Il Jazz, una musica che ha i numeri

Stefano Bollani – “El Chakracanta” –
Se allo Steinway e Sons siede Stefano Bollani ed al suo cospetto sta un’orchestra “tipica” come la Sin Fin diretta da Exequeil Mantega, non si sa se aspettarsi un’atmosfera più jazz o più classica avendo ben nota la versatilità del musicista a destreggiarsi in più ambiti e “ambienti”. Se si guarda al “Concerto Azzurro” che impegna e impregna una buona mezzora dell’album Alobar “El Chakracanta, Live in Buenos Aires”, commissionatogli da Kristjan Järvi e dalla MDR – Leipzig Radio Symphony di Lipsia, se ne constata la struttura classica di base in tempi allegro, adagio ed allegro molto. Una suddivisione che peraltro lascia ampio spazio alla libertà ed all’improvvisazione dell’interprete-compositore Bollani nello schema orchestrale disegnato da Paolo Silvestri. La risposta data dall’ascolto ha due facce che diventano una poiché sin dalle prime note se ne evidenzia l’impasto ibrido che coniuga latin tinge e mood nordamericano, emisferi coesi da una tastiera cosparsa di riflessi timbrici di quel nuovo mondo che incuriosí Debussy, Poulenc, Ravel…misti a spirito contemporaneo. L’azzurro è il colore del quinto chakra, della gola, ed è quello, come osserva lo stesso pianista in un web/video del Centro Culturale Kirchner di Baires “che sovraintende alla espressione”. Per farlo “star bene” è utile che si dica quello che si ha da dire e si esprima ciò che si vuole esprimere in un dato momento della vita. Ed il jazzista, in questa particolare fase della propria carriera artistica, sta denudando sempre più un’anima spanish che va ad infonderne sia la vis compositiva che la pratica esecutiva. Lavoro di ampio respiro melodico è quindi “Concerto Verde” dove il pigmento bollaniano, intinto nel quarto Chakra del Cuore e dell’Amore, si cimenta in un saliscendi di sincopi e contrattempi di tanghi e milonghe collocate in quel suolo in cui il pianista ha esportato, oltre ad un certo estro mozartiano, una valigia zeppa di suoni ed armonie. Il disco è completato da due brani arrangiati ed orchestrati da Diego Schissi, il piazzolliano “Libertango”, doveroso omaggio all’ideatore del Nuevo Tango e “Don Agustín Bardi”, di Horacio Salgán, che la performance con l’orchestra trasforma in rito collettivo di tributo ad un altro grande musicista argentino.

Francesco Chiapperini – “On The Bare Rocks and Glaciers” – Caligola Records.
Ogni montagna è, a modo suo, incantata. Sarà la maestosità, sarà il senso di infinito che ispira il contemplarla, sarà la magia che la ricopre… la montagna ha dei suoni; ed ha degli echi, oltre quelli naturali, che le provengono dal passato, dalla storia che ne ha attraversato rocce, valichi, passi, sentieri, versanti, ghiacciai… Il clarinettista Francesco Chiapperini ha inteso dedicare l’album “On The Bare Rocks and Glaciers” (Caligola Records) al mondo alpino riprendendo il titolo del lavoro dalla “Preghiera degli Alpini” di Giovanni Veneri recitata in chiusura dall’ospite Maurizio Arena. Con un sestetto di taglio cameristico, formato da un “coro” di fiati (Vito Emanuele Galante, tromba; Mario Mariotti, cornet; Roger Roota, bassoon, Andrea Ferrari, sax baritono) e un violino (Virginia Sutera) ha inteso ricreare una particolare coralità che consentisse la rappresentazione musicale di un ambiente che è stato testimone di vicende umane, anche quelle più tragiche come la guerra. La sensazione che si avverte nelle diciotto tracce, tutte in tema, alcune tradizionali altre di autori come Steve Swallow (“The Green Mountains”), Pergolesi (“Stabat Mater”), Grieg (“I Dovregubbens Hall”) oltre che di Chiapperini, Bregani, Malatesta, De Marzi, è di una pervadente wilderness tutta spirituale. L’ incontaminata “altezza” è “scalata” da note musicali che quasi paiono arrampicarsi in cordata per trasmetterci l’ebbrezza dell’altitudine. Un’impressione che viene interrotta a volte da valanghe di suoni per poi rientrare nell’atmosfera composta di un sempre millenario, fra i deserti d’alta quota di una montagna bella impossibile.

Luca DalPozzo Quintet – “Rust” – Nusica.org
Luca DalPozzo, contrabbassista leader del 5et che annovera Frank Martino alla chitarra, Manuel Caliumi all’alto sax, Giulio Stermieri al piano e Marco Frattini alla batteria, ha concepito l’album “Rust” dopo essere rimasto folgorato, durante una visita in una mostra bolognese nel 2018, dalle opere di Hiroshige e di Hokusai. La pittura di quest’ultimo, in particolare, ispirata a “immagini del mondo fluttuante” nel Giappone di inizio ottocento, consta di vedute dall’alto, contorni dettagliati, ed è antesignana di prospettiva. Dal canto suo, l’incisore Hiroshige, suo contemporaneo, fu un grande “paesaggista” il cui tratto figurativo venne apprezzato dagli stessi impressionisti in Europa. Si intende allora l’input di questo disco il cui titolo lo si può riferire al noto videogioco od all’omologo linguaggio di programmazione, certamente Rust non starà per ruggine a volerne seguire la traduzione letterale. All’origine vi sono due figure simbolo del movimento “Ukiyo-E” a cui è dedicato l’incipit fra le sette tracce del cd. E già lì la musica del 5et appare di ondulata viralità ed eclissante circolarità nell’iniettarsi lo spirito di quell’antica arte nipponica ed applicarla al contemporary. Che diventa fusion in “Alamar” per rientrare, dopo la soffusa “Day a Dream”, al guscio di suggestioni dettate da Ligeti in “Gyorgy Cluster Dance”: grappoli di acciaccature a sovraintendere le iterazioni in chiave di basso e di violino verso un effetto d’insieme scioccante e talora stralunante. Ancora. “Swirl” è caratterizzata da un tempo increspato, indistinto, fuzzy, con progressioni armoniche libere un pò alla Ornette Coleman. “Upward Drop” è un brano pregno di riverberazioni e riflessi siamo cioè ancora nel grembo di una musica in qualche modo “di rappresentazione”. Carattere che il conclusivo “Blues for Larry (going ballistic)” non fa che confermare per capacità traslativa di idee in note musicali.

Francesco Maccianti – “Attese” – Abeat
La solitudine dei numeri primi ha nell’uno, nell’unità, una dimensione tutta sua. Può essere isolamento misantropico, autoesilio individualistico, autoconfinamento ma può significare ritiro spirituale, (ri)pensamento solipsistico, monologo interiore. Che tale non è più nel momento in cui ci si esteriorizza per il tramite, ad esempio, della musica.
Cosa che fa il pianista-compositore Francesco Maccianti con l’album per piano solo “Attese. Live at Lyceum Club Internazionale di Firenze”, pubblicato da Abeat. Questi, dopo aver immesso una sorta di microspia che ne registra la “confessione” live, si espone al pubblico apprezzamento di una platea potenzialmente più vasta, gli ascoltatori del cd, rispetto agli spettatori della sala concerti toscana che nel disco applaude vivamente. La qual cosa, specie in un momento di fermo dei concerti, a dir poco scuote in senso positivo. Già perché cosí anche il suono “da remoto” che offre il cd, specie se ripetuto, anche se monco dell’impressione d’ambleu che è quella che in genere può folgorare, o lasciar di sasso, ma non è questo il caso, consente di capire. Carpire, captare le nicchie più riposte di una musica pianistica fatta di ridondanze (‘Cubic Dance’) ed echi (‘Falling Up’), di modi razionali (‘Attese’) e fragori improvvisi (‘Hombres’), immersioni catartiche (‘Solstizio’) e ridondanze (‘Palomar’), di profondità armoniche (‘Requiem’) e di ricami/richiami a musica altrui (‘Exactly Like You’ di Jimmy Mc Hugh) che, per fluidità di discorso melodico e improvvisativo, pare essere sua. A riprova di come, anche per i numeri primi, nella musica e nel jazz non si può in genere parlare di solitudine.

Painting Jazz Duo – “Classica” – Dodicilune
Partiamo da Dvoràk, dalla sua Sinfonia n. 9 Dal Nuovo Mondo, dalla scoperta che il compositore boemo fece negli U.S.A. della musica popolare dei neri e dei nativi d’America.È un summit con la musica europea cosiddetta “colta” a far da epilogo all’album “Classica” del Painting Jazz Duo e cioè Emanuele Passerini ai sax e Galag Massimiliano Belloni al pianoforte, con il tema principale collocato alla fine a far da suggello simbolico. La formazione è abituata a promuovere incontri fra civiltà musicali ed a coniugare pagine autoriali classiche con altre jazzistiche e qui punta a rilevare e rivelare i legami fra musiche del nuovo mondo e del vecchio continente, quelle il cui sviluppo, secondo una miope visione storica, era sembrato potesse procedere autonomamente, a prescindere da quanto stava avvenendo di là dall’Oceano. Ecco allora spiegato l’inglobare nel cd di “Le Solitaire” di Erik Satie, in un approccio che sposa impressionismo postromantico e jazz ma vi trova spazio anche l’esuberanza realista del Mahler nel ” Titano ” (Sinfonia n. 1). C’è ancora un trittico di autori russi, Borodin, Shostakovich e Tchaikovsky, alcune pagine dei quali vengono di fatto messe a confronto con “Mareblu”, “Nordic Sun”, “Valentina”, “City Life” scritte da Passerini. Come dire la storia della musica e la sua attualità vanno a braccetto, tenute insieme da una medesima idea ispirativa legata all’istantaneità del momento vissuta dalla coppia di musicisti. Il due, non a caso, è da associarsi all’istintualità, ingrediente utile anche per rivisitare degli “standards classici”.

Stefano Tamborrino – “Seacup” – Tūk Musik
“Seacup” titolo dell’album di Stefano Tamborrino della Tūk, sta per “tazza di acqua marina”, una formula dell’acqua in cui le note non sono sciami “che si radunano e si disperdono a seconda dell’occasione” (Bauman). La “liquidità” della musica che vi viene raccolta è semmai parte di un mare interiore “informe e multiforme” (Jankélévitch) e nel contempo modulato e modulare, suscettibile di continue variazioni di armonie, timbri, colori, toni. E ritmi. Già perché il musicista toscano, prima di essere compositore, è anzitutto un batterista di valore aperto all’elettronica ed alla (sua) vocalità (ma in “Purple Whales” compare la voce di Naomi Berrill). Un percussionismo, il suo, che il sestetto con Ilaria Lanzoni al violino, Katia Moling alla viola, Dan Kinzelman al sax, Andrea Beninati al cello e Gabriele Evangelista al contrabbasso, sembrerebbe esser lasciato “sotto traccia”, per la presenza costante della sezione d’archi. Ma il beat c’è, più che evidente nella scansione metrica di brani jazz/minimali come “Jakarta” per diventare cadenza ondulata in “Almost Jesus”. È un moto perpetuo, mai ristagno, anche nella stasi melodica di “Coda”, nell’intimità estatica di “Noli Me Tangere”, nella spirale barocca degli archi in “Escher” … e se cresce in intensità in “Olifante” per la dialettica fra strumenti più “jazz” e altri più “classici”, in “Bird Vertigo” ė la spazialità ad estendersi come in mare aperto. Da rimarcare, in “Arcadia”, gli echi che vanno dai Kronos Quartet fino al serialismo e, in “Gamelan”, la linea melodica a dir poco struggente. Insomma una sorta di flânerie sonora fra volumi di gocce, racchiuse, metaforicamente, in questo strano contenitore di H2O, con estratti di oceano o di un gran lago salato, magari apparsi in sogno e al risveglio tradotti in musica.

Ugoless – “ Soul Church” – Parco della Musica.
Soul Church Music, album targato Parco della Musica, è di Ugoless, gruppo che interpreta proprie composizioni. Di base è un trio con Daniele Tittarelli al sax, Fabio Sasso alla batteria e Andrea Guastadisegni ai sintetizzatori che qui è arricchito dell’apporto del tastierista Domenico Sanna. Dunque una “band dei quattro” (che numerologicamente sta per organizzazione, stabilità) che lavora sull’intertestualità fra musica e citazioni, tant’è che lo stesso titolo riprende da Cannonball Adderley la spiegazione, ripresa da “Bach Chorale”, sulla forma di un suo brano che ricorda i gospel eseguiti in chiesa. È una fattispecie di “jazz di relazione” con modelli che possono essere in “Curvone” la struttura di “Central Park West” di Coltrane ovvero in “Bon Suarè” e “Soirèe” temi del compianto Pino Daniele. Da segnalare il tramite vocalmetallico che va ad arricchire l’apparato strumentale il quale, sarà forse superfluo precisarlo, è di prim’ordine. Così, fra un omaggio a Bud Spencer in “Bambino” e un repechage di Freud in “Nada”, l’excursus allappa e allaccia drum machine e sintetizzatori a sax e tastiere. Un modo, questo, di non lasciare il suono nudo e crudo e di ornarlo – in “Kul” sono echi da Star Wars – con l’elettronica. Quando si è campioni in campionature, se c’è gusto melodico ed inventiva e il ritmo prevale sull’ algoritmo, allora l’elemento cogitans, non l’intelligenza artificiale, dispiega appieno il proprio costrutto musicale mettendo il braccio tech al servizio della ragione creativa.

Venticinque anni del festival MetJazz: “Le cose cambiano”, verso il futuro

Compie 25 anni il festival MetJazz di Prato, organizzato dal Teatro Metastasio con la direzione artistica del musicologo Stefano Zenni. L’edizione 2020 si svolgerà dal 29 gennaio al 27 febbraio 2020 coinvolgendo diverse location della città – lo stesso Teatro Metastasio, il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, il Teatro Fabbricone, il Teatro Politeama Pratese, la Scuola Comunale di Musica Giuseppe Verdi – oltre al Pinocchio Jazz Club di Firenze.
La 25a edizione, dal tema “Le cose cambiano” avvia una nuova fase del festival tracciando un’apertura che identifica un nuovo inizio: se negli anni MetJazz ha ospitato dapprima prestigiosi solisti italiani con omaggi ai grandi del jazz e poi si è indirizzata verso musicisti internazionali, attenzione per il jazz contemporaneo, apertura agli stili più diversi, produzioni originali ed esclusive, mostre e seminari, per questa nuova edizione il direttore Stefano Zenni ha scelto di rivolgere lo sguardo in avanti, al futuro, a come cambia la musica, a come cambiano i gusti.
MetJazz 2020 affida infatti a energie creative nuove: due progetti speciali in prima assoluta, tre diverse orchestre, quattro pianisti, solisti di peso, una grande festa danzante d’apertura, sei concerti e due conferenze, articolati nella struttura classica delle due consuete sezioni, Official e Off.

I protagonisti dell’edizione 2020.
Per l’evento d’anteprima del 29 gennaio una grande festa danzante al Centro Pecci Prato con Stefano Tamborrino e il suo trascinante e raffinato spettacolo “Don Karate” ormai ben noto per la mescolanza di hip hop, jazz, house, perfino punk, con larghe aree di improvvisazione avventurosa, atmosfere elettroniche, groove danzanti, in un intreccio dal suono trasparente e arioso, complici il bassista Francesco Ponticelli e il vibrafonista Pasquale Mirra. Per l’occasione sul palco ci saranno anche il rapper Millelemmi, al secolo Francesco Morini, e il videoartist Paolo Pinaglia. Il live è anche l’occasione per presentare in Toscana l’omonimo progetto discografico in uscita su vinile e in digitale il 24 gennaio 2020 per l’etichetta Original Culture. Un evento realizzato in collaborazione con Centro Pecci Prato.

Quattro i grandi eventi dislocati tra Metastasio, Fabbricone e Politeama Pratese.
Il festival si apre ufficialmente lunedì 3 febbraio nella bellissima cornice del Teatro Metastasio, con un progetto speciale per il MetJazz della Martini Big Band formata da studenti e docenti del Conservatorio G.B. Martini di Bologna diretti da Michele Corcella, special guest il trombonista Gianluca Petrella. Protagoniste, le musiche della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Carla Bley arrangiate e riorchestrate in esclusiva per MetJazz dal M° Corcella. Una co-produzione tra MetJazz e Conservatorio di Bologna, in collaborazione con Musicus Concentus di Firenze. La Liberation Music Orchestra è stata una formazione composita ed eclettica nata nel 1969 con un programma e un repertorio esplicitamente politici, impostasi come il paradigma del jazz più impegnato, dispiegatosi in quattro album, Liberation Music Orchestra (1969), The Ballad of the Fallen (1982), Dream Keeper (1990), Not in Our Name (2005), da cui sarà tratto il repertorio del concerto.
Lunedì 10 febbraio dalle 21 doppio appuntamento al Teatro Fabbricone. L’intera serata è dedicata al pianoforte, strumento che ha sempre seguito una sua linea evolutiva autonoma, peculiare e che oggi appare come una delle cartine di tornasole dei cambiamenti stilistici in corso. Sul palco, in esclusiva italiana, tre degli artisti europei più originali, avventurosi e creativi della scena contemporanea: dapprima il duo di Eve Risser e Kaja Draksler che si addentrerà nella ricchezza di colori e nell’esplorazione delle sonorità di “To Pianos”; a seguire il solista Alexander Hawkins, forse il più brillante pianista europeo della sua generazione, con un concerto in cui confluisce in una sintesi vitale una visione della musica molto aperta in cui si ritrova Duke Ellington, il pianismo classico, il free jazz, l’esperienza con Mulatu Astatke, la passione per l’organo.
Lunedì 17 febbraio alle 21 si torna al Teatro Metastasio per un concerto dedito alla pratica della conduction (una direzione d’orchestra basata su gesti e segnali visivi decisi sul momento, che determinano il percorso improvvisato della forma concretizzando il concerto davanti agli occhi del pubblico) con la Fonterossa OpenOrchestra di Silvia Bolognesi, formazione esemplare con musicisti di stili diversi, dilettanti e professionisti, che spazia senza pregiudizi in un repertorio tra jazz, pop, soul, rock.
Giovedì 27 febbraio ore 21 al Politeama Pratese protagonista un compositore e arrangiatore di punta nella fusione di jazz e musica classica: in prima assoluta, Paolo Silvestri con una nuova composizione coprodotta da MetJazz e Camerata Strumentale Città di Prato “Anime verde speranza. Fuga di cuori e cervelli per grande orchestra”. Una suite in dieci episodi legati fra di loro senza interruzione, ispirato ognuno ad un grande jazzista, da John Coltrane a Ornette Coleman, da Charles Mingus a Wayne Shorter, da Billy Strayhorn a Carla Bley, fino a Hermeto Pascoal e Duke Ellington. A seguire, l’esecuzione di “The River” di Duke Ellington nella versione sinfonica concepita nel 1970 per un balletto e allora orchestrata dal canadese Ron Collier, qui ripresa con integrazioni di Silvestri. Questo concerto è caratterizzato dall’assenza di solisti, una condizione insolita in ambito jazzistico e orchestrale; allo stesso tempo, vede la presenza speciale di tre artisti provenienti dal mondo classico ma attivi in ambito contemporaneo e jazz, dotati dunque di una poliedricità che traghetterà l’intera orchestra nel linguaggio stilistico pensato da Paolo Silvestri: Antonino Siringo, Andrea Tofanelli e Walter Paoli.

Tre gli appuntamenti del MetJazz Off realizzati in collaborazione con la Scuola Comunale di Musica Giuseppe Verdi di Prato.
Domenica 9 febbraio alle 11 il concerto in piano solo di Alessandro Giachero, un artista che ha fatto tesoro delle aperture stilistiche del jazz contemporaneo, grazie anche alle collaborazioni stabili con William Parker e Anthony Braxton e con altri grandi improvvisatori italiani.
Domenica 16 febbraio alle 11, la conferenza del direttore artistico del festival Stefano Zenni: “Ancient to the Future: tradizione e avanguardia nell’Art Ensemble of Chicago” per analizzare la musica come racconto e messa in scena di una Storia diversa, quella della Great Black Music nell’universo potente e teatrale dell’Art Ensemble of Chicago.
Domenica 23 febbraio alle 11 una conferenza di Luca Bragalini, a cura della Camerata strumentale di Prato e di ICAMus, affronterà un viaggio tra le partiture sinfoniche di Duke Ellington a partire dalla pagina scritta della sua ultima monografia “Dalla Scala a Harlem. I sogni sinfonici di Duke Ellington” e con l’aggiunta di uno storytelling con rari video, musiche inedite, immagini e parole, che racconterà una delle più neglette e affascinanti opere del Duca, mettendo in luce il rapporto di quest’ultimo con il Reverendo King.
Anche per il 2020 MetJazz ribadisce la collaborazione con il Pinocchio Jazz di Firenze e promuove il concerto di sabato 15 febbraio alle ore 22, nella sala dello storico locale con Alexander Hawkins che, alcuni giorni dopo il concerto al Fabbricone, ritroviamo in duo con uno dei musicisti più brillanti e intensi della nuova scena italiana: il clarinettista Marco Colonna.

Il programma completo del festival, con le diverse sezioni, è consultabile sul sito del Teatro Metastasio al link http://bit.ly/MetJazz2020.
Le prevendite dei biglietti sono attive al link http://ticka.metastasio.it: fino all’11 gennaio sono disponibili le formule di abbonamento, mentre dal 21 dicembre sono in vendita i biglietti per i singoli concerti.
Gli spettatori potranno acquistare i biglietti anche presso la Biglietteria del Teatro Metastasio in via Cairoli 59 tel. 0574.608501 dal martedì al sabato con orario 11-13 e 17-19 (il giovedì 11-15 e 17-19.00) oppure presso il Circuito Box Office al tel. 055.210804 o la Tabaccheria Bigi di Prato in via Bologna 77, tel. 0574.462310.

Info sulle prevendite: biglietteria@metastasio.it.
Riduzioni per gruppi, under 25, over 65, abbonati, convenzioni e soci COOP.

CONTATTI
http://bit.ly/MetJazz2020
Info Teatro Metastasio: tel. 0574.608501
Ufficio Stampa Teatro Metastasio: Cristina Roncucci tel. 0574.24782 (interno 2) – 347.1122817
Comunicazione MetJazz: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

Lirica e jazz: le arie d’opera come standard

L’ultimo nato dal matrimonio fra lirica e jazz è l’album “Norma”, di Paolo Fresu con la ODJM (Orchestra Jazz del Mediterraneo) di Paolo Silvestri (Tûk Music) che va ad infiocchettarsi al virtuale “Real Book” di arie dal repertorio operistico italiano ed europeo che via via si è fatto ben corposo.
Il lavoro su Bellini ha, discograficamente parlando, illustri avi nel jazz. Ne citiamo qualcuno. Il 78 giri Bluebird con Glenn Miller and Orchestra che rielabora “Il coro degli Zingari” del Trovatore di Verdi nella spumeggiante “Anvil Chorus”; Fats Waller and his Sextet from Lucia of Lammermoor, di Donizetti su l.p.

Il disco di Barney Kessel, Modern Jazz Performances From Bizet’s Opera Carmen (Contemporary Records, 1959) oggetto di varie ristampe. È stato, in effetti, il chitarrista a segnare il passaggio dalle atmosfere fox trot, stride e da swing-era al più moderno cool negli anni ’50, con azzeccati innesti dalla Carmen (1875) a partire da “La canzone del Toreador – Swingin’ The Toreador”  e principalmente riproponendo a modo suo “Free As A Bird”, la famosa habanera, forma musicale che è un esempio di musica “oggettiva” tratta da fonti preesistenti (…) dalla canzone di Sebastian Yradier El Arreglito, a sua volta una “normalizzazione” europeizzante e salottiera della danza cubana” (cfr. Antonio Rostagno, Ed. Teatro alla Scala, 2015).

Dal canto suo Jacqueline Rosemain ne ha sottolineato la derivazione da una canzone conviviale provenzale, confluita in una raccolta del lontano 1627. Stefano Zenni, nel definire in genere la habanera “danza cubana di andamento moderato, in tempo binario, divisa in due parti, una in tonalità minore e una in maggiore” derivata dalla contradanza, antenata del tango, ne ha puntualizzato la “duplice origine, una spagnola ed una africana, con una radice provenzale” con quel senso di ritardo ritmico tipico della musica nera delle Americhe “dall’oscillazione dello swing alla elasticità della bossa nova” (cfr. Breve storia della habanera, in La musica colta afroamericana, Sisma, 1995). Un’ibridazione di melodie e ritmi che avrà affascinato Kessel per pensare di “jazzare” parti dell’opera, dicono, più rappresentata al mondo, oltretutto così impregnata di “latin tinge”!

Niente di nuovo sotto il sole, certo! Louis Armstrong ascoltava i dischi di Enrico Caruso e la polifonia di New Orleans poteva richiamare in qualche modo situazioni da melodramma tipo il quartetto vocale di “Bella figlia dell’amore”, dal Rigoletto (cfr. Gunther Schuller, Early Jazz). Nello specifico la Carmen si è prestata a progetti più articolati come l’album omonimo firmato da Enrico Rava che fa il paio con “E l’opera va” (Label Bleu, 1993) contenente arie quali “E lucean le stelle” dalla Tosca, estratti dalla Manon Lescaut e da La fanciulla del West di quel Puccini che Chailly ha accostato a Gershwin (si veda in proposito su questa rivista il nostro saggio “L’America di Puccini ne La fanciulla del West” del 16 nov. 2017). Non trapianti di genere bensì proustiana condensa di memoria e memorie, suoni e visioni che riappaiono dal nostro passato.
Restiamo all’opera italiana. Intanto come non ricordare che Pietro Metastasio, il famoso librettista, era un poeta “istantaneo”? Intuiva, strutturava, declamava rime “all’improvviso”, una poesia orale composta, secondo John Miles Foley “come un musicista jazz o folk usa dei modelli nell’improvvisazione musicale”. Ma il jazz, nel settecento, navigava ancora nella placenta delle musiche del mondo.
E così ancora a inizio ottocento.

Eppure c’è chi, come l’inglese Mike Westbrook si è rifatto a Gioacchino Rossini in un pregevole album del 1987, appunto “Westbrook-Rossini”, della svizzera Hat Hut, riproposto anche recentemente con la Uncommon Orchestra, anche con arrangiamenti da La Cenerentola ad integrare abstract musicali da La gazza ladra, “Barbiere”, Otello e l’Ouverture del Guglielmo Tell. Musica varia, giocosa, cromaticamente accesa, quella rossiniana, che si ben adatta ai “remakes” più moderni ed innovativi.
Su Donizetti si è posata l’attenzione di Bruno Tommaso, Roberto Gatto, Cristina Zavalloni, Furio Di Castri, Madeleine Renèe ed è da segnalare il disco-rarità “A casa di Ida Rubinstein” della compianta Giuni Russo in cui la cantante interpreta fra l’altro “La zingara” donizettiana con interventi di Paolo Fresu ed il lieder “A mezzanotte”, con la partecipazione di Uri Caine, pianista a cui si deve The Othello Syndrome (Winter & Winter, 2008). Una passione antica questa per il cigno di Busseto; ricordava Gerlando Gatto su questa rivista che in un titolo di King Oliver del 1923 compare un’ampia sequenza de “La Vergine degli Angeli” da La forza del destino! Viva Verdi! Potrebbe essere uno slogan dei jazzisti inneggiante a siffatta star dalla marcia trionfale anche sul web con milioni di visualizzazioni; le cui opere sono state rivisitate dalla Ted Heath Orchestra nel 1973 così come dalla Banda di Ruvo di Puglia nel 1996, per non parlare ancora dai conterranei Marco Gotti, Trovesi, Di Castri, Bonati, Rea, Massimo Faraò, Attilio Zanchi, Renzo Ruggieri…

Ma perché mai questo interesse dei jazzisti su Verdi?  “Nella musica di Verdi sussiste una sorta di pre-blues poiché vi si descrive l’atmosfera di prima che arrivasse il jazz, anche attraverso personaggi di strada, un popolo di umili, il gobbo, la mondana, la zingara…” ha affermato sempre su queste colonne il chitarrista romano Nicola Puglielli del Play Verdi Quartet. L’operista fu egli stesso trovatore, griot melodrammatico al cui ” mood ” si rifà la cantante e compositrice Cinzia Tedesco, riprendendo parti salienti da Rigoletto, La Traviata, Aida, Nabucco, vista anche “all’opera” con l’Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta da Jacopo Sipari, arrangiamenti del pianista Stefano Sabatini. E con lei altri artisti quali il pianista Andrea Gargiulo, il quintetto Tomelleri-Migliardi-Corini-Garlaschelli-Bradascio, l’Orchestra di Piazza Vittorio con in repertorio anche arie dalle opere di Bizet, Weill, Mozart (Il flauto magico e Don Giovanni) quest’ultimo oggetto della egregia rivisitazione del trio di Arrigo Cappelletti.
Andiamo ai veristi. Su Mascagni, sull’Intermezzo di Cavalleria rusticana, è caduta la mano pianistica di Danilo Rea mentre della “sorella siamese” Pagliacci, di Ruggiero Leoncavallo, Max De Aloe ha rielaborato in 4et “Vesti la giubba” nella compilation Lirico Incanto (Abeat, 2008).

Singolare, a proposito di Leoncavallo, una Mattinata tutta anni ’20 della Tiger Dixie Band nel disco dedicato a Bix. Ma sfociamo nel campo delle canzoni d’arte. Torniamo all’opera. Francesco Cilea, altro rappresentante della Giovane Scuola Italiana a inizio secolo scorso, è omaggiato dal pianista Nicola Sergio nel cd Cilea Mon Amour della Nau. Di Puccini in parte s’è detto. Da aggiungere che il compositore trova estimatori di grande spessore nel mondo del jazz internazionale. Basti pensare a “Nessun Dorma” dalla Turandot ripresa da artisti del calibro di Lester Bowie e Don Byron. Finanche il bandleader Gerald Wilson figura fra i filopucciniani!

Fra gli italiani non si può non citare Marcello Tonolo e Michele Polga unitamente al pianista Riccardo Arrighini con il suo album Puccini Jazz- Recondite Armonie del 2008 (nell’ulteriore cd Visioni in Opera si occupa anche di Verdi e Wagner) ed inoltre il duo formato dalla cantante lirica Madelyn Renèe con il sassofonista Jacopo Jacopetti con il disco Some Like It Lyrics (EgeaMusic, 2016), in scaletta anche Bizet, Donizetti, Mozart.
Si potrebbe continuare a iosa fino all’oggi, alla cronaca-spettacoli, ad esempio a Knock Out – melodramma jazz d’amore e pugilato, regia di Silvio Castiglioni, con Fabrizio Bosso e Luciano Biondini – prodotto lo scorso anno, a riprova del fatto che l’opera lirica non è moribonda, anzi l’incontro con il jazz può essere un modo per riattualizzarla, in una sinergia così stretta che non sarà più lecito parlare di contaminazioni.
Chissà, prima o poi un editore si ritroverà forse a stampare un manuale di jazz standard con partiture tratte da opere italiane ed europee! Gli americani – come nel caso di “Summertime” da Porgy and Bess di Gershwin ovvero, passando dal teatro al film musicale, I Got Rhythm di Gene Kelly da Un americano a Parigi – ci hanno pensato da tempo. Un bel dì vedremo.

P.s. Questo articolo è dedicato alla soprano afroamericana Jessye Norman scomparsa il 30 settembre 2019 . In memoriam.

Amedeo Furfaro

Il Jazz in Sicilia: a Puntalazzo risplende la stella di Rosalba Bentivoglio

Questa estate ho deciso di trascorrere alcune settimane nella mia “Sicilia”, approfittando anche del fatto che il 28 luglio il mio libro “L’altra metà del jazz” sarebbe stato presentato durante il Festival Jazz di Puntalazzo. Avrebbe dovuto essere il mio unico appuntamento “di lavoro” ma come ben sa chi ama il jazz, questa sorta di “sfrenata passione” non ti abbandona mai e così ho raccolto un po’ di materiale che vi proporrò in questo reportage sul jazz siciliano.

Iniziamo con la recensione dei due concerti che ho ascoltato durante il Festival di Puntalazzo cui seguiranno due lunghe interviste con Francesco Branciamore e Stefano Maltese e alcune recensioni discografiche.

Ma andiamo per ordine e cominciamo con il Festival di Puntalazzo in programma dal 24 luglio al 9 agosto presso l’Azienda Costa Sovere di Puntalazzo di Mascali in provincia di Catania. Oramai da tempo sostengo che i festival jazz hanno ragion d’essere solo se concorrono in misura determinante a valorizzare le bellezze naturali e le valenze artistiche delle località in cui si svolgono. Ebbene il Festival di Puntalazzo si iscrive perfettamente in questa cornice dal momento che, fin dagli inizi, ha puntato quasi esclusivamente su alcuni tra i più rappresentativi musicisti siciliani, che hanno singolarmente al loro attivo una intensa carriera artistica e percorsi professionali che li portano ad essere tra i più interessanti nel panorama nazionale.

L’apertura del festival è stata affidata all’Orchestra Jazz del Conservatorio di Stato A. Corelli di Messina, diretta da Giovanni Mazzarino, con special guest la compositrice e cantante Rosalba Bentivoglio (ambedue Docenti nel Conservatorio). Ed è stata una scelta più che azzeccata per vari motivi: innanzitutto proporre un’orchestra è sempre impresa meritoria dato che, per evidenti problemi di costo, è sempre più difficile avere l’occasione di ascoltare una big-band. In secondo luogo proporre ad un pubblico non particolarmente “versato” una formazione a largo organico è uno dei modi più intelligenti per avvicinare il pubblico alla musica afro-americana. Infine se a tutto ciò si aggiungono la bravura dei musicisti selezionati e la bontà del direttore il gioco è fatto. Così l’orchestra messinese si è mossa con grande compattezza evidenziando un sound trascinante e alcune individualità di spicco come quelle del sassofonista Orazio Maugeri e del batterista Giuseppe Tringali.

Dal canto suo Mazzarino ha diretto con verve e mano sicura, conducendo l’orchestra là dove voleva che andasse, senza un attimo di stanca, anche quando i brani proposti necessitavano un rilevante sforzo interpretativo. In effetti la scelta del repertorio è stata un’altra carta vincente dal momento che accanto ad alcuni classici quali “But Not For Me” di George Gershwin, nell’arrangiamento di Bob Mintzer,  “My Funny Valentine” di Richard Rodgers, arrangiato da Giovanni Mazzarino e “The Song Is You” di Jerome Kern, l’orchestra ha poi rivolto la propria attenzione ad autori italiani; così abbiamo ascoltato “Night Bird” di Enrico Pieranunzi, “Miss Bo” di Gianni Basso arrangiato da Dusko Goykovich, “Muorica” e “Springtime” dello stesso Mazzarino, “Spider Blues” di Enrico Rava arrangiato da Paolo Silvestri.

Quasi inutile sottolineare l’eccellente qualità interpretativa di Rosalba Bentivoglio che ha proposto un suo brano “Fragments of Smile”.

La stessa vocalist è stata poi la protagonista, il 28 luglio, della serata più interessante dell’intero festival: in scena “Gli affreschi del mio giardino” spettacolo musicale realizzato su testi di Emily Dickinson, già rappresentato nella chiesa S.M. Alemanno a Messina e con la recitazione di Mariella Lo Giudice. Accompagnata da Valerio Rizzo al piano, Samyr Guarrera al sax e samflute, Carmelo Venuto al contrabbasso, Emanuele Primavera alla batteria e Andrea Liotta ai tamburi, la Bentivoglio è stata straordinaria nel costituire il punto focale attorno a cui si è imperniato uno spettacolo complesso impreziosito da una danzatrice butoh, Valeria Geremia. Il tutto condotto con maestria dal regista Enrico Guarrera. Così la splendida voce della Bentivoglio ha illuminato ogni singola sillaba, andando al di là della parola, per improvvisare con quei vocalizzi che costituiscono parte integrante della sua cifra stilistica, a costruire architetture sonore ben coadiuvata soprattutto da Samyr Guarrera, che al sax soprano e al samflute (strumento costruito artigianalmente per lui: sam flute) intesseva un onirico tappeto sonoro ideale per le improvvisazioni della vocalist.

Gerlando Gatto

Greta Marcolongo e Bonporti Jazz Band al TrentinoInJazz

TRENTINOINJAZZ 2018
e
Valli del Noce Jazz
presentano:

Sabato 14 luglio 2018
ore 21:00
Piazzetta Cesare Battisti
Cles (TN)

In caso di pioggia: Sala B.Bertolla

GRETA MARCOLONGO: PARIS

Domenica 15 luglio 2018
ore 21:00
Piazza Regina Elena
Malè (TN)

In caso di pioggia: Teatro Comunale

BONPORTI JAZZ BAND: RODGERS’ SONG

ingresso gratuito

Parte in quarta Valli del Noce Jazz, la sezione del TrentinoInJazz 2018 che si svolge nei comuni delle Valli del Sole e di Non. Si parte sabato 14 luglio a Cles con Paris, un omaggio alla capitale francese e al suo stile inconfondibile. Un viaggio nei primi 40 anni del Novecento fra testi e musiche di Edith Piaf, Marlene Dietrich, Josèphine Baker, Yves Montand, Charles Trenet e molti altri. Una produzione speciale che si ispira all’ambiente del “Cafè” parigino, tra ironia, malinconia, sano idealismo e un’attenzione al canto come specchio del vissuto. Insieme alla vocalist Greta Marcolongo, troviamo Matteo Cuzzolin (sassofono e clarinetto), Pietro Berlanda (flauto), Michele Giro (pianoforte), Marco Stagni (contrabbasso), Roman Hinteregger (batteria).

La sera successiva a Malé, per il secondo concerto delle Valli del Noce, la Big Band di Jazz del Conservatorio Bonporti di Trento, con direzione e arrangiamenti di Paolo Silvestri. La band nasce nel 2009 all’interno dei corsi di Musica Jazz per poter dare agli allievi la possibilità di sperimentare ed approfondire l’esperienza di un insieme orchestrale peculiare nell’ambito della musica improvvisata. In questi anni l’orchestra ha avuto occasione di lavorare professionalmente con repertori, direttori e arrangiatori tra i più importanti del panorama jazz mondiale: Kenny Wheeler, Bruno Tommaso, Uri Caine, Paolo Fresu, Giancarlo Gazzani, Gil Goldstein, Maria Schneider. Con questi repertori l’orchestra ha già al suo attivo parecchi concerti all’interno di manifestazioni organizzate dal Conservatorio stesso e da diversi Festival Jazz Nazionali.

Prossimo appuntamento con il TrentinoInJazz 2018 martedì 17 luglio: Tiziano Bianchi Sextet a Mezzolombardo (TN).

I nostri CD.

Sergio Cammariere, – “Io” – Jando Music/ Parco della Musica.
Sergio Cammariere, da Crotone, città di Pitagora, da buon pitagorico è portatore di una scuola di pensiero (musicale) alquanto eclettica che coinvolge diversi ambiti: cantautorato nazionale e chansonniers, musica latina ed etno/mediterranea, jazz, di cui trasuda anche il suo pianismo caldo e duttile. Il centro della sua “dottrina” non è tanto il numero, né i teoremi, bensì l’Armonia intesa come manifestazione spirituale dell’individuo attraverso la Musica. “Io”, settimo album a sua firma, prodotto da JandoMusic e Parco della Musica, con la Grandeangelo, è la giusta occasione per fare il punto sulla sua esperienza artistica descrivendone la saudade intensa, qua e là velata di ironia, e con essa la relativa pratica musicale, nei diversi brani in track list. Un “Io” Armonico intimo eppure da palcoscenico, quello che si rivela, anche grazie ai testi di Roberto Kunstler. Per un romantico come lui che duetta disinvoltamente con Chiara Civello in ‘Io con te o senza te’ e con Gino Paoli, una generazione in più, in ‘Cyrano’. Sono una sorta di anamnesi, in note e canto, la ritmica ‘Tempo perduto’ e la suggestiva ‘Via da questo mare’: “il tempo vola (…) e mi fermo indietro a ricordare / che ho voglia di andar via da questo mare”. Non mancano i live della famosa ‘Tutto quello che un uomo’ (terzo posto a Sanremo nel 2003 oltre che Premio della Critica e quale Migliore Composizione Musicale) e dell’altro gettonato hit ‘L’amore non si spiega’. Ecco ancora nel disco affiorare contaminazioni in ‘Dalla pace del mare lontano’ mentre lo sguardo in avanti, rivolto al futuro, sta soprattutto negli inediti ‘Chi sei’, ‘Ti penserò’, ‘La giusta cosa, ‘Sila’. E c’è quel ‘Cantautore piccolino’ che ha dato il nome al suo primo album-raccolta uscito quasi dieci anni fa, nel 2008. Prova che “Io” non sta per Ego, e che la semplicità ed umanità di Cammariere restano una dote grande quanto una musicalità, la sua, che sull’equilibrato senso poetico, unito alla sintesi di più fonti ispirative, basa la forte Id/entitá della propria musica. Lo affiancano, in queste registrazioni effettuate fra Casa del Jazz e Auditorium Parco della Musica di Roma, Fabrizio Bosso, Luca Bulgarelli, Amedeo Ariano, Bruno Marcozzi, Roberto Taufic, Paulo La Rosa, Ousmani Diaz, Marcello Surace, Francesco Puglisi oltre a Paolo Silvestri per gli arrangiamenti orchestrali e dei fiati.

Mike Zonno – “Fado encontra jazz” – Musicartepoesia
Sugli incontri tra jazz e forme musicali latine esiste un’ampia letteratura. Alla popolazione di origine francese della Louisiana va ascritta la musica cajun, con influenze blues. La brasiliana bossa nova opera sin dagli anni ’50 una trasfusione di propri cromosomi nel repertorio degli standard jazzistici. Guardando allo spanish tinge è notorio il legame fra flamenco e jazz, reso più stretto dalla comune propensione ad improvvisare. E come tacere del prolifico incrocio fra tango (con strati di melodia italica) e jazz, che potrebbe esser simboleggiato dallo storico summit Piazzolla-Mulligan? Anche i portoghesi esprimono in note il loro soul con tanto di saudade. Possibile incipit discografico: un album del 1990, ‘Dialogues’, edito da Antilles, in cui il contrabbassista statunitense Charlie Haden e il chitarrista portoghese Carlos Paredes si confrontano per occasionare una combine fra fado e approccio jazz. Prima di allora brani come ‘Coimbra’ (Avril in Portugal) o ‘Lisbon Antigua’, che son poi le due città fadiste per eccellenza, avevano tenuto vivo il mito Portugal nell’immaginario musicale collettivo, riprese da swingers e singers. Su tale solco ecco ora un interessante album di musicisti pugliesi, dunque provenienti dalla terra della famiglia Piazzolla, che si cimentano col fado … jazzisticamente trattato. Intendiamoci. Artisti come i Madredeus o Dulce Pontes peregrinano fra i festival jazz esportando la propria musica in the world.
Ma il risultato è di norma diverso se sono dei jazzisti a reinterpretare. Nel cd “Fado Encontra Jazz”, intanto, sembrano accorciate, saltando l’Atlantico, alcune distanze fra Portogallo e Brasile, grazie alle comuni radici linguistiche. Si ascolti in proposito il samba ‘Barco negro’ di Piratini e Ferreira. La “migrazione” del samba oltreatlantico (e ritmi carioca) ha avvicinato i due emisferi. Ovviamente il fado conserva la sua struttura e il testo, ove presente, ne tradisce, e conferma, la natura intimamente poetica. Qui il canto di Lisa Manosperti, coraçâo da Amalia Rodriguez, rende il senso della malinconia quasi bahiana del fado, con quell’alone di fato incombente che ne è tratto tipico (‘Fado português’, ma soprattutto ‘Canção do mar’, dove Michele Carabba lascia il soprano e fa il verso a Gato Barbieri). In una formazione la cui ritmica si avvale del contrabbasso di Mike Zonno e della batteria di Gianlivio Liberti, c’è da segnalare, fra i 13 brani, ‘O infante’ di Pessoa e della Pontes, transmutata in una ballad che il pianoforte di Vito Di Modugno armonizza. Cosí come, dopo il frizzante ‘Ferreiro’, la ‘Canção Verdes Anos’ di Carlos Paredes, che va a completare il campionario di hits resi celebri da Ferrao, Bevinda, Vitorino, Trindade. “Canti di portoghesi – recita Pessoa – Sono come barche nel mare/ Vanno da un’anima all’altra/ Col rischio di naufragare”.