Orpheus Award 2022: il video della serata con gli annunci dei premiati

Organizzato dall’Associazione Promozione Arte, anche quest’anno si è chiuso l’ORPHEUS AWARD (Premio della Critica per produzioni di fisarmonica e tutta la famiglia delle ance) rivolta ad artisti italiani. Occorre sottolineare come l’edizione di quest’anno abbia pienamente confermato le scelte degli organizzatori compiute nel recente passato. Quindi produzioni per lo più digitali e non coerenti con le canoniche durate dei CD. Stante l’elevato numero di artisti partecipanti evidentemente il nuovo regolamento è stato apprezzato dai musicisti; lo stesso dicasi per i numerosi critici che hanno partecipato all’evento.
È quindi con vero piacere che trasmettiamo il video della serata, in cui sono stati comunicati i risultati delle segnalazioni operate dai critici, che fotografano assai bene la situazione annuale della fisarmonica “italiana”. (Redazione)

ORPHEUS AWARD
12° edizione 2022
Premio della Critica – Produzioni Italiane Fisarmonicistiche (e tutta la
famiglia delle ance), categorie: CLASSICA, JAZZ, WORLD/POPULAR MUSIC, alla CARRIERA
L’Associazione Promozione Arte, riparte con l’organizzazione della 12° edizione dell’ORPHEUS AWARD
GERLANDO GATTO (art dir)
Renzo Ruggieri (presidente APA)
Giuseppe Di Falco (segretario)
Andrea Di Giacomo (segretario)
graphics ©rr
LINK
https://www.associazionepromozionearte.com/orpheusaward
https://www.renzoruggieri.com
https://www.vogliadarteproduction.com

Varato l’ORPHEUS AWARD, il Premio della Critica per produzioni di fisarmonica

L’Associazione Promozione Arte, anche quest’anno organizza l’ORPHEUS AWARD (Premio della Critica per produzioni di fisarmonica e tutta la famiglia delle ance) rivolta ad artisti italiani. La direzione artistica è confermata al nostro direttore GERLANDO GATTO.
La versione passata ha ribadito quanto il concetto di “progetto artistico” sia profondamente cambiato. Oltre il 90% delle produzioni arrivate erano digitali e non più delle canoniche durate dei CD. Si parla di SINGOLI, di EP o brani unici ma di lunga durata. La rivoluzione è in atto e l’Orpheus Award vuole rimanere fedele al suo compito di fare il punto della situazione annuale della fisarmonica italiana. Il regolamento dello scorso anno è stato molto apprezzato e quindi confermato; i critici esprimeranno “tre preferenze” per ogni sezione.


Le Categorie sono le seguenti:
Miglior Produzione Italiana per Fisarmonica nella MUSICA CLASSICA
Miglior Produzione Italiana per Fisarmonica nella MUSICA JAZZ
Miglior Produzione Italiana per Fisarmonica nella WORLD MUSIC
Orpheus alla CARRIERA
Per “MUSICA JAZZ” – sezione che maggiormente interessa in questa sede – si intende “musica dove gli elementi fondamentali saranno le IMPROVVISAZIONI, lo STILE del leader. I progetti di tango personalizzati con improvvisazioni rientrano in questa sezione”.
I vincitori riceveranno i CERTIFICATI UFFICIALI degli ORPHEUS AWARD durante una diretta streaming con la proclamazione dei risultati.
Sarà predisposta una “LISTA DELLE PRODUZIONI” (sempre aggiornata) sul sito ufficiale con tutte le produzioni segnalate (Nome Artista, Titolo Progetto, Etichetta, Anno Pubblicazione, Sezione, Link per l’Ascolto: Spotify/ITunes/Bandcamp/etc.) per rendere disponibile ai critici la pubblicazione.
L’albo d’oro, che potrete consultare per intero al link seguente, www.associazionepromozionearte.com/orpheusaward/#idalbo
per quanto concerne in modo specifico il jazz, ha visto, a partire dal 2009, i seguenti vincitori: Luciano Biondini (2009); Renzo Ruggieri (2010); Daniele Di Bonaventura (2011); Di Bonaventura, Fresu, Filetta (2012); Di Sabatino, Ruggieri duo (2013); Daniele Di Bonaventura (2014); Max De Aloe quartet (2015); Simone Zanchini (2016); Biondini-Giuliani-Pietropaoli-Rabbia (2017); Di Bonaventura-Fresu-Bardoscia-Rabbia (2018); Soscia-Jodice quartet (2019); Vince Abbracciante e Simone Zanchini (2020).
Insomma quanto di meglio nel corso di questo decennio ha offerto il panorama fisarmonicistico jazz nazionale.
Infine qualche parola sulla giuria che annovera alcuni tra i più affermati e competenti giornalisti di settore italiani e stranieri tra cui Amedeo Furfaro, Christina M. Bauer (Germania), Fabio Ciminiera, Flavio Caprera, Gianluca Bibiani, Giuseppe Attardi, Herbert Scheibenreif (Austria), Marco Gemelli, Paolo Picchio, Stefano Dentice, Stefano Duranti Poccetti.

(Redazione)

Corso di Fisarmonica Jazz al Conservatorio “Gaetano Braga” di Teramo

Finalmente una buona notizia: arriva direttamente dall’Abruzzo, per la precisione da Teramo.
Ma prima di entrare nel merito della novità occorre una premessa: chi segue questo blog sa perfettamente come il sottoscritto ami la fisarmonica reputandola degna di esprimersi in forme jazzistiche al pari di qualsivoglia altro strumento. D’altro canto che la mia non sia solo una pretesa campata per aria, lo dimostrano le numerose incisioni registrate da alcuni giganti della fisarmonica jazz quali, tanto per fare qualche nome, Frank Marocco, Gus Viseur, Tony Murena.

Renzo Ruggieri

Ebbene, nonostante da diversi anni la fisarmonica sia entrata prepotentemente nella scena internazionale della musica improvvisata, la stessa è stata esclusa in modo clamoroso dai corsi Jazz dei conservatori italiani.
Certo, nel nostro Paese oramai ben poche cose ci sorprendono fino in fondo ma non nascondo che questa esclusione mi ha sempre fatto riflettere molto non riuscendo a comprenderne bene la ratio. Sono quindi lieto di annunciare che un primo corso (al momento soltanto il Biennio/Master) è stato inserito nel conservatorio Gaetano Braga di Teramo grazie anche alla disponibilità del direttore M° Tatjana Vratonjic.
Questa è una delle prime classi al “Mondo” in conservatorio, specificamente per questa disciplina, che generalmente troviamo inserita nei corsi di World & Popular Music e mai come indirizzo specifico Jazz.
Vincitore della prima graduatoria e quindi della prima cattedra ufficiale è il noto fisarmonicista italiano Renzo Ruggieri che da anni si spende nella promozione “didattica” dello strumento con molte pubblicazioni dedicate, corsi in accademie private e corsi sperimentali nei conservatori (Stanislao Giacomantonio Cosenza, Agostino Steffani Castelfranco Veneto, P.I. Tchaikovsky Nocera Terinese e nello stesso Gaetano Braga Teramo). Ruggieri è stato di recente anche promotore di una petizione che ha raccolto centinaia di firme per sensibilizzare il mondo accademico sulla valenza della fisarmonica Jazz.
Il fatto che da oggi si possa studiare FISARMONICA JAZZ in ambito accademico e l’aver in qualche modo contribuito a questo risultato mi riempie di orgoglio, oltre la nomina “tout court”.  – Ci dice Ruggieri – Si tratta di un passo “ancora incompleto” ma che mi vedrà in prima linea per il completamento dell’operazione, che spero si concretizzerà in nuove cattedre a favori di tutti.”

Gerlando Gatto

I nostri libri

Pochi giorni fa mi sono soffermato sulla necessità di scrivere in maniera chiara sì che tutti possano capire; chiarito questo concetto per me fondamentale, vi presento la nostra rubrica dedicata ai libri, sei volumi che sicuramente non “lo fanno strano”.
Buona lettura.

Serena Berneschi – “La pittrice di suoni – Vita e musica di Carmen McRae” – Pgg.362 – € 15,00

Atto d’amore verso una grande interprete: credo che questa definizione si attagli benissimo al volume in oggetto, rielaborazione della tesi di laurea in Canto jazz, conseguita dalla Berneschi nel 2018, che esamina la vita e la carriera di una delle più grandi vocalist del jazz, troppo spesso sottovalutata. L’autrice è anch’essa una musicista: cantante, compositrice, arrangiatrice, autrice di testi e attrice di musical e teatro, oltre che insegnante di musica e canto, vanta già una buona esperienza professionale. Insomma ha tutte le carte in regola per scrivere un lavoro che cattura l’attenzione del lettore, non necessariamente appassionato di jazz.
In effetti la Berneschi traccia un quadro esaustivo della personalità di Carmen McRae (Harlem, 8 aprile 1920 – Beverly Hills, 10 novembre 1994), vista non solo come musicista ma anche come donna. Di qui tutta una serie di suggestioni che inquadrano perfettamente la figura dell’artista e ci fanno capire perché sia a ben ragione considerata una delle figure fondamentali della musica jazz, capace di lasciare un’impronta indelebile nella storia della musica americana…e non solo.
Il volume è suddiviso in quattro parti: La vita – La musica – Woman Talk – La discografia, tutte molto ben curate. In particolare la biografia è dettagliata, e la vita artistica della McRae ricostruita in modo tale da far risaltare le capacità dell’artista particolarmente rilevanti nell’interpretazione dei testi, suo vero e proprio cavallo di battaglia. Nella seconda parte la Berneschi si addentra in un’analisi dello stile interpretativo della McRae che prendendo le mosse dalla grande Billie Holiday se ne distaccò per esprimersi secondo stilemi assolutamente personali. La terza sezione del libro, contiene estratti di varie interviste, cui fa seguito, nella quarta sezione una discografia, suddivisa per decenni, dagli anni Cinquanta ai Novanta. Il volume è corredato da un glossario dei termini musicali e jazzistici più ricorrenti e dei brevi cenni sulla storia del jazz. Ecco francamente di questi “brevi cenni” non si sentiva assolutamente la necessità dato che sono troppo brevi per risultare interessanti a chi nulla sa di jazz, e di converso assolutamente inutili per chi questa musica segue e apprezza.

Flavio Caprera – “Franco D’Andrea un ritratto” – EDT – Pgg. 209 – € 20,00

Franco D’Andrea si è oramai ritagliato un posto tutto suo nella storia del jazz, non solo italiano. Artista poliedrico, sempre alla ricerca di qualcosa che potesse meglio esprimere il proprio io, D’Andrea coniuga la sua straordinaria arte musicale con una personalità umana davvero straordinaria. Lo conosco oramai da tanti anni e non c’è stata una sola volta, e sottolineo una sola volta, in cui D’Andrea non abbia risposto alle mie sollecitazioni, di persona o per telefono, con la massima cortesia e disponibilità, mai dando per certezze le sue opinioni, aprendosi così ad un confronto serrato ma costruttivo,
E’ quindi con gioia che vi segnalo questo volume scritto da Flavio Caprera per i tipi della EDT, una casa editrice che si va sempre più caratterizzando per la produzione di volumi interessanti.
Devo confessare che quando leggo una biografia così accurata, in cui le varie tappe artistiche vengono seguite con precisione come se l’autore fosse stato sempre accanto al musicista, avverto un po’ d’invidia. Questo perché sono oramai tre anni che cerco di scrivere una biografia di Gonzalo Rubalcaba e non ci riesco perché sono troppi i tasselli che mancano alla costruzione del disegno complessivo.
Ma torniamo al volume di Caprera che, come avrete capito, è in grado di seguire passo dopo passo la vita artistica di D’Andrea da quando giovane si innamora di Louis Armstrong e degli strumenti a fiato, fino al 2019 quando incide “New Things”.
Sorretto da un periodare semplice ma non banale, l’autore ci accompagna quindi alla scoperta di una carriera davvero formidabile mettendo sempre in primo piano le motivazioni artistiche che hanno portato D’Andrea a scegliere alcune strade piuttosto che altre. E lo fa ricorrendo sovente a dichiarazioni dello stesso musicista, riportate in virgolettato; il tutto corredato da valutazioni sui dischi più significativi della carriera artistica del pianista. Il volume è corredato da una preziosa prefazione di Enrico Rava, da una discografia ragionata, da un’accurata bibliografia e da un sempre utilissimo indice dei nomi.
Insomma un volume che si raccomanda alla lettura di quanti ascoltano la buona musica. Personalmente, pur avendo apprezzato in toto il libro (come si evince facilmente da quanto sin qui scritto), mi sarebbe piaciuto avere qualche notizia in più sull’uomo D’Andrea, sulle sue sensazioni, emozioni anche al di fuori della musica.

Amedeo Furfaro – “Il giro del jazz in 80 dischi (‘20)” – Pgg.121 €10,00

Dopo i primi volumi su cui ci siamo già soffermati, eccoci alla quinta tappa della serie “Il giro del jazz in 80 dischi” con sottotitolo “’20” riferita cioè al ventennio appena chiuso e delimitato dall’ assalto alle Torri Gemelle e dalla pandemia. Per il jazz italiano, il ciclo, nonostante le gravi evenienze che hanno interessato il globo nella sua interezza, è stato comunque prodigo di novità discografiche da cui l’Autore ha potuto decifrare lo stato di salute di questo genere di musica nel nostro paese. Stato di salute che tutto sommato potremmo definire buono, frutto di contaminazioni ma comunque ricco di contrasti come nell’arte e nella moda contemporanee che vivono per altro verso una fase di assenza di idee forti ed indicazioni dominanti.
Anche in questo lavoro gli album rappresentano la traccia seguita per individuare come solisti e gruppi, label e operatori del mondo jazz, abbiano continuato anche in pieno lockdown a muoversi in un ambito, in particolare quello dello spettacolo dal vivo, che è stato fra i più penalizzati dalle recenti restrizioni. Nello specifico Furfaro ha recensito nuove proposte e maestri acclarati e riconosciuti dando luogo ad una sorta di inchiesta in cinque puntate, di cui questa rappresenta l’ultima, in cui ha analizzato spesso con vis critica quello che i nostri jazzisti sono andati esprimendo in questo inizio millennio.
Ecco, quindi, comparire accanto a musicisti celebrati quali Stefano Bollani, Stefano Battaglia, Ermanno Maria Signorelli, Maurizio Brunod, Dino Piana, Maurizio Giammarco (tanto per fare qualche esempio), i nomi di artisti che devono ancora farsi conoscere come Emanuele Primavera, Bruno Aloise, Valentina Nicoletta…e molti, molti altri.
Il libro si chiude con l’indicazione di 10 dischi da incorniciare (particolarmente condivisibile la scelta di “Ciak” firmato da Renzo Ruggieri e Mauro De Federicis), l’indice dei musicisti, quello delle label e gli indici di tutti gli album citati nelle quattro precedenti “puntate” di questo “giro del jazzz”
In buona sostanza, quindi, non un repertorio o un dizionario in 5 tomi bensì una fotografia per molti versi indicativa e realistica di cosa va succedendo in Italia a livello jazzistico attraverso la messa a confronto di tutta una serie di dischi. La risultante è un panorama di indubbia vitalità ed effervescenza in cui il ricambio generazionale funziona a pieno ritmo.
Un motivo in più per rafforzare ed incoraggiare questo “giacimento artistico” di cui l’Italia può andare ben fiera.

Valerio Marchi – “John Coltrane – Un amore supremo – Musica fra terra e cielo” – Kappa Vu – Pgg.80 – € 11,00

Un volumetto snello, agile, solo ottanta pagine, ma quanta devozione, quanto amore trasudano da questo scritto verso uno dei musicisti in assoluto più, importante del secolo scorso. L’autore è personaggio ben noto specie in Friuli: storico, scrittore e giornalista, ha pubblicato una decina di libri e numerosi saggi e articoli di argomento storico, collabora con le pagine culturali del Messaggero Veneto e da qualche anno scrive testi teatrali e organizza spettacoli, salendo anche sul palco. Ultimamente ha curato due racconti sceneggiati per Radio Rai del Fvg. In effetti la storia di Coltrane, così come sintetizzata da Marchi, ha costituito l’ossatura di uno spettacolo andato in onda di recente al Teatro Pasolini di Cervignano, nel cartellone della stagione musicale del Teatro, a cura di Euritmica e in replica a Udine, al Teatro Palamostre, nel programma di Udin&Jazz Winter. La drammaturgia è firmata, quindi, da Valerio Marchi e lo spettacolo ha preso forma grazie alla volontà di Euritmica e all’apporto di jazzisti straordinari quali il sassofonista Francesco Bearzatti, il batterista Luca Colussi e il pianista Gianpaolo Rinaldi. Le voci recitanti sono state quelle dello stesso Marchi e dell’attrice Nicoletta Oscuro. Marchi e Oscuro, accompagnati dalla musica del Bearzatti-Colussi-Rinaldi Trio, hanno messo in scena una performance multimediale per narrare la complessa parabola umana ed artistica del grande sassofonista del North Carolina, che giunto alla fine dei suoi giorni, è forse riuscito a trovare quel ponte ideale che lega la musica a Dio, un cammino ancora non del tutto esplorato e su cui Coltrane ha praticamente speso tutta la sua vita di ricerca. Questo particolare aspetto della poetica di Coltrane traspare chiaramente dal libro in oggetto non solo nella parte biografica ma soprattutto nella seconda parte in cui l’autore immagina di intervistare Coltrane traendo le sue riposte da interviste e dichiarazioni effettivamente rilasciate dal sassofonista. Il libro è completato da una serie di interessanti suggerimenti bibliografici.

Massarutto, Squaz – “Mingus” – Coconino Press Fandango – Pgg.154 – € 20,00

Bella accoppiata, questa, tra il giornalista Flavio Massarutto e il disegnatore Squaz. Argomento della loro indagine la vita e la musica di Charles Mingus; contrabbassista e pianista, compositore e band leader, Charles Mingus è a ben ragione considerato uno dei più grandi musicisti della storia del jazz, un talento naturale straordinario in un uomo dal carattere ribelle che spese la sua vita in una instancabile lotta contro la società americana così fortemente caratterizzata da un razzismo ancora oggi ben presente. Mingus nacque il 22 aprile del 1922 e quindi in vista del centenario della sua nascita, Massarutto e Squaz presentano una biografia a fumetti che tratta la vita dell’artista. Come sottolinea, però, lo stesso Massarutto nella postfazione “un fumetto non è un saggio. Un fumetto è un’opera narrativa Questo libro perciò non è il racconto illustrato della vita di Mingus. Qui ci sono frammenti di una esistenza raccontati pescando da sue interviste e scritti, da testimonianze, da fatti storici. E rielaborati in forma visionaria”.
La strada scelta è infatti quella di procedere per episodi impaginati come una successione di brani che vanno a formare una suite musicale: dagli esordi nella Los Angeles degli anni Quaranta fino alla scomparsa in Messico. Si parte così con “Eclipse” registrato da Mingus al Plaza Sound Studios, NYC, il 25 maggio 1960 e si chiude con “Sophisticated Lady” con esplicito riferimento all’episodio avvenuto a Yale nell’ottobre del 1972; era stato organizzato un concerto in onore di Duke Ellington e al concerto che faceva parte del programma Mingus era sul palco quando nel bel mezzo della musica un capitano della polizia arrivò nel retropalco per avvisare che era stata annunciata la presenza di una bomba. Tutti uscirono dalla sala a parte Mingus che continuò a suonare il suo contrabbasso da solo sul palco. Quando la polizia cercò di convincerlo a uscire come tutti gli altri lui rispose: «Io resto qui! Un giorno o l’altro devo morire, e non c’è un momento migliore di questo. Il razzismo ha messo la bomba, ma i razzisti non sono abbastanza forti da uccidere questa musica. Se devo morire sono pronto, ma me ne andrò suonando “Sophisticated Lady””. E così continuò a suonare da solo per venti minuti finché non fu annunciato il cessato allarme e il concerto riprese.
Insomma un libro che farà felice non solo quanti amano il jazz e i fumetti.

Marco Restucci – “Temporale Jazz” – arcana – Pgg.213 – € 16,50

Può un filosofo scrivere adeguatamente di jazz? E, viceversa, può un musicista jazz essere contemporaneamente un filosofo? La risposta ce la fornisce proprio Marco Restucci; laureato in filosofia, pubblicista e musicista si è occupato per anni di critica musicale,  mentre in ambito filosofico si occupa soprattutto di estetica, in particolare della dimensione sonora del pensiero. In questo libro affronta uno dei temi più affascinanti e controversi che da sempre animano il dibattitto sulla musica jazz: l’improvvisazione. Cos’è l’improvvisazione, come nasce, come si sviluppa, attraverso quali passaggi? Sono questi gli interrogativi, certo non semplici, cui Restucci fornisce risposte. Esaurienti? Onestamente credo proprio di sì in quanto l’Autore non si perde dietro inutili e fumose congetture, ma traccia un preciso percorso al cui interno possiamo davvero seguire nota dopo nota, passo dopo passo come il musicista improvvisa, come si rapporta con l’ascoltatore, come riesce a smuovere in chi ascolta sentimenti profondi, vivi, spesso in netto contrasto tra loro. Come si nota è materia davvero affascinante cui credo ognuno di noi avrà cercato, almeno una volta, di rivolgere la propria attenzione alla ricerca di risposte agli interrogativi di cui sopra. Per svelare l’arcano, l’Autore insiste prevalentemente sul concetto di “tempo”, con tutte le sue sfumature, quale componente essenziale della musica e della vita: il “tempo” viene declinato in esempi concreti, calato nella quotidianità: “percezione e tempo sono, infatti, i luoghi dell’improvvisazione – dimensioni estetiche in cui si muovono contemporaneamente musicista e spettatore – ma sono anche dimensioni dell’essere, forme di ciò che siamo, modi del nostro stare al mondo”. In effetti, scrive Restucci, “L’avventura sonora nel jazz deve sempre ancora accadere. Nessun jazzista verrà mai a raccontarci qualcosa di cui conosce già l’esistenza, qualcosa che esiste prima di esistere. E noi saremo lì, in quel tempo misterioso mentre accadrà, ne saremo parte, e qualora i suoni non dovessero riuscire completamente nel compito a loro più congeniale, quello di suonare risuonando dentro di noi, qualora non dovessimo sentirci protagonisti al pari dei musicisti, vivremmo l’avventura quantomeno da testimoni reali, presenti sulla scena del tempo, durante, mentre si spalanca davanti ai nostri occhi, mentre si forma dentro i nostri timpani”. Ecco questo è solo un piccolo assaggio di ciò che si può trovare all’interno di un libro che va letto, assaporato pagina dopo pagina anche da chi non si intende particolarmente di jazz. Anzi forse questi ultimi cominceranno ad apprezzare questa musica proprio per i contenuti veicolati da Restucci.

I NOSTRI CD. Il jazz italiano omaggia Morricone

Cari amici, prima di andare in vacanza, “A proposito di jazz” vi propone una serie di album, italiani e stranieri, che vale la pena ascoltare. E si comincia con tre eccellenti CD dedicati al cinema.

Stefano Di Battista – “Morricone stories” – Warner

Questo del sassofonista Stefano Di Battista è il primo dei tre album dedicati al cinema che viene ospitato nella nostra abituale rassegna discografica. L’album è particolare in quanto Di Battista, ben coadiuvato da Fred Nardin al pianoforte, Daniele Sorrentino al contrabbasso e il fantastico André Ceccarelli alla batteria, dedica questa sua ultima impresa discografica a Ennio Morricone, uno dei più grandi musicisti italiani degli ultimi tempi, al quale era legato da profonda e sincera amicizia. E lo fa nel modo migliore, vale a dire tralasciando i brani più noti, quelli che tutti conosciamo, per far ricorso ad alcune vere e proprie perle del Maestro che purtroppo non sempre godono di grande popolarità. Così l’unico brano universalmente conosciuto è “Metti una sera a cena” dall’omonimo film del 1969 diretto da Giuseppe Patroni Griffi, con Lino Capolicchio e Florinda Bolkan magnifici interpreti. Di Battista ce lo ripropone in una versione swingante in cui il sassofonista si produce in uno degli assolo più riusciti dell’intero album, che nulla toglie all’originaria bellezza del pezzo. Toccante, così come l’originale, “Tema di Deborah” da “C’era una volta in America” mentre in “Gabriel’s Oboe” da “Mission” Di Battista sostituisce il suo sax soprano all’originario oboe, con risultati straordinari nel mantenere sempre e comunque l’originaria bellezza della scrittura ‘morriconiana’. E questa sorta di devozione si avverte anche nel modo in cui la musica viene eseguita: niente muscolose esibizioni di bravura, niente arrangiamenti particolarmente sofisticati, insomma nessun escamotage per stupire l’ascoltatore, ma solo il piacere di suonare una musica evidentemente amata e profondamente vissuta. Splendida, e come poteva essere diversamente, anche l’interpretazione di “Flora” un pezzo che Morricone scrisse appositamente per Di Battista. Il disco è stato preceduto dai tre singoli “Peur sur la ville” (uscito il 29 gennaio), “Cosa avete fatto a Solange?” (uscito il 26 febbraio) e “Gabriel’s Oboe” (uscito il 19 marzo).

Marco Fumo – “Il mio Morricone” – Oradek

Ecco il secondo album dedicato a Morricone, firmato da Marco Fumo che more solito si esprime in solitudine. Anche questa volta la scelta dei brani è ben meditata: per la successione dei brani è stato scelto l’ordine cronologico mentre per i contenuti è lo stesso Fumo a venirci incontro nelle note che accompagnano l’album. Così i quattro preludi (“Cane bianco”, “Star System”, “Metti una sera a cena”, “Indagine”) e le quattro canzoni (“Il deserto dei tartari”, “Le due stagioni della vita”, “Got mit Uns” “Il potere degli angeli”) più “Nuovo cinema Paradiso” sono stati scelti in quanto da sempre fanno parte del repertorio di Fumo così come “scelta obbligata” è stata anche quella di “Rag in frantumi”, scritto da Morricone nel lontano febbraio 1986 ed espressamente dedicato proprio a Marco Fumo. Interessante sottolineare come Fumo mai abbia inciso le musiche di Morricone avendole, invece, eseguite spesso dal vivo (eccezion fatta per il già citato “Rag in frantumi” presente in vari album del pianista). Insomma un CD profondamente sentito, a dimostrazione di come Morricone fosse amato anche dai suoi colleghi e di quanto profondo, in particolare, fosse il legame che intercorreva tra Morricone e Fumo. “Questo – conclude le sue note Marco Fumo – è quello che sento e posso fare, dal cuore”. Dal punto di vista prettamente musicale, lo stile di Fumo è oramai riconoscibile: una assoluta conoscenza della letteratura pianistica – in particolar modo jazzistica – un sound fresco ma incisivo frutto di una solida preparazione di base, doti interpretative non comuni. Così, sotto le sue sapienti mani, i brani di Morricone rivivono letteralmente imponendosi all’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto.

Renzo Ruggieri, Mauro De Federicis – “Ciak” – Vap

Il terzo album in qualche modo dedicato al cinema è questo “Ciak” che vede impegnati Renzo Ruggieri alla fisarmonica e Marino De Federicis alla chitarra. Si tratta di un duo ampiamente collaudato che ha già inciso un album, “Terre” (2008), e che si è esibito con successo in Finlandia e Austria, oltre che in diversi festival italiani. Adesso tornano a presentarsi al pubblico del jazz con questo nuovo album composto da cinque brani per un totale di circa ventisette minuti di musica comunque di eccellente qualità. Il fatto è che Renzo Ruggieri si è oramai imposto all’attenzione del pubblico internazionale come uno dei migliori fisarmonicisti non solo italiani e può vantare una certa parsimonia nell’entrare in sala di registrazione: tutti i suoi album conservano uno standard qualitativo molto elevato grazie al fatto che Renzo decide di incidere un disco solo se ha qualcosa da dire. Dal canto suo Mauro De Federicis può esibire una preparazione di base di assoluto rispetto e una continua frequentazione con l’olimpo del jazz testimoniato dalle collaborazioni con nomi prestigiosi quali Dee Dee Bridgewater, Paolo Fresu, Bob Mintzer, tanto per fare qualche esempio. In questo album, dedicato al cinema, i due hanno scelto di eseguire due composizioni originali e tre brani di assoluto spessore come “Il postino” di Luis Bacalov, Riccardo Del Turco e Paolo Margheri, “La gita in barca” di Piero Piccioni e “Speak Softly Love” di Rota tratto da “Il Padrino”. Una scelta coraggiosa non fosse altro che per aver tralasciato quel Morricone cui viceversa sono dedicati i due precedenti album. Particolarmente interessante il modo in cui i due attualizzano le atmosfere proprie di giganti del cinema dedicando loro due brani, “De Niro” (Marino De Federicis) e “Fellini” (Ruggieri). Comunque il pezzo che più mi ha toccato è stato “Il Postino” il cui originario pathos è stato perfettamente riproposto. E devo dire che in questo tipo di riletture Ruggieri è davvero un maestro: basti dire che ogni qualvolta lo ascolto eseguire “Caruso” mi è difficile contenere la commozione.

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Claudio Angeleri – “Music from the Castle of Crossed Destinies” – Dodicilune

Conosco e apprezzo oramai da molti anni Claudio Angeleri e non credo di sbagliare di molto se affermo che questo album è uno dei migliori che il pianista bergamasco abbia prodotto nel corso della sua oramai lunga carriera. A coadiuvarlo in questa ennesima fatica un gruppo di eccellenti musicisti: Giulio Visibelli (sax soprano, flauto), Paola Milzani (voce), Virginia Sutera (violino), Michele Gentilini (chitarra elettrica), Marco Esposito (basso elettrico), Luca Bongiovanni (batteria, percussioni) e, nel brano “Two or three stories”, Gabriele Comeglio (sax alto). Oltre al celebrato “Round about Midnight” di Monk, l’album consta di otto composizioni dello stesso Angeleri liberamente tratti dal breve romanzo fantastico “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino. “L’idea di realizzare un nuovo progetto intorno alla letteratura di Italo Calvino – afferma lo stesso Angeleri – scaturisce da un invito del MIT Jazz Festival di Musica Oggi al Piccolo Teatro di Milano nello scorso novembre 2019. Lo spettacolo è stato poi replicato a gennaio al Blue Note, per essere messo in scena a luglio alla rassegna che ha significato la ripresa dal vivo dopo il lockdown a Bergamo”. E di certo bisogna avere una fervida immaginazione e soprattutto molto coraggio per trasporre in musica la scrittura non facile e mai banale di Italo Calvino. Di qui una musica ricca di colori in cui non sempre è facile distinguere le parti improvvisate da quelle scritte. Una musica in cui i vari strumenti diventano essi stessi voci narranti sì da rappresentare, – spiega ancora Angeleri – “per il loro carattere sonoro specifici personaggi”. Come si evince da queste poche note un compito davvero difficile che solo un musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, in possesso di una solida preparazione non solo come strumentista, poteva pensare di intraprendere e di traghettare alla meta con successo.

Nik Bärtsch – “Entendre” – ECM

Per chi ancora non conoscesse questo straordinario pianista e compositore svizzero, ecco un’ottima occasione per colmare questa lacuna. Nel panorama jazzistico internazionale oggi Bärtsch è personaggio imprescindibile tale e tanta è l’importanza che man mano va assumendo grazie anche ad alcune produzioni discografiche di eccellente livello. E’ questo il caso di “Entendre” declinato attraverso sei originali tutti composti da Nik e tutti eseguiti al piano solo. Lo stile dell’artista è assolutamente personale in quanto risultato da molti anni di continue sperimentazioni in cui Bärtsch ha cercato – e trovato – una soddisfacente sintesi tra jazz, minimalismo, poliritmie. Molti dei brani (quasi tutti intitolati Modul + numero, secondo consuetudine di Bärtsch) sono già stati presentati in altri album ma il pianista li rivisita apportando modifiche non di poco conto. Così ora tralascia precedenti climi jazz-rock per affidarsi unicamente alle sonorità dello strumento, ora si affida al giuoco minimalista alla ricerca con grande personalità di sottili variazioni timbriche. Il tutto completato da straordinarie capacità interpretative che portano l’artista a misurarsi anche sul piano dell’espressività. Si ascolti con attenzione l’apertura di “Modul 5” già proposto in “Llyrìa” (2010): la ricerca spazio-temporale in cui Bärtsch inserisce il suo pianismo è assolutamente straordinaria e mai conosce un attimo di stanca pur articolandosi su poche note che comunque delineano un quadro ben preciso. L’album si chiude con lo splendido “Déjà-vu, Vienna”, il pezzo più breve di “Entendre” (5:15), dal vago sapore impressionistico e dalla riconoscibile linea melodica elemento non certo usuale nelle concezioni di Bärtsch.

Enzo Carniel, Filippo Vignato – “Aria” – Menace

E’ davvero un piacere presentare questi due giovani straordinari musicisti che ancora non sono molto conosciuti dal pubblico italiano, ma la cui collaborazione era forse scritta negli astri dal momento che ambedue sono nati nel 1987. Enzo Carniel è un pianista francese dedito allo studio dello strumento sin da giovanissimo; sale agli onori della cronaca nel 2019 quando incide, con il gruppo House Of Echo, l’album ‘Wallsdown’. Filippo Vignato è a ben ragione considerato l‘astro nascente del trombonismo jazz italiano; anch’egli ha cominciato a studiare musica sin da bambino (a dieci anni) e oggi può vantare uno stile e una tecnica assolutamente personali. Ad onta delle difficoltà notoriamente insite in un duo, soprattutto se due artisti si cimentano per la prima volta in un organico del genere, questo “Aria” evidenzia una profonda empatia, un’intesa che trova la sua ragion d’essere nell’idem sentire dei due musicisti. Così il dialogo si svolge su binari sicuri anche se non banali, mai dando così all’ascoltatore l’impressione del ‘già sentito’ o peggio ancora di moduli predefiniti. Il risultato è un sound del tutto particolare determinato anche dall’uso del Fender Rhodes e dei sintetizzatori, la visione di un universo musicale multicolore, in cui i due artisti improvvisano continuamente essendo perfettamente in grado l’uno di capire le intenzioni dell’altro, in un susseguirsi si input, di stimoli, di processi creativi che si susseguono senza soluzione di continuità. Il tutto impreziosito da una riuscita ricerca sulle linee melodiche che costituiscono l’ossatura stessa dell’intero repertorio, otto brani tra cui spicca per intensità emotiva “Aria” la composizione che apre l’album in acustica per chiuderlo in versione elettronica. L’album, uscito il 16 aprile scorso per l’etichetta franco-giapponese Menace è stato anticipato da due singoli: la title-track Aria uscito il 5 febbraio e Babele uscito il 10 marzo.

Vittorio Cuculo Quartet – “Ensemble” – Wow Records

Lo stato di maturità del jazz italiano è dimostrato, seppur ce ne fosse ancora bisogno, dal proliferare di nuovi talenti. Tra questi c’è senza dubbio alcuno il ventisettenne sassofonista romano (alto e soprano) Vittorio Cuculo al suo secondo album. Il titolo è determinato dal fatto che il quartetto capitanato da Cuculo incontra i sassofoni della Filarmonica Sabina “Foronovana” con risultati eccellenti ma di cui parleremo tra poco. Il quartetto comprende, altre al leader, Danilo Blaiotta al pianoforte, Enrico Mianulli al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e in veste di special guest Lucia Filaci che interpreta con coraggio e bravura la cover di “Brava”, il pezzo di Bruno Canfora portato al successo da Mina. Il resto del repertorio è costituito da sei brani standard appartenenti alla tradizione jazz frutto della verve compositiva di alcuni grandi quali Charlie Parker, Errol Garner, Juan Tizol, Thelonius Monk, Rogers & Hart e due composizioni originali di Roberto Spadoni. Ciò detto vediamo più da vicino la musica proposta. Si tratta di un jazz mainstream che si rifà chiaramente agli stilemi del bop e dell’hard-bop interpretato con efficacia dal gruppo nel suo complesso che ben si amalgama con i fiati della Filarmonica, dando vita ad un sound particolare. Ovviamente sempre in primo piano il leader che data la scelta del repertorio comunica apertamente l’intento di volersi confrontare con un certo tipo di jazz sebbene avvalendosi di nuovi arrangiamenti, firmati da Riccardo Nebbiosi, Mario Corvini, Roberto Spadoni e Massimo Valentini. Ora che un giovane musicista scelga di suonare bop, ci sta tutto…ci mancherebbe altro. Solo che ci piacerebbe ascoltare Cuculo anche in contesti diversi in cui magari le eccelse capacità tecniche non sono poi così fondamentali.

Joe Debono Quintet – “Acquapazza” – Anaglyphos

Dino Rubino alla tromba e al flicorno, Rino Cirinnà al sax tenore, Joe Debono al pianoforte, Nello Toscano al contrabbasso e Paolo Vicari alla batteria sono i componenti del Joe Debono Quintet. Prodotto dall’etichetta discografica Anaglyphos Records e supportato da Malta Arts Fund – Arts Council Malta, la tracklist del CD è formata da otto composizioni originali del pianista, e da “Innu Lil San Guzepp”, un inno di San Giuseppe composto dal compositore maltese Carlo Diacono all’inizio del ventesimo secolo. In un momento come l’attuale, in cui il jazz si sta praticamente frammentando in moltissimi rivoli, in cui non sempre è facile trovare tracce di un passato anche se non remoto, questo album ci riporta in piena atmosfera jazz, senza equivoci di sorta. Il linguaggio di tutti è perfettamente in linea con le migliori tradizioni della musica afro-americana senza per ciò peccare di pedissequa imitazione. Ottima la ricerca sul sound come dimostra l’impasto sonoro determinato dalle parti suonate all’unisono da sassofono e tromba, sempre ben sostenute da una eccellente sezione ritmica. E al riguardo non si può non sottolineare da un canto la conferma a livelli straordinari di un musicista come Dino Rubino (che forse molti non lo sanno ma suona benissimo anche il pianoforte) e la rapida ascesa di Paolo Vicari batterista giovane ma già in possesso di una buona tecnica. Ovviamente più che positivo l’apporto di Rino Cirinnà sassofonista di vaglia e di Nello Toscano contrabbassista siciliano tra i più validi a livello nazionale. Bisogna comunque dare atto a Joe Debono, pianista e compositore maltese, di aver saputo costituire un quintetto capace di produrre un jazz elegante, raffinato, con un repertorio assolutamente confacente alle caratteristiche dei singoli musicisti. Si ascolti al riguardo “Gigi”, brano dolcissimo introdotto dallo stesso Debono e ben sviluppato dai fiati.

Alessandro Deledda – “La linea del vento” – Le Vele

Undici brani originali declinati attraverso una interpretazione per piano solo. Con questo album Alessandro Deledda, jazzista sardo che abita a Perugia, abbandona la strada tracciata in precedenza sia con l’elettro-jazz di “Conception & Contamination” del 2011 assieme a Simone Alessandrini, sax e Mirko Ferrantini, dj, ritmiche, sia con il CD del 2014, “Morbid Dialogues” in cui era alla guida di un quartetto di chiara impronta jazzistica con Francesco Bearzatti al sassofono, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria. Infatti questa volta si presenta al pubblico nella duplice veste di compositore (il repertorio è tutto da lui scritto) ed esecutore. Il risultato è apprezzabile: le composizioni sono ben strutturate, con una bella linea melodica, e inserite in un ambito in cui le sensazioni più intimiste sembrano prevalere sul resto. Non a caso alcuni titoli – “Ginevra”, “Sulla strada di casa tua”, “L’Aquilone”, “Gino e l’ulivo” – sembrano riferirsi ad esperienze direttamente vissute dal musicista. Così ad esempio “Madreterra” è un esplicito omaggio alla terra natia mentre “Ginevra”, afferma Deledda, “è la storia di una cagnolina, chiamata Ginevra che ritrova nella sua nuova famiglia il suo sorriso, abbandonato nel bosco con le sue fragilità, per andare a vivere fedele una nuova melodia”. Dal punto di vista esecutivo lo stile pianistico di Deledda rifugge sia da qualsivoglia sperimentazione sia da passaggi particolarmente complessi e arditi per frequentare terreni più aperti alla comprensione, in cui i riferimenti al jazz si mescolano con quelli alla popular music.

Massimo Donà – “Magister Puck” – Caligola

A solo un anno da “Iperboliche distanze”, ecco tornare sulle scene discografiche il filosofo–trombettista Massimo Donà (nell’occasione anche chitarrista e rapper), alla testa di un ampio organico in cui spiccano i nomi del sassofonista Michele Polga e del batterista Davide Ragazzoni, quest’ultimo unico musicista presente, insieme al leader, in ogni traccia del Cd; in un solo brano (“E chi no”) è possibile ascoltare anche Francesco Bearzatti. Questo nuovo album, “Magister Puck”, si sostanzia, quindi, di colori, atmosfere assai diversificate pur mantenendo una sua coerenza di fondo. Ecco, quindi, in apertura “Topi in terrazza” di chiara impronta funky così come “Tagology” che non a caso presenta quasi lo stesso organico del pezzo di apertura con, oltre al leader, Michele Polga al sax tenore, Maurizio Trionfo alla chitarra, Stefano Olivato basso e clavinet, Davide Ragazzoni batteria, assente, quindi, Bebo Baldan al sintetizzatore. Più influenzato dal pop, seppure di classe, “I’m in Love” impreziosito dalla voce di Paola Donà e con un bell’assolo, vagamente davisiano, del leader. Anche “Magister Puck’s Theory” sembra seguire le orme del precedente “I’m in Love” prima di trasformarsi in un incalzante rap dal testo significativamente ironico. Nel brano decisamente più lungo dell’intero album, “E chi no”, si rinnova la collaborazione tra Massimo Donà e David Riondino che frutti succosi aveva già dato nel precedente album dello stesso trombettista, “Iperboliche distanze”, dedicato alla figura del grande filosofo veneto Andrea Emo. Il disco si chiude con una registrazione del 1989, “Irrisoluzione cromatica”, ad opera di un sestetto di chiara derivazione davisiana post ’69.

Cettina Donato, Ninni Bruschetta – “I siciliani – Vero succo di poesia” – Alfa Music

Pochi anni fa ero stato fin troppo facile profeta nel prevedere che Cettina Donato sarebbe divenuta una delle punte di diamante del jazz mady in Italy. Ciò perché sin dall’inizio l’artista messinese mostrava una completezza straordinaria essendo allo stesso tempo, pianista preparata, compositrice assai feconda, capace direttrice anche di grosse formazioni. Il tutto è ben compendiato in questo ultimo album in cui si fortifica quella stretta collaborazione che oramai va avanti da qualche tempo tra Cettina e l’attore, regista anch’egli siciliano, Ninni Bruschetta. I due sono reduci dai successi teatrali de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, i quali, dopo aver interpretato un testo di impegno civile servendosi solo di voce e pianoforte presentano adesso il volto poetico e letterario dell’isola. Di qui l’album “I siciliani”: otto pezzi originali scritti dalla Donato con testi dello scrittore siciliano Antonio Caldarella scomparso nel 2008, interpretati da un gruppo con Dario Cecchini (clarinetto basso, sax soprano e baritono), Dario Rosciglione (contrabbasso e basso elettrico), Mimmo Campanale (batteria e percussioni) con l’aggiunta degli archi della B.I.M. Orchestra e dell’attrice e cantante Celeste Gugliandolo (che interpreta “Le siciliane”). Tutti gli altri brani sono affidati alla voce spesso roca e graffiante di Bruschetta che si amalgama in maniera straordinaria con il pianismo della Donato e più in generale con il sound dell’ensemble. Come sottolineato in apertura, la Donato trova quindi terreno fertile per evidenziare tutte le sue capacità, di strumentista, di compositrice, di arrangiatrice e di direttrice d’orchestra, in un alternarsi di atmosfere che forse solo un siciliano doc può capire sino in fondo. Una musica che sottolinea alcune peculiarità di una terra tanto straordinaria quanto ancora oggi ben difficile da vivere.

Ganelin, Kruglov, Yudanov – “Access Point” –Losen Records

Ecco un trio di assoluto livello internazionale composto da Slava Ganelin al pianoforte, tastiere, live electronics e percussioni, Alexey Kruglov sax alto e soprano, Oleg Yudanov batteria e percussioni, vale a dire tre dei migliori esponenti del free jazz russo. Quindi un organico non usuale caratterizzato dalla mancanza del contrabbasso, impegnato in un repertorio di sei brani interamente scritto dai tre. Registrato il 13 novembre del 2017, l’album rappresenta uno dei migliori esempi di free jazz realizzato in Europa in quest’ultimo decennio. La cosa non stupisce più di tanto ove si consideri la statura artistica del russo Ganelin già noto al pubblico del jazz per il suo fantastico trio con Tarasov e Chekasin. Questa volta a completare il trio sono due altri jazzisti ma il risultato finale non cambia granché. Nato nel 2012 il trio frequenta il terreno della libera improvvisazione in cui non esistono strutture predefinite che viceversa si creano nel momento stesso in cui si suona, quindi in quello strettissimo lasso di tempo che passa dall’idea musicale all’esecuzione. Quasi inutile sottolineare come la musica sia caratterizzata da una forte energia creativa che trova in Ornette Coleman il suo nume tutelare e che mai conosce un attimo di stanca con i tre musicisti che riescono a ritagliarsi spazi appropriati alle loro grandi possibilità. Il clima generale dell’album è perfettamente disegnato sin dal primo brano, quando dopo una sorta di introduzione a tempo lento il sassofonista prende in mano le redini del gruppo e si lancia in una trascinante improvvisazione, seguito a ruota da Ganelin mentre Yudanov sorregge il tutto con precisione; a circa 2:40 Ganelin si sostituisce a Kruglov mantenendo un clima incandescente che non muta quando a circa tre quarti dell’esecuzione Kruglov passa al sax soprano. E sarà poi questa l’atmosfera che si respirerà durante tutto l’arco dell’album.

Vijay Iyer – “Uneasy” – ECM

Nato ad Albany da genitori indiani di etnia dravidica Tamil, Vijay a cinquant’anni viene giustamente considerato uno dei migliori pianisti jazz oggi in esercizio. Considerazione conquistata grazie ad un talento cristallino e ad una personalità molto forte che è riuscita a coniugare un profondo sapere extra-musicale (è laureato in matematica e fisica alla Yale, insegnante ad Harvard, esperto in psicologia cognitiva con specifico riferimento alla capacità psico-fisica di relazionarsi ai vari linguaggi musicali) con una straordinaria dedizione alla musica essendo giunto al ventiquattresimo disco da leader, senza considerare le moltissime composizioni eseguite anche da formazioni non jazzistiche. In questo “Uneasy” Vijay suona in trio con Linda May Han Oh, contrabbassista di origine malese ma cresciuta in Australia e poi negli States e Tyshawn Sorey alla batteria, personaggio ben apprezzato sia nella musica classica sia nel jazz. In repertorio dieci composizioni tutte scritte dal pianista eccezion fatta per “Night and Day” di Cole Porter e “Drummer’s Song” di Gery Allen. Il clima nel cui ambito si muove Iyer è quello bop e post-bop, quindi un jazz sanguigno che si rifà alle radici più autentiche della musica afro-americana e che proprio per questo necessita di una profonda conoscenza della materia. Conoscenza che sicuramente non manca nel bagaglio dell’artista, il cui pianismo si svolge solido per tutta la durata dell’album validamente supportato da batteria e contrabbasso precisi e propositivi nella loro costante azione. Non si esagera affermando che tutti i brani meritano un attento ascolto anche se lo standard “Night and Day” si fa particolarmente apprezzare per come l’artista riesce a personalizzare il brano senza alcunché perdere né dell’originaria riconoscibilità né tanto meno della sua splendida linea melodica. Particolarmente interessante anche “Entrustment, brano di profonda suggestione, intimista, a chiudere nel modo migliore un album assolutamente consigliato.

Sinikka Langeland – “Wolf Rune” – ECM

Il Kantele è lo strumento tipico della musica folkloristica finlandese e Sinikka Langeland è specialista di questo strumento nonché cantante folk di Finnskogen, la « foresta finlandese » norvegese. In questo sesto album targato ECM, Sinikka, diversamente da altri album, si appalesa in splendida solitudine utilizzando ben tre tipi di kantele, a cinque, a quindici e a trentanove corde, facendoci così apprezzare le innumerevoli sfaccettature dello strumento. Nella maggior parte dei brani Sinikka si esprime anche vocalmente, il tutto ad elaborare un’espressività che questa volta nulla ha da spartire con il linguaggio jazzistico, restando, comunque, sulla scorta di un’estetica che nella ECM ha trovato la sua più completa estrinsecazione. Insomma una musica tutta giocata su melodie ampie, ariose, spesso evocative, alle volte venate da quella sorta di dolce malinconia che attraversa le atmosfere nordiche. Una profondità d’ispirazione che caratterizza oramai le realizzazioni della Langeland, ispirazione che specie se, come chi scrive, conosci quei luoghi, non può non toccarti nel profondo. Dal punto di vista testuale, Sinikka ha tratto ispirazione da molte fonti: ecco quindi il drammaturgo Jon Fosse accanto al filosofo e mistico del tredicesimo secolo Meister Eckhart… e ancora il poeta norvegese Olav H. Hauge. In tale contesto suggerire un brano in particolare è impresa quanto mai ardua anche se la title track appare degna di particolare attenzione: brano molto delicato ed intimista racconta l’inverno, ovvero quello stato della natura in cui tutto pare fermarsi prima del risveglio primaverile. Per raccontarci tutto ciò l’artista alterna l’archetto al pizzichio delle dita sullo strumento e chiude il brano con la sua voce che si alza stentorea sull’accompagnamento strumentale.

Giovanni Maier, Massimo De Mattia – “Tilt – Improvised Concerto for Flute and Chamber Orchestra” – Artesuono

Ecco una preziosa realizzazione della Artesuono concepita per festeggiare la sua duecentesima produzione discografica: un cofanetto in edizione limitata di 300 copie, numerate a mano, contenente un CD audio, le tavole con le partiture pittoriche realizzate da Giovanni Maier, e le foto delle registrazioni scattate da Luca D’Agostino.
L’album è stato registrato dal vivo al teatro Revoltella di Trieste il 19 e 20 giugno 2019 durante il festival “Le Nuove Rotte del Jazz 2019”. Ora, al di là della bellissima confezione, la musica che viene proposta è di altissimo livello essendo stata concepita ed eseguita da due dei nostri migliori improvvisatori quali il flautista Massimo De Mattia e Giovanni Maier quest’ultimo nelle vesti anche di conduttore dell’organico comprendente musicisti e allievi del Conservatorio ‘G. Tartini’ di Trieste: Angelica Groppi, Rachele Castellano e Giovanni Dalle Aste (Viola), Simone Lanzi (Contrabbasso), Iva Bobanović (Chitarra classica), Piercarlo Favro (Chitarra), Anna Talbot (Arpa), Luigi Vitale (Vibrafono, Percussioni). Qui siamo nel campo della totale improvvisazione: la prassi esecutiva è quella della “conduction” per cui Maier fornisce agli esecutori una serie di comandi che fanno evolvere il flusso musicale in un senso piuttosto che in un altro. Certo questa tecnica produrrebbe frutti amari se non ci fossero artisti in grado di ben interpretarla: ecco Massimo De Mattia credo che sia in senso assoluto uno dei migliori del nostro Paese; improvvisatore dotato di una eccezionale musicalità è in grado di assorbire nella propria musica (e gliel’ho sentito fare personalmente) l’inaspettato cinguettio di un uccello così come il risuonare delle campane. Notevole anche il ruolo del vibrafonista Luigi Vitale che alterna un ruolo da solista a quello di rinforzo dell’orchestra. Partendo da queste premesse è facile capire come l’album, per chi sa ascoltare con orecchie e mente ben aperte, è da gustare nella sua interezza.

Michael Mantler – Coda, Orchestra Suite – ECM

Album davvero particolare questo di Michael Mantler, che si inserisce nel solco tracciato dal precedente album “Jazz Composer’s Orchestra Update” osannato dalla critica internazionale. Questa volta Mantler compie un’operazione ancora più audace; sceglie, nell’ambito della sua larga produzione, alcuni brani che considera particolarmente significativi e li riarrangia in forma di suite per farli eseguire da un’orchestra comprendente musicisti jazz e classici. Così i brani che ascoltiamo provengono dai seguenti album: “13 and ¾”, “Cerco un paese innocente”, “Alien”, “Folly Seeing All This”, “For Two” e “Hide And Seek”. Il risultato è semplicemente spettacolare grazie anche ai solisti di vaglia presenti in orchestra: Maximilian Kanzler acclamato come uno dei migliori giovani percussionisti e vibrafonisti del momento; il chitarrista Bjarne Roupé, membro fondamentale della Mantler’s Chamber Music and Songs Ensemble; il pianista austriaco David Helbock che a soli 37 anni è già un’icona della scena jazz europea… per non parlare dello stesso leader che si fa apprezzare, more solito, come eccellente trombettista. A tutto ciò si aggiunga la preziosa opera dell’Orchestra nel suo insieme (ben 26 elementi) e si avrà un quadro più preciso del perché si è definito spettacolare l’esecuzione di questa compagine. Tra i membri dell’orchestra da segnalare la presenza della croata violoncellista Asja Valcic che aveva già collaborato con Mantler nell’incisione dell’album “Jazz Composer’s Orchestra Update”. Coda è stato registrato al “Vienna’s Porgy & Bess Studio” nel settembre del 2019, e missato presso gli studi La Buissonne in Francia.

Mike Melillo – “In Free Association” – Notami

Il pianista americano Mike Melillo pubblica il suo nuovo album “In Free Association”, tratto da un radio-concerto effettuato nella primavera del 1974 in quartetto con Roy Cumming (contrabbasso), Glenn Davis (batteria) e Harry Leahey (chitarra). Essendo oggi impossibile ammirare ancora questo gruppo data la dipartita di Harry Leahey, l’ascolto di queste registrazioni, finora inedite, risulta ancora più interessante. La genesi del combo viene riassunta brevemente dallo stesso Melillo nelle note che accompagnano l’album. Apprendiamo, così, che inizialmente si trattava di un trio (senza Leahey) per cui Melillo componeva pezzi orchestrali e da camera sperimentali, Nel ’71, con l’arrivo di Leahey, il trio è diventato un quartetto che ha avuto un buon successo grazie alla qualità della musica proposta e che ritroviamo in questo album. In repertorio sei brani di cui tre scritti dal leader e gli altri tre vere e proprie perle del jazz come “Criss Cross” di Thelonious Monk, “Mimi” di Rodgers e Hart e “What’ll I Do” di Irving Berlin. Il tutto a costituire un insieme omogeneo e di grande livello. In effetti quello proposto dal gruppo è un Jazz senza se e senza ma, un jazz che si rifà agli stilemi del bop e dell’hard-bop con un Melillo che mette in evidenza le sue doti migliori. Un pianismo sorretto da una formidabile tecnica di base, che affronta con eguale bravura sia temi particolarmente complessi e sorretti da un ritmo veloce come “Criss Cross” e “See Hunt and Liddy” in cui si fa apprezzare anche la chitarra di Harry Leahey, sia brani più melodici come “A Little Piece” dello stesso Melillo e “What’ll I Do”. Impeccabile la sezione ritmica. Infine una notazione di carattere tecnico: nonostante si tratti di una ripresa da trasmissione radiofonica, la resa complessiva è più che accettabile.

Stephan Micus – “Winter’s End” – ECM

Ascoltare la musica del tedesco Stephan Micus (classe 1953) è come addentrarsi in una foresta incantata, impreziosita da episodi di rara bellezza. Episodi determinati dalle sorprese che in ogni sua avventura questo personaggio ci propone. In qualunque contesto si abbia la fortuna di incontrare l’arte di Micus, la mente vaga ben al di là del contingente, alla ricerca di un approdo che mai risulta facile trovare, e ciò indipendentemente dalla preparazione musicale di ciascuno. Siamo trasportati in un mondo “altro” in cui le certezze vacillano alla ricerca di un qualche appiglio sonoro che ci restituisca punti fermi, conoscenze a cui rifarsi. In effetti la musica di Micus non ammette di essere incasellata in un genere ben preciso per cui si mantiene ben lontana da qualsivoglia proposta commercialmente allettante. Più sopra si accennava alle sorprese che ogni volta il musicista ci riserva: questa volta la novità consiste nell’utilizzo di due strumenti presentati da Micus per la prima volta: il chikulo e il tongue drum. Il primo, come spiega lo stesso Micus nelle note di copertina, è uno xilofono basso del Mozambico utilizzato in gruppi che solitamente comprendono una dozzina di xilofoni, mentre il tongue drum è una scatola di legno originaria dell’Africa che può essere suonata con le mani o con le bacchette. Ora detta così non ci sarebbe alcunché di strano … salvo il fatto che Micus non è solo un compositore e un sorprendente polistrumentista ma un etnomusicologo costantemente in evoluzione e in viaggio, soprattutto in Asia e in Africa, con l’intento di scovare e studiare strumenti desueti, talvolta addirittura dimenticati. Una volta trovati, li modifica con nuove accordature prima di adoperarli, con risultati strabilianti. È impressionante il numero di strumenti che padroneggia, strumenti che si ascoltano nelle musiche originali di tutti i continenti. Ciò detto risulta facile immaginare la musica di quest’ultimo album in cui Micus, come al solito in assoluta solitudine, ci racconta a modo suo il fluire della vita attraverso il succedersi delle stagioni. Un album sicuramente impegnativo ma altrettanto certamente di sicuro interesse.

Mirabassi – Di Modugno – Balducci – “Tabacco e caffè” – Dodicilune

Così come nello sport non basta assemblare ottimi giocatori per fare una buona squadra, così nella musica non è detto che tre pur bravi musicisti riescano a produrre qualcosa di buono. Certo che se poi i tre musicisti rispondono ai nomi di Gabriele Mirabassi al clarinetto, Nando Di Modugno alla chitarra e Pierluigi Balducci alla chitarra basso le probabilità di ascoltare dell’ottima musica aumentano… e di tanto. Ed in effetti ottima musica è quella che si ascolta in questo “Tabacco e caffè” registrato sei anni dopo “Amori sospesi” che vedeva impegnato lo stesso trio. La linea ispirativa rimane sostanzialmente la stessa: una sorta di viaggio sulla rotta Mediterraneo, America del Sud attraverso un linguaggio originale in cui coesistono jazz, folk, tradizione classica. E non è certo un caso che in repertorio figurino nove brani di cui quattro composizioni originali rispettivamente di Mirabassi (“Espinha de truta”), Di Modugno (“Salgado”) e Balducci (“Tobaco y cafè” e “La ballata dei giorni piovosi”) e cinque riletture di brani più o meno celebri di Toninho Horta (“Party in Olinda”), Henry Mancini (“Two for the road”), Egberto Gismonti (“Frevo”), Guinga (“Ellingtoniana”) e della conclusiva “Choro bandido” firmata da Edu Lobo e Chico Buarque. Indipendentemente dal pezzo affrontato, l’interpretazione rimane calda, oseremmo dire intimista, con i tre che dialogano piacevolmente, in piena rilassatezza senza un solo momento in cui il trio sembra spinto verso lidi che non siano comuni ai tre. Interessanti le note di copertina di Gabriele Mirabassi in cui il clarinettista illustra l’importanza del tabacco e del caffè considerati vizi ma che in realtà “più di tutto sono modi di stare insieme. In Italia poi, veri fondamenti della cultura nazionale”.

Dino Plasmati, Antonio Tosques, Guitar Quartet – “On Air” – Caligola

Dino Plasmati chitarra, Antonio Tosques chitarra, Bruno Montrone organo e Marcello Nisi batteria sono i protagonisti di questa nuova produzione firmata Caligola. Particolarmente impegnativo il programma dal momento che comprende una serie di brani ‘storici’ con un solo pezzo originale scritto da Plasmati, “Boundless Energy”. Come recita il nome del gruppo, a indirizzare il tutto sono le due chitarre di Plasmati e Tosques suonate con tecnica tradizionale, senza cioè l’ausilio dell’elettronica, e questa “guida” si avverte ben certa per tutta la durata dell’album anche se non mancano, ovviamente, momenti in cui in primo piano sale l’Organo Hammond nelle sapienti mani di Bruno Montone; è il caso dell’original cui si faceva riferimento. Per il resto i due leader guidano il gruppo con mano sicura per nell’affrontare temi che sulla carta mal si prestano ad interpretazioni chitarristiche: è il caso ad esempio del brano d’apertura, “Airegin”, scritto da Sonny Rollins. Ma da questo punto di vista le sorprese non mancano: ecco quindi la convincente disinvoltura con cui eseguono “Your own Sweet Way” di Dave Brubeck o la delicatezza con cui cesellano “I’ve Accustomed to Her Face” di Loewe Lerner complice anche il bel lavoro di Montrone all’Hammond. O ancora la pertinenza di linguaggio con i ritmi sudamericani di “When Sunny Gets Blue” di Fisher-Segal, in cui si apprezza anche l’eccellente supporto di Nisi alla batteria. A chiudere una convincente interpretazione del colemaniano “Turnaround” eseguito dai due chitarristi senza sezione ritmica.

Emanuele Sartoris, Daniele Di Bonaventura – “Notturni” – Caligola

Ancora un duo e ancora bella musica. Protagonisti Emanuele Sartoris al pianoforte e Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Vista la struttura dell’organico, si poteva temere una certa staticità dell’album a discapito del possibile interesse dell’ascoltatore. Pericolo assolutamente evitato dai due artisti che invece sfoggiano una verve fantastica dando vita a otto composizioni originali scritte dai due singolarmente o in cooperazione, che tengono desta l’attenzione dalla prima all’ultima nota. Merito da un canto della bellezza dei temi tutti caratterizzati da un’accurata ricerca melodica, dall’altro dalla perizia strumentale dei due che pur non sfoggiando alcuna particolare ricercatezza tecnica, suonano comunque con grande partecipazione e intensità. Doti che non si affievoliscono – anzi – quando decidono di reinterpretare due notturni di Chopin vale a dire il Notturno op.9 n.1 e il Notturno op.9 n.2, che non a caso aprono e chiudono l’album. Insomma un disco più che interessante scaturito dall’incontro tra il pianoforte di Emanuele Sartoris, musicista che ben conosce anche la musica classica, e il bandoneon di Daniele di Bonaventura, uno dei maggiori interpreti internazionali dello strumento. Un disco che sembra quasi invitarci ad una sorta di viaggio interiore alla scoperta di ciò che è veramente importante. E ci piace chiudere questa breve presentazione citando le parole con cui il violoncellista di fama internazionale Mario Brunello conclude le sue preziose note di copertina: “Un viaggio slow, un cammino nel vissuto della musica, a cui si aggiungono le improvvisazioni e l’ispirazione di due formidabili e coraggiosi musicisti che hanno il talento sincero per avvicinarsi ed addentrarsi nella magica atmosfera dei Notturni”.

Thomas Strønen, Ayumi Tanaka, Marthe Lea – “Bayou” – ECM

Album d’esordio per questo trio composto dal batterista Thomas Strønen, dalla pianista Ayumi Tanaka e dalla clarinettista, vocalist, percussionista Marthe Lea. L’album si inserisce in quella corrente che a partire dagli anni ’70 ha portato il jazz norvegese ai massimi livelli delle scene jazzistiche internazionali. Vale a dire una musica che si rifà al patrimonio folkloristico delle popolazioni nordiche (in particolare norvegesi) declinata attraverso un linguaggio che incorpora elementi tratti dal jazz, dalla musica classica e ovviamente dal folk. Non a caso in programma ci sono dieci brani tutti scritti dai tre musicisti ma tutti basati sul folk norvegese. Quindi una musica delicata, intimista, che affronta spazi aperti quali sono quelli che si aprono alla nostra mente quando pensiamo ai paesaggi nordici. Ascoltare l’intero album è un’esperienza singolare tanto che ad un certo punto è come se il concetto spazio-temporale si perda per assorbici totalmente nell’atmosfera creata dai tre musicisti che denotano, improvvisando costantemente, un affiatamento non comune. D’altro canto la genesi del gruppo spiega la ragione di tale empatia: dapprima si trattava di un duo composto da pianista e batterista cui in un secondo tempo si è aggiunta Marthe Lea. I tre si sono, quindi, trovati assieme alla “Oslo’s Royal Academy of Music” dove per ben due anni hanno provato assieme ogni settimana alla ricerca di un quid che permettesse loro di suonare musica improvvisata. Evidentemente questo quid l’hanno trovato e così è nato questo “Bayou” frutto come afferma lo stesso Strønen di quelle esperienze: “Noi suonavamo sempre liberamente – afferma – mescolando elementi di musica classica contemporanea, folk, jazz, a seconda di come ciascuno di noi era ispirato al momento. Alle volte la musica era molto calma, delicata e minimalista: suonando assieme si sono generate alcune speciali esperienze”: Quelle stesse esperienze che si avvertono ascoltando l’album.

Trøen, Arbesen Quartet – “Tread Lightly” – Losen

La sassofonista norvegese Elisabeth Lid Trøen (eccellente anche al flauto) si presenta alla testa di un quartetto con Dag Arnesen al piano, Ole Marius Sandberg al basso e Sigurd Steinkopf alla batteria. Il repertorio è costituito da dieci brani di cui otto scritti dalla leader e due dal pianista. Due le linee direttrici dell’album: da un canto la ricerca della linea melodica, dall’altro la capacità di improvvisare sulla stessa. Per rendersi conto, ad esempio, della capacità dei quattro di tener fede a quanto sopra detto basta ascoltare “Just Thinking”: il brano si apre su tempo lento con una linea perfettamente riconoscibile ma dopo l’esposizione del tema con la Trøen al flauto ecco un assolo di pianoforte che si avventura nelle pieghe del brano per scoprirne e lumeggiarne ogni più nascosto anfratto mentre sul finale si riascolta il flauto della leader. “Sarah’s Bounce” si apre a tempo di marcia sospinta dalla batteria di Steinkopf il quale, nello scorrere del brano, dimostra di poter avere anche un approccio melodico allo strumento. In ogni caso il pallino resta nelle mani di sassofonista e pianista che dimostrano di essere complementari nel loro linguaggio dato che le sortite solistiche dell’una vengono riprese ed rilanciate a tutto tondo dall’altro. Altro brano particolarmente interessante “Partysvensken” che si distacca piuttosto nettamente dalle atmosfere degli altri brani data la sua vicinanza, in alcuni momenti, agli stilemi del free jazz. L’album si chiude con “Denne” il pezzo che maggiormente richiama le atmosfere nordiche grazie soprattutto ad un meditativo assolo del pianista; di rilievo anche l’assolo del bassista Ole Marius Sandberg. Ma a proposito di atmosfere nordiche, l’ascoltatore più attento non potrà non rilevare qua e là, spiccate influenze della musica popolare norvegese che tanta importanza ha avuto sulla musica di quel Paese grazie ad artisti quali Jan Garbarek e Terje Rypdal.

Blues Connection – “Italian Way to Feel Blues” – Notami

E’ con vero piacere che vi segnalo questo “Italian Way to Feel Blues” non solo per la validità del progetto ma anche perché è presente un musicista a cui sono legato da particolari legami affettivi, un organista che ho conosciuto quando ancora abitavo in Sicilia (quindi primissimi anni ’70) e che ancora a mio avviso non ha ottenuto i riconoscimenti che merita. Sto parlando di Pippo Guarnera nell’occasione non solo all’organo Hammond ma anche al pianoforte. Oltre a lui e ovviamente al leader Vince Vallicelli alle percussioni, troviamo Nahuel Schiumarini alla chitarra elettrica, Andrea Valeri alla chitarra acustica, Roberto Luti al dobro e Felice Del Gaudio al basso. Come si può facilmente intuire da quanto sin qui detto, la musica è trascinante con tutti gli artisti in grado di ritagliarsi importanti spazi di improvvisazione. Ecco quindi Pippo Guarnera primeggiare all’organo in “Art” di Vallicelli, per lasciare successivamente spazio alle chitarre di Schiumarini e Valeri nonché al dobro di Roberto Luti, il tutto sorretto da una metronomica sezione ritmica con batteria e basso che non sbagliano un colpo. Insomma musica che fa battere il classico piedino sia che si affrontino temi originali (ben sette sui nove proposti dall’album) sia che si rileggano pagine importanti come “After Hours” di Avery Parrish standard jazz tra i più eseguiti che venne registrato per la prima volta dal suo stesso autore con la Erskine Hawkins Orchestra, il 10 giugno 1940 o “Windy e Warm” di John D. Loudermilk considerato a ben ragione un classico del fingerstyle, ripreso da artisti di assoluto livello quali Chet Atkins, Doc Watson e Tommy Emmanuel.

Valerio Chiarovelli e Fulvio Chiara sono i vincitori del PIF 2020 nella categoria jazz

“Se Castelfidardo con il suo prestigioso festival vive, nonostante la pandemia, anche la fisarmonica vive»: questo l’efficace slogan coniato dal direttore artistico Renzo Ruggieri in occasione della 45° edizione del PIF (Premio Internazionale della Fisarmonica) svoltosi a Castefidardo dal 16 al 20 settembre scorsi.

La manifestazione di quest’anno potrà senz’altro iscriversi nell’album dei ricordi del PIF dal momento che è stato stravolto il tradizionale palinsesto organizzando un’edizione rispettosa delle linee guida in materia di sicurezza pur mantenendo altissimo il livello qualitativo. Ecco così che il teatro Astra si è trasformato in uno studio televisivo professionale con la ripresa di Étv Marche, lo streaming sui canali social e il maxi schermo in piazza della Repubblica per diffondere capillarmente ogni fase dell’evento, le audizioni su piattaforme digitali a garantire la certezza della diretta (primi in assoluto a proporre lo streaming in ricezione e in trasmissione, operazione di una complessità assoluta) e la partecipazione di artisti da 36 Paesi e di 45 giurati collegati da ogni parte del mondo. Insomma un PIF “global” con concerti “local” di grande qualità, aperti al pubblico nella misura di 150 spettatori.

A quest’ultimo riguardo vorrei segnalare la serata di venerdì 18 settembre dedicata a Luciano Fancelli (Foligno, 1928-1953) la cui passione per la fisarmonica è divampata come un’illuminazione in un ‘giovane adulto’ sensibile a tutte le arti, aperto all’armonia e alla ritmica jazzistica: un esecutore abilissimo, un compositore dal timbro poetico e personale che ha scritto tantissimo. Ha partecipato a rubriche radiofoniche RAI e inciso per la Ricordi e la Farfisa, lasciando una mole di materiale cui si ispira lo spettacolo che ha visto sul palco gli altrettanto giovani e già affermati talenti del Virtuosity Duo (Andrea Di Giacomo e Valerio Russo) e l’Italian Accordion Quintet in un programma che ha alternato live e contributi video. Il quintetto veneto è stato così la voce del Fancelli – maturo, grazie a componenti di fine levatura (Romano Benetello, Gianfranco De Lazzari, Omar Francescato, Roberto Salvalaio e Roberto Rusalen) che, come riferisce un amico degno di fede, hanno fuso le rispettive esperienze e stili mantenendo una matrice improvvisativa.

Renzo Ruggieri – ph Stefano Celiberti

Di assoluto rilievo anche il concerto di giovedì 17 settembre che ha avuto come protagonisti un duo d’eccezione formato da Danilo Rea al pianoforte e Luciano Biondini alla fisarmonica. Un duo certo non usuale che, come mi assicurava l’amico degno di fede di cui sopra, ha deliziato il palato degli spettatori

Di spicco anche il seminario “The world accordion to Gil”, con il pianista, fisarmonicista, produttore e arrangiatore Gil Goldstein collegato in diretta streaming dagli Stati Uniti per affrontare tematiche come lo sviluppo dell’assolo, l’accompagnamento, le trascrizioni e altri consigli sull’utilizzo della fisarmonica nel jazz.

Ciò detto vorrei adesso soffermarmi sulla specifica categoria dei fisarmonicisti jazz la cui giuria è stata anche quest’anno presieduta dal sottoscritto, coadiuvato da Jure Tori (Slovenia), Anatoli Taran (Bielorussia), Chico Chagas (Brazil), Paolo Di Sabatino (Italy), Coba (Japan) e Simone Zanchini (Italy). Come si nota una giuria di qualità che si è trovata sostanzialmente unanime nel designare i vincitori nelle persone degli italiani Valerio Chiarovelli alla fisarmonica e Fulvio Chiara alla tromba. Al posto d’onore il cinese Zhong Kai che personalmente non ho troppo gradito. Al terzo posto gli statunitensi Sergei Teleshev & Friends a precedere il Duo Astra dal Belgio e i finlandesi Anne-Mari Kanniainen & Heikki Ruokangas a mio avviso meritevoli di maggiore considerazione.

Archiviata nel migliore dei modi questa difficilissima ma storica edizione, gli organizzatori, con Renzo Ruggieri in testa, sono già al lavoro per la preparazione del PIF 2021 che speriamo si possa svolgere alla presenza di quel folto pubblico che ha sempre caratterizzato la manifestazione, lontani da questa pandemia che tante preoccupazioni sta ancora producendo.

 Gerlando Gatto