppure, parlando sempre di tango, se lo si slega dal contesto storico in cui si è sviluppato e lo si vede come una sorta di archetipo, allora ci si renderà conto che sono tuttora possibili operazioni che non siano di mera facciata ma che abbiano un carattere rigenerante. Dalla rivoluzione del nuevo tango alla evoluzione del tango contemporaneo: prendiamo Aca Lejos, album del pianista Juan Esteban Cuacci e della vocalist Mariel Martinez y La Maquina del Tango prodotto in Italia da Caligola Records. Intanto il repertorio registra classici tangueri di Gardel, V. Esposito, Troilo, S. Piana  etc. accanto a composizioni dello stesso Cuacci, motore della “macchina” che procede su binari (i tempi, ovviamente). A riprova della possibile convivenza e coesistenza del nuovo e delle rispettive radici. C’è poi la formazione con prevalenza femminile figurandovi la violista Silvina Alvarez e la contrabbassista Laura Asènsio Lopez unitamente al batterista Lauren Stradmann. Ancora, il climax. Pare molto più attenuato e dolce quel nostalgico “pensiero triste che si balla” grazie al canto della Martinez, virtualmente proiettato in avanti verso spazi sonori dischiusi, come un gaucho che scopre praterie prima sconosciute. Difficile, fra i tredici brani, stabilire un ordine di preferenze. E c’è dell’altro, sentiamo il lavoro vicino, “nostro” non solo per la radice di nomi che ricorrono – R. Calvo, L. Nebbia, A. Le Pera, J.M. Contursi – ma soprattutto per le forti tracce di melos sia pure corroborato da dna (poli)ritmico africano e da una persistente componente autoctona.

Amedeo Furfaro