Luca Aquino “Gong”, con le tavole di Paladino e i testi di Terruzzi: RomaJazz rompe il Digiuno da spettacoli dal vivo Imposto dalla pandemia con le dirette dal Parco della Musica

Quando in redazione abbiamo ricevuto il comunicato stampa del RomaJazz Festival, 44a edizione, con l’annuncio che i concerti, per ovvi motivi, si sarebbero tenuti live ma in streaming… beh, devo confessare di aver arricciato il naso!
#jazzforchange è il claim scelto per questa edizione. E il cambiamento è epocale, nel senso che se l’adattamento è la chiave di ogni trasformazione, ecco che il direttore artistico Mario Ciampà deve aver fatto suo il concetto di “ottimismo della volontà” per allestire un intero festival in “virtual mood”, in questi difficili tempi di pandemia.
Devo dire che per una giornalista del mio stampo, un’Artemide sempre a caccia di emozioni vive e costantemente alla ricerca di percorsi sinestetici e di suggestioni, un concerto non in presenza rappresentava una bella incognita… quale sarebbe stato il mio approccio a questa modalità? Forse, l’unico modo sarebbe stato quello di considerare la realtà virtuale come mezzo di comunicazione, un ponte attraverso il quale vivere l’esperienza, focalizzando la mia attenzione sugli stimoli provenienti da questo scenario, semplicemente lasciandomi andare… senza pregiudizio alcuno.
Scorrendo il programma, il concerto che più ha solleticato la mia curiosità è senza dubbio quello del trombettista beneventano Luca Aquino, che il 17 novembre presentava in live streaming HD, in anteprima mondiale, il suo progetto “Gong. Il Suono dell’ultimo Round”, dedicato ai grandi personaggi della boxe mondiale, con il suo trio formato da Antonio Jasevoli alla chitarra elettrica, Pierpaolo Ranieri al basso e un ospite specialissimo: il franco-ivoriano Manu Katchè alla batteria, un’autentica leggenda che annovera tra le sue collaborazioni Jan Garbarek, Joe Satriani, Peter Gabriel, Joni Mitchell, i Pink Floyd, i Dire Straits, Sting, Pino Daniele, Stefano Bollani… e l’elenco potrebbe continuare.
A completare la rosa dei protagonisti di questo spettacolo multimediale, le opere visive inedite di Mimmo Paladino, tra i principali esponenti della Transavanguardia italiana, e i testi di Giorgio Terruzzi, valente giornalista sportivo e scrittore.
Le storie dei boxeur raccontate sono quelle di Primo Carnera, Muhammad Ali, Sugar Ray Robinson, Nicolino Locche, Carlos Monzon e Mike Tyson.

Il canovaccio dello spettacolo è molto semplice ma di grande impatto e si snoda attorno alle storie, anche personali, di questi miti dello sport. Le musiche originali accompagnano immagini d’epoca dei match più significativi affrontati dai protagonisti, le loro vittorie e le loro pesanti sconfitte, dai primi anni del ‘900 con il gigante di Sequals, Primo Carnera, per arrivare fino ai nostri tempi con il racconto dell’epopea di “Iron” Mike Tyson.
Sul ring virtuale dell’Auditorium Parco della Musica scorrono sul grande schermo le forme stilizzate ed evocative di Paladino, potenti nella loro essenzialità: sfondo blu notte e tratto bianco. È evidente, da parte del Maestro, la ricerca del segno, in un perfetto equilibrio tra significato e significante inserito in un processo digitale di smaterializzazione del ritratto in megapixel… Il Maestro non è nuovo a queste contaminazioni, mi riferisco all’imponente installazione “I Dormienti” composta da cinquanta sculture in terracotta – venti coccodrilli e trenta uomini – collocati nel 1999 nella undercroft della Roundhouse di Londra, con gli interventi musicali (sebbene sia parecchio riduttivo classificarli come “interventi musicali”) di Brian Eno.
Il talento nella scrittura di Giorgio Terruzzi traspare anche in questi racconti di vite da film quasi sempre senza happy ending… La struttura delle storie è reticolare e consequenziale ed ogni parola confluisce verso un apogeo che spesso, per contro, corrisponde alla fase discendente della carriera e della vita di questi grandi uomini.

Primo Carnera

La prima narrazione è dedicata ad uno dei miei conterranei più famosi: Primo Carnera, il colosso dai piedi d’argilla (due metri per 120 kg!) un guerriero leale, un’anima gentile e un uomo di carne e di valori profondamente radicati, che Aquino ha saputo rappresentare in musica attraverso una ballata dall’andamento solenne, che quasi pareva di udire sul palco il passo cadenzato e greve del gigante… La tromba di Luca ha un impatto timbrico onirico, evocativo e lui ha un’abilità pazzesca nel saper “ascoltare” l’ambiente in cui suona, addomesticando riverberi al servizio del suo strumento.
Le tessiture ritmiche di Manu Katchè sono, ad ogni esibizione, una lezione di sagacia tattile mista ad un’incredibile scioltezza nei movimenti e ad un timbro delicato ma incisivo. Il batterista franco-ivoriano accarezza le pelli, sfiora i piatti, il suo drumming è un dono prezioso che lui elargisce sempre in punta di sorriso. Seducente!
Il secondo round dispiega una delle figure più iconiche del ‘900: Muhammad Ali, nato Cassius Clay nel 1942. “I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione”; invero, queste celebri parole del boxeur sono applicabili non solo ai campioni dello sport…

Muhammad Ali

Ali era leggenda, un’icona per i diritti degli afro-americani, un esempio di coraggio contro ogni convenzione, “The Greatest” ricevette persino la medaglia presidenziale della libertà, tra le massime onorificenze negli Stati Uniti. Sul ring sembrava un danzatore, era aggraziato, come il brano che accompagna le immagini d’antan: un pezzo lento con la chitarra di Jasevoli dai toni vagamente arabeggianti e il basso di Ranieri protagonista con una linea originalissima, che riunisce armoniosamente aspetti ritmici e melodici; bello lo slide. Il finale molto free è assolutamente in linea con il personaggio a cui il brano è dedicato!
L’estrosa Cadillac rosa del 5 volte campione del mondo dei pesi piuma Sugar Ray Robinson irrompe idealmente sulla scena. Sugar, quello delle epiche sfide con Jake La Motta (il Toro Scatenato di De Niro nell’omonimo film!) era nato nel 1921, ballava il tip tap nei Teatri di Broadway, suonava la batteria e la tromba nei locali jazz… e tirava in palestra: un tipo decisamente eclettico! La musica che lo descrive è dolce come lui, un dio della grazia, e inizia con bel giro di chitarra Fender intorno alla quale s’inseriscono man mano gli altri strumenti. Katchè fa sentire la sua presenza ma con un’inarrivabile leggiadria, un motore ritmico che gira in perfetta simbiosi con i compagni di palco. I cambi inaspettati di tempo, le sfumature jazz-fusion, un bel solo di basso e un volo di trilli della tromba di Aquino, che nel finale passa al flicorno, rendono l’ascolto di questo brano particolarmente avvincente.
“El intocable” Nicolino Locche, mostro sacro, assieme a Monzon, della noble art in Argentina (ma la famiglia era di origini sarde), era un vero e proprio grillo, maestro della schivata e molto incline alla trasgressione (fumava continuamente, anche un minuto prima di salire sul ring!) Morì a 66 anni – i polmoni… ça va sans dire – con un palmares di 136 incontri, di cui 117 vinti, 5 persi e 14 pareggi. Aquino, in scena da solo, ci mette momentaneamente in knock-down con la sua tromba midi e una loop machine con cui crea un tappeto di suoni sui quali ricama con flicorno, djembè, egg shaker… un’azione sonora totale e un’interazione molto ben calibrata tra acustico ed elettronico.
È di questi giorni la notizia che Mike Tyson torna sul ring il 28 Novembre, a 54 anni e dopo ben 15 anni di inattività; combatterà contro Roy Jones.
Iron Mike si porta dietro la nomea di essere il più pericoloso e violento pugile della storia: un cattivo soggetto, per nascita, ceto, destinazione… tante le sue vittorie ma anche squalifiche, accuse di stupro, carcere, botte, morsi (ricordate l’orecchio di Evander Holyfield che Tyson quasi mozzò, sputandone un pezzo sul tappeto e che gli costò la sospensione della licenza da pugile?), una vera e propria Gigantomachia la sua, un gigante solo contro tutti. L’opinione pubblica contro, pronta a giudicare, ad etichettarlo come un animale, senza chiedersi mai quali demoni interiori abbiano albergato in lui che, al contrario del dàimon socratico, lo hanno fatto sprofondare in una spirale distruttiva. E dopo tre mogli e otto figli (una di essi, Exodus, morta a 4 anni) Mike si rialza un’altra volta, forse dopo aver finalmente imparato il valore di una carezza.
Musicisti ora tutti sul palco per un insieme musicale molto mobile, con cambi di tempo, passaggi di tonalità e stacchi, connotato da una linea di basso molto efficace, dove il chitarrista – davvero bravo – esprime una marcata vena fusion e Katchè ci ricorda ancora una volta quanto sia un fuoriclasse, eseguendo in scioltezza le più articolate figure ritmiche, come nel suo solo dove il piede sulla cassa percuote a una velocità tale da trasformarsi nel becco di un picchio rosso su un tronco d’albero!
Il crescendo finale è corale, sulla scia della chitarra entra il flicorno minimalista di Luca Aquino, totalmente disinteressato ai fraseggi virtuosi ma cercando piuttosto l’essenza del suono. È un jazz palpitante, che scalcia e ripudia stilemi banali e dove un ballabile valzer vira improvvisamente in un incalzante ritmo latineggiante.
A questo punto, un applauso agli ingegneri del suono non è solo doveroso ma ampiamente meritato. Bravi! Ho trovato invece meno azzeccate le scelte della regia video: per l’amor del cielo, si vedeva benissimo, fin nei minimi particolari… ma forse, quello che non ha funzionato, a mio avviso, è proprio questo, i continui cambi di campo delle telecamere, i numerosi primi piani, non mi hanno fatto vivere il live come avrei sperato, ovvero facendomi dimenticare di non essere nella platea del teatro…
Nel corso dei saluti finali, Luca ammette quanto non sia facile suonare senza lasciarsi condizionare da file e file di poltrone vuote, in una dimensione quasi irreale.
Chissà se ciò gli avrà ricordato le atmosfere dello splendido concerto tenuto con il suo trio italiano e la Jordanian National Orchestra a Petra, l’antica città Rosa della Giordania, patrimonio dell’umanità UNESCO e considerata una delle sette meraviglie del mondo moderno; ovviamente quella romana non sarà stata un’esperienza così mistica ma ugualmente  surreale ed intensa.
Chiudo citando quelle che mi sembrano le parole più adatte alle sensazioni provate dopo aver sperimentato anche questa nuova pratica di ascolto, imposta dalla pandemia.
Sono del trombettista statunitense Jon Hassel: “gran parte del mondo percepisce la musica nei termini di un flusso che avanza, basandosi su dove la musica va e cosa viene dopo. C’è però un’altra angolatura: l’ascolto verticale, che consiste nel sentire quel che accade al momento”.
ps: il Digiuno Imposto che ho citato nel titolo di questo articolo è anche quello di un libro di poesie uscito nel 2000 in Germania, per i tipi di Matthes&Seitz Verlag di Monaco di Baviera, illustrato da Mimmo Paladino.

Marina Tuni

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Giorgio Enea Sironi (ufficio stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma) per la collaborazione e Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini per le immagini presenti nell’articolo.

Il Jazz ai tempi del Coronavirus le nostre interviste: Enrica Bacchia, vocalist, vocal coach, insegnante, performer, ricercatrice

Intervista raccolta da Marina Tuni

Enrica Bacchia

-Come sta vivendo queste giornate
“La sensazione di impotenza e lo sgomento delle prime settimane hanno lasciato gradualmente il posto ad un profondo senso di calma e benedizione. Ogni azione e ogni gesto diventano gesti e azioni più consapevoli con un valore che mai avrei attribuito loro, nel vortice della fretta di vivere oltre le righe, spremuta dal tempo fino all’inverosimile, del “vecchio” stile di vita. I vicini di casa si sono trasformati in nuovi volti con una diversa valenza, i contatti lontani appaiono – dopo una vita che non ci vediamo – richiamati magicamente dai pixel, magari sgranati, ma pur sempre in un movimento che conferma la vita.
“…E da voi come va? Come state?” È la prima domanda, appena appena ansiosa, che ci si pone. E si discorre, con voci falsate, sull’esistenza, sulla speranza, sul governo, sulle inutili mascherine, sui piccoli dettagli quotidiani. Si chiacchiera, come famiglie di una volta che abitavano le grandi case coloniche di antica memoria.
La connessione bloccata per una manciata di secondi ci permette di avere un’istantanea del parente o dell’amico: un volto fisso in un’immobilità forse un po’ sfocata, ma che ci regala un punto di osservazione leggermente più attento e consente di penetrare oltre il fluire del movimento: il mento in primo piano col relativo sottomento esagerato, i capelli non certo in ordine, qualche piccola ruga in più. Luci soffuse di lampadari invisibili creano autentiche aureole che incorniciano volti senza trucco, quasi ritratti in anticipo sull’emancipazione degli anni ’60, delle allieve che si esibiscono on line, assumendo l’aspetto e l’essenza di autentici, bellissimi Angeli più o meno intonati.
E quando non sono in collegamento, le spalle si rilassano e come una lucertola esco dal rifugio a cercare il sole. Profonda è la gioia per il raggio tiepido che ti tocca per tutto il tempo che desideri. Il tempo… questo Tempo mi scollega dalla routine di “enricautoma” e non ricordo più se il cassonetto va esposto oggi… o era ieri… ma in un contesto così che importanza può avere? E la vista gode del cielo terso come non mai e l’udito è pieno di gratitudine per questo silenzio benedetto che mette tutto in discussione e dà pace al mio sentire di musicista. Una momentanea pausa dal brusio del traffico e dal chiasso assordante, martellante, rumoroso, sporco, cacofonico e perennemente in sottofondo dei locali vicini che usano la musica a tutto volume con lo scopo di stordire e inquinare lo spirito umano deviandolo dalla sua naturalità. Benedico questo silenzio che mi concede di prestare attenzione anche ai più piccoli suoni della natura che trae – oggi – un respiro a pieni polmoni.
È proprio vero: un tempo così dilatato porta il pensiero verso un sentire nuovo, non di superficie e non pilotato dal trantran imposto da abitudini indotte. Ma è proprio quando la parola “dovere” mi spintona così bruscamente che entro in muta connessione con coloro che in questo frangente si trovano in prima linea a combattere, alternando la speranza ai dubbi o alle certezze di uscire vincitori nel grande gioco della Vita. Una lotta contro il tempo, in cui una giornata lavorativa sembra non avere termine e la propria salute fisica e mentale è costantemente sotto attacco. Ecco gli Eroi dei nostri tempi. Anch’essi angeli in terra che ci assistono e ci proteggono, sfidano la sorte per soccorrere, curare, tutelare, progettare, aiutare tutti gli altri, noi, io, tu. Le spalle mi si incurvano ancora.
Io qui, a casa, libera di essere in modalità di attesa, pronta per la commutazione da stato di inutilizzo temporaneo a modalità operativa. Mi sento molto fortunata. Ringrazio.”.

-Tutto ciò come ha influito sul suo lavoro?
“Il lavoro, ovviamente, oggi non c’è. E non faccio progetti futuri. So che sono nata per cantare. Questo è il mio talento, che metto da sempre sul piatto.”.

-Pensa che nel prossimo futuro sarà lo stesso?
“La portata di questo evento è così straordinaria che nessuno, per il momento, è in grado di azzardare ipotesi al riguardo. Di sicuro dovremo reimpostare le nostre vite, le priorità, cercando di organizzare i primi passi nel Futuro all’insegna della collaborazione senza per forza abbattere o smantellare gli altri”.

-Come riesce a sbarcare il lunario?
Sbarcare il lunario, sinonimo di Tirare avanti la baracca, Riuscire a vivere stentatamente… Perché l’uso di questa espressione nel porre la domanda ad una donna che ha scelto il canto come fonte esclusiva di vita? Quasi una provocazione l’uso di termini tanto crudi, che pur rispecchiano in modo così veritiero il vergognoso degrado in cui Musica – e Arte in genere – sono state fatte volutamente cadere. E noi, i protagonisti, sempre zitti… a rimandare alternative, evitando di far sentire le nostre voci, facendo della sola competizione – nella sua più ampia e arida accezione – il gioco ultimo per sopravvivere”.

-Vive da solo o con qualcuno? E quanto ciò risulta importante?
“Vivo con mio marito. Due caratteri diametralmente opposti. Un magnifico percorso di vita in cui abbiamo condiviso esperienze fantastiche con gli alti e bassi che, ancor prima di nascere, chiediamo alla vita di esperire. Con oltre quarant’anni trascorsi fianco a fianco siamo ben allenati nel vedere istantaneamente l’altro e, quando occorre, aggiustare diplomaticamente (quasi sempre grazie allo humor) piccole mancanze o (spesso miei) atteggiamenti impositivi.  Oggi ci capiamo senza parlare”.

– Pensa che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e   professionali sotto una luce diversa?
“Costruire rapporti umani basati sull’onestà e la trasparenza. È un lavoro che mette in luce le mie parti oscure, lento, duro, fatto di grande attenzione.
Supermercato, carrelli strapieni, brontolii sommessi. Ci si tiene a distanza. L’altro: potrebbe essere lui… Gli occhi e la fronte, uniche parti scoperte e libere dall’impaccio delle mascherine, raccontano, senza sottintesi, vissuti di paure o di solitudine, di nervi a fior di pelle, di disorientamento e smarrimento. In questi contesti, avvicinandoti alle persone, l’avverti. Una sensazione che puoi quasi toccare e, se non sei ben radicato, ti può trascinare in una stanchezza infettiva. Nelle lunghe code d’attesa evito ogni discorso trito e ritrito che possa ricadere sulla gravità del momento mentre vedo, in un’ottica espansa, come i rapporti umani futuri cambieranno per forza di cose. Se non per una precisa scelta personale, ci sentiremo più vicini, più uniti e collegati. I rapporti di lavoro dovranno fondarsi sulla comprensione reciproca e non sullo sfruttamento; sul desiderio innato di dare ciò che siamo veramente. Utopia? No. Semplice realizzazione di ciò che già esiste; senza cercare tanto lontano basta alzare quella sorta di velo che annebbia ancora la vista. Possiamo iniziare ora perché il FUTURO è già oggi. Nel bene e nel male i rapporti umani stanno già cambiando a livello planetario. Non ci siamo già accorti che è possibile entrare in connessione profonda con l’altro anche attraverso la rete? Che i nostri occhi parlano più della voce? Che siamo in maggior misura consapevoli delle piccole azioni quotidiane e delle conseguenze che esse implicano? Ma è ancora presto e ricadiamo ancora nei vecchi schemi, come bambini. Ci vogliono tempo, pazienza, allenamento, ascolto e altro…”.

-Crede che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento?
-Se non la musica a cosa ci si può affidare?
“Rispondo con un’unica risposta alle due domande perché le sento strettamente collegate tra loro. Prima però vorrei chiarire un punto cardine del mio sentire. Se il termine Terribile si riferisce alle morti di questi giorni: Sì, la morte appare tanto drammatica agli occhi degli uomini e per la prima volta nella storia dell’umanità paralizza il mondo intero senza discriminazioni; però, l’altro giorno meditavo su quanto fossi stata toccata dallo spazio mediatico conferito alla notizia della scomparsa di un genitore di una pop star. Poco tempo fa è mancata mia madre (ben prima dell’epidemia). Al suo funerale abbiamo pianto ma la sua dipartita è stata alla fine accettata per quello che è: un fatto naturale che prima o poi accade a tutti. Nessuno di noi familiari o amici se l’è presa con la Morte! Possiamo prendercela con la malattia ma non con la morte. Ebbene oggi la visione della Morte è radicalmente cambiata.
Sono consapevole di essere una delle (tante) voci fuori dal coro ma mi ascolti bene: spostiamo nuovamente il nostro punto di vista, sintonizziamoci in un’onda diversa e torniamo a considerare quello che lei definisce un momento terribile. Terribile perché l’unico in grado di farci cambiare uno stile di vita intollerabile sotto tutti i punti di vista? Terribile perché ci obbliga a pensare davvero a come reimpostare le nostre esistenze nel micro e nel macro livello? Terribile perché saremo costretti a correggere la gestione del potere, l’aggressività che abbiamo nel trattare il nostro pianeta, la disparità tra risorse umane e ogni aspetto crudele dell’esistenza che finalmente trova il modo di mostrarsi? Terribile lo è, forse, perché ciascuno è chiamato a scegliere se farne un’opportunità di crescita epocale.
E ora veniamo alla Musica. Ogni pensiero, ogni micro o macro azione, se fatti consapevolmente, possono dare forza al Presente esercitando la creatività, l’immaginazione e la bellezza. E non è forse la musica (ma tutta l’arte della Vita in genere) che ci allena a questo?”

-Quanto c’è di inutile retorica in questi continui richiami all’unità?
“Le rispondo con una domanda: che cosa significa veramente Unità? A chi è riferita?
Oggi siamo veramente uniti? In un futuro lontano – suppongo – capiremo tutti il significato concreto del termine unità. Ma, lo ripeto, già ora, da questo preciso momento in poi possiamo allenarci a praticare l’unità, la vera unità, non il suo contrario. Ecco alcuni sinonimi del termine unità che possiamo applicare costantemente al fare quotidiano: consonanza, armonia, amicizia, unificazione, intesa, solidarietà, affiatamento, gruppi, strutture, elementi, grandezza, unicità… Rifare il letto o promuovere un decreto sono entrambi manifestazioni di consapevolezza responsabile”.

-È soddisfatto di come si stanno muovendo i vari organismi di rappresentanza?
“Se dovessi illustrare su carta i cosiddetti organismi di rappresentanza avrei la bizzarra tentazione di raffigurarli come topolini agitati, cavie di un ennesimo esperimento di Pavlov. Oggi non sono in grado di discernere quali Verità si celino dietro la maggioranza delle scelte politiche tanto discutibili attuate in questi tempi.
Da una parte vedo un grande impegno nel tentativo di contenere una situazione d’emergenza mondiale ma il più delle volte le affermazioni, le parole, le voci, il modo di comunicare, le azioni promosse (in buonafede o malafede non ha importanza) rientrano in una banda di frequenza vibratoria diametralmente opposta alla mia.
Mi sembra ovvio, dovrò fare chiarezza dentro me”.

-Se avesse la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederebbe?
“Chiederei che in questo giro di boa planetario si lasciassero illuminare dal senso di Umanità che sta germogliando a tanti livelli in tante parti del mondo. I futuri possono essere molteplici e siamo tutti chiamati alla collaborazione e all’ascolto.
Chiederei a coloro che dovrebbero rappresentare ciascuno di noi (l’attuale Governo?) di abbandonare sentieri di potere, controllo, mafie e interessi finanziari slegati da un’esistenza trasparente ed equilibrata. Chiederei loro di affidarsi a menti guidate dall’Etica e dalla Giustizia sociale: persone sagge e giovani visionari ricchi di umanità e voglia di costruire. C’è bisogno di un cambio di coscienze a livello mondiale e di conseguenti azioni; qui siamo tutti in ballo”.

-Ha qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“Assolutamente no. Sono satura di suggerimenti, lezioni, catene di cuoricini, pareri, consigli dall’alto e dal basso. A me stessa dico: Rimani in silenzio. Riposa. Ringrazia per ciò che hai oggi. Abbi fiducia. Niente progetti. Osserva te stessa che si osserva.
Lascio che arrivi la musica che deve arrivare, la notizia che mi chiede di essere letta, il link speciale che mi mette di buon umore… Mi sento come la larva nel bozzolo che attende la metamorfosi. E di tanto in tanto fischietto o canticchio i più bei motivetti. Sono fiera di vivere questo periodo e di portare il mio canto al mondo”.

Pixel il nuovo album del vibrafonista Marco Bianchi

Si intitola “Pixel” l’album del vibrafonista Marco Bianchi, che per la prima volta si presenta al grande pubblico in veste di compositore, arrangiatore e produttore affiancato da tre musicisti di ottimo livello: Nicola Tacchi (chitarra), Roberto Piccolo (contrabbasso), Filippo Valnegri (batteria) che assieme formano il “Marco Bianchi Lemon 4et”.

“Ho cercato di incidere il disco che avrei voluto sentire” afferma Marco Bianchi. Un album che non è facilmente “catalogabile” in quanto è ricco di spunti e riferimenti in una totale esigenza di libertà d’espressione: nei suoni, nei timbri, nei generi, nella struttura compositivia. Da qui il titolo “Pixel”, inteso come piccola parte di un’immagine con proprie caratteristiche che brilla su un monitor, non distinguibile ad occhio nudo, e che solo quando si unisce agli altri mostra la sua vera identità. Pensare per immagini e trasporre in musica è quello che ha fatto anche per questo album il vibrafonista e compositore Marco Bianchi avvezzo a scrivere colonne sonore per Tv, Radio, Cartoni Animati e documentari. Proprio ispirandosi al film degli anni ’90 “Clerks” ha scritto l’omonimo brano; pensando invece al dietro le quinte dei set cinematografici nasce “Jimmy Jib” (braccio mobile per telcamere) per il senso di fluidità e continuità reso dalla musica; originariamente composto per un documentario è il brano “Learn to Fly”; mentre “Breaking Bad” è ispirato ad una delle serie Tv più famose al mondo. Di tutt’altra derivazione gli altri quattro brani ad esaltare l’arrangiamento e l’aspetto ritmico: la ballad “Bolla”; “Octopus’ Carousel” a richiamare le sonorità della musica popolare; “Red Hot Chili Boppers” brano con “tranelli ritmici e metrici”; ed infine “Ninna Nonna” con frequenti cambi di tonalità.

Chiamati a commentare l’album “Pixel” del Marco Bianchi Lemon 4et, due docenti fra i più importanti esponenti del vibrafono a livello internazionale: Andrea Dulbecco che considera Bianchi un degno rappresentante della nuova generazione di strumentisti e compositori jazz del panorama nazionale; e Daniele Di Gregorio che si spinge oltre, accostando il progetto discografico di Bianchi a quelli ben più famosi degli anni ‘70/80 ed ipotizzando quasi un omaggio del tipo “Gary Burton plays Frank Zappa” per l’impiego del vibrafono e per le forti influenze rock, jazz e fusion presenti nell’album. (altro…)