I nostri CD

Carla Bley – “Life Goes On”- ECM 2669
Carla Bley con il fido Steve Swallow al basso e Andy Sheppard ai sax tenore e soprano sono i protagonisti di questo nuovo album registrato nel maggio del 2019 a Lugano. In repertorio tre suite intitolate rispettivamente “Life Goes On”, “Beautiful Telephones” e “Copycat” tutte composte dalla stessa Bley. Chi ha seguito negli anni la Bley, sa bene come ad onta dei suoi ottantaquattro anni, l’artista di Oakland conservi intatta la sua straordinaria vena creativa e una stupefacente capacità di arrangiare e presentare in forme sempre originali le sue composizioni. Altro dato che si può ricavare dall’ascolto di questo suo ultimo lavoro, è la consapevolezza raggiunta dall’artista di poter finalmente trarre le fila di un discorso portato avanti oramai da molti anni. In effetti la musica che si ascolta soprattutto nella prima suite rappresenta un po’ la cifra stilistica della Bley in cui il blues viene coniugato con una certa malinconia di fondo che ben si affianca a quella carica iconoclasta e ironica che nel passato aveva caratterizzato molte composizioni della pianista. Ed ecco infatti la seconda suite che nel polemico titolo “Beautiful Telephones” richiama quella assurda espressione del presidente Trump che installandosi nello studio ovale della Casa Bianca, fu colpito soprattutto dai telefoni che definì “i più bei telefoni che abbia mai visto in vita mia”. Comunque, al di là di tutto, la musica di Carla Bley convince ancora una volta per la straordinaria carica di eleganza, modernità, coerenza in essa contenuta nonché per aver creato un jazz cameristico – se mi consentite il termine – che dovrebbe mettere d’accordo gli amanti del jazz e quelli della musica “colta” dati gli espliciti riferimenti a quel coté artistico che la Bley spesso mette in campo. Ovviamente la bella riuscita dell’album è dovuta anche alla personalità artistica dei due compagni di viaggio. Steve collabora con la Bley oramai da venticinque anni e la loro intesa è parte integrante di ogni loro album dato il peso specifico che il bassista riesca ogni volta ad assumere (lo si ascolti soprattutto nel primo movimento della “Beautiful Telephones”); dal canto suo Andy Sheppard è in grado di inserirsi autorevolmente e coerentemente nel fitto dialogo pianoforte-basso.

Paolo Damiani – “Silenzi luterani” – Alfa Music 214
Due i riferimenti colti esplicitati dallo stesso Damiani nelle note che accompagnano il CD: da un lato la Riforma di Martin Lutero che nel 1517 si staccò dalla Santa Sede romana introducendo il canto in chiesa di tutti i fedeli e componendo egli stesso musica, dall’altro l’evocazione nel titolo del CD… e non solo, delle “Lettere Luterane” di Pier Paolo Pasolini, articoli scritti nel 1975 e pubblicati sul Corriere della Sera. Ambedue, Lutero e Pasolini, si scagliavano contro i mali della società ovviamente delle rispettive epoche: ebbene, Damiani con la sua musica intende protestare contro uno stato di cose per cui l’indignazione non basta più. Di qui una musica a tratti sghemba, difficile, ma di sicuro fascino, impreziosita dal fatto che viene liberamente interpolata con frammenti melodici scritti da Lutero e testi di Pasolini. Ancora una volta Damiani evidenzia la sua ottima conoscenza del mondo musicale, inteso nell’accezione più ampia del termine, riuscendo così a far convivere nella stessa espressione artistica echi di mondi assai lontani con suggestioni derivate dal presente, in un gioco di incastri, di rimandi che disegnano un universo davvero senza confini. Insomma un’operazione tutt’altro che banale per la cui riuscita era necessaria una perfetta intesa degli esecutori. Ecco quindi la formazione posta in campo da Damiani, formata dai migliori ex allievi del dipartimento jazz del conservatorio di Santa Cecilia, dipartimento fondato e guidato dallo stesso Damiani fino al 2018: quattro voci capitanate da Daniela Troilo (in questa sede anche arrangiatrice), Erica Scheri al violino, Lewis Saccocci al pianoforte, Francesco Merenda alla batteria cui si aggiunge, in veste di ospite, Daniele Tittarelli ai sassofoni. In repertorio sette brani, tutti composti dal leader, registrati in occasione di due concerti tenuti presso la Sala Accademia del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e la Sala Concerti della casa del Jazz di Roma, nel 2017.

Vittorio De Angelis – “Believe Not Belong” – Creusarte Records
Una delle strade maestre su cui oramai si è indirizzato il jazz è quella di far confluire in un unico linguaggio input derivanti da varie fonti, soprattutto jazz mainstream, soul e funk. Certo, se la strada è la stessa, il modo di percorrerla è diverso ed è proprio su questo parametro che si può valutare oggi la valenza di una esecuzione. Da questo punto di vista, l’album in oggetto si lascia ascoltare non tanto per l’originalità delle composizioni (7 brani tutti composti dal leader sassofonista, flautista e compositore napoletano) quanto per il particolare organico. De Angelis ha infatti scelto di puntare sul “double trio” vale a dire due batterie, due tastiere, due fiati; manca il bassista in quattro dei sette brani sostituito dai due tastieristi (Domenico Sanna al basso sinth e Sebi Burgio al piano basso Rhodes). Insomma due trio indipendenti che suonano assieme e che proprio per questo producono una sonorità particolare, pregio principale di queste registrazioni. E non è poco ove si tenga conto che si tratta del primo album di Vittorio De Angelis leader, il quale, tra l’altro ha avuto l’intelligenza di chiamare accanto a sé musicisti di livello tra cui Domenico Sanna pianista di Gaeta, classe 1984, che ha già collaborato con musicisti di livello internazionale quali Steve Grossman, Rick Margitza, Dave Liebman, JD Allen, Greg Hutchinson; Seby Burgio, altro talentuoso tastierista (Siracusa 1989 ) che può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Larry James Ray, Tony Arco, Michael Rosen, Alfredo Paixao; Francesco Fratini uno dei più promettenti trombettisti italiani e Takuya Kuroda trombettista e arrangiatore giapponese, classe 1980, che incide per la Blue Note e ha già al suo attivo cinque album sotto suo nome.

e.s.t. – “Live in Gothenburg” – ACT 9046 2
Ascoltando queste registrazioni effettuate live il 10 Ottobre del 2001 alla Concert Hall di Gothenburg si rinnova il rimpianto per aver perso troppo presto e in maniera davvero assurda un talento come Esbjörn Svensson qui accompagnato dai fidi partner Dan Berglund al basso e Magnus Ostrom alla batteria. Siamo negli anni in cui il trio sta consolidando il proprio essere gruppo omogeneo, compatto in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur affollato panorama dei trii piano-basso-batteria. Ciò ovviamente per merito di tutti e tre i musicisti ma in modo particolare, del leader, il pianista Esbjörn Svensson affermatosi in brevissimo tempo come uno dei più fulgidi talenti del piano jazz a livello internazionale. In questo concerto, poi riportato sul doppio CD in oggetto, il trio rivisita alcuni dei brani contenuti nei due album già usciti in quel periodo, vale a dire “From Gagarin´s Point of View” del 1999 e “Good Morning Susie Soho” del 2000. E si è trattato di una performance davvero molto rilevante se lo stesso Svensson aveva più volte dichiarato di considerare questo concerto uno dei migliori della sua carriera. E come dargli torto? La musica è assolutamente ben costruita, ben arrangiata e altrettanto ben eseguita con i tre artisti che si ascoltano e interagiscono con immediatezza e pertinenza. Ascoltando in sequenza tutti e gli undici brani dei due CD è davvero difficile, se non impossibile, capire quando i tre improvvisano e quando seguono qualcosa di stabilito in precedenza. E non credo di esagerare affermando che dopo i mitici trii di Bill Evans, che hanno rivoluzionato il modo di concepire il combo piano-batteria-contrabbasso, questa di Svensson e compagni sia stato la formazione che più di altre è riuscita a dire qualcosa di nuovo e originale in materia.

Giovanni Falzone – “L’albero delle fate” – Parco della Musica
Il trombettista Giovanni Falzone, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Alessandro Rossi sono i protagonisti di questo album registrato nel febbraio del 2019 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La musica è di segno naturistico, se mi consentite l’espressione, in quanto Giovanni per comporla si è ispirato ai sentieri, ai grandi sassi, agli alberi, agli animali, ai colori, alle fonti d’acqua che vivificano il lago di Endine, in provincia di Bergamo, dove il trombettista ama trascorrere parte del suo tempo libero. Di qui nove brani che lo stesso Falzone definisce “cartoline sonore”; ma attenzione, quanto fin qui detto non tragga in inganno ché quella di Falzone resta una musica ben lontana dal New Age e viceversa ben ancorata alle grandi tradizioni del jazz. Così nel suo linguaggio è possibile riscontrare echi di Armstrong così come, per venire a tempi a noi più vicini, di Kenny Wheeler, di Enrico Rava (al quale in occasione dell’ottantesimo compleanno il 20 agosto scorso ha dedicato una intensa ballad), di Miles Davis (ma quale trombettista non è stato influenzato da Miles?). Quindi un jazz ora vigoroso (“Il mondo di Wendy”), ora più intimista (“Capelli d’argento”) ma sempre splendidamente suonato e arrangiato. Frutto evidente dell’intesa che si respira nel gruppo in cui tutti si esprimono al meglio delle rispettive possibilità.

Claudio Fasoli – “The Brooklyn Option” – abeat 206
Questo album è in realtà la riedizione di un CD pubblicato nel 2015; quindi, dal punto di vista del contenuto musicale, nessuna novità; cambia, invece, la copertina adesso rappresentata da una bella foto scattata dallo stesso Fasoli. Il sassofonista è reduce da una serie di brillanti riconoscimenti: nel 2018 ha vinto il Top Jazz come musicista dell’anno mentre nel 2017 il suo album “Selfie” sul mercato francese è stato votato dalla rivista “JazzMagazine” come “disco shock” del mese. In questa occasione è alla testa di un quintetto all stars comprendente Ralph Alessi alla tromba, Matt Mitchell al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Fasoli è in forma smagliante sia come compositore sia come esecutore. In effetti tutti e tredici i brani contenuti nell’album sono da lui stesso firmati e ci mostrano un musicista maturo, assolutamente consapevole dei propri mezzi ed in grado di scrivere musica a tratti coinvolgente, sempre, comunque, interessante e ben lontana dal ‘già sentito’. Ovviamente almeno parte di queste positive valutazioni dipende anche dall’esecuzione: ebbene al riguardo occorre sottolineare come il gruppo funzioni a meraviglia, con un altissimo grado di interplay che consente ai musicisti di muoversi in assoluta libertà, certo che il compagno di strada saprà quasi percepire in anticipo le sue proposte e sarà quindi in grado di condurle alle finalità desiderate. Straordinario, al riguardo, il modo in cui tromba e sassofono dialogano e suonano anche all’unisono sul filo di un idem sentire non facilissimo da raggiungere. Ancora una volta Alessi si qualifica come una delle più belle e originali voci trombettistiche degli ultimi anni. E non c’è un solo momento nel disco che non si percepisca questa intesa, questa gioia di suonare assieme. Tali caratteristiche si colgono sin dall’inizio, vale a dire dai tre movimenti che compongono la suite “Brooklyn Bridge”, aperta da una esposizione del tema armonizzata dai fiati che lasciano quindi spazio alla sezione ritmica con Mitchell, Gress e Waits a dimostrare quanto sia meritata la fama raggiunta nel corso degli ultimi anni.

Luca Flores – “Innocence” – Auand 2 cd
Ascoltare un inedito di Luca Flores è sempre emozionante e non solo per le vicende umane legate alla prematura scomparsa dell’artista, quanto perché la sua musica è come una sorta di scrigno contenente delle perle rare e preziose. Ovviamente anche quest’ultimo doppio album non sfugge alla regola: sedici tracce inedite incise da Luca Flores tra il 1994 e il 1995 di grande livello. Ma prima di spendere qualche parola sul contenuto artistico di “Innocence” vorrei ringraziare, a nome di tutti gli appassionati di jazz, l’amico Luigi Bozzolan, anch’egli valente pianista, il quale da tempo si sta adoperando per illustrare al meglio il lavoro di Flores, Stefano Lugli, il sound engineer che aveva curato quelle registrazioni, e Michelle Bobko, che ne aveva conservate delle copie, per aver ritrovato questo materiale e averlo regalato all’ascolto di noi tutti. E un doveroso riconoscimento va anche al pianista Alessandro Galati che ha curato selezione e mastering dell’opera. Il titolo di questo doppio cd è quello che Luca aveva indicato al produttore Peppo Spagnoli della Splasc(H) per quello che sarebbe stato il suo nuovo lavoro, un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico e che prevedeva un organico allargato con violoncello, percussioni, vibrafono e armonica, nonché la voce di Miriam Makeba. Data la complessità del progetto, dai costi piuttosto elevati, si decise di pubblicare un piano solo (“For Those I Never Knew”, edito da Splasch Records), con l’aggiunta di nuove tracce registrate il 19 marzo 1995; il pianista sarebbe scomparso dieci giorni dopo cosicché l’album uscì postumo. Tornando a “Innocence” i due CD si differenziano per un particolare non secondario: il primo è dedicato a brani mai incisi mentre il secondo presenta versioni alternative di pezzi già registrati. Ovviamente ciò nulla toglie all’omogeneità delle registrazioni che ci restituiscono ancora una volta un musicista straordinario dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo. Il suo pianismo è sempre lucido, fluido, mai teso a stupire l’ascoltatore ma sempre rivolto ad esprimere il proprio io, la propria anima. Di qui una capacità di scavare all’interno di ogni singolo brano che solo i grandi possiedono. Si ascolti al riguardo come sia riuscito a fondere in un unicum “Broken Wing” e “Lush Life” e come dimostri di saper padroneggiare diversi stili, dal bop di “Work” di Thelonious Monk e “Donna Lee” di Charlie Parker, allo swing di “Strictly Confidential” fino ad un pianismo di marca intimista in “Kaleidoscopic Beams” impreziosito da un unisono piano/voce prima e dopo il lungo assolo e “Silent Brother” che chiude degnamente il cd.

Jan Garbarek, The Hilliard Ensemble – “Remember me, my dear” – ECM New Series 2625
Ho conosciuto personalmente Jan Garbarek nel 1982 quando abitavo in Norvegia; in quella occasione l’ho trovato persona squisita, cortese, sensibile…oltre che straordinario musicista. E questa valutazione sull’artista nel corso degli anni non è mutata di una virgola…anzi. Quest’ultimo album mi conferma vieppiù nel considerare Jan Garbarek uno dei musicisti più originali, maturi, straordinari degli ultimi decenni. Ancora una volta accanto all’Hilliard Ensemble (questo è il quinto album da loro inciso nel corso degli ultimi ventisei anni), il sassofonista norvegese ci regala un’altra rara perla, una musica assolutamente inconsueta che affascina chi mantiene mente e cuore aperti. Qui non c’è più la distinzione tra generi: non si tratta di jazz, di musica classica, di folk, di musica religiosa ma di una straordinaria miscela di suoni, ricca di pathos, che ci trasporta in una dimensione trascendente l’attualità per instaurare un colloquio diretto con l’anima di chi ascolta. Ecco quindi un repertorio che abbraccia un lunghissimo arco di tempo, con quattordici brani di cui due firmati rispettivamente da Christ Komitas e Nikolai N. Kedrov autori a cavallo tra Otto e Novecento, cinque di autore anonimo, uno a testa per Guillaume le Rouge, maestro Pérotin, Hildegard von Bingen, Antoine Brumel tutti databili da 1098 al 1500,lo splendido “Most Holy Mother of God” di Arvo Pärt, più due composizioni originali dello stesso Garbarek. L’apertura è affidata a “Ov zarmanali” inno battista del religioso armeno Christ Komitas, interpretato da Garbarek in solitudine ed è questo il brano in cui si ascolta maggiormente il sax soprano del musicista norvegese, dal momento che negli altri pezzi a prevalere sono sostanzialmente le voci. Particolarmente degna di nota l’”Alleluia Nativitas” del Maestro Perotino. Un’ultima notazione: la registrazione, effettuata nella Chiesa della Collegiata dei SS.Pietro e Stefano di Bellinzona risale all’ottobre del 2014; come mai è stata pubblicata solo adesso?

Ghost Horse – “Trojan” – Auand 9090
Ecco la nuova formazione posta in essere sulle orme del precedente gruppo “Hobby Horse” dal sassofonista Dan Kinzelman con Filippo Vignato al trombone, Gabrio Baldacci alla chitarra baritona, Joe Rehmer al basso elettrico, Stefano Tamborrino alla batteria e Glauco Benedetti all’eufonio e alla tuba. Come si nota un organico piuttosto insolito così come insolita è la musica proposta. Una musica che trae spunti dal jazz, dal rock, dalla psichedelia cui si riferisce la frequente reiterazione di brevi frasi musicali che finiscono per ottenere un effetto in bilico tra l’onirico e l’ipnotico. Il tutto impreziosito da una intelligente ricerca sul suono, sulla timbrica e sulla dinamica particolarmente evidente nel brano di chiusura “Pyre” di Kinzelman (autore di cinque degli otto brani in repertorio) caratterizzato sul finire da quella reiterazione cui prima si faceva riferimento. Ma è l’intero album che si fa ascoltare con interesse dal primo all’ultimo minuto. Così, tanto per citare qualche altro titolo, la title track che apre l’album evidenzia la volontà del gruppo di non fermarsi su terreni particolarmente frequentati e di ricercare da un canto una propria specificità con frasi oblique, sghembe, tutt’altro che scontate, dall’altro una dimensione quasi orchestrale con un crescendo in cui tutti i componenti il sestetto hanno modo di mettersi in luce. In “Il bisonte” è in primo piano il sound così particolare della tuba utilizzata in un ruolo tutt’altro che coloristico. Convincente l’impianto narrativo di “Five Civilized Tribes” con in primo piano Gabrio Baldacci e Stefano Tamborrino autore del brano. Più legato a stilemi tradizionali, ma non per questo meno affascinante, “Hydraulic Empire” con un Vignato in grande spolvero mentre in “Dancing Rabbit” è in primo piano la sezione ritmica di Tamborrino e Rehmer. Per chiudere una menzione la merita anche la crepuscolare “Forest For The Trees” (di Kinzelman) in cui si avverte forse più che altrove quel fine lavoro di cesello cui si dedicano i fiati.

Rosario Giuliani – “Love in Translation” – VVJ 133
Una sezione ritmica tra le migliori del jazz non solo italiano (Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; li si ascolti in “Hidden force of love”) e una front line costituita da due grandi performer quali Rosario Giuliani ai sax alto e soprano e Joe Locke al vibrafono: ecco in poche righe spiegati i motivi del perché questo album si percepisce con grande piacere. Come solo i grandi musicisti sanno fare, i brani si susseguono con scioltezza e si ha l’impressione che tutto sia facile anche quando, ascoltando più attentamente, si scopre che le cose non stanno proprio così. In effetti gli arrangiamenti sono tutt’altro che banali e il modo di interloquire vibrafono-sax è il frutto di un’intesa assai solida, cementificata da un ventennio di collaborazione che i due intendono festeggiare proprio con l’uscita di questo album. Il repertorio è quanto mai variegato passando da classici del jazz (“Duke Ellington’s Sound of Love” di Charles Mingus, o “Everything I Love” di Cole Porter”) a hit della musica pop quali “I Wish You Love”, versione inglese della celeberrima “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet o quel “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss che inopinatamente troveremo anche nel CD di Oded Tzur di cui si parla più in basso; a questi si aggiungono alcuni original quali “Raise Heaven” dedicato da Joe Locke a Roy Hargrove e “Tamburo” di Rosario Giuliani per l’amico Marco Tamburini. Come prima sottolineato, tutti e dieci i brani in repertorio si ascoltano con molta piacevolezza, tuttavia mi ha particolarmente impressionato il dialogo di sax e vibrafono in “Can’t Help Falling In Love” e le modalità con cui il gruppo nella sua interezza ha approcciato un brano non facile come il mingusiano “Duke Ellington’s Sound of Love”.

Wolfgang Haffner – “Kind of Tango” – ACT 9899-2
Ad alcuni sembrerà forse strano che dei musicisti nordeuropei si interessino di tango, ma si tratta di una impressione totalmente errata. In effetti il Paese dove il tango è più frequentato, ascoltato, ballato – ovviamente al di fuori dell’Argentina – è un Paese del Nord Europa e precisamente la Finlandia. Chiarito questo equivoco, con questo album siamo in terra di Germania dove il batterista Wolfgang Haffner ha costituito un gruppo di stelle a livello internazionale per affrontare un repertorio piuttosto impegnativo dal momento che sotto l’insegna del tango si ascoltano sia brani di compositori celebri come Astor Piazzolla, Gerardo Matos Rodriguez sia original dei componenti il sestetto. Ecco quindi uno accanto all’altro il già citato Haffner, gli altri tedeschi Christopher Dell al vibrafono e Simon Oslender al piano, il francese Vincent Peirani all’accordion, gli svedesi Lars Danielsson al basso e cello e Ulf Wakenius alla chitarra, “rinforzati” dalla presenza in alcuni brani dei tedeschi Alma Naidu vocalist e Sebastian Studnitzky trombettista, dello svedese Lars Nilsson flicorno e del sassofonista statunitense Bill Evans. E c’è un altro equivoco da chiarire. In questo caso non si tratta della m era riproposizione delle atmosfere tipiche del tango, quanto di un’operazione un tantino più complessa e ben illustrata dallo stesso batterista quando afferma che per lui ascoltare e scrivere un tango non è una semplice traduzione in musica di ciò che ha sentito ma l’assorbire e l’adattare degli input ricevuti in un processo da cui può scaturire qualcosa di nuovo e contemporaneo. Ed in effetti ascoltando la riproposizione dei tanghi più celebri da tutti conosciuti quali “La Cumparista”, “Libertango” e “Chiquilin de Bachin” da un lato non c’è quel pathos che caratterizza le esecuzioni di un Astor Piazzolla, dall’altro si avverte la volontà di distaccarsi dai modelli originari per giungere su spiagge inesplorate. Tentativo riuscito? A mio avviso sì, ma ascoltate e giudicate.

Ayler’s Mood “Combat joy” e Pasquale Innarella “Go Dex”Quartet– aut records 051, 053
Due cd dedicati a due giganti del sax: il Trio Ayler’s Mood, costituito da Pasquale Innarella al sax, Danilo Gallo al basso elettrico e Ermanno Baron alla batteria sono i protagonisti di “Combat Joy”, dedicato ad Albert Ayler, e Pasquale Innarella e “Go Dex Quartet” dedicato a Dexter Gordon. Una sfida molto, molto difficile, quella con i mondi sonori di due grandi sassofonisti molto diversi tra di loro e quindi impossibili da ricondurre ad un unicum. Di qui l’intelligenza poetica – mi si passi il termine – di questi due gruppi e di Innarella che, come sassofonista, ben lungi dal voler imitare l’inimitabile, ha voluto con i suoi compagni di viaggio, piuttosto, rileggere le esperienze dei due grandi artisti. In particolare nel primo album, “Ayler’s Mood”, registrato live durante un concerto a “Jazz in Cantina”, zona Quarto Miglio, Roma, il 22 dicembre del 2018, Innarella (nell’occasione anche al sax soprano) coadiuvato da due eccellenti partner quali Danilo Gallo al basso e Ermanno Baron alla batteria, si rivolge all’universo di Albert Ayler (1936-1970) considerato a ben ragione uno dei massimi esponenti del free anni sessanta; lo stile del musicista di Cleveland era caratterizzato da un vibrato molto aggressivo e da un linguaggio che destrutturava gli elementi fondativi della musica, vale a dire melodia, armonia e timbro. Come affrontare quindi, tale musica senza ricorrere a sterile imitazioni? Lasciandosi andare ad una improvvisazione pura, estemporanea (come sottolineato nella presentazione dell’album) è stata la risposta di Innarella e compagni. Un flusso sonoro di circa un’ora che coinvolge l’ascoltatore in una sorta di viaggio senza meta, assolutamente coinvolgente. I tre suonano liberamente ma con estrema lucidità, in un quadro in cui nessuno ha la prevalenza sull’altro e in cui la musica di Ayler rivive in tutta la sua drammatica attualità con lacerti di free che si alternano con accenni di calypso o di R&B…senza trascurare alcune citazioni ben riconoscibili.
Nel secondo CD, “Go Dex”, Innarella è in quartetto con Paolo Cintio al piano, Leonardo De Rose al contrabbasso e Giampiero Silvestri alla batteria. In questo caso il discorso è completamente diverso e non potrebbe essere altrimenti dato che Dexter Gordon (1923-1990) è stato uno degli alfieri del bebop, un artista straordinario di recente ricordato in un bel volume della EDT di cui ci si occuperà quanto prima. Nell’album Innarella esegue sette composizioni di Dexter Gordon con l’aggiunta di un celeberrimo standard, “Misty” di Errol Garner. Ma è già nel termine “Go Dex” che si vuole omaggiare il sassofonista di Los Angeles dal momento che “Go” è il titolo che lo stesso Dexter volle dare ad un suo album registrato nell’agosto del 1962 con Sonny Clark piano, Butch Warren basso e Billy Higgins batteria. Ma Pasquale non si è fermato qui: Gordon ha scritto pochi brani e Innarella ha voluto, quindi, riproporne almeno una parte tenendosi però ben lontano da una pedissequa imitazione. Quindi non un linguaggio boppistico ma un jazz moderno, attuale, che non disdegna incursioni nel mondo del free. Ecco le prime battute dell’album eseguite secondo stilemi molto vicini al free accanto ad una convincente e canonica interpretazione di “Misty” con sonorità più legate alla tradizione; ecco “Soy Califa” dall’andamento funkeggiante, illuminato da uno splendido assolo di Paolo Cintio accanto al conclusivo “Sticky Wichet” che ci riconduce ad atmosfere molto accese… il tutto senza perdere di vista, in alcun momento, quelli che erano i principi ispiratori di Gordon e che ritroviamo intatti in questo pregevole album.

Keith Jarrett – “Munich 2016” – ECM 2667/68
Passano gli anni ma è sempre un’esperienza appagante ascoltare Keith Jarrett specie su disco (ché dal vivo alcune intemperanze sono francamente insopportabili). In questo doppio CD, registrato alla Philarmonic Hall di Berlino il 16 luglio del 2016, ultima sera di un tour europeo, Jarrett, in totale solitudine, ci presenta una suite in dodici parti dal titolo “Munich” totalmente improvvisata e tre bis, “Answer Me, My Love” (versione inglese della canzone tedesca del 1953, “Mütterlein”), “It’s A Lonesome Old Town” e “Somewhere Over The Rainbow”. Com’è facile immaginare, il Jarrett migliore lo si trova nella prima parte, e soprattutto nel primo movimento dove, in circa quindici minuti di musica magmatica e complessa, il pianista improvvisa liberamente mescolando gli input che oramai da tempo costituiscono gli ingredienti fondamentali della sua cifra stilistica, vale a dire jazz, blues, gospel, folk, musica colta. Ed è davvero un bel sentire: gli intricati percorsi disegnati da Jarrett confluiscono sempre laddove l’artista vuole arrivare, nonostante le spericolate armonizzazioni e la velocissima diteggiatura che alle volte non consentano all’ascoltatore, seppur attento, di immaginare il percorso immaginato dall’artista. E seppur meno intense anche i successivi momenti della suite mantengono davvero alto lo standard esecutivo ed improvvisativo di Jarrett. Leggermente diverso il discorso per i tre brani. Jarrett sembra essersi relativamente placato fino a regalarci una splendida versione del celeberrimo “Over The Rainbow” che da solo vale l’acquisto dell’album.

Lydian Sound Orchestra – “Mare 1519” – Parco della Musica Records
Oramai da tempo la Lydian Sound Orchestra viene a ben ragione considerata una delle migliori big band a livello internazionale e ciò per alcuni validi motivi; innanzitutto la bontà dell’organico che prevede artisti tutti di assoluto spessore quali i sassofonisti Robert Bonisolo, Rossano Emili e Mauro Negri anche al clarinetto, Gianluca Carollo alla tromba e flicorno, Roberto Rossi al trombone, Giovanni Hoffer al corno francese, Glauco Benedetti alla tuba, Paolo Birro al piano e al Fender Rhodes, Marc Abrams al basso e Mauro Beggio alla batteria, Riccardo Brazzale piano e direzione, Bruno Grotto electronics e Vivian Grillo voce. In secondo luogo il grande lavoro svolto da Riccardo Brazzale che è stato capace di mettere assieme una compagine di tutto rispetto e di scrivere per essa arrangiamenti coinvolgenti che non a caso sono stati interpretati dall’orchestra con estrema compattezza. A ciò si aggiunga una sempre lucida scelta del repertorio che anche questa volta è composto sia da composizioni originali del leader sia da composizioni di alcuni grandi della musica come Ellington, Monk, Shorter, Miles Davis, Paul Simon. In più questo album è una sorta di concept dal momento che, come spiegato nelle note, due numeri, 1 e 9, accompagnano nel corso dei secoli i viaggi e i viaggiatori, a partire dall’impresa di Magellano del 1519 ( considerata l’inizio dell’era moderna ) per finire al 2019 quando il mar Mediterraneo continua a raccontare di nascite e di morti; insomma questa volta Brazzale vuole prendere per mano l’ascoltatore e condurlo attraverso quel mar Mediterraneo, testimone delle più importanti vicende dell’umanità, per un viaggio che metaforicamente riproduce alcune fasi della storia del jazz. Di qui una musica immaginifica, travolgente a tratti, sempre improntata alla commistione di più elementi, dal jazz al folk alla musica classica, il tutto impreziosito da una originalità di linguaggio vivificata dal grande livello dei vari solisti cui prima si faceva riferimento.

Christian McBride – “The Movement Revisited” – Mack Avenue 1082
“The Movement Revisited: A Musical Portrait of Four Icons” è esplicitamente dedicato a quattro figure chiave del movimento per i diritti civili degli afro-americani: Rev. Dr. Martin Luther King Jr., Malcolm X, Rosa Parks e Muhammad Ali. In realtà questa monumentale opera ha una storia piuttosto complessa che ha origine nel 1998 quando, su commissione della Portland Arts Society, McBride scrisse una composizione per quartetto e coro gospel che rappresenta, per l’appunto, la prima versione di “The Movement Revisited”. Nel 2008 la L.A. Philharmonic chiese a McBride di farne una versione orchestrale e così “The Movement Revisited” diventò una suite in quattro parti per big band jazz, piccolo gruppo jazz, coro gospel e quattro narratori. In questa registrazione, effettuata nel 2013, è stato aggiunto un quinto movimento, “Apotheosis”, dedicato all’elezione di Barack Obama come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Evidente, quindi, l’intento di Christian McBride (contrabbassista, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, poeta, vincitore di due Grammy con “The Good Feeling” nel 2011 e “Bringin ‘It” nel 2017) di presentare un album che andasse ben al di là del fattore squisitamente musicale riallacciandosi direttamente alla lotta per una effettiva eguaglianza tra bianchi e neri, ancora ben lungi dall’essere raggiunta negli States. La suite è eseguita da una big band di 18 elementi, con coro gospel e narratori, questi ultimi nelle persone di Sonia Sanchez, Vondie Curtis-Hall, Dion Graham, e Wendell Pierce. E come accade alle volte, è impossibile scindere il mero valore artistico dal valore sociale, politico, culturale che questa musica veicola. Non a caso l’album ha ottenuto i più sinceri riconoscimenti da parte di accreditati critici statunitensi. In effetti ascoltando il CD è come se ci si muovesse in un contesto teatrale con i quattro attori che riportano stralci dei discorsi dei protagonisti e un sound che è una sorta di summa di tutta la musica nera, quindi jazz, soul, funk, gospel, spiritual…Insomma una musica che è allo stesso tempo un grido di dolore per quanto accaduto e un segno di speranza per un futuro che non può essere disgiunto dal passato in quanto, come nota lo stesso McBride, “ci sono oggi nuove battaglie che stiamo combattendo, ma sento che queste nuove battaglie cadono sotto l’ombrello di uguaglianza, equità e diritti umani – e questa è una vecchia battaglia». Particolarmente emozionante, al riguardo, riascoltare “I Have a Dream”, un discorso che credo tutti dovremmo, ancora oggi, apprezzare nei suoi profondi significati.

Dino e Franco Piana – “Open Spaces” – Alfa Music
Conosco Dino e Franco Piana oramai da tanti anni e mi ha sempre stupito la straordinaria intesa tra padre e figlio che ha portato questi due personaggi ad attraversare l’oceano del jazz con signorilità, competenza e pochi ma significativi album. In effetti i due (il primo nella veste di trombonista dalla classe eccelsa, il secondo nella quadruplice funzione di compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e flicornista) entrano in sala di incisione solo quando sentono di avere qualcosa di nuovo da dire. Di qui gli ultimi tre album particolarmente significativi, tutti registrati per l’Alfa Music, “Seven” (2012), “Seasons” (2015), e adesso questo “Open Spaces” il cui organico è sostanzialmente lo stesso dell’album precedente cui si aggiungono i cinque archi della Bim Orchestra. Quindi, oltre a Dino e Franco Piana, si possono ascoltare Fabrizio Bosso alla tromba, Max Ionata al sax tenore, Ferruccio Corsi al sax alto, Lorenzo Corsi al flauto, Enrico Pieranunzi al piano, Giuseppe Bassi al basso e Roberto Gatto alla batteria. In repertorio due suite, “Open Spaces” e “Sketch of Colours”, articolate la prima su una Introduzione e tre Variazioni, la seconda su una Introduzione e due Movimenti, ed in più altri tre brani “Dreaming”, “Sunshine” e “Blue Blues”, tutti composti e arrangiati da Franco Piana eccezion fatta per “Sketch of Colours” scritto da Franco Piana e Lorenzo Corsi. L’album è davvero di assoluto livello e per più di un motivo. Innanzitutto la scrittura di Franco che, accoppiata ad una evidente bravura nell’arrangiamento, riesce a ricreare una sonorità caratterizzata da timbri e colori assolutamente originali, rimanendo fedele ad un linguaggio prettamente jazzistico. In secondo luogo l’affiatamento dell’orchestra che pur essendo composta da grandi personalità ha trovato una sua cifra di coesione che l’accompagna in tutte le esecuzioni. In terzo luogo la caratura dei vari assolo che vedono protagonisti tutti i componenti della band. A questo punto non resta che auguravi buon ascolto!

Stefania Tallini – “Uneven” – Alfa Music 226
Ebbene lo confesso: sono un grande amico di Stefania Tallini che ammiro non solo come pianista e compositrice ma anche come persona gentile, equilibrata, mai sopra le righe e soprattutto affettuosa, che si è sempre mantenuta con i piedi per terra nonostante gli innumerevoli successi a livello internazionale. Ecco, questo album inciso in trio con Matteo Bortone valente contrabbassista che ha suonato tra gli altri con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi, e Gregory Hutchinson statunitense a ben ragione considerato uno dei migliori batteristi di questi ultimi anni, è probabilmente uno degli album più significativi registrati dalla pianista. La filosofia dell’album è racchiusa nello stesso titolo, “Uneven” ovvero “Irregolare”: in effetti, spiega la stessa Tallini, “questa parola inglese è l’espressione di qualcosa di inatteso, di inaspettato, che rimanda ad un carattere di imprevedibilità, appunto, che è proprio ciò che amo nella musica e nella vita.” E per esplicitare al meglio queste sue posizioni, Stefania ha voluto fortemente accanto a sé i due musicisti cui prima si faceva riferimento. I risultati le danno ragione. L’album è convincente in ogni suo aspetto: intelligente la scelta del repertorio che accanto a dieci composizioni originali della pianista annovera “Inùtìl Paisagem” di Antonio Carlos Jobim e lo standard “The Nearness of You” di Hoagy Carmichael eseguito in solo; assolutamente ben strutturata la scrittura in cui ricerca della linea melodica e armonizzazione si equilibrano in un linguaggio che non consente espliciti punti di riferimento. Tra i vari brani una menzione particolare, a mio avviso, per il brano di Jobim proposto con grande partecipazione e delicatezza, impreziosito anche dagli assolo dei compagni di viaggio, e l’original “Triotango” che ben cattura l’essenza di questo genere musicale.

Oded Tzur – “Here Be Dragons” – ECM 2676
Questo “Here Be Dragons” è l’album d’esordio in casa ECM per il sassofonista israeliano, ma da tempo residente a New York, Oded Tzur. Accanto a lui Nitai Hershkovits al pianoforte, Petros Klampanis al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria, quindi una piccola internazionale del jazz dal momento che se Hershkovits è anch’egli israeliano, il bassista è greco di Zakynthos‎ e il batterista statunitense di Filadelfia. Registrato nel giugno del 2019 presso l’Auditorio Stelio Molo in Lugano, l’album presenta in repertorio otto brani di cui ben sette scritti dallo stesso sassofonista cui si aggiunge “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss, portato al successo nientemeno che da Elvis Presley. Fatte queste premesse, anche per inquadrare il personaggio ancora non molto noto presso il pubblico italiano, occorre sottolineare la valenza della musica proposta. Una musica che sottende una particolare bravura di Tzur sia nell’esecuzione sia ancora – e forse di più – nella scrittura, sempre fluida, facile da assorbire seppure non banale e soprattutto frutto di una straordinaria capacità di introiettare input provenienti da mondi i più diversi. In effetti egli, israeliano di nascita, ha dedicato molta parte del suo tempo a studiare la musica classica indiana considerata, come egli stesso afferma, “un laboratorio di suoni”. Ecco quindi stagliarsi in modo del tutto originale il suono del suo sassofono chiaramente influenzato dagli studi con il maestro di bansuri (flauto traverso tipico della musica classica indiana) Hariprasad Chaurasia, iniziati nel 2007. Ed è proprio la particolarità del sound che a mio avviso caratterizza tutto l’album, con i quattro musicisti che si intendono a meraviglia pronti a supportarsi in qualsivoglia momento. I brani sono tutti ben scritti e arrangiati con una prevalenza, per quanto mi riguarda, per “20 Years” la cui linea melodica viene splendidamente disegnata da Hershkovits altrettanto splendidamente sostenuto da Blake il cui lavoro alle spazzole andrebbe fatto studiare ai giovani batteristi.

Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand – ACT 9739-2
Ecco un album che sicuramente susciterà l’interesse e la curiosità degli appassionati italiani: protagonisti due artisti estoni, la cantante, pianista e compositrice Kadri Voorand e il bassista Mihkel Mälgand. Kadri da piccola cantava nel gruppo di musica popolare di sua madre, avvicinandosi successivamente al pianoforte classico e quindi al jazz nelle accademie di Tallinn e Stoccolma.  Oggi viene considerata una stella nel proprio Paese grazie ad uno stile versatile che le consente di mescolare jazz contemporaneo, folk estone, rhythm & blues e ritmi latino-americani. Non a caso nel 2017 è stata insignita del premio musicale estone per la miglior artista ed è stata premiata per il miglior album jazz dell’anno (“Armupurjus”). Mihkel Mälgand è uno dei bassisti estoni di maggior successo, avendo lavorato, tra gli altri, con musicisti come Nils Landgren, Dave Liebman e Randy Brecker. In questo album si presentano nella rischiosa formula del duo con la vocalist che suona anche kalimba e violino mentre Mihkel si cimenta anche con bass guitar, bass drum, cello e percussioni. In un brano ai due si aggiunge come special guest Noep. In repertorio 12 brani scritti in massima parte dalla Voorand e cantati in inglese eccezion fatta per due nella sua lingua madre (due splendide song tratte dal patrimonio folcloristico estone). L’album è notevole ed è stato apprezzato anche al di fuori dell’Estonia: Europe Jazz Network, la rete europea di operatori del settore jazz, che stila la Europe Jazz Media Chart, una selezione mensile dei migliori titoli usciti curata da un pool di giornalisti specializzati, ha incluso “Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand” tra le migliori registrazioni del marzo 2020. La musica scorre fluida ed evidenzia appieno la valenza dei due musicisti che si muovono con maestria ben supportati da un tappeto intessuto dagli effetti elettronici padroneggiati con misura ed euqilibrio. La voce della Voorand è fresca, e affronta il difficile repertorio con disinvoltura non scevro da una certa dose di ironia. Dal canto suo Mälgand non si limita ad accompagnare la vocalist ma ci mette del suo prendendo spesso in mano il pallino dell’esecuzione sempre con pertinenza.

Prosegue la rassegna Jazz & Wine Experience all’Hotel DoubleTree by Hilton Trieste, con il Jim Rotondi quintet e il Bob Sheppard trio

Altri due concerti strepitosi per la rassegna che combina live internazionali, degustazioni, cene a tema e incontri con i produttori in uno dei luoghi più esclusivi e storici della città di Trieste. Il Berlam Coffee Tea & Cocktail dell’Hotel DoubleTree by Hilton Trieste si trasforma in un vero e proprio jazz club per una serie di eventi che valorizzano il connubio tra musica, vino e territorio.

Dopo la straordinaria esibizione del quartetto della newyorkese pianista e cantante Dena DeRose, definita dai critici e dal pubblico una delle più grandi voci e interpreti del jazz internazionale, prosegue con altri due strepitosi concerti la rassegna JAZZ & WINE TRIESTE, ospitata negli esclusivi interni del nuovo Hotel.

La rassegna, nata con lo scopo di valorizzare il connubio tra musica live internazionale di alto profilo, eccellenze enologiche locali e ambienti storici e di charme, trasforma il Berlam Coffee Tea & Cocktail in un vero e proprio jazz club e si svolge parallelamente a Trieste, Venezia e Bologna.

E’ già sold out il concerto del Jim Rotondi quintet, in programma domenica 16 febbraio alle 19.30. Jim Rotondi, trombettista newyorkese di fama mondiale, sarà accompagnato da Andy Watson alla batteria e dagli italiani Renato Chicco al pianoforte, Aldo Zunino al contrabbasso e Piero Odorici al Sax. Nato in Montana nel 1962, Jim Rotondi ha vissuto per vent’anni a New York, dove ha collaborato con Lionel Hampton, Ray Charles, Lou Donaldson, Curtis Fuller e George Coleman. Ha registrato quattordici dischi a proprio nome per varie etichette indipendenti di jazz, con diverse formazioni che spaziano dall’hard bop al jazz elettrico. La sua è una sonorità molto particolare e personale che unisce la forza di Freddie Hubbard con il timbro di Chet Baker. Il suono, l’anima, il senso dello swing di Rotondi saranno gli ingredienti di un concerto che racconta la storia del jazz, dall’immenso songbox americano fino all’hard bop, di cui Rotondi è uno dei massimi esponenti viventi. Protagonista, oltre alla musica, sarà la Fondazione Villa Russiz di Capriva del Friuli, altra realtà rappresentativa della storia e delle eccellenze del Collio Friulano, di cui si potranno degustare i vini eleganti, minerali e di grande piacevolezza. Per la serata proporrà il grande CRU bianco Sauvignon De La Tour dedicato al conte Theodor De la Tour, fondatore della cantina. Dopo il concerto sarà possibile cenare al Novecento Restaurant Trieste, con un menù a tema in perfetto stile Jazz & Wine.

Ci sono invece ancora posti disponibili per il concerto di chiusura dell’edizione invernale di JAZZ & WINE TRIESTE, che domenica 8 marzo alle 19.30 avrà come protagonista il trio newyorkese del grande sassofonista Bob Sheppard, accompagnato da Josh Ginsburg al contrabbasso e Anthony Pinciotti alla batteria. Il repertorio comprende standard jazz della tradizione e brani originali, eseguiti in una perfetta comunicazione tra artisti e pubblico, caratteristica preponderante dello stile del trio. Bob Sheppard è uno tra i più richiesti sassofonisti della scena jazzistica internazionale e vanta collaborazioni di massimo livello, sia nell’ambiente jazz che pop, come Freddie Hubbard, Mike Stern, Randy Brecker, Horace Silver, Manhattan Transfer, Burt Bacharach, Kurt Elling, Diane Reeves, solo per citarne alcuni.
Il concerto sarà accompagnato dai vini della cantina Serafini e Vidotto di Nervesa della Battaglia, realtà produttiva di grande tradizione e prestigio. Sono vini che denotano passione e serio lavoro, entusiasmo, impegno e costanza: non è un caso che Serafini & Vidotto abbia dato vita al Rosso dell’Abazia, un vino che ha segnato la storia enologica d’Italia. Si potrà degustare insieme a Phigaia, Incrocio Manzoni e Recantina.

Per informazioni e prenotazioni contattare l’organizzatrice e direttrice artistica Michela Parolin (T: +39 393 0318595, info@jazz-wine.com).

PROGRAMMA

Domenica 16 febbraio 2020 h. 19:30: JIM ROTONDI QUINTET “FEATURING ANDY WATSON”

(Jim Rotondi: tromba e flicorno, Andy Watson: batteria, Piero Odorici: sax tenore, Renato Chicco: piano, Aldo Zunino: contrabbasso)

Wine tasting: VILLA RUSSIZ

Domenica 08 marzo 2020 h. 19:30: BOB SHEPPARD TRIO

(Bob Sheppard: sax, Josh Ginsburg: contrabbasso, Anthony Pinciotti: batteria)

Wine tasting: SERAFINI & VIDOTTO

Costi:

Concerto € 15,00 compreso calice di benvenuto.

Al termine del concerto gli ospiti potranno cenare presso il Novecento Restaurant Trieste con proposta “Menù Jazz & Wine” e sconto 20% sul menù à la carte.

Alla Casa del Jazz Rita Marcotulli, Martin Wind e Matt Wilson omaggiano Dewey Redman

Giovedì 7 novembre alle ore 21, sul palco della Casa del Jazz di Roma un concerto speciale con la pianista Rita Marcotulli, il contrabbassista Martin Wind e il batterista Matt Wilson per presentare il pregiato disco in vinile “The Very Thought Of You – Remembering Dewey Redman” nato da una idea del festival Ancona Jazz e prodotto dall’etichetta Go4 Records.
Registrato in studio tra ottobre e novembre 2018, questo album è un vinile puro per audiofili, uscito in occasione dell’edizione 2019 del festival Ancona Jazz.
Il suo repertorio omaggia la figura del grande sassofonista statunitense Dewey Redman, nel cui quartetto degli anni ’90 figuravano Rita Marcotulli e Matt Wilson. Tra i più grandi esponenti dell’era post-free, Redman ed è stato membro del quartetto di Ornette Coleman e del quartetto “americano” di Keith Jarret con Paul Motian e Charlie Haden. A raccogliere parte della sua eredità musicale, il figlio Joshua Redman, divenuto uno dei sassofonisti più influenti del jazz internazionale.
Per questo omaggio il trio Marcotulli-Wind-Wilson ha subito trovato una poetica che legasse i momenti solistici al servizio di splendidi impianti melodici e armonici. Padronanza strumentale, eleganza di esecuzione, raffinatezza stilistica nella filosofia estetica dei tre, rivolta sempre ad offrire al fortunato ascoltatore un messaggio vibrante di sensazioni uniche.
Fresca di nomina ad Ufficiale della Repubblica Italiana, Rita Marcotulli continua attraverso questa produzione una carriera poliedrica come la sua statura artistica, che l’ha vista al fianco sia di jazzisti importanti come Charlie Mariano, Peter Erskine, Billy Cobham, Palle Danielsson, Joe Henderson, Joe Lovano, Sal Nistico ma anche di artisti pop quali Ambrogio Sparagna, Max Gazzè e in particolare Pino Daniele. E’ anche la prima donna ad aver vinto un David di Donatello per la miglior colonna sonora, nel 2011, per “Basilicata coast to coast”, oltre al Ciak d’oro, il Nastro d’Argento e due edizioni del premio Top Jazz della rivista Musica Jazz.
Martin Wind e Matt Wilson sono una coppia affiatatissima, specialmente nella formula strumentale del trio (Bill Mays, Dena De Rose), ma entrambi possono godere di una cospicua attività da leader di gruppi moderni, pur nel rispetto della tradizione.
Martin Wind vanta collaborazioni con artisti del calibro di Pat Metheny, Toots Thielemans, Michael Brecker, Randy Brecker, Phil Woods, Mike Stern, John Scofield e Sting.
Acclamato dalla critica, Matt Wilson vanta una lunga carriera e la presenza in oltre 400 album accanto a grandi del jazz internazionale, tra cui Dewey Redman, Paul Bley, Charlie Haden, Lee Konitz, Bob Stewart, Cecil McBee, Denny Zeitlin, Ron Miles, Jeff Lederer, Marty Ehrlich, Ted Nash, Ray Anderson.

Le prevendite sono già disponibili al link http://bit.ly/ticketoneCASADELJAZZ.
Tutte le info sul vinile pubblicato da Go4 Records sono disponibili al link https://www.go4records.online/acquista/remembering-dewey-redman mentre le attività di Ancona Jazz sono presenti al sito www.anconajazz.com.

INFO E CONTATTI
Giovedì 7 novembre ore 21
Casa del Jazz di Roma – via di Porta Ardeatina 55
Info: https://www.casajazz.it/eventi/jazz-is-not-dead-rita-marcotulli-martin-wind-matt
Biglietti in prevendita: http://bit.ly/ticketoneCASADELJAZZ
Ufficio stampa evento: Fiorenza Gherardi De Candei – tel. 328.1743236 – info@fiorenzagherardi.com

I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 3)

Proseguiamo il nostro viaggio attraverso alcune tra le più importanti etichette di jazz. Oggi parliamo di Caligola, Cam Jazz, Dodicilune e ECM di cui vi presenteremo alcune significative produzioni.

CALIGOLA

L’associazione culturale Caligola dal 1980 promuove musica al di fuori dei circuiti istituzionali, organizzando concerti all’interno di spazi presi in affitto. Dal folk al blues, dal rock alla musica d’autore fino al jazz, l’associazione Caligola è riuscita a portare nel territorio veneziano alcuni tra i più noti maestri della musica moderna. Nel 1994 nasce Caligola Records, etichetta indipendente, che sotto la sapiente regia di Claudio Donà è riuscita ad imporsi come una delle più importanti realtà italiane nel valorizzare il jazz italiano in particolare dell’area veneta. Di Caligola records vi proponiamo tre recenti produzioni.

Maurizio Brunod è uno tra i più fedeli artisti della Caligola Records. Chitarrista di grande spessore pubblicò il primo album con Caligola nel 2009, “Northern Lights”, per chitarra solo. Adesso si ripropone con “African Scream” ancora per chitarra solo. Anche se la chitarra è tornata prepotentemente in auge nel mondo del jazz grazie ad alcuni personaggi di assoluto livello, ciò non significa che tutte le ciambelle riescano col buco, soprattutto se si decide di affrontare un repertorio variegato ed impegnativo da solo con il proprio strumento seppur confortato dall’ausilio dell’elettronica. Ma Brunod è artista che non teme le sfide ed eccolo dunque dedicare il brano d’apertura al collega e amico Garrison Fewell prematuramente scomparso, “Ayleristic”, già proposto nell’album in duo con lo stesso Garrison, “Unbroken Circuit” del 2015. Nel ricordo dell’amico, Brunod non ha pudore dei propri sentimenti e ci regala una interpretazione intensa, suggestiva, emozionalmente coinvolgente. Subito dopo eccolo alle prese con uno standard, “I Remember Clifford” di Benny Golson affrontato con lucida consapevolezza senza alcuna smania di voler travolgere alcunché ma con il sincero proposito di rendere omaggio ad un grande pezzo e ad un grande compositore.
Di qui sino alla fine sei originali a sua firma intervallati da un brano di Aldo Mella. E nella duplice veste di compositore-esecutore Maurizio ha modo di mettere in mostra tutte le sue valenze. Al riguardo particolarmente convincente la title track caratterizzata da un andamento quasi ipnotico grazie ad una melodia inusuale e ad un uso appropriato del loop.

Claudio Cojaniz è un altro pezzo da novanta del jazz friulano e più in generale italiano. Questo “Molineddu” è stato registrato tra il novembre 2016 e il febbraio 2017, quindi pochi mesi prima di “Sound Of Africa”, altro album del pianista che manifesta così il suo amore verso questo continente. Ad affiancarlo ancora una volta i componenti del ‘Coj & Second Time” vale a dire Alessandro Turchet (contrabbasso), Luca Grizzo (percussioni, vocale), Luca Colussi (batteria) con l’aggiunta di Carmela Arghittu (voce) nel brano che dà il titolo all’album. In programma sette originali tutti dovuti alle felice vena creativa del leader. Ancora una volta il pianismo di Cojaniz risulta di grande interesse; il suo linguaggio, pur nel dichiarato omaggio all’arte, alla cultura di altri continenti (qui sentita la dedica alla città di Aleppo), mai risulta calligrafico, sempre scevro da ogni manierismo e intellettualismo di maniera. Di qui niente funamboliche evoluzioni sulla tastiera, niente invenzioni particolarmente azzardate, niente suoni alterati ma linee melodiche essenziali eppure di assoluta godibilità, armonizzazioni non astruse ma non banali, e soprattutto una tavolozza coloristica che i membri del quartetto rendono al meglio con la cavata possente e precisa di Alessandro Turchet, la batteria mai ridondante di Luca Colussi che si dimostra ancora una volta (se pur ce ne fosse stato bisogno) uno dei migliori e più lucidi batteristi italiani e le percussioni assolutamente inusuali di Luca Grizzo che regalano quasi un tocco di magia alla musica dell’ensemble (se non si vede Grizzo esibirsi non si ha un’esatta percezione di quanto detto). Tra i brani da segnalare soprattutto “Molineddu – Girasoles suta sa luna” in cui Carmela Arghittu interpreta con grande e sincera partecipazione i versi di Istevene Stefano Flores.

Roberto Martinelli (sax soprano) e Ermanno Maria Signorelli (chitarra classica) sono i protagonisti del toccante album “Pater” registrato a Padova nel 2018. Titolo non potrebbe essere più esplicativo dal momento che l’album è dedicato ai padri dei due artisti scomparsi in un breve arco di tempo. E questo dà la misura del tipo di musica che si ascolta. Sax soprano e chitarra costituiscono un duo certo non usuale ed in effetti è il primo disco che i due incidono assieme anche se, viceversa, sul campo hanno avuto diverse occasioni di collaborare. Di qui un’intesa che va ben al di là della registrazione in oggetto, un’intesa confortata dal comune background sia classico sia jazzistico, dall’idem sentire quanto a purezza e naturalezza del suono acustico. Non a caso Signorelli è tra i pochissimi jazzisti italiani ad aver scelto la chitarra classica. Al riguardo dobbiamo, quindi, segnalare l’assoluta coerenza con questo assunto di ambedue i musicisti che non si sono lasciati sedurre dai “nuovi suoni”. Liberi da ogni obbligo di modernità, i due si spingono su terreni in qualche modo legati alla musica colta europea in cui è ben difficile distinguere tra pagina scritta e improvvisazione. Materia, quest’ultima, in cui sia Martinelli sia Signorelli sembrano eccellere per tutta la durata dell’album. Straordinariamente efficace la trattazione delle dinamiche in cui anche il silenzio ha un suo rispettabile ruolo, così come coinvolgente risulta l’invenzione tematica dei due che si riallaccia in maniera decisa al gusto melodico della tradizione italiana. Infatti degli otto brani in programma ben sette sono gli originali di cui quattro di Signorelli e tre di Martinelli cui si aggiunge lo standard “My Favourite Things” di Rodgers e Hammerstein porto con gusto e originalità.

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CAM JAZZ

La CAM JAZZ è nata come una costola della prestigiosa Cam (Creazioni Artistiche Musicali) Records, costituita tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960. Fondata dai fratelli Campi fu una delle primissime etichette a specializzarsi nel registrare le musiche tratte dai film. Nel 2000 la nascita di CAM Jazz per una intuizione del titolare della CAM che ascoltato Giovanni Tommaso appena finito di registrare la colonna musicale di un film, con musiche da lui composte, e venuto a conoscenza che Giovanni era un jazzista gli propose l’idea di suonare in versione jazz alcuni dei temi più noti tratti dal catalogo CAM. Giovanni accolse l’idea con entusiasmo, e fu così che nacque il primo album di CAM JAZZ, “La dolce vita – Tommaso/Rava Quartet”. Quasi inutile sottolineare come questa etichetta rappresenti oggi una delle realtà più vitali e importanti, conosciuta ed apprezzata in Italia e all’estero, avendo tra l’altro acquisito due prestigiose etichette, La Black Saint e la Soul Note.

Anche in questo caso vi proponiamo tre produzioni. Le prime due vedono protagonista uno degli artisti di punta dell’etichetta Enrico Pieranunzi, registrato dal vivo durante un concerto alla Bastianich Winery in splendida solitudine, e in trio con Gabriele Mirabassi e Gabriele Pieranunzi.

Enrico Pieranunzi “Wine & Waltzes” fa parte di quella serie di registrazioni effettuate quasi per scommessa da Ermanno Basso produttore dell’etichetta e Stefano Amerio vero e proprio mago del suono, titolare dei celebri “Artesuono Recording Studios”. In sostanza si trattava di verificare se fosse possibile produrre degli album live registrati nelle cantine del Friuli Venezia Giulia. La scommessa è stata vinta alla grande e questo album ne è una prova inconfutabile. Enrico suona come al solito molto, molto bene, con quella classe e quella originalità che ne hanno fatto uno dei migliori pianisti oggi in esercizio sulle platee di tutto il mondo. Il suo stile allo stesso tempo rigoroso e fantasioso, frutto di un innato talento ma anche di anni ed anni di intenso studio, è immediatamente riconoscibile. Se a tutto ciò si aggiunge la piacevolezza di un repertorio quasi tutto incentrato sul ritmo ternario si capirà immediatamente perché l’album è godibile dal primo all’ultimo istante.

Così come godibile è “Play Gershwin” ovviamente incentrato sul compositore di Brooklyn. Come si diceva con Pieranunzi negli studi di registrazione di Stefano Amerio, a Cavalicco, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Gabriele Pieranunzi al violino. Un organico, quindi, inusuale ma di eccelso spessore tecnico-artistico. Questo album meriterebbe tutta una serata di illustrazioni non solo e non tanto per la qualità della musica e la bravura degli esecutori quanto per la complessità dell’operazione che sottende il CD. Al riguardo bisogna partire da un dato: sia “An American in Paris” sia “Rhapsody in Blue” – ambedue contenute nell’album – furono scritte per larghi organici. Come ridurre queste partiture sì da farle suonare ad un trio anziché ad un’orchestra sinfonica? L’impresa era di quelle da far tremare i polsi, come confessa lo stesso Pieranunzi che per “Un Americano a Parigi” si è servito della trascrizione per pianoforte solo di William Daly e della versione per due pianoforti scritta dallo stesso Gershwin, mentre per la “Rapsodia” è stata lasciata integra quella parte solistica di pianoforte scritta nel 1924 che spesso viene tagliata e si è proceduto a ristrumentare passaggi non suonati dal pianoforte. Risultato? Eccellente sotto ogni aspetto; alle due opere sopra citate si aggiungono i preludi (scritti originariamente per solo pianoforte) che evidenziano vieppiù una intesa del tutto straordinaria che va ben al di là del fatto meramente musicale. Pieranunzi mette sul piatto ancora una volta tutto il suo mostruoso bagaglio che va dal ragtime a Bach mentre i compagni di viaggio lo seguono con una gioia ed una intensità palpabili ed avvertibili in ogni momento.

Pipe Dream – “Pipe Dream”
Sotto l’insegna di Pipe Dream opera un nuovo quintetto costituito da Hank Roberts (violoncello e voce), Filippo Vignato (trombone), Pasquale Mirra (vibrafono) Giorgio Pacorig (pianoforte, fender rhodes) e Zeno De Rossi (batteria). Questo è il loro album d’esordio e se il buongiorno si vede dal mattino allora di questo gruppo sentiremo parlare a lungo e bene. In effetti l’album è molto interessante ricco com’è di umori, di sapori, di colori, di atmosfere che rendono sempre vivo l’ascolto. I cinque musicisti conoscono molto bene la musica globalmente intesa per cui nelle loro esecuzioni non è difficile scorgere tracce di jazz propriamente detto (soprattutto free e bop) suggestioni etniche, echi di minimalismo, abbandoni poetici, frammenti di funk… Così la mente vaga alla ricerca di ricordi lontani ma riportati in superficie da suggestioni sonore porte con intelligenza, garbo e originalità. Si noti, ad esempio, con quanta abilità Filippo Vignato si muove sulle frequenze più basse contribuendo in maniera determinante a non far sentire la mancanza del contrabbasso. Egualmente il violoncello di Hank Roberts si incarica di eseguire le linee melodiche più accattivanti mentre Zeno De Rossi fa cantare i suoi tamburi alternando suono e silenzio (magistrale il suo accompagnamento nella title track). Giorgio Pacorig si conferma pianista versatile e nell’occasione anche valido compositore (suo “They Were Years”, il brano più complesso dell’intero programma). Infine Pasquale Mirra dispensa sghembi tocchi di melodia a comporre un puzzle tra i più originali e convincenti che abbiamo avuto modo di sentire in questo primo scorcio dell’anno.

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ECM (Editions of Contemporary Music)

Se c’è un’etichetta che nel mondo della musica, al di là di qualsivoglia genere, ha influenzato musicisti, critici e pubblico questa è sicuramente la ECM. Fondata ad Amburgo da Manfred Eicher nel 1969, la casa discografica tedesca nel corso di questi ultimi decenni ha imposto una propria estetica, dettando parametri che hanno portato ad un jazz completamente diverso rispetto all’originale afro-americano, con una cura estrema per il suono, un’estetica cui hanno aderito moltissimi artisti e non solo europei tra cui Mal Waldron che registrò il primo album ECM (“Free at Last” novembre 1969), Joe Lovano, Keith Jarrett, Paul Bley, Chick Corea, Pat Metheny, l’Art Ensemble of Chicago Jan Garbarek, John Abercrombie, Palle Danielsson… i nostri Enrico Rava, Stefano Battaglia, Stefano Bollani… solo per citarne alcuni . Nel 1984 nasce la costola ECM New Series, che pubblica artisti come Arvo Paart, Heiner Goebbels, Meredith Monk, Ketil Bjornstad, Valentin Silvestrov, che appartengono alla musica colta contemporanea.
Tornando al jazz vi proponiamo le prime cinque uscite con cui la ECM ha inaugurato questo 2019.

Ralph Alessi – “Imaginary Friends” – ECM 2629
Ecco il terzo album del trombettista statunitense Ralph Alessi pubblicato dalla ECM dopo “Baida” del 2013 e “Quiver del 2016”. Questa volta Alessi è alla testa di un suo quintetto attivo dal 2010 e completato da Ravi Coltrane a tenore e sopranino, Andy Milne al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Mark Ferber alla batteria. In programma nove composizioni originali del leader. L’album si apre con “Iram Issela” che evidenzia ancora una volta come Alessi risulti artista assolutamente moderno senza per ciò perdere il contatto con la tradizione; il brano è caratterizzato da una bella linea melodica e già da questo primo pezzo si possono riscontrare quelle che saranno le caratteristiche dell’intero album. Vale a dire il ruolo di leader assoluto del trombettista che detta e disegna le atmosfere dell’album in ciò coadiuvato splendidamente dal pianismo mai esorbitante di Andy Milne e da una sezione ritmica di assoluta eccellenza, sempre pronta a sottolineare i momenti clou delle varie interpretazioni. Abbiamo lasciato per ultimo Ravi Coltrane in quanto il sassofonista (classe 1965, figlio di John e Alice Coltrane) può vantare un’intesa con Alessi dai tempi del California Institute of the Arts alla fine degli anni ’ 80. Ciò spiega, meglio di mille parole, la straordinaria intesa tra i due che li porta a dialogare su un piano di assoluta parità. Si ascolti, al riguardo “Melee”, il brano più lungo dell’album, un vero e proprio campo minato in cui trombettista e sassofonista si avventurano senza rete, dando fondo a tutte le loro potenzialità, in un gioco di rimandi, rincorse, stop and go a tratti davvero entusiasmante.

Yonathan Avishai – “Joys and Solitudes” – ECM 2611
Un album che si apre con una sontuosa interpretazione del classico “Mood Indigo” di ellingtoniana memoria non può che conquistarti immediatamente. Se poi a questo primo brano seguono sette composizioni originali, tutte di convincente fattura, ecco che finito l’album hai subito voglia di rimetterlo su. Autore di questo piccolo miracolo è il pianista Yonathan Avishai, nato a Tel Aviv nel 1977, da madre francese e padre israeliano, ma residente in Francia dal 2001, che con questo album segna il suo ingresso da leader nella scuderia ECM. Avishai è alla testa del suo trio, in attività dal 2015, con Yoni Zelnik, bassista israeliano oramai anch’egli di casa a Parigi e Donald Kontomanou, batterista francese della Guinea con origini greche. Accennavamo al brano d’apertura, “Mood Indigo”: ebbene il trio non si limita ad una pedissequa riproposizione ma ce ne fornisce una versione originale particolarmente apprezzabile per la ricchezza armonica e la ricerca timbrica. E sono questi elementi che si riscontrano in tutto l’album in cui il pianista fa riferimento esplicito ad esperienze, emozioni da lui vissute in prima persona. Così, ad esempio, lo straniante “Tango”, che dello stereotipo argentino conserva ben poco, è ispirato dall’ascolto di ‘Ojos Negros’ di Anja Lechner e Dino Saluzzi; particolarmente gustoso con il suo andamento altalenante “Joy” mentre “Les pianos de Brazzaville” si richiama esplicitamente ai suoi viaggi nella repubblica del Congo, grazie anche ad alcuni espliciti riferimenti etnici. Una menzione particolare merita “When Things Fall Apart” il brano più lungo e articolato (più di dodici minuti) che, dopo un inizio di carattere impressionistico, si sviluppa attraverso un ampio dialogo fra i tre che pone in evidenza sia l’intesa di gruppo sia la bravura dei singoli.

Mats Eilertsen – “And Then Comes The Night” – ECM 2619
Dopo la felice esperienza del settetto con “Rubicon” (sempre ECM del 2015) il bassista norvegese Mats Eilertsen si ripresenta al pubblico del jazz alla testa di un trio con Harmen Fraanje piano e Thomas Strønen batteria che esiste già da una decina d’anni. Si tratta, quindi, di un classico trio pianoforte con sezione ritmica che, almeno dal punto di vista dell’organico, non presenta alcunché di nuovo. Eppure l’album presenta notevoli motivi di interesse grazie alla particolare visione musicale dei tre, condotti con mano sicura dal leader che può vantare un’intesa attività in casa ECM avendo collaborato alle registrazioni, tra gli altri di, Tord Gustavsen, Trygve Seim, Mathias Eick, Nils Økland, Wolfert Brederode e Jakob Young. Ma è nei progetti a suo nome che l’artista rivela compiutamente la sua cifra stilistica. Così, in questo “And Then Comes The Night” (titolo derivato dal racconto dello scrittore islandese Jón Kalman Stefánsson “Luce d’agosto ed è subito notte”) Eilertsen abbandona strade già abbondantemente battute per inerpicarsi lungo sentieri scoscesi in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono e il gioco delle dinamiche risulta preponderante rispetto a qualsivoglia elaborazione armonica o ricchezza di fraseggio. Di qui una musica tutt’altro che banale con cui Eilertsen ci invita a compiere con lui un viaggio immaginario, nel profondo delle emozioni che non possono non riguardare ciascuno di noi. E così l’album si apre con un titolo particolarmente significativo “22”, in ricordo della terribile strage compiuta il 22 luglio del 2011 sull’isola di Utøya, nel Tyrifjorden,
da un uomo che uccise 69 giovani, ferendone altri 110, tra i partecipanti ad un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese. A tutt’oggi è l’atto più violento mai avvenuto in Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale.

Eleni Karaindrou – “Tous des oiseaux” – ECM 2634
Questo album, della ECM New Series, ci propone le colonne sonore scritte da Eleni Karaindrou per la pièce “Tous des oiseaux” del regista Wajdi Mouwad e “Bomb. A love Story” dell’attore e regista iraniano Payman Maadi. L’artista greca si dimostra ancora una volta all’altezza della situazione evidenziando la solita verve compositiva che avevamo imparato a conoscere ed apprezzare sin dalla sua prima colonna sonora per Periplanissis (Wandering), di Christoforos Christofis (1979). Da allora Eleni non si è più fermata collezionando allori in tutto il mondo tra cui la vittoria nel 1982 al Thessaloniki Film Festival che la condurrà ad una fruttuosa collaborazione con Theo Angelopoulos e nel 1992 il Premio Fellini di Europa cinema. Anche con quest’ultima fatica discografica la Karaindrou si cala perfettamente nello spirito delle rappresentazioni sceniche, la prima che porta sulla scena una tragedia che si sviluppa nel cuore del conflitto israelo-palestinese, la seconda a sottolineare come al culmine della guerra Iran-Iraq del 1988, quando Teheran viene bombardata senza sosta, l’amore, l’affetto, la speranza e la vita hanno la meglio sulla paura della morte. Da sottolineare come questa colonna sonora sia la prima composta dalla Karaindrou dopo la scomparsa di Angelopoulos e si sia già meritata una nomination per l’ APSA (Asia Pacific Screen) come Best Original Score. Date le tematiche trattate, è facile intuire lo spessore della musica, sempre molto intensa, emozionale, ricca di colori, di suggestioni, di umori ottimamente resa dall’orchestra d’archi, con il primo violino Argyo Seira, al cui fianco troviamo altri musicisti di talento quali, tanto per fare qualche nome, la vocalist Savina Yannatou, Nikos Paraoulakis al ney (sorta di flauto caratteristico soprattutto della musica tradizionale colta di molti Paesi Medio-Orientali), Stefanos Dorbarakis al kanonaki (strumento cordofono della tradizione classica araba). Dal canto suo la Karaindrou si fa apprezzare in alcuni brani anche come pianista.

Joe Lovano – “Trio Tapestry” – ECM 2615
Ecco l’album che non ti aspetti. Protagonista il grande sassofonista Joe Lovano, di origini siciliane, che dopo aver partecipato a varie registrazioni ECM nel corso degli anni (ricordiamo gli splendidi album a fianco di Paul Motian, Steve Kuhn e John Abercrombie) approda adesso al suo primo album da leader per la casa tedesca, cosa abbastanza strana visto l’eccezionale curriculum dell’artista. Album che non ti aspetti, dicevamo in apertura, in quanto Lovano, ben coadiuvato dalla pianista Marilyn Crispell e dal batterista Carmen Castaldi, si muove su terreni molto più vicini a quella che viene considerata l’estetica ECM piuttosto che ai canoni del jazz propriamente detto (quello afro-americano tanto per intenderci). Ecco, quindi, una musica molto introspettiva, delicata, declinata attraverso undici brani a firma di Lovano che lo stesso sassofonista definisce come “alcune composizioni tra le più intime che abbia mai scritto”. A ciò si aggiunga il fatto che “Trio Tapestry” è tutto giocato sul lirismo e sulla straordinaria intesa fra i tre cementata con la pianista di Filadelfia dalle precedenti collaborazioni e con il batterista dalla condivisione del percorso formativo presso il Berklee College e dai successivi gruppi che li hanno visti suonare l’uno accanto all’altro. Chi fosse a caccia di swing qui non lo troverà, di converso all’interno di strutture ben delineate avrà la possibilità di apprezzare a che grado di rarefazione può giungere la musica se affidata a veri e propri talenti e alla straordinaria versatilità di Lovano che, pur in un contesto stanzialmente cameristico, si esprime sempre con un fraseggio molto fluido e sempre originale.

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DODICILUNE

L’etichetta Dodicilune, fondata e guidata da Gabriele Rampino (direttore artistico) e Maurizio Bizzochetti (label manager) è attiva dal 1996 e dispone di un catalogo di oltre 250 produzioni di artisti italiani e stranieri. Distribuiti nei negozi in Italia e all’estero da IRD, i dischi Dodicilune possono essere acquistati anche online, ascoltati e scaricati su una cinquantina tra le maggiori piattaforme del mondo grazie a Believe Digital. Tra le ultime produzioni ne abbiamo scelte tre che riteniamo particolarmente significative.

Claudio Angeleri – Blues is more
Consentiteci, innanzitutto, di formulare le nostre più vive congratulazioni a Claudio Angeleri che con questo “Blues Is More” firma il suo ventesimo album da leader. Per l’occasione il pianista e compositore bergamasco presenta al suo fianco una batteria di straordinari musicisti: il sassofonista Gabriele Comeglio, attivo sia nel jazz (Yellow Jackets, Randy Brecker e Lee Konitz) sia nel pop (Mina, Battiato e Lucio Dalla); il bassista Marco Esposito, già sodale di Angeleri in diverse occasioni nonché collaboratore tra gli altri di Gianluigi Trovesi, Franco Ambrosetti, Bob Mintzer; il trombonista Andrea Andreoli, attivo con la WDR Orchestra insieme a Bill Lawrence (Snarky Puppy) e Bob Mintzer; il batterista e percussionista Luca Bongiovanni, presente in alcune edizioni di Bergamo Jazz e Iseo Jazz. Ospiti anche la cantante Paola Milzani (in “Monk’s dream”), e il flautista Giulio Visibelli (“Paths”). In repertorio tre riletture di standard, “Dance of the infidels” di Bud Powell, “A new world a comin” di Duke Ellington e “Monk’s dream” di Thelonious Monk e Jon Hendricks, cui si affiancano sette composizioni originali del pianista che vanta una lunga e prestigiosa carriera testimoniata oltre dai già citati album da prestigiose collaborazioni con artisti del calibro di Charlie Mariano, Bob Mintzer, Franco Ambrosetti, Gianluigi Trovesi. Ciò detto bisogna ancora una volta sottolineare come il pianismo di Angeleri, seppur nell’ambito di un moderno mainstream, riesca ad essere allo stesso tempo moderno e originale. Il suo linguaggio è creativo, intelligente, spesso trascinante, corroborato da tanti anni di studio, dai molti album cui prima si faceva riferimento e dall’aver calcato con successo molti e molti palcoscenici. Così’ nel suo pianismo ritroviamo echi di blues (naturalmente), di modale, di musica contemporanea, di funky…il tutto omogeneizzato sì da renderlo un unicum di assoluta originalità. Senza trascurare quella capacità di scrittura che difficilmente rende riconoscibile la pagina scritta dalle improvvisazioni: al riguardo si ascolti con attenzione il basso di Marco Esposito nella title track sax di Gabriele Comeglio in “Paths” e la splendida voce della Milzani in “Monk’s dream”.. per non parlare dei due splendidi piano solo, “la ellingtoniana “A new world is coming” e l’originale “Dixie” che chiude l’album.

Centazzo, Schiaffini, Armaroli – “Trigonos”
Musica certo non per tutti quella proposta da Andrea Centazzo (percussioni, malletkat, sampling), Giancarlo Schiaffini (trombone) e Sergio Armaroli (vibrafono), ovvero tre sperimentatori tra i più acuti della scena contemporanea italiana. In programma dieci brani tutti originali scritti dai tre. E a questo punto crediamo che il quadro della musica contenuta nell’album sia piuttosto chiaro, una musica che non presenta alcun punto di riferimento preciso ma che viaggia da un lato all’altro dell’immaginario triangolo costituito dai musicisti a riaffermare la volontà del singolo di andare al di là di qualsivoglia estetica precostituita, di rifuggire da ogni cliché, di affrontare piste sconosciute alla ricerca del proprio io più profondo. Quindi un’improvvisazione totale che prevede un’immersione completa nei suoni prodotti da ognuno a seconda della propria sensibilità: così mentre Schiaffini mette sul tappeto quell’enorme bagaglio che lo connota e che va dal New Orleans al migliore free-jazz, Centazzo evidenziala sua passione per i suoni profondi, evocativi e Armaroli si muove leggero dispensando pennellate di colore con il suo vibrafono. Il risultato è affascinante, certo alle volte straniante, ma una volta cominciato ad ascoltare “Trigonos” è praticamente impossibile
smettere e così si giunge alla fine in atmosfere sempre ovattate, quasi sottovoce come ad opporsi, rileva nelle note di copertina Paolo Carradori, a quanti oggi usano “parole orrende”. Da sottolineare il coraggio della etichetta salentina nel produrre un album del genere dando così una mano non secondaria allo sviluppo delle “nostre” avanguardie.

Roberto Ottaviano – “Eternal Love”
Da una parte Abdullah Ibrahim, Charlie Haden, Dewey Redman, Elton Dean, lo stesso Coltrane, Don Cherry, dall’altra la musica africana: questi i due poli al cui interno è declinata la personalissima poetica di Roberto Ottaviano, senza dubbio alcuno uno dei migliori sassofonisti oggi in esercizio e non solo sulle scene italiane. La sua è una visione particolare della musica che trascende l’“hic et nunc’ per immergersi in una spiritualità che per l’appunto ritroviamo in alcuni dei musicisti sopra citati e di cui Ottaviano reinterpreta alcuni brani, cui affianca due sue notevoli composizioni. In particolare con questo album Ottaviano tende ad operare una ricerca molto profonda, una sorta di ‘bagno mistico” (così lui stesso la definisce) per far sì che il “Jazz si faccia infine Musica Totale, ma soprattutto travalichi l’idea fine a sé stessa di fare musica per scavare a fondo nel nostro ego e per capire se esiste un noi universale da cui ripartire”. Se queste sono le premesse che hanno spinto l’artista è poi impossibile stabilire se l’obiettivo è stato raggiunto, data la natura totalmente intimista del progetto. Ciò che si può dire in questa sede è che l’album ancora una volta non delude gli estimatori di Ottaviano (e noi tra questi). Per affrontare il delicato compito Ottaviano ha costituito un nuovo quintetto in cui accanto ai ‘fidi’ Alexander Hawkins (piano, Rhodes, Hammond) e Giovanni Maier (contrabbasso), troviamo Zeno De Rossi alla batteria e Marco Colonna ai clarinetti. L’album si apre con la rilettura di un brano tradizionale africano, “Uhuru”, che ci conduce in maniera pertinente alla musica che Ottaviano ci riserva nei solchi successivi. Una musica intimista, suggestiva, ricca di colori, in cui la bravura dei singoli si incastona nelle strutture ampie, disegnate con maestria dal leader. E parlando dei singoli non si può non sottolineare ancora una volta la maestria di Ottaviano che al sax soprano conosce pochi rivali, la capacità di Marco Colonna al clarinetto basso di dialogare alla pari con il leader (lo si ascolti in “Mushi Mushi” di Dewey Redman), l’eccezionale lavoro di Maier anche con l’archetto (in “Eternal Love”, “Until The Rain Comes” di Cherry e “African Marketplace” di Abdullah Ibrahim), lo spumeggiante fraseggio di Hawkins e il supporto sempre imprescindibile di Zeno De Rossi.

I nostri CD. Curiosando tra le etichette (parte 1)

Il mondo del jazz, oramai da anni, vive un paradosso difficile da risolvere: se da un lato i dischi si vendono sempre meno (non a caso trovare un negozio ben fornito è una sorta di mission impossible), dall’altro il mercato è costantemente rifornito di CD molti di buona qualità, ma altrettanti francamente inutili. Il fatto è, come ammettono gli stessi artisti, che il CD è divenuto una sorta di biglietto da visita e un modo di documentare la propria attività in un dato momento storico.
Partendo da queste considerazioni, abbiamo deciso, con l’ausilio di Amedeo Furfaro, di proporvi questa puntata della rubrica “I nostri CD” prendendo le mosse non dai singoli album ma dalle case discografiche più attive nei settori di nostro interesse.

“abeat” sempre all’avanguardia

E partiamo quindi, in rigorosissimo ordine alfabetico, dalla italianissima “abeat” .
Fondata nel 2001 da Mario Caccia a Solbiate Olona (VA), ABEAT RECORDS ha da sempre prodotto dischi che interpretassero le nuove tendenze della musica jazz. Da allora sono numerosi gli artisti del panorama nazionale ed internazionale che hanno realizzato i loro dischi con questa etichetta. Tratte dalle ultimissime produzioni della “abeat records”, vi presentiamo quattro album firmati rispettivamente da Luigi Di Nunzio (“The Game”), Andrea Domenici Trio (“Playing who i am”), Guido Manusardi (“Swingin”) e Michele Perruggini (“In volo”).

Luigi Di Nunzio è un giovane sassofonista napoletano che può vantare una solida preparazione di base avendo conseguito nel 2010 il diploma di sassofono classico con il massimo dei voti con il maestro Andrea Pace. Successivamente inizia una carriera che lo porta ad esibirsi accanto a musicisti di vaglia quali Antonio Faraò, Massimo Nunzi, Francesco Cafiso, David Liebman, Michael Bublé. Il 10 ottobre 2014 esce il suo album d’ esordio dal titolo “Inexistent” sempre per abeat. Nel settembre del 2018 registra “The Game” unitamente a Marco Fiorenzano, synth e piano rhodes, Umberto Lepore, basso e bass synth, e Marco Castaldo, alla batteria, con l’aggiunta di ospiti in alcuni brani L’album è di sicuro interesse dando all’ascoltatore la possibilità di scoprire non solo le capacità esecutive di Di Nunzio ma anche le sue qualità compositive dal momento che tutte le dieci tracce sono sue composizioni. La caratteristica principale del CD va ricercata nel fatto che il sassofonista ha voluto mettere assieme una serie di esperienze e collaborazioni, vissute negli ultimi quattro anni, in generi musicali a lui sconosciuti come l’hip hop, rap, musica elettronica. Di qui un sound abbastanza originale in cui stilemi propri del jazz canonico si fondono con suggestioni provenienti dall’elettronica. Certo, per chi ama il jazz alla Coltrane o alla Gillespie l’album farà storcere il naso, ma, viceversa, per chi ascolta la musica con mente aperta e rivolta al futuro sicuramente troverà nell’album in oggetto parecchi motivi di interesse.

“Playing Who I Am” è il disco d’esordio come leader del pianista Andrea Domenici, classe 1992. Già allievo, tra gli altri, di Mario Rusca, Dado Moroni, Kenny Barron si è diplomato presso The New School for Jazz and Contemporary Music e dal 2012 si è trasferito negli States. Da allora ha cominciato a collaborare con alcuni veri e propri giganti del jazz quali Wynton Marsalis, Gary Bartz, Billy Harper e Dave Douglas. A supportarlo in questo CD Billy Drummond al basso e Peter Washington alla batteria. In repertorio nove brani che spaziano dal jazz canonico (Thelonious Monk) a standard quali “It’ Easy To Remember” di Rodgers cui si aggiungono tre original del leader, a dimostrazione di come Andrea da un lato abbia saputo interiorizzare il linguaggio dei grandi del jazz, dall’altro sia riuscito a sintetizzare le diverse influenze in uno stile del tutto personale. L’album, almeno per chi scrive, rappresenta, quindi, una bella sorpresa. Il linguaggio di Domenici è fluido, sempre pertinente, con una armonizzazione mai banale e un tasso di improvvisazione elevato. L’interazione con i compagni d’avventura è assoluta ad evidenziare un’intesa che va ben oltre il fatto squisitamente musicale. Insomma un artista di cui sentiremo parlare molto e bene.

Swingin” è il titolo del CD inciso dal trio del pianista Guido Manusardi con Roberto Piccolo al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria nell’ottobre del 2017. Mai titolo fu più azzeccato nel senso che uno swing straordinario, trascinante, profondamente sentito da tutti e tre i musicisti pervade l’album dalla prima all’ultima nota. In repertorio undici brani tra cui un solo original del pianista. Da quanto sin qui detto è facile dedurre che il trio si muove in estrema scioltezza, guidati da quel grande artista che è Guido Manusardi. In effetti Manusardi è sulla cresta dell’onda da tanti anni e mai ha deluso i suoi numerosi ammiratori grazie ad una tecnica sopraffina, ad una squisita sensibilità che gli consente di coniugare rispetto per la tradizione e modernità espressiva, ad un senso della misura che mai lo porta ad esagerare in virtuosismi che pure sarebbero alla sua portata. E questo album è l’ennesima riprova di tutto ciò: si ascolti con attenzione con quanta delicatezza l’ottantaduenne pianista disegna il celeberrimo “Love For Sale” o la carica di swing (per restare in tema) che caratterizza “I’ll Remember April”. Come si diceva in precedenza, è tutto il trio che funziona bene…ciò per sottolineare come i partners scelti da Manusardi, vale a dire il giovane Piccolo e il meno giovane Cazzola (classe 1938), siano stati perfettamente all’altezza della situazione contribuendo in maniera determinante alla bella riuscita dell’impresa. Non a caso l’unico original di Manusardi presente nell’album, “Mister G”, è dedicato proprio al batterista.

Il compositore e arrangiatore Michele Perruggini è il protagonista del quarto album significativamente intitolato “In volo”. Avevamo già avuto modo di apprezzare il talento di questo musicista nel precedente album “Attraverso la nebbia” – sempre per abeat – in cui Michele si presentava anche nella veste di batterista. In questo nuovo CD l’artista abbandona il ruolo di strumentista e si sottopone al giudizio degli ascoltatori come compositore e arrangiatore (coadiuvato da Leo Gadaleta che ha curato gli arrangiamenti degli archi). E il giudizio non può che essere positivo data la bellezza della linea melodica che viene sviluppata in ogni singolo brano. La musica ha un andamento quasi filmico, come se volesse accompagnare alcuni attimi – chissà forse i più significativi – della nostra esistenza, vissuta celebrandone, suggerisce lo stesso Perruggini, “ogni istante, assaporando profondamente con lentezza”. Di qui una musica introspettiva, spesso malinconica, ben resa da tutti i musicisti, a partire da Mirko Signorile sempre presente con il suo pianoforte per finire con la sezione archi composta da Leo Gadaleta e Serena Soccoia ai violini, Teresa Laera alla viola e Luciano Tarantino al violoncello. Il ritmo è sostenuto dall’ottimo contrabbassista Giorgio Vendola e il tutto funziona così bene che mai si avverte la mancanza della batteria.

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Con “ACT” uno sguardo sul Nord-Europa.

L’etichetta tedesca, fondata nel 1992 da Siggi Loch, già per venti anni ai vertici della Warner International, nell’arco di pochi decenni è riuscita ad ottenere una posizione di assoluto prestigio nel panorama musicale internazionale. Ciò perché nel suo catalogo figurano alcuni degli artisti – specie del Nord Europa – più significativi quali, tanto per fare qualche nome, Joachim Kühn, Nils Landgren, Michael Wollny, Jon Christensen…e grosse formazioni come l’Hannover NDR Radio Philharmonic Orchestra. Per non parlare della scoperta e del lancio di uno degli artisti che hanno profondamente segnato gli ultimi anni del pianismo jazz, quell’Esbjörn Svensson scomparso nel 2008 a 44 anni in un incidente mentre effettuava pesca subacquea. Non mancano, ovviamente, artisti fuori dagli immaginari confini del Nord Europa come Rudresh Mahanthappa, Youn Sun Nah e il ‘nostro’ Paolo Fresu. E proprio il trombettista di Berchidda è il protagonista di una vera e propria perla: Danielsson-Fresu, “Summerwind”. Il contrabbassista svedese e il trombettista sardo evidenziano un’intesa straordinaria, come se avessero da sempre suonato assieme mentre questo è in realtà il loro primo progetto in duo. E l’intesa si instaura immediatamente al punto tale che –come sottolineato nelle note di copertina – il brano “Dardusò” viene creato spontaneamente in studio durante le registrazioni. La loro è una musica raffinata, elegante, che si sviluppa quasi per sottrazione, nel senso che il linguaggio è essenziale, scarno, senza che mai si avverta una nota fuori posto, un qualcosa che avrebbe potuto essere eliminato. I due disegnano linee melodiche dalla struggente bellezza e poco importa l’assenza di una carica ritmica qualche avrebbe potuto essere assicurata da una batteria. Insomma poesia allo stato puro che traspare da ogni brano, interpretato con sincera partecipazione e assoluta onestà intellettuale. I due non si schermano dietro la loro arte, ma lasciano fluire il suono così come ‘ispirato’ dalle sensazioni del momento, dalle emozioni che avvertono nell’eseguire un repertorio caratterizzato da brani originali scritti dai due (singolarmente o a quattro mani) cui si aggiunge il celeberrimo “Autumn Leaves” porto con originalità, un brano della tradizione svedese e una composizione di Bach arrangiata dal contrabbassista.

Tra le altre recenti produzioni vi ricordiamo altri due album che ci sembrano particolarmente interessanti.

Il pianista Joachim Kühn è una delle punte di diamante del catalogo ACT. In questo “Love & Peace” appare in trio con Chris Jennings al basso e Eric Schafer alla batteria, impegnato su un repertorio di undici brani con ben sei pezzi scritti dallo stesso pianista, uno per parte dal batterista e dal bassista, cui si affiancano “Night Plans” di Ornette Coleman, un pezzo dei Doors e una composizione di Mussorgsky a ricordarci la sua formazione classica. La formazione è la stessa del precedente “Beauty & Truth” del 2016 e l’album in oggetto non aggiunge alcunché a quanto già non si conosca sulla statura artistica del pianista tedesco: un musicista completo, che fonda la sua arte su una solida preparazione di base e che ha percorso una luminosa e lunga carriera avendo costituito il suo primo trio già nel 1964. Ciò non toglie, comunque, che nel corso degli anni il settantacinquenne pianista di Lipsia abbia cambiato pelle nel senso che ad un pianismo strabordante, spesso virtuosistico ha sostituito un linguaggio più asciutto, un fraseggio meno funambolico e più attento all’espressività. Ne abbiamo molti esempi in alcuni brani di questo album come nel già citato pezzo di Coleman a conferma della grande stima che lega i due artisti. Coleman e Kuhn si incontrarono per la prima volta a Parigi nei primi anni 90, e fu l’inizio di una straordinaria relazione artistica; dopo il loro primo concerto in duo a Verona, Kuhn divenne l’unico pianista con il quale il sassofonista si esibiva regolarmente in duo. Altre esecuzioni di grande interesse la rilettura di “The Crystal Ship” dei Doors e la “lussureggiante” versione di “Le Vieux Chateau” da “Pictures From An Exhibition” di Modest Mussorgsky. Come Al solito eccellente il lavoro della sezione ritmica.

Unbreakable” della Nils Landgren Funk Unit vede la storica formazione del trombonista e vocalist Nils Landgren ‘rinforzata’ dall’innesto di solisti di livello quali il leggendario chitarrista di Detroit Ray Parker Jr., conosciuto ai più per il suo indimenticabile brano per il film Ghostbusters del 1984, e i trombettisti Randy Brecker e Tim Hagans. L’album, presentato in anteprima all’”XJazz Festival” del 2017, si colloca nel solco delle precedenti registrazioni effettuate dal gruppo, quindi un massiccio groove, una travolgente miscela di jazz e funk, nel segno di un esplosivo mix sonoro con una fortissima e trascinante carica ritmica. Il tutto declinato attraverso dieci brani tra cui “Stars In Your Eyes” di Herbie Hancock e “Rockin´After Midnight” di Marvin Gaye impreziosito dall’assolo di Randy Brecker. Il gruppo si muove con una intesa perfetta, cementata attraverso la lunga militanza, e more solito la mano del leader dal trombone rosso si fa sentire sia nella conduzione dell’ensemble, sia nella ripartizione tra pagina scritta e improvvisazione e quindi nel lasciare ai vari solisti un adeguato spazio per i relativi assolo. Un’ultima considerazione: ad evidenziare l’importanza dell’etichetta nella carriera di Nils Landgren, anche in questo album l’artista rivolge uno speciale ringraziamento a Siggi Loch e a tutto lo staff ACT per credere e supportare la sua musica.

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“Alfa Music” da oltre vent’anni sulla scena

Alfa Music ha ormai alle spalle ventiquattro anni di attività. L’ etichetta nasce nel 1990 per volontà di Fabrizio Salvatore e di Alessandro Guardia, soci fondatori. Inizialmente era solo uno studio di registrazione focalizzato verso il circuito romano. Successivamente, verso la metà degli anni ’90, la situazione si evolve e Alfa Music diventa vera e propria etichetta discografica che ad oggi vanta un catalogo particolarmente ricco ed importante. In quest’ambito si inseriscono le nuove produzioni che qui di seguito segnaliamo.

Le Valentine (al secolo Valentina Cesarini accordeon, bandoneon e Valentina Rossi voce) hanno registrato il cd “Recuerdo” dedicato al tango. Quanti seguono questa rubrica conosceranno la nostra passione per il tango, un genere che presenta una caratteristica peculiare: la capacità di raccontare delle storie, spesso amare, ma storie assai vicine alla realtà. A tutto ciò la rivoluzione di Astor Piazzolla ha aggiunto una carica di intenso pathos assai difficile da riprodurre. Di qui, a nostro avviso, una conseguenza logica: nell’esecuzione del tango la bravura nell’interpretazione, nel trasmettere un’emozione fa premio – e di gran lunga – sulla mera abilità, strumentale o vocale che sia. Ecco, partendo da questi parametri, il CD in oggetto non ci ha convinti appieno, ed è un peccato in quanto di elementi positivi ce ne sono. Innanzitutto la scelta del repertorio: undici tracce tra brani originali e riletture di grandi classici tra cui “Por una cabeza” di Carlo Gardel e il celeberrimo “Jealousy”, scritto da Jagob Gade nel 1925, fino ad arrivare ad Astor Piazzolla di cui vengono presentati “Yo soy Maria” con i testi di Horacio Arturo Ferrer, “Oblivion” con parole di Alba Fossati e “Che tango che music” con testi di Angela Denia Tarenzi. E poi la struttura dell’organico incentrata sul duo delle Valentine (Valentina Cesarini accordeon, bandoneon e Valentina Rossi voce) cui si affiancano Pierluca Cesarini, chitarra e Alessandro Aureli, flauto, cajon, percussioni. Ferma restando la bravura tecnica dei musicisti manca però qualcosa, manca quella capacità di trasmettere emozioni, pathos cui prima si faceva riferimento. E’ come se le due protagoniste si fossero preoccupate più di evidenziare le rispettive indubbie capacità che scavare nei brani proposti per carpirne l’intima essenza e restituircela irrorata dalla propria personalissima lettura.

E’ con vero piacere che vi presentiamo questo album inciso a quattro mani da Stefania Tallini e Cettina Donato e quindi giustamente intitolato “Piano 4Hands”. Spesso quando ci troviamo a recensire album di musicisti che conosciamo molto bene e con i quali c’è anche un rapporto di amicizia proviamo un certo imbarazzo e ci poniamo il problema se motivazioni di altro genere possano far premio su un giudizio equilibrato e il più possibile obiettivo. Bene, nel caso in oggetto non abbiamo alcuna difficoltà a dirvi che si tratta di un disco superlativo inciso da due artiste di grandi qualità dal punto di vista tecnico, esecutivo e compositivo. In programma undici pezzi di cui quattro di Cettina, sei di Stefania e uno di ambedue. I motivi che ci inducono a definire questo album “superlativo” sono molteplici. Innanzitutto il coraggio nell’incidere un CD composto da undici originali tutti suonati a quattro mani sulla stessa tastiera, organico tanto insolito quanto scivoloso (anche se ad onor del vero in un brano si ascolta il sempre straordinario clarinetto di Gabriele Mirabassi e in un altro la suadente voce di Ninni Bruschetta). Poi la straordinaria intesa che si è sviluppata tra queste due pianiste, compositrici, arrangiatrici, intesa cementata da un anno di studio, di concerti all’insegna di quell’idem sentire che costituisce una delle principali caratteristiche dell’album. Infine la grande “sapienza” musicale evidenziata dalle due. In questo album, senza che ne venga minimamente intaccata l’omogeneità, c’è davvero di tutto: un certo swing alla Bach (ci si perdoni l’accostamento), un richiamo pertinente al tango (“Minor Tango” e “Duotango”), la giocondità di fare musica (“Danza dei suoni” e “Ditty Duo”), la classe di Mirabassi che si appalesa cristallina e malinconica in “A Veva” di Stefania Tallini, l’irrequieto swing di “Tempus Fugit”, la delicatezza di “Amuri Miu” dolcemente cesellato in siciliano dall’attore Ninni Bruschetta che già da qualche tempo ha instaurato una felice collaborazione artistica con Cettina Donato, c’è la dolce chiusura di “Bluesy Prayer” che ci riconduce al jazz propriamente inteso…ma c’è soprattutto la piena consapevolezza di due artiste cha hanno voluto incontrarsi e fondere la loro arte in un unicum che, ne siamo sicuri, non mancherà di stupirvi.

Ancora diversa l’atmosfera che si respira con il Trio Filante di “Granchio senza scampo”. Non c’è dubbio, infatti, che questo trio sia ‘filante’ di nome e di fatto. ‘Filante’ nel senso che la musica scorre fluida, gradevole, dal primo all’ultimo istante, declinata sull’onda di una consolidata intesa (i tre suonano assieme da una decina d’anni), di melodie ben costruite (grazie alla penna di Francesco Mazzeo, chitarrista nonché autore di tutti i pezzi eccezion fatta per due standard “All The Things You Are” di Jerome Kern e “Someday my prince will come” di Frank Churchill proposta in una versione piuttosto originale) e di una forte pulsione ritmica tanto più stupefacente ove si tenga conto che nel trio mancano batteria e contrabbasso. In effetti Mazzeo è coadiuvato da altri due grandi musicisti che rispondono al nome di Davide Grottelli ai sax e Alessandro Gwis anch’egli compositore ma soprattutto pianista del famoso gruppo “Aires Tango”. Così i tre si ritrovano con estrema facilità lanciandosi in improvvisazioni che non è facile distinguere dalla pagina scritta. E ciò sia che il gruppo affronti brani sostenuti sia che ci si muova su atmosfere più intime, rarefatte. Si ascolti il brano d’apertura “Alici fritte dorate”, un tango finemente cesellato da Francesco Mazzeo e “Tutti i bambini dormono”, dall’andamento ondeggiante, in cui Gwis dà l’ennesima dimostrazione della sua versatilità con Grottelli e Mazzeo anch’essi impegnati in un centrato assolo. Il tutto comunque condito da una sottile ironia che si manifesta nei titoli sia dell’intero album sia dei vari brani, da “Alici fritte dorate” a “Telline affogate”, da “L’ora del vino” a “Gricia” fino al conclusivo “Tisana Live”.

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“Artesuono” valorizza i musicisti friulani

Negli ultimi decenni è successo di rado che una etichetta si identificasse, totalmente, con il suo creatore. E’ stato il caso della ECM (di cui parleremo nella prossima puntata) mentre in Italia l’unico caso è accaduto solo con “Artesuono”. Pronunciare questa parola significa, infatti, richiamare immediatamente la figura di Stefano Amerio, prestigioso artefice di suoni che venti anni fa lanciava l’ ”Artesuono Recording Studio” cui oggi si rivolgono i principali artisti e le più importanti etichette italiane e non solo dato che da alcuni anni è uno degli studi di riferimento della prestigiosa etichetta tedesca ECM. Da questa realtà è poi nata la casa discografica in oggetto. Oltre 170 album di artisti nati e cresciuti in Friuli, pubblicati per diffondere la grande tradizione musicale e artistica di questa Regione ed esportarla al di fuori dei confini regionali e nazionali. Tra le ultimissime produzioni ne abbiamo scelte tre che qui di seguito vi presentiamo.

Mauro Costantini Bus Horn Band – Volume 1” evidenzia come taluni strumenti siano strettamente legati ad un mood; così parlando dell’organo Hammond il pensiero corre immediatamente ad artisti come Keith Emerson, Booker T. Jones, Brian Auger, Tony Banks (Genesis), Billy Preston, Steve Winwood, Joey DeFrancesco, John Medeski e soprattutto James Oscar “Jimmy” Smith, musicisti assai diversi tra di loro ma tutti accomunati dalla fortissima carica ritmica, dal travolgente swing. Ovviamente anche questo album, non sfugge alla regola: Costantini è organista di eccellente livello, padrone dello strumento e perfettamente in grado di piegarlo alle sue esigenze espressive. Esigenze che si manifestano nel rileggere un repertorio del tutto originale, frutto del leader, in cui tuttavia si avvertono echi più disparati: dall’hard-bop, al soul, dal gospel al latin, dal funky allo swing…al pop il tutto porto con apparente semplicità senza alcuna pretesa né di sperimentazione né tanto meno di voler stupire alcuno. Ecco, probabilmente l’apparente semplicità è la miglior chiave di lettura per apprezzare questo album in cui tutti i musicisti sono perfettamente convinti della strada scelta riuscendo così ad assecondare il leader nelle sue scelte. Si ascolti, al riguardo, con quanta partecipazione venga eseguita la conclusiva delicata “After We’ve Gone” dedicata, come illustra lo stesso Mauro Costantini a “Rosanna e Oscar, genitori di un bambino autistico e alle loro dolorose riflessioni sul futuro”. E in chiusura pensiamo valga la pena citare i musicisti che suonano con Costantini: Luca Calabrese alla tromba,
Piero Cozzi sax alto e baritono, Miodrag Ragovic batteria e Federico Luciani percussioni.

Polyphonies” è l’album d’esordio del pianista e compositore friulano Emanuele Filippi alla testa di un nonetto in cui spiccano i nomi di Mirko Cisilino alla tromba e Filippo Orefice al sax tenore. Anche Filippi può vantare una solida preparazione di base avendo iniziato lo studio del pianoforte all’età di otto anni, e ottenuto i diplomi in pianoforte classico e jazz con il massimo dei voti al conservatorio “Jacopo Tomadini” di Udine. Successivamente si è trasferito a New York, dove attualmente vive e studia. Negli anni ha avuto modo di studiare e perfezionarsi con alcuni grandi del panorama internazionale tra cui: Glauco Venier, Michele Corcella, Fred Hersch, Kevin Hays, Bruce Barth. In questo suo primo album, Filippi evidenzia la sua discendenza dal mondo classico dal momento che, come evidenzia lo stesso titolo, le nove composizioni, di cui otto originali (composte in massima parte prima del trasferimento negli States), si rifanno alla musica corale polifonica, in particolare quella di Johann Sebastian Bach. Di qui una musica non facilissima ma ben costruita, ben arrangiata anche se alcuni passaggi avrebbero forse meritato un ulteriore approfondimento. Ma si tratta di peccati veniali tenendo conto che, come si diceva in apertura, si tratta dell’album d’esordio di Emanuele Filippi. Album che, non a caso, è uscito per l’etichetta “Artesuono Sketches”, la nuova linea di Stefano Amerio dedicata proprio alla giovane generazione di talenti locali e non.

In “Meraki” il contrabbassista trevigiano Marco Trabucco si presenta in quartetto con Federico Casagrande alla chitarra, Giulio Scaramella al pianoforte e Luca Colussi alla batteria. Ciò che caratterizza l’album è un’eleganza di fondo declinata attraverso sei composizioni originali del leader cui si affianca un brano della tradizione spagnola. Sin dalle primissime battute si avverte una profonda intesa tra i componenti il quartetto: in particolare se è Trabucco a dettare il clima generale con i suoi interventi sempre ottimamente calibrati (si ascolti il modo in cui introduce l’intero album) sono poi i suoi compagni d’avventura a completare l’opera. Ecco quindi la chitarra di Casagrande salire in cattedra e dialogare magnificamente con il contrabbasso di Trabucco; ecco Scaramella sciorinare un pianismo affascinante nella sua essenzialità (lo si ascolti tra l’altro in “Open Space”) mentre Luca Colussi è batterista completo sotto ogni punto di vista, colonna portante di molte delle sezioni ritmiche che si possono ascoltare nel nostro Paese. Così nella musica del gruppo – come sottolinea nelle note che accompagnano il CD, Enzo Pietropaoli – melodia, armonia e ritmo fluiscono liberamente, grazie al fatto che i quattro artisti posseggono allo stesso tempo esperienza e buon gusto che mettono al servizio della narrazione musicale

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“Auand”, il coraggio del Sud

La Auand Records è un’etichetta discografica di Bisceglie, in Puglia, fondata nel 2001 da Marco Valente. Il significato del nome vuol dire “agguanta” e “attento”; il logo, che è di colore verde e nero, rappresenta una mano con un buco nero in mezzo. Fin dagli inizi l’etichetta si è caratterizzata per la volontà di non seguire strade precostituite e di scovare nuovi talenti. E il risultato è stato ampiamente raggiunto: basti, al riguardo, ricordare il nome di Gianluca Petrella. Della Auand vi proponiamo tre produzioni.

Giovanni Guidi è oramai, a ben ragione, considerato uno degli artisti più rappresentativi del jazz made in Italy e questo “Drive” lo conferma appieno. Guidi suona in trio con Joe Rehmer al basso e Federico Scettri alla batteria, due musicisti di assoluto rilievo: Rehmer si è fatto le ossa suonando con musicisti come Gianluca Petrella, Fabrizio Sferra e Dan Kinzelman, mentre Federico Scettri può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Paolo Fresu, William Parker e Francesco Bearzatti. Insomma tre personalità molto spiccate che si sono riunite dando vita ad un album la cui cifra stilistica è costituita da un’improvvisazione che si evidenzia nel modo in cui i tre interagiscono. Basta un soffio, una nota, un accordo lanciati lì e da quel punto si riparte per una nuova avventura, una nuova esplorazione verso terreni prima sconosciuti. Ma c’è un altro elemento che connota fortemente l’album: la voglia di Guidi di abbandonare quelle concezioni estetiche che si riscontrano, ad esempio, nei suoi lavori targati ECM, per cercare un suono più aspro, magmatico, meno ovattato. Di qui la scelta di abbandonare il pianoforte acustico a favore del piano elettrico e tastiere e di ricorrere ad un particolare montaggio dei suoni in fase di postproduzione. Risultato: come si accennava eccellente Anche perché Guidi e compagni, pur evidenziando una profonda conoscenza di quel jazz elettrico degli anni’70 che li ha sicuramente influenzati, sono riusciti ad andare avanti per una strada che è tutta loro, affatto personale.

Right Away” è un album in trio con il reggino Giampiero Locatelli al pianoforte (anch’egli al disco d’esordio), Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria. In programma otto originali del leader (classe 1976) che evidenzia una buona maturità sia esecutiva sia compositiva. In effetti l’album si fa ascoltare per più di un motivo; innanzitutto la valenza delle composizioni, tutte piuttosto ben strutturate con un giusto equilibrio tra scrittura e improvvisazione e un’armonizzazione complessa a sottolineare la buona preparazione di Locatelli, musicista di estrazione prevalentemente classica, con significative esperienze anche in campo concertistico. In secondo luogo il trio evidenzia un sound del tutto particolare, assai moderno, declinato attraverso un mutare di atmosfere per cui si passa dal clima energetico, materico di forte tensione (si ascolti “Fizzle, Deed Slow, Whistle” e “Right Away”) a pezzi più meditativi come “Path” (splendido nell’occasione il fraseggio di Locatelli), a brani decisamente inquietanti ma coinvolgenti (“Toward Backward” impreziosito da un assolo di Evangelista) fino alla struggente delicatezza di “From The Last Frame”, probabilmente il brano meglio riuscito dell’intero album. Da sottolineare ancora il gran lavoro svolto da Evangelista e Morello che sono risultati determinanti per la riuscita dell’album che in ultima analisi soddisferà non solo gli passionati di jazz.

Frank Martino, Level2 Chaotic Swing”. Il chitarrista Frank Martino si presenta con il suo Disorgan Trio, pianista Claudio Vignali, batterista Niccolò Romanin. Un cognome, il suo, che ricalca quello del grande Pat Martino, ma lo si ricorda solo per un calembour: Pat è jazzista cool, Frank è cool nel senso che è di tendenza, con la sua innovante musica “disorganica”. Sentendolo eseguire “Magnificient Stumble2” di Venetian Snares si potrebbe semmai pensare a certi esperimenti avanzati di Robert Fripp e della sua Lega di chitarristi…Sará/è l’uso di una otto corde, con contorno di live electronics, strumento che consente di ottenere armonizzazioni più ampie, accordi più pieni, arpeggi più estesi, melodie più espanse, echi più ridondanti, ed il brano T”he Glass Half” ne è forse l’esempio più palese! Altra cosa da rimarcare è quella di una formazione abbastanza “classica” ma che esprime suoni neo/postmoderni quasi a voler immettere un proprio DisOrdine nel caos across the universe. Sono sette su nove (l’altro brano non originale è Waltz For Debbie di Evans) composizioni a firma Vignali-Martino a dare saggio di cosa si intenda per Chaotic Swing: un approccio ad elevato tasso elettronico, per come già traspariva nel precedente cd ‘Revert’, che punta ad un sound “trattato”, proiettato verso possibili traiettorie di un jazz futuribile, per uno swing avvolto dal flusso di rumori e sonorità di una società mutante. Dove la musica non può che esserne parziale rappresentazione. (recensione di Amedeo Furfarto)

Dalla Puglia all’Africa con Nico Morelli e Oumou Sangaré

Musica di spessore all’Auditorium in due concerti del tutto differenti: intendiamo riferirci al trio italiano di Nico Morelli in scena il 12 settembre e al progetto “Mogoya” della vocalist Oumou Sangaré presentato al pubblico italiano il 22 settembre.

Ma procediamo con ordine.

Pugliese di nascita ma oramai parigino d’adozione, Nico Morelli è artista completo che oramai da anni tiene ben alta la bandiera del jazz italiano oltre confine. Nel concerto romano Nico ha evidenziato molti aspetti della sua poliedrica personalità: esecutore, compositore, arrangiatore che pur traendo ispirazione sia dal jazz propriamente detto sia da alcune atmosfere tipiche della musica colta del secolo scorso, rimane comunque con il cuore e la mente ben ancorati nella tradizionale musicale della sua terra. Non a caso il “Nico Morelli Trio” nasce dall’incontro di musicisti per l’appunto pugliesi – Nico di Taranto, Camillo Pace al contrabbasso anch’egli di Taranto e Mimmo Campanale alla batteria di Andria – tutti di grande esperienza testimoniata tra l’altro dalle numerose prestigiose collaborazioni con artisti del calibro di Bobby Watson, Bobby McFerrin, Randy Brecker, Bob Mintzer e, in ambito Pop, Lucio Dalla. E sempre non a caso buona parte del repertorio è focalizzata proprio sulle melodie popolari pugliesi sia rivisitate in chiave moderna sia considerate motivo ispiratore per composizioni nuove di zecca.

Di qui una musica materica, spesso trascinante in cui la ricerca sonora di Nico si coniuga perfettamente con una concezione del trio che fa dell’interazione la sua carta vincente. Quindi scambi frequenti tra pianoforte e gli altri due strumenti, bellezza delle linee melodiche e grandi capacità improvvisative nella tradizione del migliore linguaggio jazzistico.

Ecco quindi una personale interpretazione di un classico del jazz quale “Honeysuckle Rose” di Fats Waller, ma ecco anche alcuni brani della tradizione pugliese quali “Stu pettu é fattu cimbalu d’amuri” e “Tarantella del Gargano” cui si accompagnano un brano pop moderno quale “A me me piace o blues” di Pino Daniele e un pezzo del grande Carlos Jobim “Agua de beber”.

Ma, come si accennava in precedenza Nico è anche un fertile compositore e quindi non potevano mancare sue composizioni quali “Marocco Feel”, “Pezzo X”, “Taranté” e soprattutto uno splendido “New Song” offerto come bis.

 

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Il 22 settembre eccoci ancora all’Auditorium per un concerto molto atteso programmato nell’ambito del RomaEuropa Festival 2018: Oumou Sangaré con il suo nuovo progetto “Mogoya”.

Nata a Bamako, (25-2-1968) capitale del Mali, Sangaré ha conquistato le platee internazionali grazie alla sua musica da sempre indirizzata alla lotta contro la discriminazione delle donne e in particolare contro i matrimoni combinati e la poligamia. Attività che nel 1998 le è valsa la nomina di commendatore dell’Ordre des Arts et des Lettres, e nel 2010 un Grammy Award.

Per il concerto romano la vocalist si è presentata alla testa di un ensemble composto da Abou Diarra al kamele n’goni (una piccola arpa a sei corde con la cassa in legno, ricoperta da pelle di capra), Alexandre Millet alle tastiere, Elise Blanchard al basso Guimba Koyate nella duplice veste di direttore musicale e chitarrista, Jon Grandcamp batteria e percussioni, Emma Lamadji e Kandy Guira coriste, vale a dire quattro musicisti africani e tre francesi.

Dotata di una voce scura, possente, in perfetta aderenza con la statuaria presenza scenica, la Sangaré ha condotto con mano sicura lo show portandolo laddove voleva che arrivasse. Vale a dire a coinvolgere il pubblico e farlo danzare al suono di ritmi africani. In effetti l’artista, nel corso di una intervista rilasciata prima della tournée, aveva esplicitamente affermato di voler “portare un pezzo di Africa in Italia”, di voler comunicare con il suo pubblico attraverso la musica e invitarlo a danzare, portare un messaggio di unità.

Il concerto si può dividere in due parti: nella prima la vocalist ha intonato le sue canzoni (peccato non capirne i testi) ottimamente coadiuvata da tutto il gruppo, con le due coriste particolarmente brave non solo a cantare ma anche a muoversi all’unisono sempre con il sorriso sulle labbra. La musica è sempre coinvolgente sorretta da ritmi per noi occidentali non proprio usuali.

A metà concerto si aggiunge al gruppo, per un solo brano, il francese Émile Parisien che al sax soprano dà una dimostrazione della sua bravura e si tratta del momento, musicalmente parlando, forse più felice dell’intero concerto ad evidenziare, se pur ce ne fosse stato bisogno, di come il linguaggio jazzistico possa magnificamente integrarsi con ritmi africani.

Ma, oltre ad essere il momento musicalmente più riuscito del concerto, il brano ha segnato il punto di svolta ché successivamente la Sangaré ha invitato il pubblico ad alzarsi e ballare. Ed è stato un altro momento magico. Alcuni africani, presenti in sala, sono saliti sul palco e hanno cominciato a danzare così bene che chiunque fosse entrato in teatro in quel momento avrebbe potuto scambiarli per parte integrante dello spettacolo, ad ulteriore dimostrazione di come la musica sia vissuta e sentita in modo completamente diverso in Africa e qui in Europa.

E così il concerto è proseguito sino alla fine in un tripudio di applausi e di pubblico festante a danzare sotto il palco.