Casa del Jazz: grande successo per l’eroina dell’improvvisazione: Marilena Paradisi / Convince l’eclettismo di Erika Petti

Il penultimo appuntamento della serie “L’altra metà del Jazz” si è tenuto lunedì 20 novembre in concomitanza con la partita di qualificazioni della Nazionale contro l’Ucraina, evento che però non ha impedito alla sala di gremirsi di interessati e attenti spettatori.
Calcisticamente parlando, il primo tempo della serata ha visto protagonista la cantante Marilena Paradisi, accompagnata dal pianista cosentino Carlo Manna, di cui non ha mancato più volte (a ragione! N.d.A) di tessere le lodi.
Analizzando le ospiti di questi incontri, Marilena può essere considerata una figura atipica sotto alcuni aspetti: innanzitutto la sua formazione di musicista jazz, avvenuta più tardi rispetto a molte altre artiste, dal momento che lei aveva intrapreso la carriera di ballerina di danza contemporanea; poi, a seguito di un viaggio a New York e all’ascolto di numerosi dischi di musica jazz, primo tra tutti Ballads di John Coltrane, arriva il colpo di fulmine e l’innamoramento verso questo genere. Una volta rientrata a Roma, prende per cinque anni lezioni di canto dalla cantante lirica Fausta Coppetti Corti: «l’unica capace di tirarmi fuori la voce!» – dichiara Marilena.
Altro aspetto di discontinuità rispetto alle ospiti precedenti è l’aver preferito iniziare la serata cantando e non già rispondendo alle domande di Gatto, perché cantare, dice, le dà energia, quell’energia creativa che in qualche modo temeva di disperdere se prima avesse dovuto parlare.
La serata, dopo i saluti del direttore della Casa del Jazz, Luciano Linzi e l’introduzione di Gerlando Gatto, inizia con la Paradisi, accompagnata al piano dall’ottimo Carlo Manna (una vera scoperta!), che intona la dolcissima ballad di McCoy Tyner You Taught My Heart to Sing declinata in riverberi di scat e vocalese.
C’è da dire che, al di là di questo inizio classico, la principale cifra stilistica della Paradisi è l’aver improntato gran parte della sua opera musicale sulla sperimentazione e sulla pura improvvisazione; in particolare Marilena ha raccontato della sua esperienza con la soprano nipponica (dalla timbrica eccezionale) Michiko Hirayama, icona del canto contemporaneo (nota anche per il suo stretto legame artistico con Giacinto Scelsi) e della registrazione congiunta del disco Prelude for Voice and Silence (2011): quasi un’ora di pura improvvisazione vocale e di geniali “silenzi sonori”,  in cui, dato curioso, la Hirayama, alora ottantottenne, avrebbe dovuto partecipare solo a due tracce delle 34 registrate e delle 22 selezionate mentre in realtà è presente in otto.
Alla domanda del critico su quali siano stati i suoi riferimenti jazzistici, Paradisi non ha esitazione alcuna ad indicare Chet Baker, nella sua veste di cantante e non solo come trombettista, che collega ad Hellen Merril, due voci bianche caratterizzate dallo stesso minimalismo vocale. Di Chet, Marilena dice: «suona la voce come la tromba…».
La cantante ha poi illustrato la registrazione del disco The Cave (2013), realizzato in collaborazione con il percussionista Ivan Macera. Registrato all’interno del Teatro Il Cantiere di Roma, il disco è ispirato ad un articolo del musicologo Iégor Reznikoff che disquisiva sulla correlazione tra le pitture rupestri presenti nelle caverne preistoriche e la risonanza sonora; l’intenzione dell’album è appunto quella di trasportare l’ascoltatore in un’immaginaria caverna paleolitica dove ogni suono viene microfonato e amplificato. Un accenno anche al suo disco di improvvisazione testuale inciso con la  pianista Stefania Tallini (peraltro ospite della prossima e ultima serata di mercoledì 29 novembre, N.d.A. – info qui). Paradisi spiega che improvvisare parole è un esercizio di “scavo” e definisce il suo metodo come piccoli momenti poetici, assimilabili a haiku giapponesi.
Infine, ricorda con particolare affetto la sua collaborazione con Eliot Zigmund, batterista di Bill Evans, nata da una mail mandata da Marilena al musicista americano, dalla quale la vocalist non si sarebbe mai aspettata una risposta, tantomeno positiva,  e da cui, dopo un lavoro di organizzazione da parte della cantante durato circa quattro mesi, ha avuto origine il disco I’ll Never Be The Same (2002): di Zigmund ricorda soprattutto la generosità e il rispetto per le tradizioni che il batterista le ha saputo tramandare.
Dopo la citata You Taught my Heart to Sing, Marilena Paradisi è passata a Passion Dance sempre di Tyner e ad una stupefacente versione di Lawns – un omaggio alla grande Carla Bley – venuta a mancare recentemente – in una versione con l’arrangiamento vocale composto dalla stessa Paradisi, per finire con Would You Believe di Cy Coleman, brano reso famoso da Carmen McRae.

Nel secondo tempo della bella serata, al contrario degli attaccanti azzurri, la cantante e chitarrista molisana Erika Petti non ha mancato l’occasione avuta per presentarsi! L’intervista inizia parlando della sua formazione musicale e del fatto di essere cresciuta in una famiglia di musicisti: il padre è un trombettista, il fratello un fisarmonicista e la sorella pianista. Erika studia chitarra classica al conservatorio ma in realtà,  per un periodo, la sua carriera musicale passa in secondo piano in favore dei suoi studi universitari e della sua laurea in lettere: la Petti ci confessa infatti che se non avesse scelto la musica probabilmente avrebbe studiato filologia medioevale. Così non è andata, per nostra fortuna, ed Erika intraprende un percorso di studi biennale con la cantante e didatta di grande valore Carla Marcotulli.

In merito alla sua musica, descrive il suo genere come un jazz contaminato da influenze derivanti da vari stilemi come il pop, la bossa nova, il samba e la canzone italiana, primo tra tutti Pino Daniele, del quale la musicista apprezza la vis compositiva in primis e le lunghe linee melodiche. A onor del vero, Erika cita tra i suoi riferimenti musicali, come esempi di contaminazione, anche gli Earth, Wind&Fire… e come darle torto?  Queste caratteristiche appaiono evidenti nel suo album Sophisticated uscito proprio in questi giorni, un omaggio a grandi compositori quali Duke Ellington, Michel Legrand e Burt Bacharach, scomparso a febbraio di quest’anno. Parlando di queste commistioni, Erika enuncia quello che inconsapevolmente è diventato il filo rosso che collega tutte le musiciste invitate a queste serate, ovvero un unico tipo di distinzione tra buona e scarsa musica, senza discriminazione tra generi.
Inoltre, parlando dell’annoso tema delle difficoltà incontrate da una jazzista donna in un ambiente prevalentemente maschile, Erika racconta di aver incontrato alcuni ostacoli: tra questi l’impossibilità di suonare nella banda del suo paese natale in quanto donna, la sorpresa, da parte di alcuni, nel notare che la persona dietro ad un’abile esecuzione sia una donna e il fatto che in certi ambienti si sia ritrovata a dover citare uomini per qualificare un determinato ambiente di provenienza. E su questo postulato, la vostra redattrice rabbrividisce sdegnata… perché anche basta!
Infine, alla domanda postale da Gatto sullo stato della musica pop attuale in Italia, lei risponde invitando il pubblico a riflettere su come l’industria discografica possa influire pesantemente, per mere esigenze del mercato musicale, a conformare l’opera dei musicisti, a volte stravolgendola per adeguarla senza remore ai trend del momento…
I brani eseguiti dalla Petti, sono stati: Close To You di Bacharach in versione chitarra e voce e, nel celeberrimo riff finale, cantata anche dal pubblico in sala, e due pezzi di sua composizione, suonati insieme al pianista Pietro Caroleo: Amar y Vivir, con testo del poeta e cantante venezuelano José Carlos Morgana (accompagnandosi anche alla chitarra) ed E Tornerai, stavolta solo piano e voce.

Marina Tuni

ℹ️ INFO UTILI:
Casa del Jazz – Viale di Porta Ardeatina 55 – Roma
tel. 0680241281 –
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19:00 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

Incontri alla Casa del Jazz: Rita Marcotulli entusiasma – Ottavia Rinaldi commuove

Dopo una settimana di stop, mercoledì 15 novembre il nostro direttore Gerlando Gatto è tornato alla “Casa del Jazz” per il quarto appuntamento della sua serie L’altra metà del jJzz, in una sala particolarmente gremita, un po’ come avveniva nel lontano 2012 con le sue Guide all’Ascolto.
La prima ospite della serata è stata la rinomata pianista Rita Marcotulli, legata a Gatto da uno stretto rapporto di amicizia che dura ormai da più di mezzo secolo, quando il comune amico Mandrake, al secolo Ivanir do Nascimento, presentò al giornalista una giovanissima ma talentuosa Marcotulli; tanto talentuosa da venir chiamata già da giovane in tour con musicisti del calibro di Billy Cobham e Dewey Redman. Buona parte dell’intervista è stata costituita da un lungo excursus sulla sua vita e le sue opere: da un’infanzia vissuta a contatto con titani della musica e del cinema come Nino Rota, Ennio Morricone o Roman Polanski, grazie al lavoro di tecnico del suono del padre, alla sua carriera, ricca di soddisfazioni: infatti oltre ai tour con i già citati Redman e Cobham, si possono annoverare alcuni sodalizi con artisti italiani del calibro di Francesco de Gregori, Pino Daniele o Eugenio Bennato, la composizione della colonna sonora del film Basilicata Coast to Coast (2010) di e con Rocco Papaleo e la vittoria del David di Donatello come migliore musicista per il lavoro svolto in questo film (peraltro, prima donna a ricevere questo riconoscimento sin dalla sua istituzione nel 1975), il suo lavoro di rappresentanza dell’Italia a livello internazionale e il conferimento delle onorificenze di Ufficiale della Repubblica Italiana e Membro della Royal Swedish Academy of Music. Parlando della sua carriera, Rita non manca mai di sottolineare l’importanza di ogni singola esperienza vissuta: dallo stile cromatico di Redman al Jazz Rock/pop di Cobham, dalla musica leggera di Bennato e De Gregori a quella di Daniele: queste esperienze l’hanno aiutata a sviluppare una linea di pensiero per quanto riguarda i generi musicali non dissimile da quella espressa da altre musiciste nelle scorse puntate; infatti si schiera apertamente contro quello che lei chiama “snobismo” tra generi musicali, e propone invece solo un tipo di distinzione: quella tra buona musica e musica scarsa. Da questa affermazione si è aperto un dibattito sullo stato attuale della musica pop in Italia, e in questo caso Rita propone una riflessione applicabile alla musica, ma ad ogni genere di arte: in fin dei conti, i veri vincitori alla prova del tempo sono coloro che hanno il coraggio di innovare e di avere una propria originalità; pensiero condiviso appieno da chi scrive.
Infine il discorso è stato intervallato, come al solito, da tre brani straordinari composti dalla stessa Marcotulli: All Together, dedicata ad un amico che quella sera compiva gli anni, Indaco, e The Way It Is.

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La seconda parte è stata dedicata all’arpista e cantante esordiente Ottavia Rinaldi, che racconta del suo percorso musicale: partendo dalla Sicilia (per la precisione da Messina) terra di origine della musicista dove ha sviluppato sin dall’età di sette anni e mezzo una passione per l’arpa, si è trasferita prima a Monopoli, poi a Como, e poi a Parma dove ha conseguito il master di II livello nello studio dell’arpa classica e jazz. Per diversi anni frequenta il corso di alto perfezionamento jazz presso la Filarmonica di Villadossola con Ramberto Ciammarughi verso il quale la Rinaldi ha parole di sincera stima e gratitudine per tutto ciò che le ha trasmesso nell’ambito del jazz.

Nel suo discorso Ottavia pone molto l’accento sul gusto di suonare insieme agli altri in orchestra: motivo per il quale non ha ancora sviluppato un progetto in solitaria, andando in controtendenza rispetto alla stragrande maggioranza degli arpisti jazz – e proprio in quanto arpista la Rinaldi riferisce di aver affrontato le maggiori sfide, soprattutto per quanto riguarda una mentalità a suo dire chiusa nell’ambiente musicale nei confronti degli arpisti. Dopo aver parlato di sé come musicista, Ottavia racconta del suo primo album Kronos, pubblicato da Alfa Music, contenente sette brani autografi ed la riarmonizzazione di uno standard (“Like Someone in Love” di Jimmy Van Heusen); da questo album sono tratti i tre pezzi che hanno intervallato la serata (in ordine Kronos a metà, Valzer delle Anime e Ciatu, unico brano cantato dei tre). L’album, uscito proprio in questi giorni, vede come protagonista l’HarpBeat Trio, costituito per l’appunto dalla Rinaldi all’arpa e canto, Carlo Bavetta al contrabbasso e Andrea Varolo alla batteria. Il trio evidenzia una notevole dose di empatia e non poteva essere altrimenti dato che i tre collaborano assieme sin dal 2017. Infine,  si apre un dibattito sull’importanza dell’improvvisazione e sull’ambizione della musicista di rimanere attiva sia nel campo della musica classica – musica che, data la formazione ricevuta, non abbandona mai del tutto, come ripetuto più volte da lei stessa – che in quello del jazz.
Redazione

I nostri cd: in forma di Duo

I NOSTRI DISCHI 
In forma di duo  

Che lingua l’italiano! Cambi la doppia consonante in una parola, per esempio duello, simbolo di lotta/contrasto ed eccola diventare duetto che, soprattutto in musica, significa il suo esatto contrario. Il duettare può infatti evocare interscambio, dialogo, accoppiata, rendez-vous, insomma comunicazione duale, frontale, collaterale, duplice, finanche effusiva o derivante da abbinamento, binomio, affiancamento… in musica può rappresentare incontro ravvicinato di tipo a sé stante, sintonizzazione di antenne sensibili non lontane fra due emittenti-riceventi messaggi sonori destinati ad incrociarsi ed a generarne uno nuovo, diverso a seconda di chi cosa dove come quando lo ha prodotto. A seguire ecco alcuni album “in forma di duo” (in qualche caso con ospiti) quale esempio delle tante opportunità che il jazz può offrire al riguardo.

Olivia Trummer-Nicola Angelucci, Dialogue’s Delight, Flying Spark.
I dialoghi, in quanto genere letterario, nascono con Platone. A livello musicale si potrebbe partire dal seicento quando il primo melodramma, offrendo nuovo spazio alla vocalità nell’azione teatrale, allarga la scena al “parlato” con musica. Nel jazz, sin dagli inizi, il dialogo (a due), anche quello strumentale, ha rappresentato una forma primigenia di interplay seppure con un certo grado di variabilità simbiotica. Rientra in quel novero il recente album, marchiato Flying Spark, della coppia formata dalla pianista-vocalist Olivia Trummer e dal batterista Nicola Angelucci, ambedue compositori. Il titolo Dialogue’s Delight è già di per sé una dichiarazione di principio, La gioia e il diletto del dialogo lo si avverte nella garbata apertura affidata ad una “When I Fall In Love” reinterpretata con una modifica del giro di accordi che cambia i connotati al famoso standard di Victor Young, con lo spirito innovativo replicato più avanti in “Lil’ Darlin” di Neal Hefti.  Al disco partecipa in qualità di ospite il fisarmonicista Luciano Biondini in quattro delle tredici tracce totali (French Puppets, Valerio, Inside The Rainbow, Portoferraio).  C’è altresì da sottolineare, della virtuosa tedesca, la bellezza delle liriche da lei scritte. I testi sono riportati nel booklet compreso quello “manifesto” che dà titolo al cd. Di Angelucci spiccano, oltre alle doti di scrittura, la saggia ponderazione delle bacchette, con un tempo che viene “enunciato” in base ai livelli espressivi della partner, “calato” pienamente nella parte che con accorto gioco di ruolo il musicista si è autoassegnato.

Baba Sissoko – Jean-Philippe Rykiel, Paris Bamako Jazz, Caligola
E’ un avventuroso rally sonoro in undici tappe l’album Paris Bamako Jazz,  un “percorso”, su colori Caligola Records, del percussionista Baba Sissoko copilota il pianista francese Jean-Philippe Rykiel (n.b.: i ruoli sono invertibili). La collaborazione artistica, già sperimentata in Griot Jazz, della stessa etichetta discografica, è divenuta liaison caratteriale cementata in amalgama fra percussioni e keyboards, sovrastate dalla voce cavernosa dell’italo/maliano. L’ideale maratona che congiunge Pirenei e Hombori Tondo, Senna e Niger è un itinerario costellato da “stazioni” su cui sono situate icone di familiari ed amici, luoghi e genti, in una visione condivisa che il meeting incornicia di note. E’ un jazz bluesato con spiragli world man mano sempre più accentuati ed accentati nel costruire un assetto d’insieme con substrato di ipnotiche iterazioni e vertiginose circolarità che attutiscono le possibili asprezze di un tracciato divenuto, strada facendo, liscio e fluente.

Greg Lamy- Flavio Boltro, Letting Go, Igloo Records

Difficile prevedere a monte il risultato musicale dell’accostamento fra la tromba di Flavio Boltro e la chitarra dell’americano Greg Lamy. Per riscontrarlo la “prova regina” sta nell’album Letting Go edito da Igloo Records a nome dei due jazzisti a loro volta affiancati dal bassista Gautier Laurent e dal batterista Jean-Marc Robin.  Ne vien fuori un mix che esalta le qualità dei leaders, in particolare la fluidità armonica di Lamy, quasi pianistica nell’accompagnamento, e la abilità nel tirar fuori dal cappello umori rock e dis/sapori jazz “lasciati andare” con una sorta di understatement che ben si amalgama con quel certo senso cool (inteso anche come “di tendenza”) del trombettista. Quest’ultimo, lo diciamo per quanti sono abituati alle ricerche genetiche del Dna artistico, potrebbe far pensare a tratti a Wheeler o Baker per la pensosità che riesce ad imprimere, tramite il movimento delle labbra e delle dita, al proprio strumento. Ma Boltro è Boltro ed è una riconosciuta autorità del nostro trombettismo con colleghi di generazione che si contano sul palmo di una mano. La sua unicità si sposa felicemente con la forte personalità di Lamy nelle dieci tracce del cd in parte a sua firma, in parte di Boltro con la chiusura affidata a Chi tene ‘O mare di Pino Daniele. Un omaggio che consegna e riconferma ancora una volta il cantautore partenopeo al songbook jazzistico.

Duo Improprium, Incontro, Dodicilune Records.
La coppia di musicisti siciliani formata dal flautista Domenico Testai e dal fisarmonicista Maurizio Burzillà, in arte Duo Improprium, presenta l’album Incontro edito da Dodicilune Records. Il lavoro intende dar corpo ad un progetto che vede allineati due strumenti che non ricorrono né si rincorrono spesso nel jazz. I quali, a dire il vero, non si dimostrano affatto “impropri” se messi assieme in quanto uniscono la capacità lirico-tematica del flauto a quella di strutturazione armonica e ritmica della fisa. Già nell’incipit del disco, “Tango for Cinzia”, appaiono più che “consoni” nella “proprietà” di linguaggio musicale sia melodica che improvvisativa (un’altra figura femminile affiora nell’altro brano “Luiza”). Il loro approccio classico si evidenzia appieno in “Suite n. 1” e in “Allegretto Fugato” così come il loro “spanish tinge” si rivela senza veli nell’andante “Badambò”. Nel tarantellato “Improprium” è la vena popolare a rigonfiarsi di echi etnici ed è forse questo il momento più “proprium” che caratterizza la particolarità del duo in questione.

B.I.T., Equilibrismi, Filibusta Records.
Il duo B.I.T. al secolo la sassofonista Danielle Di Majo e la pianista Manuela Pasqui  licenzia, per i tipi di Filibusta Records, Equilibrismi, album che segue di un biennio Come Again, della stessa label. In effetti trattasi di un “duo plus…” poiché in alcune tracce sono presenti la vocalist Antonella Vitale e il sassofonista Giancarlo Maurino di cui sono eseguiti due brani, “Meteo” e “Um Abraço”.  Si tratta di un lavoro estremamente lirico e bilanciato, nel solco del precedente. Qui la Pasqui sigla cinque composizioni su otto a partire dalla prima, “Green Tara”, su ritmo “(s)latin” fino a “For Kenny” presente anche sulla rete per chi volesse “visionarla”. Un pianismo colto e sensibile, il suo, che stimola la Di Majo nel lib(e)rare il suono, oltre che a soprano ed alto, anche al flauto, come in “Jeanne del Belleville”. La musica del duo, avvinta come in “Edera”,  in “L’equilibrista” pare camminare su fibre filiformi, in bilico su un centro di gravità che le consente di procedere sulla corda armonica tesa ancora per più “nodi”,  fino a quello conclusivo, “Hand Luggage”, autrice la Di Majo.

Francesca Leone- Guido Di Leone, Historia do samba, Abeat Records
Si vabbè la festa il carnevale ma il samba ha significato in Brasile storicamente “la voce di chi era stato sempre zittito dal suo status sociale, un modo per affermarsi nella società” come scrive Lisa Shaw.  C’è dunque un aspetto politico e sociale in tale forma musicale che ha radicata origine nella stessa origine africana e che non va sottaciuto.  Ed è un fatto che il samba, a livello musicale, con la sua speciale divisione ritmica che spinge alla danza, sia stato ispiratore di musiche di grande suggestione.  Ce ne danno un saggio, in un prezioso Cirannino formato cd edito da Abeat Recors, la vocalist Francesca Leone e il chitarrista Guido Di Leone. Historia do Samba è una “summa” di samba e musica carioca allargata cioè fino a choro e bossa, scritta da autori prestigiosi come Lyra, Bonfa, Jobim, Gil, Madi, Hernàndez, Menescal, Valle compresi i nostri Rota, Calvi, i medesimi due interpreti in veste di compositori.  Il disco, che vanta come ospite l’Oneiros String Quartet, annovera anche dei “trapianti” in chiave “sambista” di hits quali “La vie en rose”, “Cerasella”, “Everything happens to me”, in quanto, volere o volare, tutto si può sambare quando il samba si innesta nel jazz.

Stefano Onorati & Marco Tamburini, East of the Moon,   Caligola Records
L’album East of the Moon, è firmato da Stefano Onorati e Marco Tamburini. Il che già di per sé, essendo il disco – marchiato ancora e meritoriamente da Caligola Records – cofirmato dal compianto trombettista cesenate, rappresenta un evento a livello discografico. Vede la luce un lavoro “notturno” a suo tempo registrato durante le ore del buio quasi a voler iperscrutare la luna ed a riceverne inflessioni da riflettere nel suono. La registrazione risale a quando il trio elettrico Three Lover Colours stava lavorando alla sonorizzazione di “Le voyage dans la Lune”,- episodio inserito in “La magia del cinema” – sia in “Sangue e Arena”, dvd usciti in edicola per “L’Espresso” nella primavera del 2010. In quell’occasione peraltro non era presente il batterista del trio Stefano Paolini. Oggi quella musica si riconferma di lunare astralità nel descrivere il lato orientale di quel pianeta. Pare a volte eclissarsi quindi riemergere per successivamente rituffarsi nell’oscurità. Sono cinque le tracce – “Cantico”, “Lunar Eclipse”, “Black and White”, “East of the Moon”, “As It Was”, in cui la coppia tastiere-tromba è libera di improvvisare, trascinando e lasciandosi trascinare da quei chiarori che ispirarono Beethoven e Glenn Miller e dalla Moon che vari musicisti hanno visto blue o dark a seconda della prospettiva, anzitutto stilistica. Quella di Onorati e Tamburini avvolge e coinvolge chi alla loro musica si rivolge.

Dario Savino Doronzo- Pietro Gallo, Reimagining Aria, Digressione Music
Aprire l’opera come una scatoletta di tonno per estrarne il cuore melodico
principale, l’aria. Nell’album “Reimagining Aria” (Digressione Music) il flicorno soprano di Dario Savino Doronzo e il pianoforte di Pietro Gallo puntano la traiettoria su temi melodici espurgandoli di orpelli retorici, quelli ritenuti inutili, tenendoli peraltro ancorati alle rispettive basi armoniche. Felice la scelta per il repertorio   di   arie   di   compositori   sei/settecenteschi   meno   frequentati   dai concertisti come Antonio Cesti, Antonio Caldara, Francesco Cavalli unitamente ad   altri   più   gettonati   dai   concertisti   come   Alessandro   Scarlatti,   Benedetto Marcello,   Nicola   Porpora,   Giulio   Caccini,   per   un   totale   di   otto   arie   totali contenute   nell’album   arricchito   dalla   presenza   del   clarinettista  Gabriele Mirabassi in “Sebben Crudele” (Caldara) , “O cessate di piagarmi” (Scarlatti), “Dall’amor più sventurato” (Porpora). Lo stampo antico delle atmosfere viene velato dal piglio esecutivo antibarocco e da ricorrenti sonorità jazz. Ne vien fuori, ancora una volta dopo “Reimagining Opera” del 2020 (quando l’ospite era Michel Godard al serpentone), un lavoro originale, audace in “Quella fiamma che m’accende” di Benedetto Marcello che ritrae “una habanera che riecheggia   paesaggi   e   culture   lontane   attraverso   calde   melodie impressionistiche” e dall’afflato romantico in “Tu c’hai le penne, amor” di Giulio   Caccini.   Al   cui “recitativo accompagnato” si   potrebbe   associare idealmente lo   stile  del  duo   (plus   guest)   che   reimmagina   l’aria   d’opera   in quanto   intensa   esposizione   lirico-strumentale   su   una   solida   struttura   di accordi, ma con aggiunta di elementi reinterpretativi che ripensano spunti tratti da mezzo millennio di storia della musica.

Amedeo Furfaro

La musica di Danilo Rea, libera e in movimento, come l’acqua

Si dice che nella botte piccola si conserva il vino più buono e in quel di Staranzano, piccola località di settemila anime in Friuli-Venezia Giulia, nella provincia di Gorizia, nella botte ci hanno messo appunto un delizioso e prezioso Festival dell’Acqua, con trenta appuntamenti in quattro giorni, dall’11 al 14 maggio, e di cui sentiremo sicuramente parlare a lungo (https://acquafestival.it/ ).
Tanti sono i motivi per pensare di collocare a Staranzano un concept-festival dedicato a questo prezioso elemento, principio ordinatore del mondo: in primis perché nel suo territorio s’incontrano armoniosamente le acque del mare, dei fiumi, della laguna e quindi perché non seguire il loro corso in un fluire di talk scientifici, performance teatrali, percorsi di ricerca, concerti, laboratori, eventi espositivi, escursioni e incontri letterari?
Detto fatto!
In questa prima edizione, trova spazio anche la musica jazz in una delle sue massime espressioni contemporanee: il grande pianista ed improvvisatore Danilo Rea, che si esibirà sabato 13 maggio (ore 21) alla Sala Pio X (ingresso libero su prenotazione al link: https://acquafestival.it/danilo-rea-in-concerto/ )
Di Danilo si potrebbero scrivere interi trattati, avendo egli suonato con il gotha del jazz, della classica, del pop, in una lunghissima carriera iniziata ai tempi del liceo classico con un gruppo dal bizzarro nome “Gigi sax e il suo complesso”! Celie a parte, dopo gli studi di pianoforte classico al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, un debutto nell’universo progressive rock con i New Perigeo e successivamente nel mondo del jazz, a partire dal 1975, con il Trio di Roma, Rea raggiunge una popolarità internazionale e collabora con artisti quali Chet Baker, Lee Konitz, Steve Grossman, Michael Brecker, Tony Oxley, Joe Lovano, Gato Barbieri, Aldo Romano, Brad Mehldau, Danilo Pérez, Luis Bacalov (e sono solo alcuni…) e in Italia con Mina, Pino Daniele, Claudio Baglioni, Gino Paoli, Domenico Modugno; senza dimenticare il sempervirens progetto Doctor 3, un unicum nel panorama musicale italiano per aver saputo rileggere il pop in chiave jazz con grande sapienza (Pietropaoli, Rea, Sferra, recentemente intervistati per noi da Daniele Mele http://www.online-jazz.net/?s=doctor+3 ).
A Staranzano, il pianista romano eseguirà un affascinante repertorio dedicato all’acqua, in piano solo. Comunque, trattati a parte, se desiderate scoprire chi è davvero Danilo Rea, leggete il suo bellissimo libro-biografia “Il Jazzista Imperfetto”, scritto a quattro mani con Marco Videtta (Rai Libri).

MT: parto innanzitutto con una mia curiosità personale: posto che non ho dubbi che il repertorio da te scelto e dedicato all’acqua rappresenterà – almeno per me – una “sovrapposizione sensoriale”: hai presente la sinestesia… ascoltare la tua musica e udire un colore, insomma… sensazioni così? Mi viene in mente “La Mer” di Debussy con quegli accordi che si rincorrono e gli occhi che si riempiono di tutte le sfumature del blu… e vedi il movimento ininterrotto delle onde del mare, fino a sentirlo dentro di te.

Puoi anticipare ai nostri lettori che cosa hai elaborato per raccordare l’elemento sonoro a questo elemento naturale, così prezioso per la vita sulla terra?
DR: Il tuo riferimento a Debussy mi sembra di grande ispirazione, non a caso qualche anno fa registrai per prova una improvvisazione pianistica proprio su quel brano.
Si l’acqua, la marea, il suono della pioggia, delle onde che si infrangono, è Musica! Spesso mi addormento con suoni d’acqua…
Per il concerto di Staranzano ho in mente una serie di temi come Moon River di Mancini, Wave di Jobim, Caruso e 4/3/1943 di Dalla, Sapore di Sale dell’amico Gino Paoli, per continuare con Bridge over Troubled Water di Simon e Garfunkel e tanti altri.
Vedremo come riuscirò a legarli insieme durante l’improvvisazione nel concerto stesso.

MT: la melodia è un po’ come l’acqua, va lasciata libera di scorrere perché il suo movimento è evoluzione, apertura mentale e desiderio di conoscenza. Tu sei un poeta dell’improvvisazione e conosco pochi musicisti che come te rispettano la melodia anche nel processo improvvisativo; inoltre hai creato un nuovo idioma espressivo nel piano solo. Forse il tuo segreto è che tu non suoni mai in modo auto-referenziale ma unicamente per suscitare emozioni in chi ti ascolta?
DR: si, suono per scambiare emozioni con chi mi ascolta, altrimenti non ci sarebbe motivo per suonare!
Suono giocando sempre attorno alla melodia, proprio perché nel piano solo godo di totale libertà e posso uscire dal concetto di tema e conseguente assolo.
Entro ed esco dal brano in piena libertà, come in un sogno, una cascata di note che partono sempre da un tema a me caro, forse caro anche a chi ascolta.

MT: attraverso la tua musica hai la rara capacità di raccontare storie sorprendenti; il tuo è un pianismo che, se me lo concedi, definirei antinomico… ovvero fatto di continui contrasti, dolcezza e irruenza, lirismo e carattere, il calore della passione e la precisione della tecnica e ogni qualvolta io abbia ascoltato un tuo concerto, partendo da un’idea che mi ero fatta su quello che avrei potuto sentire, puntualmente, alla fine, mi sono sempre ritrovata piacevolmente spiazzata. Passi dai Beatles a Verdi, da Chopin ai Rolling Stones, da Bernstein a De André ed è strano, perché si ha la netta impressione che quei brani siano stati composti ad hoc per il tuo pianoforte.
Cos’è? Forse la conseguenza del tuo modo estemporaneo – e mai asservito ad alcuna imposizione stilistica – di approcciarti alla musica?
DR: credo che dai contrasti esca la musica, che non esista un pianissimo senza un fortissimo e che nell’improvvisare un intero concerto ci sia bisogno di avere una capacità di regia estemporanea, in maniera tale da creare tensione e rilassamento, per calmarsi, sognare e poi ripartire al galoppo.
Un buon improvvisatore non deve accontentarsi di essere bravo nella struttura dell’improvvisazione, deve andare oltre, guardare il brano come parte di un mosaico che dura l’intero concerto, come un racconto nel quale la melodia guida le emozioni. È come se tutta la musica del mondo avesse una matrice comune, Beatles, Puccini, De Andrè, prendendo le loro melodie e suonandole al pianoforte a modo mio, nel bene e nel male, si ritrovano unite.

MT: tempo fa lessi una tua intervista dove dicevi che i grandi musicisti classici del passato erano soliti improvvisare e che tu e Ramin Bahrami (insieme hanno realizzato il meraviglioso album “Bach is in the Air – N.d.A) non vi siete limitati a rileggere Bach né l’avete toccato ma avete “aggiunto”. Vista la già incredibile complessità dell’armonia bachiana e le sue invenzioni contrappuntistiche, ci spieghi che cosa tu e Bahrami avete inteso per “aggiungere”?
DR: con Bahrami è venuto tutto naturale, grazie alla sua fiducia nelle mie improvvisazioni che lui definisce in stile Bachiano: lui suona ed interpreta la partitura originale.
In pratica abbiamo aggiunto l’improvvisazione alla partitura, cosa credo mai fatta. In genere i jazzisti hanno sempre portato la musica di Bach a tempo di swing, quindi riarrangiandola completamente…
Questa operazione è molto delicata, tenendo conto della perfezione della scrittura di Bach, ma l’abbiamo fatta nel rigoroso rispetto della musica del Maestro di Lipsia.
D’altronde Bach era un grande improvvisatore e forse non sarebbe male se i giovani musicisti classici ripristinassero nel loro corso di studi l’arte dell’improvvisazione.

MT: cosa pensi di quanti, con riferimento ad alcuni cantanti di musica leggera che hanno voluto in qualche modo rivolgersi al jazz, criticano questa scelta ritenendola opportunistica e priva di qualsivoglia motivazione artistica?
DR: rispondo che sono anni che mi criticano per questo, ma seguo il cuore; improvviso su ciò che mi piace, senza preconcetti, ovvero, intendo dire che io stesso ho avuto critiche nel senso opposto, perché amavo improvvisare su un repertorio pop… trovo invece che sia una scelta reciprocamente utile, perché c’è tanto da imparare da ambo le parti!

MT: infine, so che sei un grande appassionato di motociclette, credo di aver letto che ne possiedi una decina. Verrai nella mia meravigliosa terra di acque, vento, arte, vini e cibi eccellenti con quel mezzo?
Scherzo, naturalmente, sebbene sia convinta che tu potresti anche farlo! Ti è rimasto qualcosa delle volte in cui sei venuto in Friuli-Venezia Giulia? Ricordo vividamente le tue performance a Udine con Tavolazzi e a Grado con Biondini.
DR: verrò in treno ma spesso viaggio verso i concerti in moto.
Il contatto con l’esterno, con l’aria, con la pioggia che cambia l’odore dell’asfalto, il caldo, il freddo, li puoi godere e subire solo in moto… però sono sensazioni forti che restano dentro, come d’altronde la vostra bellissima Regione.

Marina Tuni ©

Il Pop Italiano&non incontra il Modern Jazz

Organizzato dall’Associazione Civica Scuola delle Arti, nell’ambito del ciclo di incontri Inside The Music, sabato prossimo alle 18,30 in Roma, via Bari 22 si svolgerà l’evento “TM – TRIPOP: Il Pop Italiano&non incontra il Modern Jazz”.


Protagonista il trio jazz guidato dal pianista Danilo Ciminiello, completato dal bassista Fabio Penna e dal batterista Duccio Luccioli. La particolarità del progetto risiede nella rilettura in chiave Modern Jazz di alcuni dei più famosi brani del Pop Italiano e non solo. Sarà quindi possibile ascoltare classici di Francesco De Gregori, Lucio Battisti, Mina, the Beatles, Pino Daniele, Norah Jones ricchi di suggestioni e raffinatezze che emergono nell’approfondimento jazzistico.
Il Live streaming sarà effettuato con regia multicamera in hd, consentendo la massima partecipazione emotiva da parte degli spettatori da remoto.
Danilo Ciminiello è musicista che può già vantare un ricco curriculum costellato da esperienze assai diversificate nel campo del jazz, del pop/rock, senza trascurare teatro e televisione. In particolare nel campo del jazz il pianista ha collaborato con la U.M. BIG BAND diretta da Pino Iodice, con il gruppo “F.M. Project” con cui partecipa al “Toscana Jazz”(Colognole-LI), “Alatri Jazz”, “Fontana Liri Jazz Festival”, “Festival Jazz di Sondrio”(con la partecipazione del sassofonista Filiberto Palermini). Nel 2006 Suona presso il conservatorio Licinio Refice di Frosinone con il sassofonista Olandese Dick de Graaf. Nel 2008 Partecipa con il gruppo FFDG project al concorso ElbaJazzContest

(Redazione)

Non solo musica al “Gezziamoci” di Matera

di Serafino Paternoster –

Non sempre un festival di musica per essere interessante deve osservare una certa coerenza stilistica rispetto a un tema o a un genere. Lo sa bene l’Onyx Jazz club di Matera con il suo ormai larghissimo campo di azione che non si ferma alla musica, ma si muove in lungo e in largo anche intorno alla scoperta del territorio lucano, dei suoi angoli più suggestivi, delle sue risorse naturali ed enogastronomiche.

Sono ormai 35 anni che l’associazione materana si propone al pubblico locale e nazionale attraverso una rassegna, denominata “Gezziamoci” che si caratterizza proprio per la sua capacità di non fermarsi a un solo linguaggio artistico, a un solo ambito stilistico, ma di andare oltre i generi, di andare oltre lo stesso Jazz.

Basta un esempio, il confronto fra il concerto di Rita Marcotulli e del suo trio, e quello del trio di Tullio De Piscopo. Due proposte artistiche molto diverse fra loro, quasi contrapposte, eppure entrambe dentro lo stesso cartellone allestito dall’instancabile Luigi Esposito, presidente dell’associazione materana, e del suo team.

Nella suggestiva cornice della terrazza di Palazzo Lanfranchi, affacciata sui Sassi, Rita Marcotulli si è esibita con il suo trio Kàla presentando il suo ultimo disco ‘Indaco Hanami’. Sul palco, oltre alla pianista, Ares Tavolazzi al basso, e Alfredo Golino alla batteria. In repertorio brani eterogenei hanno creato atmosfere molto diverse fra loro, da “Indaco”, una vera e propria sinfonia di colori e di ritmi influenzata da caratteri nordeuropei, fino a una rivisitazione geometrica di “Napul’è” di Pino Daniele.

Tre grandi musicisti insieme non potevano non determinare un forte impatto emotivo grazie alla loro profondità di pensiero musicale, e alla loro capacità di mantenere, anche nelle composizioni più complesse, una grande compattezza sonora. Performance complessivamente all’altezza delle aspettative, anche se, forse proprio per la forte personalità di ciascuno, il brano meno riuscito è sembrato essere “Dialogues” interamente improvvisato sul momento. Solo in questa circostanza la compattezza sonora e stilistica espressa negli altri brani si è quasi sgretolata su tre canali distinti. Solo una parentesi di un concerto straordinario e dalle ulteriori potenzialità di crescita e che ha davvero tante “Cose da dire”, come si intitola il brano più intenso della serata.

L’anima di Pino Daniele ha trovato un posto più ampio nel concerto proposto nella stessa location la sera successiva dal noto batterista Tullio De Piscopo insieme al pianista Dado Moroni e al contrabbassista Aldo Zunino. Tutt’altra atmosfera com’era logico aspettarsi. De Piscopo ha fatto scintille prendendo per mano il pubblico e accompagnandolo nel blues partenopeo, a partire dal famoso brano “Je so pazzo” di Pino Daniele con il quale ha fatto cantare tutti i presenti. Un’altra cosa dalla spiritualità multiforme di Rita Marcotulli, ma non per questo meno piacevole. Almeno per le persone che hanno trovato esattamente quello che cercavano, allegria e musica con cui battere i piedi.

Due concerti molto diversi fra loro che danno la cifra della capacità di Gezziamoci di tenere dentro la rassegna progetti molto diversi fra loro, ma senza voler esprimere giudizi di merito e di valore.

Questa edizione della rassegna materana ha conosciuto tantissimi altri momenti emozionanti, come la performance per piano solo all’alba, sempre di Rita Marcotulli, o i concerti proposti nel giardino dell’Hotel del Campo: un omaggio a Battiato con la voce di Saverio Pepe e la programmazione elettronica di Pier Domenico Niglio, il duo chitarra e voce con Emanuele Schiavone e Angelo Cicchetti, il quintetto di Giovanni Amato. Nell’articolato programma hanno trovato spazio anche una degustazione di vini lucani . Chiuderà la rassegna il 9 settembre Alfio Antico, a Montescaglioso. Un evento per celebrare i 21 anni dal disco “Anima ‘Ngignusa” prodotto dall’Onyx. In scena Alfio Antico, voce, tamburi a cornice, Raffaele Brancati, sassofoni, Amedeo Ronga, contrabbasso, Paolo Sorge, chitarra.

Un’altra testimonianza del carattere eclettico di Gezziamoci e della sua estraneità agli algoritmi stilistici ormai di moda nel panorama nazionale ed internazionale.

Serafino Paternoster