Udin&Jazz 2018: quando l’età non conta

È proprio vero che, a certi livelli, l’età conto poco o nulla: Dave Holland (classe 1946), Norma Winstone (classe 1941) e Tony Allen (classe 1940) sono stati gli indiscussi protagonisti della 28° edizione di “Udine&Jazz” svoltasi sotto l’insegna “Take A Jazz Break” dal 27 giugno al 6 luglio, con una appendice in programma il 24 luglio con “Laid Black Tour” il nuovo progetto di Marcus Miller.

Personalmente ho assistito alla parte centrale della programmazione prevista dal 2 al 6 luglio e ho potuto constatare come, ancora una volta, la manifestazione abbia mantenuto fede alle proprie caratteristiche quali valorizzare i talenti locali e dare il giusto spazio alle donne: su undici concerti ben quattro erano al femminile. Altra considerazione non secondaria: è stata attuata la formula del doppio concerto a sera, tutto a titolo gratuito eccezion fatta per l’esibizione del contrabbassista Avishai Cohen.

Ma procediamo con ordine. Lunedì 2 luglio, alle 18, alla Loggia del Lionello, appuntamento con la “Udin&Jazz Big Band”. È questa una formazione che sta molto a cuore al patron del Festival, Giancarlo Velliscig, che non a caso la invita in diverse occasioni. E ne ha ben donde dal momento che si tratta di un’orchestra in crescita esponenziale grazie all’affiatamento raggiunto nel tempo, alla bontà degli arrangiamenti e ad alcuni solisti davvero di livello come il trombettista Mirko Cisilino e il pianista Emanuele Filippi, dai quali è nata l’idea di costituire la big-band. Il progetto presentato quest’anno, “Sounds Across Boundaries Reload” propone un repertorio di composizioni originali ispirate alla musica popolare di diverse tradizioni del mondo.

Alle 20, al Teatro Palamostre, location scelta oculatamente per tutti i concerti ad evitare le bizze di un clima non del tutto estivo, esibizione del trio del pianista siculo-udinese Dario Carnovale coadiuvato da Simone Serafini al contrabbasso, fedele compagno di viaggio da una decina d’anni e dall’austriaco Klemens Marktl alla batteria. Batterista, ma soprattutto pianista, compositore, arrangiatore Dario viene oramai considerato una delle più belle realtà del jazz made in Italy anche se, dal punto di vista concertistico, non è che lo si ascolti molto nella varie regioni italiane. È il solito discorso per cui gli organizzatori oramai puntano quasi esclusivamente sulla ‘cassetta’ senza peritarsi di far ascoltare al proprio pubblico qualcosa di nuovo ed interessante. E che Carnovale sia un musicista che merita la massima attenzione è stato ribadito anche da questa esibizione. Dotato di una preparazione classica che gli consente di muoversi con grande agilità su tutte le ottave della tastiera, con tocco nitido e preciso, Dario ha sciorinato un pianismo brillante, ora rilassato al limite dell’onirico, ora fortemente percussivo ma sempre rispondente ad una logica precisa al cui interno pagina scritta e improvvisazione trovavano un mirabile equilibrio. In tale ambito, grande il contributo del batterista austriaco, che onestamente non conoscevamo, e che ha fornito al trio un supporto timbrico di assoluto livello.

A seguire è stata la volta di ‘CrossCurrents’, ovvero Dave Holland al contrabbasso, Chris Potter ai sax tenore e soprano e lo specialista di tabla Zakir Hussain, già collaboratore di John McLaughlin e Jan Garbarek. Ovviamente la musica ascoltata da questo trio è stata completamente diversa da quella di Carnovale e compagni. Qui a farla da padrona è il ritmo, un ritmo intenso, travolgente dettato da Zakir Hussain ed è stato davvero un bel sentire come le concezioni prettamente jazzistiche di un sempre superlativo Dave Holland si intrecciassero magnificamente con le ardite architetture disegnate dalle tabla di Hussain, la cui arte si rifà chiaramente alla musica classica indiana. Su un tessuto modale, comune a tutte le composizioni, i due si intendono a meraviglia, con Hussain a colorare la musica con timbriche e dinamiche multiformi e Holland a disegnare con il suo strumento vere e proprie sculture, allo stesso tempo di grande precisione e varietà, con quel suggerire le linee melodiche che verranno in seguito da lui stesso sviluppate. In tale contesto Potter, che pure tanto ha collaborato con Holland, è sembrato a tratti un po’ avulso dalla situazione. Ma, come si dice, è voler cercare il pelo nell’uovo ché il concerto, nel suo insieme, è stato superlativo, con il vertice toccato proprio nel bis quando Potter, al sax tenore, ha avuto modo di estrinsecare appieno l’originalità del suo sound e quella carica lirica che non aveva potuto esprimere in precedenza.

Martedì 3 luglio concerti al femminile e diciamo subito che è stata forse la più bella serata del festival. Merito di Norma Winstone e di Youn Sun Nah.

Alle 20 sono saliti sul palco la vocalist Norma Winstone, il pianista friulano Glauco Venier, il sassofonista e clarinettista Klaus Gesing e il percussionista norvegese Helge Andreas Norbakken, praticamente la stessa formazione che nel marzo del 2017 aveva registrato “Descansado-Music for Films” per la ECM con l’aggiunta del violoncellista Mario Brunello. Ed è stato proprio questo il progetto presentato a Udine; grazie ai preziosi arrangiamenti di Venier e di Gesing e alla squisita sensibilità della Winstone che ha rivisitato i testi di alcuni brani, abbiamo potuto verificare come anche alle prese con temi legati ad un più facile ascolto, sia possibile raggiungere vette di grande lirismo. Merito, ovviamente, di tutti i musicisti ma davvero sorprendente è stata la prova della Winstone che ha mantenuto una voce fresca, una timbrica che sembra non conoscere l’usura del tempo, e soprattutto una capacità di interpretare che oggi le consente di narrare, cantando, delle storie, sì da coinvolgere tutto il pubblico a prescindere dal fatto che il testo sia in inglese e quindi ad alcuni incomprensibile, e che alle volte la vocalist si sia impegnata in uno scat preciso e non banale. Così le musiche di compositori quali Rota, Michel Legrand, Ennio Morricone, Bacalov sono assurte a nuova vita con alcune perle assolute quali il tema di “Taxi Driver” di Bernard Herrmann porto con sensibile partecipazione e l’ardita rivisitazione di Everybody’s Talking, il tema conduttore di “Uomo da marciapiede” composto da Fred Neil nel 1966 per altro non inserito nell’album di cui in precedenza, sulla base di Second Spring, splendido brano di Glauco Venier. Scoppiettante la seconda parte della serata con Youn Sun Nah, accompagnata dalle funamboliche chitarre di Ulf Walkenius. Avevamo già avuto modo di apprezzare le qualità vocali della vocalist coreana e l’avevamo conosciuta meglio nel corso dell’intervista che potrete leggere su “L’altra metà del jazz”. Ascoltarla, quindi, inerpicarsi sulle note delle composizioni originali o degli standard non è stata una sorpresa. E tuttavia sentirla cantare è sempre un’esperienza unica. La Sun Nah è dotata di una tecnica straordinaria sempre al servizio dell’espressività cosicché non si ha mai l’impressione di un virtuosismo fine a se stesso. E la cosa assume davvero il sapore di straordinarietà ove si pensi che fino ai 30 anni quest’artista viveva nel suo Paese e nulla conosceva di jazz. Quindi una maturazione incredibile, frutto anche di uno studio assiduo, cosicché nel corso delle sue esibizioni quasi nulla è lasciato al caso, senza che ciò infici quel tasso di improvvisazione che rende unica ogni interpretazione jazzistica. Improvvisazione che viene stimolata dal musicista svedese il quale, oltre ad essere stato l’ultimo chitarrista di Oscar Peterson, ha sviluppato una sorta di stile orchestrale per cui la sua chitarra riempie ogni spazio. Volendo citare alcuni dei brani presentati durante il concerto è d’obbligo ricordare le interpretazioni di “Hallelujah” di Leonard Cohen e “Avec Le Temps” di Léo Ferré, il sentito omaggio alla canzone francese che è stata la molla principale per cui la Sun Nah si è trasferita in Europa. Certo, ascoltando una dopo l’altra Norma Winstone e Youn Sun Nah era inevitabile operare dei paragoni. Non ci sottraiamo a questa difficile operazione dicendo semplicemente che gli anni di carriera alle spalle della Winstone si fanno sentire quanto a capacità di trasmettere emozione.

Mercoledì 4 luglio è stata la serata più applaudita ma a parere del vostro cronista la più debole. Sul palco, in successione, i Forq che presentavano il nuovo album “Threq” e Avishai Cohen nella sua unica data italiana con il nuovo album “1970”.

Il filo conduttore della serata era evidenziare le diverse influenze che starebbero indirizzando il jazz verso nuovi territori, ma non a caso abbiamo usato il condizionale in quanto non ci sembra che dai Forq o dal nuovo Cohen possano venire input degni di nota.

I Forq sono composti dal chitarrista Chris McQueen (anche membro di Bokanté) e dal batterista Jason Thomas, ambedue provenienti dagli “Snarky Puppy” (del cui concerto romano vi abbiamo appena riferito in queste pagine) cui si sono aggiunti il tastierista Henry Hey già collaboratore di David Bowie e il bassista Kevin Scott. Si tratta di quattro musicisti indubbiamente talentuosi che declinano, però, la loro cifra stilistica attraverso un repertorio più vicino al rock e al funk che al jazz. Di qui un ricorso ad una musica fortemente materica, a costruzioni ritmiche molto ben congegnate e ad assolo trascinanti, di buona fattura. Non a caso sono stati a lungo applauditi dal pubblico giovanile accorso numeroso a sentirli e non a caso hanno venduto un certo numero di dischi.

Come accennato, la seconda parte della serata era dedicata al progetto “1970” di Avishai Cohen, che si è presentato al pubblico udinese con il suo gruppo completato da Shai Bachar tastiere e voce, Marc Kakon chitarra basso e voce, Noam David batteria e Karen Malka voce. Come più volte dichiarato dallo stesso Cohen, scopo dell’album è rifarsi a quelle musiche che egli aveva ascoltato, per l’appunto, negli anni ’70. Ma perché? Questo è l’interrogativo di fondo cui Cohen, a nostro avviso non ha saputo dare risposte esaurienti. In effetti se l’intento è esclusivamente quello di riproporre, attraverso un certo repertorio, determinati stati d’animo allora non si comprende perché una virata tanto decisa verso il pop; certo si  strizza l’occhio al jazz,  al funk, al latino-americano, ad Israele, ed anzi i momenti migliori sono stati proprio quelli con espliciti riferimenti ebraici come in “D’ror Yikra”, inno composto nella Spagna nel 960, e “Alon Basela”, ma l’appiattimento tanto deciso verso stilemi popolari – nell’accezione non certo migliore del termine – toglie credibilità all’intera operazione. Né bastano a nobilitarla quei rari momenti in cui Cohen, sia al pizzicato sia con l’archetto, ci ha ricordato quale straordinario musicista egli in realtà sia. Il concerto si è chiuso con la riproposizione di “Vamonos pa’l monte” di Eddie Palmieri, ad evidenziare l’amore del musicista israeliano per la musica latino-americana.

Giovedì 5 luglio ancora due concerti interessanti. In apertura Quintorigo con la presentazione del nuovo doppio album “Opposites”. Avevamo già avuto modo di ascoltare l’album e l’avevamo trovato interessante, impressione confermata dal concerto udinese. L’album presenta due repertori: nel primo CD solo composizioni originali del gruppo, nel secondo una serie di cover interpretate con pertinenza. Ovviamente durante il concerto non è stato possibile riproporre l’intero contenuto di “Opposites” ma nell’ora e mezzo loro dedicata i Quintorigo hanno avuto modo di enunciare ancora una volta le caratteristiche del loro linguaggio. Vale a dire una sorta di dialogo-contrapposizione tra gli archi dall’impronta classicheggiante di Andrea Costa (violino), Gionata Costa (violoncello) e il sax di Valentino Bianchi, dal chiaro sapore jazzistico, con la sezione ritmica (Stefano Ricci contrabbasso e Gianluca Nanni batteria e percussioni) a fungere da collante. Il tutto impreziosito dalla voce di Alessio Velliscig che pur essendo entrato nel gruppo da poco si è tuttavia ben amalgamato, contribuendo non poco al successo del concerto. Dotato di una bella estensione vocale, di un indubbio senso del ritmo e di una convincente presenza scenica, Velliscig ha interpretato al meglio i brani vocali tra cui un eccellente “Alabama Song” di Weill. Da quanto sin qui detto, risulta evidente come il gruppo sia in grado di affrontare territori anche molto diversi tra di loro senza perdere in coerenza ed omogeneità.

La seconda parte della serata prevedeva una vera e propria icona del jazz, vale a dire il batterista nigeriano Tony Allen con il suo nuovo progetto “The Source”, album di debutto per la Blue Note Records, considerato dallo stesso batterista come la sua migliore creazione artistica in quanto segna il realizzarsi di un sogno d’infanzia. Così, in perfetta coerenza con il titolo del lavoro discografico, abbiamo ascoltato un jazz senza se e senza ma, un jazz canonico che si rifà espressamente alle radici della musica afro-americana vale a dire, da un canto gli input della musica africana derivanti anche dalla lunga collaborazione con Fela Kuti, dall’altro gli stilemi più prettamente jazzistici assunti nel corso della sua lunga carriera negli States. A declinare l’insieme una formazione di tutto rispetto in cui il lavoro ritmico-armonico viene sviluppato da Jean Philippe Dary al piano e tastiera, Jeff Kellner alla chitarra e Mathias Allamane al contrabbasso mentre la front-line con Nicolas Giraud alla tromba e Yann Jankielewicz al sax tenore, si fanno valere sia nelle parti obbligate sia in quelle improvvisate. Dal canto suo Tony Allen dirige il tutto quasi in punta di bacchette, senza farsi notare, ma con grande musicalità e senso del percorso che si vuol compiere.

Venerdì 6 luglio serata interamente dedicata alla musica brasiliana con tre appuntamenti: “Cool Romantics” ovvero il nuovo progetto del duo eMPathia formato da Mafalda Minozzi alla voce e Paul Ricci alle chitarre con l’aggiunta, per l’occasione, del pianista Art Hirahara; una chiacchierata condotta da Max De Tomassi sull’arte di Chico Buarque de Hollanda con la partecipazione di Gianni Minà; “Caro Chico” ovvero la presentazione dell’album di Susanna Stivali in omaggio a Chico Buarque.

Serata dall’andamento alterno e forse un po’ lunga. A dar fuoco alle polveri è stato il duo (per l’occasione trio) eMPathia: e francamente l’espressione dar fuoco alle polveri è del tutto pertinente: la Minozzi, dotata di quelle straordinarie possibilità vocali che ben conosciamo e di una prorompente presenza scenica, non si è risparmiata dando fondo a tutte le energie. Partita quasi in sordina ha man mano sciorinato i suoi volteggi vocali senza rete, che hanno conquistato il pubblico non a caso plaudente a lungo alla fine del concerto. Non bisogna però dimenticare il ruolo sempre prezioso svolto da Paul Ricci. Paul è chitarrista jazz fino al midollo, e non un chitarrista qualsiasi ma un musicista che coniuga una eccellente preparazione tecnica con una squisita sensibilità. Ciò gli consente, grazie anche alla lunghissima collaborazione con la Minnozzi, di esplorare ogni minimo anfratto melodico-armonico dei brani eseguiti sì da fornire alla vocalist un tappeto di estrema sicurezza su cui volteggiare a piacimento, con la certezza che qualunque cosa ella faccia la chitarra di Paul è sempre lì a sostenerla. E questo vale indipendentemente dal fatto che si affronti un pezzo jazz o un brano tratto dalla tradizione europea e statunitense. Come si accennava, nell’occasione il duo è diventato trio grazie all’aggiunta di Art Hirahara al pianoforte che lavorando quasi per sottrazione ha vieppiù valorizzato il canto della Minnozzi.

Dopo un set così esplosivo, difficile il compito della cantante romana Susanna Stivali che ha presentato il suo ultimo album “Caro Chico”. Ben coadiuvata da un eccellente Alessandro Gwiss al pianoforte, Marco Siniscalco basso elettrico e contrabbasso e Emanuele Smimmo alla batteria, la Stivali ha reinterpretato alcuni brani di Chico Buarque alla luce della sua sensibilità jazzistica, suggerendo così un nuovo modo di rileggere il grande artista brasiliano.

Gerlando Gatto

Per le immagini, si ringrazia il fotografo Angelo Salvin© e l’ufficio stampa di Udin&Jazz 2018

Udin&Jazz 2018 e U&J Borghi Swing: a Udine e a Marano per godere il jazz come momento di relax

Puntuale come un orologio svizzero, con l’avvento della bella stagione ecco ricomparire l’estate jazzistica ovvero quel fiorire di iniziative dedicate al jazz che ad onta della conclamata crisi economica continuano ad interessare tutta la penisola. Già questo spazio si è occupato di alcune di queste iniziative che riteniamo di particolare interesse trascurando le più grandi kermesse che a nostro avviso hanno oramai ben poca ragione di esistere.

Eh sì, perché lo ripetiamo per l’ennesima volta, oggi un Festival del Jazz si giustifica solo se è in grado di valorizzare le eccellenze locali, cosa che ben pochi sono disposti a fare. Tra questi ultimi va senza dubbio inserito il Festival Internazionale Udin&Jazz, giunto alla ventottesima edizione e organizzato da Euritmica, per la direzione artistica di Giancarlo Velliscig.

Quest’anno la rassegna si svolgerà dal 27 giugno al 24 luglio a Udine e provincia ma dal 22 al 24 giugno sarà preceduta, presso il borgo di Marano e la sua suggestiva laguna, da una nuovissima manifestazione che si colloca all’interno del progetto “BORGHI SWING”, iniziativa di valorizzazione e riscoperta dei meravigliosi borghi italiani attraverso la musica jazz, patrocinata dal MiBACT.

Il progetto artistico, con un programma costruito ad hoc per valorizzare anche una significativa espressione del panorama jazzistico del Friuli Venezia Giulia, si inserisce in una più ampia proposta di turismo esperienziale, che prevede la partecipazione attiva alle numerose iniziative in programma, attraverso cui conoscere il luogo, l’ambiente che lo circonda, la sua storia, i suoi riti, la cultura e l’enogastronomia in modo più attraente e spontaneo.

Il programma prevede ben undici concerti in tre giorni, tutti ad ingresso gratuito, con la partecipazione di artisti affermati anche a livello internazionale; particolarmente interessante la serata conclusiva che vedrà impegnati, all’alba, l’Afrikanpiano di Claudio Cojaniz; alle 19 “THE HamMonk SPHERE Trio” con Nevio Zaninotto, sax tenore e soprano, Luca Colussi, batteria, Rudy Fantin, Hammond Organ feat. Russ Spiegel, chitarra; alle 20.30 “THE LICAONES” con Francesco Bearzatti, sax, Mauro Ottolini, trombone, Oscar Marchioni, organo, Paolo Mappa, batteria e alle 22 gran finale con la “Udin&Jazz Big Band”.

E veniamo, adesso, a Udin&Jazz la cui insegna quest’anno è “#takeajazzbreak”, ovvero un’esortazione a ridurre il ritmo, a prendere una pausa dalla superficialità frenetica di questi nostri giorni, a uscire dal mondo virtuale, dai social, dalla tecnologia, per assaporare il gusto di emozioni reali, condivise, vissute andando ai concerti ad ascoltare una musica che si rinnova sempre… il jazz, naturalmente! Musica declinata, però, non solo attraverso le note ma anche attraverso incontri, conferenze, libri…

Il festival si apre con due concerti nella provincia di Udine: il 27 giugno, a Tricesimo, si esibirà la cantante Barbara Errico accompagnata dagli Short Sleepers feat. Mauro Costantini e Gianni Massarutto, mentre il 28 giugno, a Cervignano del Friuli, performance di Disorder at the Border, progetto firmato da Daniele D’Agaro, Giovanni Maier, in questa occasione con Marko Lasič alla batteria al posto di Zlatko Kaučič.

Dal 2 luglio eccoci a Udine con una nuova e suggestiva location nel cuore della città: Largo Ospedale Vecchio, una sorta di anfiteatro architettonico di fronte alla Chiesa di San Francesco, ora sede museale.

Le serate, tranne qualche eccezione, si articoleranno con la formula del doppio concerto ad ingresso libero (alle 20 e alle 22) e su un cartellone, che, come al solito, alterna a musicisti di chiaro valore internazionale, jazzisti “nazionali” che hanno saputo comunque conquistarsi una oramai solida reputazione. E’ il caso, ad esempio, del pianista siciliano oramai da tempo ‘emigrato’ a Udine, Dario Carnovale, che sarà di scena il 2 luglio con Simone Serafini, contrabbasso e Klemens Marktl, batteria; sempre lunedì 2 luglio si esibirà la Udin&Jazz Big Band che nasce da un’idea di Emanuele Filippi e Mirko Cisilino, idea che Udin&Jazz ha fatto propria, decidendo di sostenere con forza il collettivo sia come resident band del festival sia offrendogli diverse occasioni per esibirsi e per far crescere un potenziale diventato davvero importante

Il 5 luglio sarà la volta di “Quintorigo” che presenterà in anteprima il suo nuovo CD; il 6 nell’ambito della serata dedicata al Brasile, avremo modo di ascoltare colei che è stata insignita del titolo di “Ambasciatrice della Musica Italiana in Brasile” (Paese in cui vive e dove, da oltre vent’anni, è un’autentica star), ossia Mafalda Minnozzi con il suo abituale partner Paul Ricci alla chitarra cui si aggiungerà come special guest il pianista Art Hirahara; sempre il 6 la vocalist romana Susanna Stivali, riproporrà in quartetto con Alessandro Gwis, pianoforte, Marco Siniscalco, basso elettrico e contrabasso, Emanuele Smimmo, batteria  i brani contenuti nel suo ultimo lavoro “Caro Chico” evidentemente dedicato a Chico Buarque.

A questo punto il Festival si interrompe per riprendere il 24 con il concerto forse più atteso: “LAID BLACK TOUR” con Marcus Miller, basso, Alex Han, sax, Brett Williams, tastiere e Alex Bailey, batteria.

Se Marcus Miller, come si accennava è probabilmente l’artista più atteso, non è l’unica stella di caratura internazionale presente al Festival. Così a chiudere l’importante giornata del 2 luglio ci sarà il trio del celebre contrabbassista Dave Holland, con Zakir Hussain, tabla e Chris Potter, sax.

Il 3 luglio due grandi artiste: la vocalist Norma Winstone con Klaus Gesing, clarinetto basso, sax soprano, Glauco Venier, piano e Helge Andreas Norbakken, percussioni, vale a dire il trio che ha registrato alcuni album di successo per la ECM con l’aggiunta di un percussionista; a seguire un duo di grande spessore costituito dalla vocalist coreana Youn Sun Nah e dal chitarrista svedese Ulf Wakenius.

Il 4 luglio ancora due concerti da non perdere: alle 20 “THRĒQ” il nuovo progetto dei FORQ con Chris McQueen, chitarra, Henry Hey, tastiere, Kevin Scott, basso e Jason ‘JT’ Thomas, batteria: il gruppo nasce da una costola degli Snarky Puppy, ed in breve ha raggiunto i vertici di gradimento in tutto il mondo; in successione, in anteprima e unica data italiana il bassista Avishai Cohen, presenterà il suo nuovo progetto “1970” con Shai Bachar, tastiere, voce, Marc Kakon, chitarra, basso, voce, Karen Malka, voce e Noam David, batteria.

 

Il 5 luglio una delle leggende della batteria jazz, ossia Tony Allen con Mathias Allamane, contrabbasso, Jeff Kellner, chitarra, Jean Philippe Dary, tastiere, Nicolas Giraud, tromba, Yann Jankielewicz, sassofono, tastiere.

Tra gli eventi non musicali ricordiamo martedì 3 luglio presso Largo Ospedale Vecchio ad ingresso libero “I 20 ANNI DI “ARTESUONO” DI STEFANO AMERIO”; dialogano con Stefano Amerio: Glauco Venier e U.T. Gandhi, Ermanno Basso, Cam Jazz e Luca d’Agostino, fotografo.

Il 4 luglio alle ore 18:00, nella suggestiva e intima Corte Savorgnan, sempre ad ingresso libero, verrà presentato il libro del sottoscritto “L’ALTRA METÀ DEL JAZZ” – Voci di Donne nella Musica Jazz (KappaVu / Euritmica ed.)

Gerlando Gatto

 

OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL 37′ EDIZIONE, tutte le foto

PRIMA SERATA – Giovedì 23 marzo 2017
Sala Santa Marta
Tre quadri coreografici sulle musiche del cd Mantis
Scuole di danza Arabesque, Accademia, Baobab.

Cliccare sulle immagini per espanderle

Sala Santa Marta
Carlo Actis Dato – Enzo Rocco Duo

SECONDA SERATA – Venerdì 24 marzo 2017

Sala Santa Marta -Coro femminile ” Le voix qui dansent”

Teatro Giacosa
Daniele Di Bonaventura, bandoneon

Teatro Giacosa
Quintorigo e Roberto Gatto play Zappa

Roberto Gatto: batteria
Valentino Bianchi: sax
Andrea Costa: violino
Stefano Ricci: contrabbasso
Gionata Costa: violoncello
Alessio Velliscig: voce

TERZA SERATA, sabato 25 marzo 2017

Sala Santa Marta:
Boris Savoldelli

Teatro Giacosa:
Paolo Fresu Devil Quartet

Paolo Fresu: tromba, flicorno, effetti
Bebo Ferra: chitarra
Paolino Dalla Porta: contrabbasso
: batteria

Teatro Giacosa
Odwalla e Baba Sissoko

Massimo Barbiero: marimba, vibes, percussions
Matteo Cigna: vibes, percussions
Stefano Bertoli: drums
Alex Quagliotti: drums, percussions
Dudù Quate: percussions
Doussou Bakary Touré: djembè
Andrea Stracuzzi: percussions
Baba Sissoko: kora, tama, voice
Vocal: Gaia Mattiuzzi
Dance: Vincent Harisdò – Jean Landruphe Diby

OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL 37′ EDIZIONE – La seconda serata

Parole di Daniela Floris
Foto di Carlo Mogavero

Open Papyrus Jazz Festival non è solo concerti ma anche diversi altri eventi, come mostre fotografiche (all’ Oratorio Santa Marta esposte le foto più significative relative a varie edizioni del festival di fotografi quali D’Agostino, Dezutti, Bruschetta), reading letterari musicali in librerie ed enoteche di Ivrea, Stage di danza afrocontemporanea.

Venerdì 24 marzo ha visto molti eventi dunque avvicendarsi tra cui la presentazione del libro di Aldo Gianolio, valente e molto critico di Jazz Ottavio il timido, edito da Robin Edizioni e presentato alla sala Santa Marta da Guido Michelone, romanzo già ampiamente recensito in Italia e per il quale anche Enrico Rava ha speso parole lusinghiere.

Dopo un aperitivo a base di prodotti del Consorzio Vini Canavese sono andate i scena “Le voix qui dansent”.

Oratorio Santa Marta, venerdì 24 marzo, ore 19
Coro femminile ” Le voix qui dansent”

(Cliccare sulle foto per espanderle)

Un coro a cappella tutto al femminile di dieci elementi che affronta un repertorio polifonico tutto basato su musica di tutto l’enorme continente africano, dal Niger, al Congo al Sudafrica, riarrangiato naturalmente per un organico coristico occidentale, e che fanno una musica che ha il merito di aprire le frontiere, riadattare, trovare i punti in comune tra culture, paesi, continenti, e sintetizzarli in una musica nuova che comprende l’ Europa, il nostro sistema armonico – scalare e ritrmico, e le poliritmie e le melodie africane.

Le voix qui dansent cantano in molte lingue africane, tra cui lo swahili, hanno un’intonazione impeccabile e impeccabile anche il suono complessivo, un ottimo senso ritmico e sono divertenti da ascoltare. E infine, dopo un bel concerto di musica tutta africana propongono la bella ed immortale Summertime e, come bis, Non potho reposare, canzone in sardo conosciuta in Italia soprattutto per una toccante, meravigliosa  versione cantata da Andrea Parodi.

Alle 21:30 si entra nel vivo del festival con il concerto in bandoneon solo di Daniele Di Bonaventura

Teatro Giacosa, ore 21:30
Daniele Di Bonaventura, bandoneon

(cliccare sulle foto per espanderle)

Capita spesso di sentire bei concerti, in grandi festival come questo Open Papyrus di Ivrea. Non capita altrettanto spesso di emozionarsi ad ascoltare musica. Parlo di un’emozione profonda, scaturita dalla capacità del musicista di utilizzare le sue capacità tecniche sopraffine ad un fine espressivo. Che riesce con il suo linguaggio fatto di dinamiche, accenti, fraseggi, costruzioni armonico melodiche, non tanto a stupire per la sua bravura di strumentista, quanto ad esprimersi emotivamente in maniera così diretta che chi ascolta ne riceve emozione. Si crea in quei casi una specie di legame tra musicista e pubblico, una lingua altra, in una dimensione di incanto reciproco, che termina solo alla fine della performance: momento in cui ci si sveglia, oserei dire purtroppo, e ci si ritrova sulla terra. Quella terra però che è stata fonte di ispirazione per il musicista, e dunque, in fondo, con la possibilità preziosa di vedere tutto più bello.

Potrei terminare la mia recensione qui, ma mentre ascoltavo ho cercato di rimanere anche presente a me stessa, in quanto critico musicale, per capire cosa stesse accadendo e perché Daniele Di Bonaventura fosse così bravo: ed è quindi giusto dare conto di ciò che mi sono appuntata nel mio taccuino, al buio del Teatro Giacosa, scrivendo alla cieca per non dimenticare nulla di ciò che ascoltavo e vedevo.  Di Bonaventura ha tra le mani uno strumento tradizionale, il bandoneon, che utilizza però in maniera molto personale, a prescindere dai brani che interpreta.
Il concerto comincia con un pianissimo, note acute e lontane, evocative, che avviluppano l’attenzione: non ti vorresti perdere nemmeno un sospiro di quelle note. Sono il preludio di un lungo brano, quasi tutto suonato piano, per molti versi improvvisato, ma anche ricco di accenni, suggerimenti a musica da noi conosciuta ed amata. Di Bonaventura riesce a tirare fuori l’anima più delicata e poetica dello strumento,  per una particolare e personalissima sensibilità, che gli permette di sfruttare anche i più esili soffi di aria prodotti dal mantice: mantice che non si può fare a meno di guardare, rapiti, dato ciò che si sta ascoltando. Se ne rimane affascinati.
Quando si arriva a Vola, vola, vola lu Cardille, canto tradizionale abruzzese molto noto, e che tutti abbiniamo ad un certo tipo di musicalità “popolare” tipica della fisarmonica, lo riconosciamo, certo, ma in realtà ne ascoltiamo una versione trasfigurata, privata del suo ritmo tradizionale cadenzato, più lenta, riarmonizzata con la tonica a bordone e accordi diminuiti che la rendono struggente, e che ne esaltano la melodia. Vola vola vola diventa un ricordo, un’immagine al di fuori del tempo, un racconto. Anche in questo caso le dinamiche sono sfruttate in tutti i loro affascinanti colori, il brano cresce di intensità, Di Bonaventura vi improvvisa, fino a farne riemergere, lontano, sottile, il tema originale. Un viaggio emotivo di affascinante bellezza.
Come commovente è la sua versione dell’ Adagio di Albinoni, e la meravigliosa Soledad di Gardel. E ancora, la Milonga de mis amores. 
Una musica fatta anche di infinite, incantevoli sottigliezze, che sono tutt’altro che esercizio virtuosistico. Che fermano il tempo, e che nel loro svolgersi svelano la bellezza inattesa di suoni che credevamo di conoscere, ma che invece ci si svelano in tutte le loro tante sfaccettature, a noi ignote, prima, o anche magari dimenticate. E l’intensità di ricordi e sentimenti, la dolcezza della nostalgia, l’introspezione ed anche il suo contrario: la capacità estrinsecarsi e di arrivare all’animo di chi, fortunato, si trova ad ascoltare e a condividere quei momenti.

Ore 22:30

Quintorigo e Roberto Gatto play Zappa

Roberto Gatto: batteria
Valentino Bianchi: sax
Andrea Costa: violino
Stefano Ricci: contrabbasso
Gionata Costa: violoncello
Alessio Velliscig: voce


Si cambia completamente atmosfera e si passa ad un concerto incentrato (a dispetto del titolo del progetto apparso sui volantini) su tre imponenti figure della scena musicale jazzistica e rock: Charles Mingus, Jimi Hendrix e, appunto, Frank Zappa.

I presupposti per divertirsi ci sono tutti: un organico anomalo (trio d’archi, sax e batteria), dunque una timbrica particolare, uno dei più celebri batteristi del Jazz italiano e non solo, la voce rock di un giovane interprete in ascesa, un repertorio accattivante, con il quale tutti noi in quanto appassionati di Jazz e anche amanti del rock anni 70 abbiamo un legame emotivo. E’ un vincere facile? Non in questo caso, proprio perché alla base della performance divertente, trascinante, coinvolgente di questa compagine, ci sono arrangiamenti complessi, la capacità di convertire i suoni con l’elettronica, in modo da tramutare il timbro di un violoncello, o di un violino, in ben altro. Ma anche un interplay notevole, la scelta di brani ad hoc, la capacità di raggiungere spessori sonori possenti, di esibirsi in assoli avvincenti.
L’inizio è già tutto un programma, con brani leggendari quali Pytecantropus Erectus, Fables of Faubus, affrontati con swing ed energia incredibili, tenendo conto che siamo in assenza di strumenti in grado di garantire un substrato armonico (tastiere, chitarra, o pianoforte che sia): eppure la completezza complessiva del suono c’è ed è un piccolo miracolo di bilanciamento e di scambi di ruolo tra gli elementi della compagine. Il sax di Valentino Bianchi può sempre contare in una base armonica molto ben congegnata per i suoi assoli, ma diventa anch’esso elemento fondamentale per supportare gli assoli degli altri. La batteria di Roberto Gatto ha un groove determinante: nel Jazz lo conosciamo bene. Ma quando lo spettacolo si inoltra nella parte dedicata a Jimi Hendrix, con la sua Hey Joe, ne emerge un’anima rock travolgente e molto convincente, che si riconferma in Foxy Lady e in tutto il set.
L’atmosfera è quella giusta anche per merito della voce di Alessio Velliscig, che interpreta con grinta, e soprattutto credendoci, un repertorio non semplice: ci vuole determinazione per riproporre i brani di due autentici miti del rock, così diversi tra loro, come Jimi Hendrix e Frank Zappa. Velliscig si cala nella parte, tanto da esclamare un “Grazie Ivrea” molto rock, che gli auguriamo di poter esclamare in contesti sempre più rock, con musica sua e con i nomi di mille città possibili e platee sempre più grandi.
La terza parte, dedicata a Frank Zappa, arrangiata ed orchestrata da Roberto Gatto – impresa per nulla facile, anzi una vera e propria sfida, decisamente vinta, a giudicare dal suono e dagli applausi del pubblico, è un’esplosione di groove e di entusiasmo. Cosmik Debris è rock ed è swing. Montana è resa in tutta la sua genialità armonica. King Kong, Zomby Woof sono lì in tutta la loro carica dissacratoria e la loro energia innovativa, ancora oggi dirompenti.
Un concerto che mostra come divertire, intrattenere il pubblico, possa avere la sua sorgente da un lavoro complesso ad opera di musicisti eccellenti: allora si fa musica di altissimo livello. Che ripropone, certo, ma creando e ridisegnando musica nuova.

 

OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL 37′ EDIZIONE – La prima serata

Parole di Daniela Floris
Foto di Carlo Mogavero
Giro da un po’ di anni per Festival Jazz un po’ in tutta l’Italia, mai quanto vorrei. Ogni Festival si caratterizza per aspetti particolari, dovuti alla personalità degli organizzatori, alle caratteristiche del territorio, a molti altri fattori che ne determinano “l’anima” .
Ad Ivrea, l’Open Papyrus Jazz Festival è sempre stato multiforme: la musica si intreccia con altre arti, in particolar modo con la danza, ma anche con letture, mostre fotografiche, dibattiti, degustazioni di specialità del territorio. E la stessa musica è sempre presentata nelle sue forme più varie: il Jazz è il minimo comune multiplo, ma nella sua varietà più ampia. Dal grande Jazz – evento con le star del Jazz italiano (la terza serata il Teatro Giacosa era sold out per il concerto di Paolo Fresu con il suo Devil Quartet e per l’atteso e immancabile appuntamento con Odwalla, il gruppo di percussioni che ad ogni edizione si presenta con arrangiamenti diversi, ospiti diversi, e non è mai lo stesso), al Jazz di stampo più estroso e se vogliamo alternativo (come quello andato in scena all’ Oratirio Santa Marta con Carlo Actis Dato ed Enzo Rocco ) . A quello più intimistico e vibrante, come quello di Daniele Di Bonaventura, che ha incantato il pubblico con il suo solo di fisarmonica, senza che manchi mai il divertimento di alto livello, quale quello che hanno garantito Roberto Gatto e Quintorigo con la loro reinterpretazione dei giganti Mingus, Hendrix e Zappa.
Una volontà precisa di non chiudersi ad un solo tipo di musica: questa è a cifra del direttore artistico Massimo Barbiero, che ancora una volta ha saputo creare un cartellone suggestivo non solo di suoni ma anche di immagini, parole e movimenti. Cito lo stesso Barbiero “….. ci spinge a continuare ad organizzare, costruire, mettere insieme idee … un senso di responsabilità che, attraverso la cultura, ci obbliga a fare i conti con ciò che siamo e con ciò che lasceremo dietro di noi. E’ una responsabilità poiitica, lo è sempre – che piaccia o meno – e va accettata, per quanto pesante essa sia”:
Eppure di pesante non c’è stato nulla in questo festival variegato e ricco di eventi, che vi descriverò per serate cominciando dalla prima.

Giovedì 23 marzo

Ivrea
Oratorio di Santa Marta, ore 21:30

Tre quadri coreografici sulle musiche del cd Mantis
Coreografie: Francesca Galardi, Cristina Ruberto, Giulia Ceolin, delle scuole di danza Arabesque, Accademia, Baobab.

Il Festival si apre non a caso con lo spettacolo coinvolgente offerto dalle scuole di Danza di Ivrea. Io non so scrivere di danza, non ne ho la preparazione. Ma vi posso dire che ho assaporato coreografie affascinanti sottolineate da luci seducenti, suoni, piccole parti recitate, atmosfere rarefatte, o malinconiche, o leggiadre, o aggraziate o angoscianti, un po’ teatro greco, un po’ danza rituale: un vincolo profondo con la musica ma anche un legame affascinante con il territorio eporediese, nonostante la dimensione onirica di molti suoni e di gesti magicamente espressivi, e certamente universali.  Ma ogni luogo del mondo può diventarne il centro. In questo è l’universalità della danza e della musica.
Così come è espressiva la musica di Mantis, album in solo di Massimo Barbiero, colonna sonora di uno spettacolo che ha incantato la platea che gremiva la Sala Santa Marta, chiesa sconsacrata del XV secolo, location già di per sé fortemente suggestiva.

(Cliccare sulle foto per espanderle)

Ore 22, Carlo Actis Dato ed Enzo Rocco duo: Il Jazz estroso e contaminato

Carlo Actis Dato: sax e clarinetto
Enzo Rocco: chitarra elettrica

Carlo Actis Dato e Enzo Rocco nel loro concerto propongono quasi un diario dei loro viaggi, che lasciano sempre un segno profondo ed evidente nella loro musica.
Un concerto festoso, energico, improntato su un’espressività immediata resa dalla timbrica particolare: il clarinetto basso, il sassofono baritono nel loro intrecciarsi con la chitarra elettrica, e nel loro particolare impasto complessivo per la particolare acustica della Sala Oratorio Santa Marta, hanno una loro resa gioiosamente deflagrante.
Venti anni di sodalizio, di concerti, di luoghi visitati, si tramutano in un dialogo musicale disinvolto, scorrevole, che si snoda agevolmente tra obbligati precisi e divertenti e un’ improvvisazione volutamente provocatoria e funambolica. Sempre – ed è questa la cifra, piacevole e piuttosto rara nel Jazz – di una ironia ed autoìronia notevoli.
Reminiscenze balcaniche, o sudamericane, o orientaleggianti non sono riproposte didascalicamente, ma filtrate e metabolizzate dalla personalità spiccata di due musicisti che si divertono moltissimo a fare musica in maniera eclettica, garantendo un concerto brillante, divertente, energico ma anche suggestivo.
L’ aspetto ritmico è fondamentale, pur non essendoci né batteria né percussioni: quando occorre un ritmo sincopato ed incalzante entrambi sanno improvvisarsi percussionisti, a turno, utilizzando i fraseggi ed i timbri più estremi dei loro strumenti, gli accenti, le dinamiche, i silenzi, persino.
Il clarinetto basso quando Actis Dato utilizza il fiato continuo ci riporta alle sonorità del canto armonico tibetano, e il suo intreccio con la chitarra in alcuni punti diventa invece quasi contrappuntistico, pur trattandosi di improvvisazione libera.
Piccoli patterns reiterati dall’uno sono base di giochi dell’altro: due musicisti a tratti dissacranti, a tratti istrionici, sempre divertenti. Una comunicativa pazzesca, e dunque, meritatissimi applausi di un pubblico coinvolto “dentro” la musica dal primo all’ultimo minuto.

(Cliccare sulle immagini per espanderle)

 

Piacenza Jazz Fest XIV edizione dal 26 febbraio all’8 aprile

Il concerto inaugurale dell’edizione 2017 del Piacenza Jazz Fest si terrà domenica 26 febbraio come da tradizione allo Spazio Rotative e vedrà protagonista al pianoforte affiancata da tre fidati musicisti: l’americana Sarah McKenzie, studi al Berklee college grazie a una fortunata esperienza all’Umbria Jazz, giovane astro nascente di grande carattere, con stile da vendere e piglio da leader, che presenterà il suo ultimo disco freschissimo di stampa (è uscito a metà gennaio) dal titolo “Paris in the rain”.

Tra le interazioni tra le arti quella tra fotografia e musica rigorosamente dal vivo, rimane tra le più suggestive e riesce a dare vita a delle performance di grande intensità, quale si prospetta anche questa novità “Il tempo in posa – Storie mediterranee” che andrà in scena giovedì 2 marzo con ingresso libero nella cornice già di per sé molto suggestiva della Sala dei Teatini di Piacenza. Sulle note di Danilo Rea, pianista di grande sensibilità e portato per le sperimentazioni, scorreranno le immagini del fotografo Pino Ninfa selezionate per raccontare delle storie che hanno al centro un luogo che appartiene a tutti noi e a molti altri popoli: il Mediterraneo.

Il primo grande appuntamento in collaborazione con Jazz Network – Crossroads si terrà domenica 5 marzo, quando il saxofonista Kenny Garrett in formazione quintetto dal palcoscenico del Teatro President cercherà di trasformare la sala, coinvolgendola direttamente, chiedendo agli spettatori di abbandonare le loro poltrone e, in accordo con quello che trasmetterà loro la musica del suo quintetto, lasciarsi trasportare e muoversi liberamente, proprio come recita il titolo del suo ultimo album “Do Your Dance!”. Un concerto quello al President che promette di infondere una grande energia e una buona dose di ottimismo, proprio come l’album che prende il titolo dal progetto.

Ai vincitori delle diverse sezioni del concorso nazionale “Chicco Bettinardi”, oltre a una somma in denaro, viene offerto un ingaggio per il Piacenza Jazz Fest dell’anno successivo, accanto ai più rinomati artisti che fanno grande la musica Jazz. Presente e futuro si incontrano così idealmente nell’intenzione degli organizzatori, il Piacenza Jazz Club. Giovedì 9 marzo con ingresso libero nella stupenda cornice della Sala dei Teatini sarà il momento dei giovani e più meritevoli talenti che si sono distinti lo scorso anno. Si esibiranno i vincitori delle tre categorie dell’edizione 2016: il saxofonista Claudio Jr. De Rosa, trionfatore tra i solisti, con il suo quartetto; Playground Project, distintosi tra i gruppi; e la fiorentina Sara Battaglini, vincitrice della sezione cantanti, sempre accompagnata da un trio di musicisti.

L’unica trasferta avverrà in un teatro che ospita il festival fin dai suoi albori: il suggestivo Teatro “Verdi” di Fiorenzuola d’Arda dove sabato 11 marzo si esibiranno i Quintorigo che per questo progetto hanno accolto nel loro ensemble anche il batterista Roberto Gatto. Li unisce l’amore per l’improvvisazione, la contaminazione nei suoni e la voglia di accettare le sfide. Quale sfida più ardua che reinterpretare tre mostri sacri come Monk, Hendrix e Zappa alla loro maniera? E infatti vi riescono benissimo, il risultato è lo spettacolo “Trilogy”, provare per credere. (altro…)