I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

Presente e futuro nel Roma Jazz Festival

Sono solo quattro i concerti che ho potuto seguire nel corso dell’annuale Roma Jazz Festival, ma se il livello di tutte le manifestazioni è paragonabile a quello dei musicisti che ho ascoltato, bisogna dare atto a Ciampà e compagni di aver ancora una volta scelto assai bene gli artisti da presentare al pubblico romano.

Ma procediamo con ordine. C’è voluto molto tempo prima che alla Fusion venisse riconosciuta quella dignità che merita. Una delle band che maggiormente ha contribuito all’affermazione della Fusion è stata Spyro Gyra, esibitasi all’Auditorium Parco della Musica il 12 novembre scorso. Siamo a New York a metà degli anni ’70 quando il sassofonista Jay Beckenstein, assieme al pianista Jeremy Wall, mette su un gruppo che curiosamente chiama Spyro Gyra da una famiglia di alghe, appunto le spirogire, la cui grafia viene cambiata dal gestore del locale dove si esibiscono per la prima volta. Nel 1978 viene inciso Spyro Gyra, ma il successo vero arriva l’anno dopo con Morning Dance che si piazza tra le quaranta migliori vendite di album negli Stati Uniti, con la title-track fra i singoli più venduti sempre negli USA. Da questo momento è tutto un susseguirsi di successi: oltre 10 milioni di album venduti, oltrepassati i 40 anni di attività, più di 30 album all’attivo. Ovviamente nel corso di tutti questi anni il gruppo ha cambiato spesso organico: Beckenstein, classe 1951, è rimasto a guidare il gruppo sino ad oggi condividendo la direzione della band con il pianista Jeremy Wall fino alla fine degli anni ’80. Ciò che è rimasto sostanzialmente invariato è la forza d’urto che questo gruppo sa esprimere sul palco: un cocktail di rhythm & blues, melodie popolari, riferimenti a ritmi caraibici in cui si innestano assolo di chiara impronta jazzistica. Ad interpretare questa formula vincente a Roma è un insieme di grandi musicisti che affiancano il leader ancora in gran spolvero: Tom Schuman, piano, Scott Ambush, basso, Julio Fernandez, chitarra e Lionel Cordew, batteria. Tutti sono apparsi assolutamente all’altezza del compito regalando agli spettatori alcuni momenti davvero spettacolari come un duetto, artisticamente pregevole, tra batteria e contrabbasso, alcuni momenti in cui il leader ha imbracciato contemporaneamente i suoi due strumenti sax alto e flauto, e un brano di chiara ispirazione cubana, De la Luz interpretato con sincera partecipazione dal chitarrista, per l’appunto cubano, Julio Fernandez che è membro di Spyro Gyra dal 1984.

Si inizia un po’ in sordina con Walk The Walk che fa parte del repertorio Spyro Gyra già dai primi anni ’90; la band sembra piuttosto freddina ma già con il secondo pezzo le cose cambiano. Groovin’ for Grover evidenzia un Tom Schuman in gran forma che sfodera un pianismo modale allo stesso tempo toccante e trascinante. Seguono in rapida successione altri brani tratti dai tantissimi album del gruppo: Captain Karma, Shaker Song che ritroviamo addirittura nel primo album inciso dalla band nel 1978, I Believe in You di Tom Schuman tratto da Alternating Currents, ottavo album in studio del gruppo pubblicato nel giugno 1985 e classificato al terzo posto dalla rivista settimanale statunitense Billboard per la categoria Top Jazz Album, il già citato De la Luz, l’originale versione di Tempted By The Fruit Of Another incisa dagli Squeeze nel 1981… Insomma un concerto che è andato in crescendo tra gli appalusi di un pubblico chiaramente appassionato del genere.

Il giorno dopo altro appuntamento straordinario con la Mingus Big Band. Probabilmente a ben ragione la big-band è considerata da molti la quinta essenza del jazz dal momento che ne contiene tutti gli elementi fondamentali: scrittura, arrangiamenti, improvvisazione, senso del collettivo, bravura solistica. Purtroppo in questo periodo è sempre più difficile ascoltare una grande orchestra sia dal vivo sia su disco. È quindi con il massimo interesse che mi sono recato all’Auditorium Parco della Musica per ascoltare una delle orchestre più prestigiose di questi ultimi anni: la Mingus Big Band. Nata nel 1991 per la volontà di Sue Mingus di perpetuare il repertorio del genio di Nogales, celebrandone la musica in tutti i suoi molteplici aspetti,  la band vanta attualmente undici album, di cui sei nominati per i Grammy, e nell’ottobre scorso ha pubblicato The Charles Mingus Centennial Sessions (Jazz Workshop) a 100 anni per l’appunto dalla nascita dell’artista; attualmente consta di quattordici elementi tra cui alcuni dei più grandi musicisti di New York, quali il trombonista Robin Eubanks, i trombettisti Alex Sipiagin e Philip Harper (dal 1986 al 1988 membro degli Art Blakey´s Jazz Messengers ) e Earl Mcintyre trombone basso, tuba, già a fianco dello stesso Mingus. Ben diretta dal contrabbassista russo Boris Kozlov, l’orchestra è in tournée per la prima volta dopo la morte di Sue Mingus a 92 anni nel dicembre scorso, e il successo è clamoroso ovunque si esibisce grazie all’elevato tasso artistico dei singoli musicisti. La loro musica si richiama espressamente allo spirito della musica mingusiana, un viaggio nell’affascinante universo del celebre contrabbassista e compositore. Gli elementi che hanno reso indimenticabile Mingus ci sono tutti: i repentini cambiamenti di ritmo, le melodie alle volte sghembe ma sempre affascinanti, i maestosi collettivi, gli assolo scoppiettanti, il potere trascinante, una miriade di sfaccettature che ben difficilmente si ritrovano in altre composizioni, la tensione che si riesce a trasmettere, l’immediatezza e l’universalità del linguaggio.

Molti i brani celebri in programma: dall’esplosivo Jump Monk, al trascinante Sue’s Changes tratto dallo straordinario “Changes One” inciso nel 1975 da una bellissima formazione comprendente Jack Walrath alla tromba, George Adams al sassofono tenore, Don Pullen al piano e Dannie Richmond alle percussioni. Ma i brani forse più riusciti sono stati So Long Eric e Self-Portrait in Three Colors. Il primo è stato scritto da Mingus per invitare l’amico e collega Eric Dolphy a tornare nella band dopo che questi, a seguito di una fortunata tournée, aveva deciso, nel 1964, di rimanere in Europa; ironia della sorte la sera del 29 giugno dello stesso 1964, a Berlino Ovest durante un concerto Eric ebbe un malore determinato da una grave forma di diabete che lo condusse alla morte. Self-Portrait in Three Colors è uno dei pezzi più classici di Mingus: lo stesso contrabbassista amava descriversi così nell’incipit di Peggio di un Bastardo (la sua autobiografia), uno e trino allo stesso tempo. Insomma, tornando al concerto, una serata memorabile grazie ad una musica straordinaria eseguita da un gruppo di eccellenti musicisti.

Martedì 15 almeno a mio avviso la più bella sorpresa del Festival: il concerto del pianista e compositore azero Isfar Sarabski. Avevo già ascoltato qualche brano dell’artista tratto dall’album Planet del 2021 ma sentirlo all’opera dal vivo è tutt’altra cosa. Ben coadiuvato da Behruz Zeynal al tar (strumento a sei corde simile al liuto che viene suonato con un piccolo plettro d’ottone), Makar Novikov al contrabbasso e Sasha Mashin alla batteria, il pianista si è espresso su altissimi livelli meritandosi i convinti applausi del pubblico. In realtà il concerto non era iniziato nel migliore dei modi: affidato soprattutto alle capacità solistiche di Behruz Zeynal la serata sembrava indirizzata lungo i binari di quel mélange tra jazz e medio-oriente di cui abbiamo già molte testimonianze. Per fortuna dal secondo pezzo le atmosfere sono cambiate e siamo entrati prepotentemente su un terreno assolutamente originale e poco frequentato in cui è difficile distinguere le influenze che fluttuano l’una sull’altra, dall’etno al jazz propriamente detto, dal folk alla musica classica senza trascurare l’elettronica, il tutto in un contesto strutturale ben delimitato. In effetti tutti i pezzi erano costruiti allo stesso modo: una lunga introduzione affidata volta per volta ad un singolo strumento per poi lasciare il campo all’ensemble che per la maggior parte del tempo si è espresso nella formula del trio, senza Zeynal. Ed è così emersa la straordinaria figura del leader. Nato nel 1989 a Baku, in Azerbaijan, Isfar Sarabski si forma presso il Berklee College of Music di Boston, per poi vincere nel 2009 la Solo Piano Competition del Montreux Jazz Festival. Per il piccolo Isfar la musica è un elemento immediatamente familiare: il padre è un grande appassionato di musica, la madre insegna violino mentre il suo bisnonno era Huseyngulu Sarabski, figura leggendaria della musica azera. Evidentemente tutto ciò ha contribuito in maniera determinante a creare un artista assolutamente straordinario che ha voluto condividere con il pubblico romano buona parte del repertorio contenuto nel già citato album Planet; splendida la riproposizione di Clair de lune di Claude Debussy interpretata con rara delicatezza e totale partecipazione.

E veniamo alla serata finale del festival, il 19 scorso, con Steve Coleman alla testa dei suoi Five Elements, vale a dire Jonathan Finlayson alla tromba, Sean Rickman alla batteria, Rich Brown al basso elettrico e il rapper Kokayi con il quale Coleman collabora fin dal 1985. Illustri colleghi hanno scritto meraviglie di questo concerto, e, una tantum consentitemi di dissentire. Intendiamoci: nessuno, tanto meno chi scrive, mette in dubbio le capacità di Coleman che in tutti questi anni ha dato prova di essere un grande artista; nessuno contesta la sua abilità nel rifarsi a musiche dell’Africa occidentale e dell’Asia meridionale; nessuno nega la sua profonda conoscenza della cd. “street culture”. Ma tutto ciò produce un certo tipo di musica che non trova il mio personalissimo interesse: non mi trascina (tutt’altro) la ripetizione per parecchi minuti dello stesso frammento melodico, non mi appassiona la matericità della sua musica, non mi convincono gli interventi del rapper anche perché nel passato ci sono stati esempi ben più probanti di integrazione tra jazzisti e rapper. Assolutamente apprezzabile, viceversa, il richiamo alla tradizione testimoniato dalla citazione di Confirmation, cavallo di battaglia di un certo Charlie Parker. Comunque il pubblico, non numerosissimo, ha gradito e l’esibizione è stata salutata da scroscianti applausi.

Il Festival si è così concluso con un bilancio ancora una volta largamente positivo: oltre 5000 presenze in due settimane di programmazione fra l’Auditorium, la Casa del Jazz e il Monk, con il coinvolgimento di ben 115 artisti provenienti da tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Azerbaigian, dalla Gran Bretagna alla Romania, passando per il Bahrain. “In tante edizioni, raramente ho visto un così grande entusiasmo del pubblico in ogni concerto, sia per gli artisti più famosi che per le novità. – Ha commentato Mario Ciampà, direttore artistico del festival. – Un pubblico trasversale, bambini, giovani e adulti che hanno voglia di buona musica e nuove proposte. Un successo che ci incoraggia a proseguire ulteriormente sulle traiettorie che hanno segnato questa edizione: il dialogo fra musica e innovazione tecnologica, il protagonismo femminile, la programmazione dedicata ai più piccoli e l’equilibrio fra i nomi storici del jazz e gli artisti più in sintonia con il gusto delle nuove generazioni come gli esponenti della nuova scena british, e non solo”

Gerlando Gatto

“Immersivity” è l’insegna del Roma Jazz Festival 2022!

E siamo alla 46° edizione: dal 6 al 19 prossimo torna il Roma Jazz Festival, che animerà la Capitale con 26 concerti fra l’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, la Casa del Jazz e il Monk Club, fino ad arrivare al Teatro del Lido a Ostia. Diretto da Mario Ciampà, il Roma Jazz Festival 2022 è realizzato con il contributo del MIC – Ministero della Cultura, di Roma Capitale ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
Dopo “Jazz is Now” del 2018, “No Border” del 2019, “Jazz for Change” nel 2020 e “Jazz Code” del 2021, il titolo di questa nuova edizione è “Immersivity”, per un approccio multisensoriale, ludico e coinvolgente che guarda al contemporaneo e al futuro senza dimenticare le radici di un linguaggio al tempo stesso colto e popolare, sofisticato e immediato, in grado di parlare a pubblici diversi, da quelli della sale da concerto e dei jazz club, fino ai frequentatori del dancefloor e dei grandi festival multimediali.
Giganti della scena mondiale come Steve ColemanSpyro Gyra e la celeberrima Mingus Big Band al fianco dei protagonisti della nuova scena british come Alfa Mist o esordienti puri come il collettivo Jemma, vincitori del programma LazioSound Scouting 2022. Il protagonismo femminile è incarnato da straordinarie artiste come Lady BlackbirdNuby GarciaRosa Brunello e Ramona Horvath mentre l’inarrestabile spinta all’innovazione è documentata da artisti già celebri come Enrico Rava – al festival con il chitarrista sperimentale austriaco Christian Fennesz e il percussionista indiano Talvin Singh – e Danilo Rea, in programma con il progetto cromestetico Soundmorphosis.
Ancora: i sofisticati software del pianista Ralf Schmid e le performance multimediali di XY Quartet, le visioni ecologiche di Kekko Fornarelli e della giovanissima Jazz Campus Orchestra con lo spettacolo Let’s Save The Planet e la carica visionaria di videoartisti come Paolo Scoppola e Claudio Sichel. La cura della tradizione del pianista azero Isfar Sarabski e l’avanguardia di Erik Fredlander, in compagnia di Uri Caine, o dell’ensemble Itaca 4et, ma anche i ritmi elettroacustici di Kodex. E poi le produzioni originali della New Talent Jazz Orchestra con un grande omaggio a Charles Mingus e di Fabrizio Consoli e Fausto Beccalossi che celebrano Pasolini, così come l’incontro fra jazz e teatro e i due appuntamenti dedicati ai bambini di Fiabe in Jazz.
Questo lo straordinario programma del Roma Jazz Festival 2022, che prosegue così l’incessante ricerca sulle trasformazioni della scena jazz nazionale e internazionale, sulle sue contaminazioni con altre forme espressive e con l’innovazione tecnologica per rendere ancor più manifesta la trasversalità assoluta del Jazz e offrirne una fruizione più dinamica e contemporanea.

Info: https://romajazzfestival.it/

CALENDARIO
6 novembre
Fiabe Jazz: I Musicanti di Brema | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
New Talent Jazz Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Lady Blackbird | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Ralf Schmid: Pyanook | Casa del Jazz, h21

7 novembre 
Rosa Brunello: Sounds Like Freedom ft. Yazz Ahmed, Enrico Terragnoli, Marco Frattini| Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

8 novembre 
Erik Friedlander The Throw | Casa del Jazz, h21

9 novembre
Ramona Horvath/Nicolas Rageau | Casa del Jazz, h21

10 novembre
Enrico Rava/Christian Fennesz/Talvin Singh | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

11 novembre
Nubya Garcia | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Kodex | Casa del Jazz, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Teatro del Lido (Ostia), h21

12 novembre
Spyro Gyra | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Lino Volpe/Rosario Giuliani: Jazz Story | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Casa del Jazz, h21

13 novembre
Fiabe Jazz: Cenerentola Rock | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
Jazz Campus Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Mingus Big Band | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

14 novembre 
Kekko Fornarelli: Anthropocene | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

15 novembre 
Isfar Sarabski Quartet | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Itaca 4et | Casa del Jazz, h21

16 novembre 
XY Quartet: 5 astronauts | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

17 novembre 
Danilo Rea/Paolo Scoppola: Soundmorphosis | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Jemma | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

18 novembre 
Alfa Mist | Monk Club, h21:30

19 novembre 
Steve Coleman Quintet | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

I NOSTRI CD: ANCHE NEL JAZZ IN “DUO” VIENE MEGLIO

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Francesco Cusa, Giorgia Santoro – “The Black Shoes” – Dodicilune
Album denso di contenuti questo registrato dalla flautista salentina Giorgia Santoro e dal batterista siciliano Francesco Cusa, artisti ben noti e apprezzati nel panorama jazzistico non solo nazionale. In repertorio diciassette composizioni, sedici originali più la conclusiva “Un Joueur de flûte berce les ruines” del grande Francis Poulenc. Il punto di partenza è declinato chiaramente nel titolo: le scarpe nere sono quelle del jazzista che proprio attraverso la musica tende verso il cielo. Il terreno su cui si muovono i due è quello della libera improvvisazione con un linguaggio ben coerente con gli obiettivi prefissati. Di qui il ruolo diverso assunto dai due strumenti: la batteria che quasi personifica la vita terrena con tutti i suoi pesi, mentre i flauti – la Santoro ne usa tutta la ‘famiglia’ – sembra indirizzare la musica verso l’alto. Ciò detto è comunque difficile se non impossibile penetrare nella mente dei due artisti e stabilire senza ombra di dubbio cosa volessero rappresentare. Alle nostre orecchie si presenta una musica tutt’altro che facile, in cui si nota una ricerca che si sostanzia in improvvisazione come composizione istantanea, tra le cui pieghe alle volte si intravvede qualche traccia di linea tematica, come nel caso di “Whisper”. Il tutto sostenuto da un bagaglio tecnico di notevole spessore e da una comune fonte d’ispirazione.

Franco D’Andrea, DJ Rocca – “Franco D’Andrea Meets DJ Rocca” – Parco della Musica Records 3 CD
Conosciamo Franco D’Andrea da tanti, tanti anni e quelle non poche volte in cui ci siamo confrontati sulla sua arte, sul futuro della musica, sulle possibilità insite nel jazz abbiamo sempre trovato un musicista, un artista, un uomo mai appagato ma sempre rivolto al futuro, alla ricerca di nuove situazioni che gli permettano di esprimersi al meglio. Ecco, quindi, questo triplo album registrato alla fine del 2021, in cui D’Andrea si confronta con Luca Roccatagliati (in arte Dj Rocca) musicista con il quale aveva già avuto modo di collaborare in due precedenti occasioni ma non in duo. Ovviamente in quest’ultimo lavoro le cose cambiano in modo radicale. D’Andrea si trova a dover connettere il proprio strumento con un suo “pari” che disegna paesaggi sonori in maniera totalmente diversa, mai dando tregua al compagno d’avventura in un rimpallo costante. Di qui un’incessante ricerca soprattutto sul suono, sulle combinazioni timbriche, cosa tutt’altro che banale dati gli strumenti in azione. Quasi inutile sottolineare come in questa registrazione così come in ogni concerto dei due, non esista alcuna scaletta ma tutto nasca spontaneamente nel momento stesso in cui gli artisti decidono di intervenire. Insomma questa realizzazione discografica ci consegna due artisti impegnati al massimo e particolarmente attratti da questo lavoro. Prova ne sia che l’album, verrà ripresentato in alcuni concerti che, se avete la possibilità, vi consiglio vivamente di andare a sentire.

Giovanni Falzone, Glauco Venier – “Dialogo espressivo” – Parco della Musica Records
All’insegna della melodia questo album che vede come protagonisti il trombettista Giovanni Falzone e Glauco Venier in una sorta di incontro che congiunge l’Italia dal momento che Glauco è friulano mentre Falzone è cresciuto in Sicilia. Ma a parte questa curiosità geografica, l’album, registrato il 3 agosto del 2020, si segnala per ben altre particolarità. Innanzitutto la qualità artistica dei due musicisti che oramai da tempo si caratterizzano non solo per le capacità strumentali ma anche per quelle interpretative; in secondo luogo la gradevolezza del repertorio: undici brani tutti composti dal trombettista il quale sottolinea come fosse suo preciso obiettivo mettere al centro del progetto la ricerca melodica, il suono acustico e l’essenzialità del duo. Obiettivo perfettamente centrato in quanto sin dal primo brano si percepisce compiutamente quella che sarà la cifra stilistica dell’intero album tutto giocato per l’appunto su un dialogo spontaneo, naturale, che pone in primo piano l’espressività: di qui il titolo “Dialogo espressivo” quanto mai centrato, cosa che raramente accade. I pezzi sono tutti godibili anche se personalmente preferisco “Il poeta del silenzio” anche questo titolo assai significativo dal momento che il brano è dedicato a Enrico Rava; particolarmente suggestivi anche gli altri due omaggi rivolti a Kenny Wheeler e Tomasz Stanko, come a dire tre trombettisti che hanno contribuito a forgiare lo stile del musicista siciliano.

Biagio Marino, Zeno De Rossi – “Break Seal Gently” – Fonterossa
Biagio Marino (chitarra elettrica, effetti) e Zeno De Rossi (batteria, percussioni) sono gli autori di questo “Break Seal Gently” uscito il 6 settembre per Fonterossa Records, l’etichetta fondata dalla contrabbassista Silvia Bolognesi. Il duo, al debutto discografico, si muove su quel territorio di confine che lambisce jazz, rock e free improvisation, ma lo fa sempre con grande lucidità e proprietà di linguaggio. D’altro canto si tratta di due musicisti che possono vantare un curriculum di assoluta eccellenza. In particolare Biagio Marino, nato a Eboli nel 1972 e residente a Bologna, ha alle spalle lunghi anni di approfonditi studi e sperimentazioni che l’hanno portato ad elaborare particolari tecniche chitarristiche basate sull’uso di accordature anomale, tecniche poi impiegate nei suoi progetti sempre caratterizzati da un sound affatto particolare come nel caso dell’album in oggetto. Zeno De Rossi (Verona – 1970) è artista completo sotto ogni punti di vista prova ne sia che attualmente è uno dei batteristi-percussionisti più richiesti sulla scena. Le sue collaborazioni davvero non si contano; in questa sede basti citare quelle con Hank Roberts, Wayne Horvitz, Bill Frisell, Greg Cohen, Ralph Alessi, , David Murray… In questo album i due hanno la possibilità di esplicitare appieno il proprio talento. Sei brani tutti scritti dal chitarrista in cui sognanti ambientazioni (“La grande pellicola effimera”) si incrociano con atmosfere in cui aleggia l’influenza del grande Frisell. Si tenga presente come il disco arrivi dopo una fase di maturazione iniziata nel 2021 e cementata attraverso tutta una serie di concerti.

Roberto Ottaviano, Alexander Hawkins – “Charlie’s Blue Skylight” – Dodicilune

Roberto Ottaviano al sax soprano e Alexander Hawkins al pianoforte acustico ed elettrico sono i superlativi interpreti di questo omaggio alla musica di Charles Mingus nel centenario della sua nascita (Nogales, 22 aprile 1922). Dedicare a Mingus un qualcosa è impresa da far tremare le vene ai polsi ma i due l’affrontano con il piglio e la determinazione giuste…per non parlare della classe e dell’originalità che costituiscono elementi fondamentali della poetica dei due artisti. Di qui un album assolutamente convincente declinato attraverso undici composizioni di Mingus tra cui brani arcinoti come “Pithecanthropus Erectus”, “Self Portrait In Three Colors” e “Haitian Fight Song” e pezzi meno eseguiti come “Canon” o “Hobo Ho”. Ma, a prescindere dai brani, i due si muovono sorretti da una intesa perfettamente, dialogando strettamente per tutta la durata dell’album, senza un solo attimo in cui si avverta un benché minimo calo di tensione. Il sax di Ottaviano appare lucido, preciso, timbricamente superbo come sempre mentre il pianismo di Hawkins è perfettamente a suo agio con le non semplici partiture del contrabbassista. In definitiva i due artisti, pur rimanendo rispettosi delle strutture architettoniche e delle trame narrative mingusiane, non rinunciano ad aggiungere un quid di originalità che conferisce al lavoro una propria pregnanza. Assolutamente inutile evidenziare un brano rispetto all’altro: vanno tutti ascoltati con la massima attenzione e la soddisfazione sarà massima.

Barre Phillips, György Kurtag jr. – “Face à Face” – ECM
Barre Phillips, Daniele Roccato – “Confluence” – Parco della Musica Records
Una doverosa avvertenza: qui non siamo nel campo del jazz propriamente detto ma in un terreno quasi di confine tra la musica moderna europea e una certa forma di sperimentalismo, basato totalmente sull’improvvisazione, pratica che i tre musicisti conoscono assai bene. Per cui se volete ascoltare questi album – per altro assai interessanti– è d’obbligo una buona dose di concentrazione che vi consenta di seguire le evoluzioni degli artisti. L’iniziativa per la registrazione del primo album parte dal contrabbassista che dopo aver ascoltato lo specialista di effetti elettronici ungherese lo vuole al suo fianco. Nasce così questo “Face à Face” registrato a Pernes-les Fontaines tra il settembre del 2020 e il settembre del 2021.  Come sottolinea lo stesso Kurtag, i due si sono trovati in piena sintonia nel mantenere l’intensità del dialogo. Inutile, quindi, cercare una qualsivoglia traccia di linea melodica, occorre lasciarsi andare totalmente al flusso sonoro che scaturisce dai due artisti. I quali sono impegnati a disegnare cangianti atmosfere a seconda di chi, in quel momento, detiene le redini dell’incontro. Di qui un universo sonoro che nasconde grandi sorprese come l’incalzante “Stand Alone” a parere di chi scrive il pezzo migliore dell’album, seguito da un altro brano di grande spessore, il conclusivo Forest Shout, un brevissimo, suggestivo bozzetto. Interessante sottolineare come i due artisti riescono a far convivere il sound di uno strumento acustico e tradizionale come il contrabbasso con le sonorità ultra moderne della strumentazione di Kurtag, davvero un esempio di come in musica quasi nulla sia impossibile.
In “Confluence”, registrato live nella Sala accademica del Conservatorio Santa Cecilia, a Roma, il primo marzo del 2020 il contrabbassista statunitense si trova a collaborare con un altro contrabbassista, Daniele Roccato, musicista che da anni si dedica all’interazione fra più contrabbassi, essendo tra l’altro il fondatore dell’ensemble Ludus Gravis, un gruppo di soli contrabbassisti (spesso nove) che si è affermato nel mono della musica moderna eseguendo partiture, fra gli altri, di Hans Werner Henze, Sofia Gubaidulina, Terry Riley, Gavin Bryars, Stefano Scodanibbio. Come evidenziato in apertura, i due contrabbassisti si incontrano sul terreno dell’improvvisazione libera e dal convergere di questi due percorsi musicali, totalmente diversi, emergono nuovi paesaggi che siamo sicuri saranno ancora nuovi e diversi se i due avranno modo di incidere un altro album. Insomma un’immersione totale in una sorta di università sonora per chi ama questo strumento. Un’ultima notazione: davvero belle le foto che accompagnano l’album.

Enrico Rava, Fred Hersch – “The song s You” – ECM
Registrato a Lugano nel novembre 2021, “The Song is You” è il frutto di un incontro tra due straordinari musicisti che pur partendo da situazioni piuttosto differenziate, trovano un magnifico punto di intesa negli otto brani presentati nell’album. In effetti il repertorio comprende oltre a due brani con la loro firma “Child’s Song” di (Hersch) e “The Trial” (Rava), alcuni standard come “Misterioso” e “‘Round Midnight” di Thelonious Monk, “The Song Is You” di Jerome Kern, “Retrato em Branco e Preto” di Jobim -Chico Buarque   e “I’m Getting Sentimental Over You” di George Bassman-Ned Washington. Per chi conosce anche se non approfonditamente questi due artisti, è facile capire come l’improvvisazione sia la chiave di lettura più appropriata per entrare nel mood dell’album. Sia Rava sia Hersch evidenziano una certa predilezione per linee melodiche riconoscibili e affascinanti e da questo idem sentire iniziano il loro discorso che li porterà a ridare nuova linfa a brani già iper noti come “Round Midnight” o “Retrato em Branco e Preto”. Ma anche nei due original la cifra stilistica dell’album non si discosta da quanto detto in precedenza. I due continuano a narrare le loro storie senza nulla sacrificare del proprio bagaglio ma facendo confluire l’uno nell’altro le capacità improvvisative ed esplorative. Insomma un album che tiene fede a quanto ci si poteva attendere da due giganti del jazz quali Enrico Rava e Fred Hersch.

Gerlando Gatto

Ciao Franco

La mattina, appena sveglio – maledetta abitudine – per prima cosa do uno sguardo alla rassegna stampa che mi arriva sul telefonino. E così ho fatto anche stamane; ad un certo punto, ancora non del tutto sveglio, noto la foto di un bell’uomo, giovane. Tra me e me penso: ma questo lo conosco. A poco a poco i neuroni si mettono in moto e lo riconosco, è lui, è Franco e capisco immediatamente: Franco Fayenz se ne è andato in un luogo, per chi ci crede, sicuramente migliore di questa terra.

La notizia è di quelle che si fatica a digerire anche se l’età di Franco (92 anni) ci aveva messo tutti in preallarme. Ma, come al solito, una cosa è immaginare altra cosa è vivere una determinata realtà.

Cercherò in questo breve ricordo di non lasciarmi andare a quell’ondata di tristezza che mi ha avvolto questa mattina anche se lo confesso non è facile. Conoscevo Franco non so bene se da 40 o 50 anni. Il nostro era un bel rapporto sempre improntato al sorriso, allo scherzo, al comune amore per il jazz.

Quando ci incontravamo o ci sentivamo per telefono lui amava prendersi gioco di me, inventando giochi di parole sui miei nome e cognome, ma lo faceva in modo così amorevole, col sorriso sulle labbra che sembrava voler dire “non badare alle mie parole, ti voglio bene” che era impossibile arrabbiarsi.

 

Ovviamente c’erano anche momenti più seri, quelli in cui si parlava di musica ed era un piacere ascoltarlo anche perché lui ti raccontava eventi, episodi vissuti in prima persona. Eventi che lo hanno visto protagonista della scena jazzistica almeno per trent’anni di fila in cui Franco si è segnalato come un grande divulgatore grazie ai suoi articoli, ai suoi libri e alle sue apparizioni in TV. Non dimentichiamo che negli anni Settanta Fayenz, assieme a Franco Cerri, collabora a “Jazz in Italia”, un programma di Carlo Bonazzi declinato attraverso una serie di interviste ai jazzisti le cui performances in giro per i jazz club della Penisola venivano mandati in onda. La sua brillante carriera è stata costellata da molti riconoscimenti che riteniamo superfluo ricordare in questa sede. Basti solo considerare il fatto che la stima da parte dei musicisti mai è venuta meno nei suoi confronti anche quando, per lunghi anni, ha lavorato per un quotidiano che mai è stato in cima alle preferenze dell’ambiente jazzistico globalmente considerato.

L’ultima volta che ci siam visti è stato nel 2015 durante il Festival Udine Jazz e non è stato un bel vedere dal momento che si vedeva come Franco, purtroppo, accusasse il peso dell’età anche se l’arguzia e la voglia di scherzare erano quelle di sempre.

Adesso non scherza più… almeno su questa terra. Ciao Franco, vai ad ascoltare altre melodie!

 

Gerlando Gatto

Phil Markowitz: è fondamentale suonare creativamente

Pianista e compositore raffinato ma anche uomo di rara disponibilità e gentilezza, Phil Markowitz – classe 1952 – è a mio avviso uno dei tanti musicisti ancora sottovalutato. E dire che nella sua vita di cose ne ha fatte tante. Basti al riguardo scorrere la sua ricca discografia e lo troviamo sia alla testa di proprie indimenticabili formazioni, sia come sideman accanto ad altri veri e propri giganti del jazz quali Chet Baker, Dave Liebman e Bob Mintzer.
Di recente abbiamo ascoltato il doppio album inciso in solitaria durante un concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 9 maggio del 2006. Ne siamo rimasti particolarmente colpiti e abbiamo avuto il desiderio di intervistarlo. Ci siamo rivolti all’amico Giorgio Enea, dell’ufficio stampa dell’Auditorium, il quale ci ha fornito un contatto mail. Così ci siamo scritti e Phil ci ha risposto immediatamente. Di qui l’intervista che pubblichiamo di seguito.

-Partiamo da un doppio album registrato live a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, il 9 maggio del 2006 ma pubblicato solo poche settimane fa. Ricorda qual era il suo stato d’animo quando suonò questa splendida musica?

“Ero davvero felice di suonare in concerto da solo e ovviamente anche un po’ nervoso prima di salire sul palco, cosa assolutamente normale. Ricordo di essermi molto concentrato per questa performance, considerato che si trattava di una scaletta parecchio impegnativa, e di essere stato infine molto soddisfatto grazie alla magnifica risposta del pubblico, cosa molto incoraggiante. I tre bis, poi, sono stati semplicemente meravigliosi”.

-Nel frattempo, sono trascorsi ben 16 anni; come è cambiato Phil Markowitz in questo lasso di tempo?
“Penso che quando uno arriva ai 50 anni più o meno sa chi è, ergo ci sono stati degli sviluppi da quel giorno ma essenzialmente il mio cammino musicale ha seguito la stessa strada eclettica che ho sempre intrapreso”.

– Qual è attualmente il suo approccio verso la musica?
“Da un punto di vista compositivo il mio approccio è quello di creare strutture in ambienti molto ben definiti e di suonare creativamente e inventivamente all’interno di esse. Per quanto riguarda le performance in gruppo è ed è sempre stato lo stesso: supportare la band, essere preparati e saper giocare di squadra”.

– Adesso riandiamo indietro nel tempo: un po’ come tutti i musicisti di jazz, anche lei prima di guidare propri gruppi ha militato come sideman in formazioni guidate da altri. Quanto ciò è importante nella formazione di un musicista?
“Se sei un musicista che si occupa del ritmo, che sia il pianoforte, il basso, la batteria o altri strumenti a corda, è cruciale per il tuo sviluppo musicale. Si deve saper valutare ogni situazione musicale e ogni musicista che si accompagna; ciò affina le tue abilità musicali e devi essere un artista maturo per avere successo. Io dico sempre ai miei studenti che le abilità di accompagnatore sono la parte più importante della disciplina di ognuno: una cosa è essere un gran solista, altra cosa è saper accompagnare. È la capacità di accompagnare che ti permette di far suonare bene la musica e di farti conservare il lavoro dato che così facendo metti il tuo leader nelle condizioni migliori!”.

– C’è stato un momento nella sua vita, nel suo percorso artistico che le ha fatto capire di essere in grado di affrontare una sua personalissima carriera?
“Non sono sicuro di aver capito la domanda ma in sintesi è stato il mio amore per la musica improvvisata che suoniamo e ovviamente i numerosi e incredibili maestri che ho avuto durante il mio percorso a spingermi verso una carriera fatta di musica. Inoltre, ho capito molto presto che è assolutamente importante essere un compositore con una propria, ben specifica unicità che ti consente di creare quegli ambienti nei quali s’innesta il panorama sonoro che ti rende immediatamente riconoscibile”.

– Lei ha ottenuto, per l’appunto, una straordinaria visibilità anche come compositore quando ha suonato con Toots Thielemans a NYC. Come ricorda quel periodo?
“New York negli anni Ottanta era magnifica, c’era un sacco di lavoro. Suonavo con Chet Baker, Toots, la Mel Lewis Big Band e, poco prima, con Joe Chambers; mi guadagnavo da vivere suonando nella downtown, in concerti con diversi gruppi. In sintesi, è stato un periodo molto fertile. Ovviamente sono molto grato a Toots, con il quale ho lavorato per quattro anni e che fu anche uno dei miei primi mentori quando studiavo al College nella Eastman School of Music. C’era questa meravigliosa confluenza di circostanze: ad esempio Bill Evans veniva al nostro concerto a N.Y. e noi suonavamo “Sno’ Peas”, un pezzo che Toots eseguiva ogni sera”.

Tra gli artisti con i quali ha suonato a lungo figurano Chet Baker e Dave Liebman, musicisti differenti quasi da ogni punto di vista. Qual è stato il suo rapporto con i due?
“Con Chet avevo un bellissimo rapporto anche se era più anziano di noi. In quel tempo – quando ero più vicino ai trenta che ai vent’anni – suonavo con la band. Lui era molto paziente con noi e dava il buon esempio a tutti. Ho certamente imparato l’arte dell’accompagnamento durante questo periodo; se qualcuno suonava un accordo sbagliato dietro a Chet rovinava le sue meravigliose e incontaminate sortite solistiche degne di Mozart. Quando mi sono trasferito a New York negli ultimi anni Settanta, conoscevo già Dave Liebman dalle sue registrazioni con Miles ed Elvin Jones e la band “Quest”, che aveva con Richie Beirach. Quando ero in città andavo quasi ad ogni concerto in cui c’erano loro; era sempre stato il sogno della mia vita suonare con Dave e nei primi anni Novanta il mio desiderio venne esaudito. Lui è sempre stato per me un assiduo e sincero maestro, mi ha sempre appoggiato ed ha avuto una grande e meravigliosamente positiva influenza nella mia vita. Penso che l’aver avuto, sin da giovanissimo, un interesse molto forte per la musica del XX secolo e per l’armonia cromatica mi abbia reso più pronto per i suoi concerti. La  “Saxophone Summit” è stata senza dubbio la miglior band con cui abbia suonato e quell’esperienza ventennale rimane la più entusiasmante che abbia vissuto nel mondo del jazz. Ci sono moltissime registrazioni meravigliose con quel gruppo e aver suonato con Joe Lovano, Michael Brecker, Ravi Coltrane, Greg Osby e naturalmente Dave Liebman è stata un’esperienza formativa dal valore incommensurabile. Per non parlare di Billy Hart che è senza ombra di dubbio il miglior batterista con cui abbia avuto il piacere di suonare”.

– Lei suona da solo, in combo e in big band. In quale situazione preferisce esprimersi?
“Adoro il piano trio perché come leader ti dà la maggior flessibilità mentre plasmi la musica. Anche il duo è estremamente gratificante, sebbene sia più difficile: devi accompagnare, essere tutta la band e suonare da solo. È un ambiente meraviglioso. D’altro canto, suonare con la sezione fiati è stato molto bello; in effetti per la big band è una lunga storia ma basti sapere che se si è pianisti in quel contesto è necessario sapere tutto ciò che l’arrangiatore ha messo in ogni spartito. La mia band con il violinista Zach Brock (jazzista statunitense, classe 1974, membro degli Snarky Puppy dal 2007 n.d.a.) è stata molto gratificante; ho sempre voluto lavorare con un violinista e ho sempre creduto che piano e violino siano un perfetto abbinamento sonoro”.

– Oggi il jazz è diventato materia di insegnamento e Lei se ne occupa appieno. A suo avviso, quanto è importante per il futuro della ‘nostra’ musica questo tipo di formazione?
“L’educazione jazz è una sorta di spada a doppio taglio. Ritengo che in questo momento sia importante perché la scena è molto più ristretta adesso rispetto a quanto lo fosse negli anni ’70 e ’80. Sono grato per la mia esperienza universitaria alla Eastman School of Music, dove ho incontrato Gordon Johnson (contrabbassista e chitarrista statunitense classe 1952 n.d.a) e il batterista Ted Moore con i quali ho fondato una band chiamata “Petrus” che vinse un concorso nazionale per il miglior gruppo jazz giovane con in palio una performance al Newport Jazz Festival del 1973. Nei prossimi mesi rilasceremo finalmente le nostre registrazioni in studio, che avevo conservato nel mio armadio… suonano come se fossero di oggi. Tutto ciò non sarebbe mai successo se non ci fossimo incontrati in Conservatorio. Le connessioni che si creano in ambito musicale con le persone che incontri, gli insegnamenti che puoi ricevere da grandi musicisti che normalmente non avresti opportunità di incontrare e la musica che crei, durano per la vita. E sono cose che non si dimenticano. È chiaro che per avere una preparazione più approfondita si deve studiare in Conservatorio, e ciò prevede dei costi; certo, si possono trovare insegnanti anche tra i musicisti di strada, ma non è la stessa cosa; tuttavia, nella scena attuale ognuno deve avere la consapevolezza di ciò cui va incontro: non tutti diventano star o super star, spesso i migliori musicisti non sono i più famosi, e spesso i più famosi non sono i migliori. Io ritengo che la pedagogia, come io l’ho sviluppata nei numerosi anni in cui sono stato educatore, specie negli ultimi 20 anni nel programma di laurea e dottorato nella “Manhattan School of Music”, mi abbia aiutato a definire il mio stile. Imparare ad insegnare può agevolare notevolmente il proprio sviluppo”.

– C’è qualche musicista che ritiene particolarmente importante per la Sua di formazione?
“Tutta la gente che ho menzionato in precedenza è molto importante: Chet Baker, Dave Liebman e posso aggiungere Bob Mintzer e Maurizio Giammarco in Italia. Queste sono le persone principali con cui ho avuto lunghe collaborazioni. Ma ovviamente ce ne sono state tante altre lungo il cammino dalle quali, ogni qualvolta si suoni assieme, si impara qualcosa”.

– Quando pensa di tornare in Italia?

“Si spera il prima possibile: È il mio posto preferito dove suonare”.

E noi ce lo auguriamo di tutto cuore; a presto Phil…

Gerlando Gatto