Grande musica a GradoJazz by Udin&Jazz: in particolare evidenza Gonzalo Rubalcaba e Snarky Puppy

Snarky Puppy Grado 11.7.19 ph: Dario Tronchin ©

Si è conclusa con una standing ovation la 29° edizione di “Udine&Jazz” o se preferite la I° di “GradoJazz”. No, non sto giocando con le parole o con i numeri, sto solo sottolineando come, giunto alla sua 29° edizione, “Udine&Jazz”, per volontà del suo ideatore Giancarlo Velliscig, ha abbandonato il capoluogo friulano per motivazioni di carattere politico già ampiamente illustrate in questa stessa sede. La scelta è caduta su Grado, splendida località tra laguna e mare, storica stazione turistica di tedeschi e austriaci. Ed è stata una scelta pagante: ottima l’accoglienza delle autorità comunali, ottima la risposta del pubblico, splendida la location del Parco delle Rose al cui interno è stata istituita una tenso-struttura capace di ospitare un migliaio di persone con una resa acustica soddisfacente. Unico elemento su cui non si è stati in grado di intervenire la pioggia, che si è fatta vedere a giorni alterni provocando comunque qualche guasto come l’annullamento del concerto di “Maistah Aphrica” un gruppo di otto musicisti molto amati e di cui qui in Friuli si dice un gran bene.

Palmanova, 06/07/2019 – Grado Jazz by Udin&;Jazz – King Crimson Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2019

E proprio la pioggia è stata la grande protagonista del concerto che nella Piazza Grande di Palmanova, il 6 luglio, ha inaugurato la fase finale del Festival, dopo i concerti-anteprima a Tricesimo, Cervignano, San Michele del Carso e della rassegna “Borghi Swing” a Marano Lagunare. Nella storica cittadina in provincia di Udine era in programma l’attesissimo concerto dei King Crimson; durante tutta la serata la pioggia ha flagellato costantemente le migliaia di spettatori giunti per ascoltare la storica band. Alle 22,30 tutto lasciava prevedere che il concerto non si sarebbe potuto svolgere, data l’inclemenza del tempo. Ma gli organizzatori hanno tenuto duro nella speranza che la pioggia si fermasse ed hanno avuto ragione ché verso le 23 finalmente ha smesso di piovere e Fripp e compagni hanno fatto il loro ingresso sul palco suonando per circa due ore. Ed è stato tutto un amarcord: ho visto spettatori più che adulti commossi quasi fino alle lacrime nell’ascoltare la musica che probabilmente aveva accompagnato la loro gioventù. Ed in effetti i King Crimson hanno riproposto un repertorio di brani celebri: da “Epitaph” a “In the Court of The Crimson King”, da “Starless” al bis, arrivato all’una di notte, “21st Century Schizoid Man”. L’esecuzione è stata degna di cotanto nome anche se personalmente non ho particolarmente gradito l’insistenza di Fripp sulle distorsioni: uno, due, tre vanno bene… ma tutto un pezzo suonato in questo modo francamente per me è troppo. Confesso comunque di non essere un giudice imparziale dal momento che i King Crimson non hanno mai fatto parte della mia formazione musicale.

Quinteto Porteño ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Archiviato l’evento, eccoci a Grado per la prima serata del festival vero e proprio (il 7 luglio). Apertura come si dice col botto data la grande levatura dei musicisti, italiani, sul palco. A rompere il ghiaccio è stato il “Quinteto Porteño” e per il vostro cronista è stata forse la sorpresa più bella del festival. Amo incondizionatamente la musica di Piazzolla ma solo molto raramente mi è capitato di ascoltare un gruppo che pur rifacendosi alla musica del grande compositore argentino riesca ad esprimerne adeguatamente lo spirito. Di solito manca la carica drammatica, il pathos. Ebbene il “Quinteto Porteño” nonostante abbia eseguito solo musiche originali, è riuscito perfettamente a ricreare quelle atmosfere, quelle suggestioni care a Piazzolla. Il tutto grazie ad una empatia che costituisce l’asse portante del gruppo: così, mentre la scrittura è equamente divisa tra Nicola Milan (accordion) e Daniele Labelli (pianoforte), il compito di esporre la linea melodica è principalmente sulle spalle dell’eccellente violinista Nicola Mansutti, ben sostenuto da Roberto Colussi alla chitarra; una menzione particolare la merita Alessandro Turchet assolutamente sontuoso al contrabbasso sia in fase di accompagnamento sia negli interventi solistici tutt’altro che sporadici. Come si accennava, quel che affascina in questo quintetto è la compattezza declinata attraverso arrangiamenti sempre ben studiati che trovano terreno fertile nella bellezza dei temi caratterizzati sempre da una suadente linea melodica. Così tutti i musicisti si mettono al servizio del collettivo, senza ansia o volontà di strafare; in questo senso perfetto il contributo del fisarmonicista: di solito, nei gruppi tangheri, la fisarmonica tende e strafare; non così nel “Quinteto Porteño” in cui Nicola Milan è apparso sempre misurato, suonando le note indispensabili al progetto, non una di più.

Paolo Fresu Trio, Grado 7.7.19 ph: Gianni Carlo Peressotti ©

A seguire il trio di Paolo Fresu con Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso. I tre hanno presentato la colonna sonora dello spettacolo teatrale “Tempo di Chet” che hanno portato in giro per oltre sessanta repliche. Di qui un’intesa umana oltre che musicale che si percepisce immediatamente, al primo ascolto: il gruppo si muove in maniera coesa, mai una sbavatura, mai un’indecisione, con Fresu a tracciare e dettare le atmosfere, con Rubino a disegnare straordinari tappeti armonici e Bardoscia a legare il tutto.  In repertorio, oltre ad alcuni standard preferiti da Chet Baker, brani originali sempre nello spirito e nel ricordo di Chet. Ecco, quindi, tra gli altri, “My Funny Valentine”, “Basin Street Blues”, “The Silence Of Your Heart”, “Jetrium” un original in cui si ascolta la batteria preregistrata di Stefano Bagnoli, “When I Fall In Love”; in conclusione si ascolta brevemente la voce dello stesso Chet Baker che interpreta “Blue Room”. Particolarmente curiosa la storia di un altro original, “Hotel Universo”, presentato durante il concerto e scritto da Fresu in ricordo di una particolare notte; quella volta a Lucca – è lo stesso Fresu a raccontarlo – “alloggiavo all’ Hotel Universo. La signora alla reception mi dà le chiavi della numero 15. Salgo in camera, è una bella stanza ampia arredata con mobili un po’ retrò, stile anni Cinquanta. Mi sistemo, apro la finestra che dà su piazza del Giglio e prende posto su una sedia. Sopra il letto è appesa una fotografia: è Chet Baker. E’ seduto nello stesso posto in cui sono seduto ora. Dietro, dalla finestra aperta, si vede la piazza, esattamente come ora, dalla medesima finestra. Insomma un bell’omaggio di una albergatrice che evidentemente mi vuole bene”. Comunque ricordi a parte, set assai intenso, di grande impatto emotivo non a caso salutato dal foltissimo pubblico con calorosi applausi.

A completare una prima serata assolutamente positiva un duo di classe con Laura Clemente alla voce e Andrea Girardo alla chitarra. Laura è una vocalist raffinata, dotata di una bella voce, di notevoli capacità interpretative, di un gusto particolarmente ricercato: nel suo repertorio figurano brani tutti di notevole spessore anche se non sempre identificabili con il jazz… ma questo poco importa.

Clemente&Girardo duo 7.7.19 ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Anche la seconda giornata – ad ingresso gratuito –  si apre con una sorpresa: il trio del pianista brasiliano Amaro Freitas, con Hugo Medeiros alla batteria e Jean Elton al contrabbasso. Cresciuto nelle favelas di Recife, il giovane Amaro si è costruito passo dopo passo uno stile del tutto personale, uno stile percussivo in cui tuttavia è possibile riscontrare le influenze di alcuni maestri sia del jazz quali Ellington, Monk e Tatum, sia della musica brasiliana, Egberto Gismonti su tutti. Il rapporto con la musica inizia nella chiesa evangelica grazie al padre che, quand’era bambino, gli insegna a suonare la batteria. La tastiera arriva solo in un secondo momento perché, durante le funzioni religiose, c’è bisogno di uno strumento che funga da accompagnamento. Venendo al concerto di Grado, dopo il brano d’apertura – “Coisa n. 4” di Moacir Santos – Amaro ha sciorinato una serie di sue composizioni (“Dona Eni”, “Samba de César”, “Paço”, “ Trupé”, “Rasif “, “Aurora”, “Mantra”) che hanno letteralmente mandato in visibilio il pubblico, colpito dalla straordinaria energia e inventiva dell’artista brasiliano. All’interno di “Vitrais” ha addirittura creato nuovi innesti musicali basati sulle note di “Con te partirò” di Bocelli e di “Bella Ciao”! Non è certo un caso che Freitas venga, quindi, considerato un rinnovatore della musica brasiliana “attraverso – come afferma lo stesso pianista –  una nuova forma di costruzione melodica e armonica che passa per la valorizzazione percussiva e per il work in progress collettivo che si realizza durante i concerti”.

Amaro Freitas 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

A seguire un’altra esibizione trascinante quella della “North East Ska Jazz Orchestra”. Nata nel 2012 la big band riunisce diciotto musicisti che si rifanno soprattutto alla musica giamaicana. L’intento era quello di unire molte persone attive professionalmente nel panorama della musica giamaicana e afroamericana presenti nel Triveneto. La NESJO fin da subito ha, quindi, ottenuto molti consensi, anche grazie alla collaborazione con importanti esponenti della musica ska e del reggae italiano, consensi che si sono registrarti anche al di fuori dei confini nazionali, in Francia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Slovenia e Croazia. Sostenuto magnificamente dalle voci di Rosa Mussin, Freddy Frenzy e Michela Grena il gruppo si muove su ritmi assai elevati, ottenendo successo di critica e di pubblico, successo che non è mancato a Grado.

Sempre l’8 in cartellone anche un terzo concerto con Lorena Favot 4et “Landscapes” ma, causa stanchezza, non sono riuscito a sentirlo; amici degni di fede mi hanno comunque riferito che si è trattato di una performance in linea con il livello alto della serata.

North East Ska* Jazz Orchestra 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Lorena Favot 4et 8.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Ed eccoci al 9 luglio con quella che personalmente consideravo la chicca del Festival, vale a dire l’esibizione del Trio di Gonzalo Rubalcaba.

Ma procediamo con ordine. Ad aprire la serata i “Licaones” al secolo Mauro Ottolini trombone, Francesco Bearzatti sax, Oscar Marchioni organo, Paolo Mappa batteria. Nato quasi per gioco con l’album “Licca-Lecca” di una decina d’anni fa, il gruppo ha conservato la vivacità e soprattutto la gioia di suonare degli inizi. Elementi questi che si riscontrano in ogni loro concerto: a vederli sul palco si intuisce immediatamente che si divertono a suonare e in tal modo divertono anche chi li ascolta, mantenendo il livello musicale sempre alto. Così verve, ironia, funky si mescolano in una ricetta originale e trascinante.

Licaones 9.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Successivamente è stata la volta del già citato Gonzalo Rubalcaba, in trio con Armando Gola al basso e Ludwig Afonso batteria. Illustrare, in questa sede, la carriera di Rubalcaba è impresa tutto sommato inutile tale e tanta è la popolarità raggiunta in tutto il mondo dal pianista cubano: basti dire che attualmente è considerato una delle massime espressioni del pianismo jazz, vincendo due Grammy e due Latin Grammy e ottenendo ben 15 nomination. Agli inizi era, a ben ragione, considerato un pianista “cubano” in quanto nel suo stile erano ben presenti tutti gli elementi musicali dell’ ”Isola”: Man mano, Gonzalo si è staccato da questo linguaggio per approdare ad una sintesi che è sua e solo sua. Descrivere la sua musica è infatti molto, molto difficile; si ascolta un flusso sonoro illuminato da improvvisi lacerti di gran classe che aprono come uno spiraglio, una luce improvvisa sull’universo sonoro disegnato dal trio. In quest’ottica, particolarmente brillante l’intesa con il bassista, con il quale Gonzalo collabora da una decina d’anni… e si sente chiaramente, dal momento che i due si uniscono, si accarezzano, si compenetrano, sempre insieme, come una mano in un guanto. Oggettivamente difficile il compito del batterista entrato nel gruppo solo da un anno che deve dialogare da pari a pari con il piano di Rubalcaba, senza un attimo di tregua, sempre nella condizione di fornire la risposta giusta e rilanciare verso nuovi traguardi. Comunque devo dire che anch’egli se l’è cavata egregiamente. Insomma davvero un concerto memorabile che resterà nel cuore e nella mente di chi ha avuto la fortuna di assistervi.

Gonzalo Rubalcaba Trio 9.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

I concertini notturni ci riservano un’altra bella sorpresa: Humpty Duo, ovvero Luca Dal Sacco alla chitarra acustica e Matteo Mosolo al contrabbasso. Sebbene il progetto, “Synchronicities” sia interamente dedicato all’opera di Sting e dei Police, il jazz si libera in ogni singola nota con squisita ricercatezza. Non a caso il nome scelto dal duo richiama un celeberrimo brano di Ornette Coleman: “Humpty Dumpty”.

Il 10 serata dedicata al blues. Apertura con il chitarrista Jimi Barbiani accompagnato da Pietro Taucher all’organo e Alessandro Mansutti alla batteria. Professionista di sicuro spessore, Barbiani si è fatto le ossa suonando in giro per il mondo grazie ad una tecnica raffinata, ad un repertorio consolidato e ad una voglia di suonare che dopo tanti anni di professionismo è ancora lì, ben presente.

Jimi Barbiani 10.7.19 Grado ph: Angelo Salvin ©

Il clou della serata era rappresentata da Robben Ford “Purple House Tour” e l’attesa dei tanti amanti del blues non è andata delusa. Ad onta dei 67 anni e di circa 50 anni di carriera Robben conserva tutte le caratteristiche che ne hanno fatto un grande bluesman. Bella padronanza scenica, tecnica chitarristica di primo livello, voce sempre presente, intonata… e una carica di entusiasmo che si è facilmente trasmessa al numeroso pubblico. Considerato “Uno dei più grandi chitarristi del XX secolo” nel corso della sua carriera ha ottenuto cinque nomination ai Grammy, senza trascurare il fatto che la marca di chitarre Fender gli ha dedicato una sua creatura (“Robben Ford Signature”); ultima notazione tutt’altro che trascurabile: nel 1977 è stato il fondatore degli “Yellowjackets” all’epoca chiamato “The Robben Ford Group”. A Grado ha presentato, in quartetto, il suo nuovo album “Purple House” ed è stato un bel sentire. Ottimo il gruppo con un batterista tanto potente quanto di metronomica precisione, moderno il linguaggio caratterizzato da un’alternanza di generi: dal southern al blues, dal rock alla fusion, con qualche sconfinamento nel jazz.

Robben Ford 10.7.19 Grado ph: Angelo Salvin ©

La serata si è conclusa con il trio del chitarrista Gaetano Valli, con Silvano Borzacchiello alla batteria e Gianpaolo Rinaldi alle tastiere (a sostituire degnamente il contrabbasso di Riccardo Fioravanti); in programma il nuovo progetto “Sylvain Valleys & Flowers”, nato dall’intesa di tre amici di vecchia data che si ritrovano a suonare assieme dopo vent’anni scoprendo la passione comune, oltre che per il jazz, per la montagna. Non a caso il clima della performance è stato, oserei dire, dolce, distensivo e meditativo alternando brani inediti e citazioni provenienti dalla tradizione musicale. Un bravo di cuore a Gaetano Valli, artista che non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita.

 

Gaetano Valli Trio 10.7.19 Grado ph: Gianni Carlo Peressotti ©

Ed eccoci alla serata finale dell’11 luglio; come accennato la pioggia ha costretto gli organizzatori a cancellare il primo concerto di “Maistah Aphrica” e l’ultimo del trio di Gianpaolo Rinaldi. E’ rimasta quindi in piedi l’esibizione di Snarky Puppy (main stage e platea completamente al coperto), che a Grado hanno iniziato la loro tournée italiana per presentare il nuovo lavoro discografico, almeno nel titolo di estrema attualità, “Immigrance”. Il concerto ha visto il sold out con molti spettatori anche in piedi – da segnalare al riguardo, finalmente, la presenza di molti giovani. E, come accennavo in apertura, il pubblico ha gradito – e molto – il concerto tanto da riservare al gruppo l’unica stand ovation di tutto il festival. Ovazione assolutamente meritata in quanto ancora una volta il gruppo ha espresso una cifra artistica di assoluto livello. Certo, la loro musica è trascinante ma non facilissima: il collettivo newyorchese, composto da una trentina di musicisti (a Grado rappresentato da nove elementi), si muove su terreni impervi, in cui jazz, funk e R&B si mescolano in un magma sonoro costruito con estrema consapevolezza. In effetti chi crede che la musica di Snarky Puppy sia soprattutto estemporanea si sbaglia e di grosso: il tutto è arrangiato con precisione e grande professionalità, lasciando comunque spazio ad improvvisazioni declinate attraverso una preparazione tecnica di primo livello. Come sempre in primo piano il bassista, compositore e arrangiatore Michael League, vera mente del gruppo, che ha guidato l’esibizione con sicurezza.

Snarky Puppy 11.7.19 Grado ph: Dario Tronchin©

Il recital del gruppo ha quindi chiuso nel migliore dei modi l’esperienza di questo primo “GradoJazz”,  il cui bilancio finale non può che essere positivo. Il festival, organizzato da Euritmica con il sostegno di regione Friuli Venezia-Giulia, comune di Grado, Promoturismo FVG, Fondazione Friuli e in collaborazione con i vari comuni coinvolti, nonostante il cambio di location, sempre pericoloso, ha comunque conservato quelle caratteristiche che nel corso degli anni ne hanno fatto una delle manifestazioni più interessanti dell’intero panorama jazzistico italiano. Intendo riferirmi da un canto al giusto mix tra musicisti internazionali e italiani con una particolare attenzione verso gli artisti friulani, dall’altro alla valorizzazione del territorio e dei relativi prodotti: ad esempio, quest’anno, il vino ufficiale della rassegna è la vitovska del Castello di Rubbia (con etichetta creata ad hoc per GradoJazz) e vi assicuro che si tratta di un gran vino.

Gerlando Gatto

 

 

I NOSTRI CD. Tanta buona musica da ascoltare in vacanza

Aca Seca Trio – “Trino” – Sud 019

Sotto l’insegna di “Aca Trio” ecco tre straordinari musicisti argentini: Juan Quintero (chitarra, voce), Andrés Beeuwsaert (piano, tastiere, voce) e Mariano Cantero (batteria, percussioni, voce). I tre suonano assieme da quando nel 1998 si incontrarono all’Università de La Plata. Dal 2000 iniziano ad esibirsi in varie località dell’Argentina e del Brasile, ma anche in Cile, Cina, Ecuador, Spagna, Stati Uniti, Francia, Giappone, Italia, Uruguay e Venezuela, dividendo la scena con importanti artisti quali, a mo’ di esempio, Pedro Aznar, Ivan Lins e Javier Malosetti. I loro successi di carattere internazionale si devono, soprattutto, ad alcune caratteristiche ben precise: innanzitutto la valenza di tutti e tre i musicisti, in secondo luogo la felicissima scelta del repertorio. In effetti oggi quando si parla di musica argentina si pensa immediatamente al tango, senza considerare che viceversa nel grande Paese sudamericano ci sono ben altre musiche. Ed è proprio a questo immenso patrimonio che si rivolge il Trio Aca Seca; ma non basta ché la loro musica spazia anche al di fuori dell’Argentina passando attraverso il Brasile e l’Uruguay, ovvero il jazz, la bossa nova, il folklore più autentico Il risultato è un repertorio molto vasto e di grande fascino che è stato sufficientemente declinato nei precedenti album e che trova, in quest’ultimo “Trino”, probabilmente la sua migliore espressione. Dieci brani che confermano appieno l’originale cifra stilistica del trio che evidenzia una perfetta empatia ovvero la capacità di ogni singolo musicista di ascoltare chi gli sta accanto e soprattutto di saper sviluppare qualsivoglia impulso ritmico, melodico, armonico che gli venga fornito. Una musica alle volte dal sapore antico declinata però con modernità grazie, soprattutto, all’incredibile sostegno ritmico di Mariano Cantero, probabilmente la punta di diamante della formazione. Tra i brani, tutti gradevoli, la nostra personalissima preferenza va a “Formas” dell’uruguaiano Hugo Fattoruso, riletto in modo assai personale.

Julian Cannonball Adderley – “Them Dirty Blues” – Jazz Images 24738

Siamo tra gli anni ’50 e ’60 e Julian Cannonball Adderley attraversa uno dei periodi più felici della sua vita artistica: ha appena inciso “Milestones” e lo storico “Kind of Blue” nel super gruppo di Miles Davis regalando alla storia del jazz il memorabile assolo di “So What”; contemporaneamente incrementa la sua attività di band leader costituendo gruppi di assoluta eccellenza. L’album in oggetto testimonia proprio questa attività di leader facendoci riascoltare l’alto sassofonista alla testa di due differenti gruppi: il primo con il fratello Nat alla cornetta, Barry Harris o Bobby Timmons al pianoforte, Sam Jones al contrabbasso e Louis Hayes alla batteria, il secondo con Wynton Kelly al piano, Paul Chambers o Percy Heath al basso, Jimmy Cobb o Albert Heath alla batteria. E già questa semplice elencazione di nomi credo la dica lunga su che tipo di musica si ascolta. Siamo nell’ambito di un jazz che più canonico non si può, impreziosito sia dalla bellezza dei temi sia dalla bravura di ogni singolo musicista, con il leader in testa capace di inanellare una serie di splendidi assolo, uno più convincente dell’altro, sempre sorretti da una estrema fluidità, da un suono allo stesso tempo leggero ed energico, di assoluta originalità che poneva Cannonball su un piano già diverso rispetto ai sassofonisti che avevano dato vita alla rivoluzione del bop. Quanto al repertorio ecco alcune perle oramai considerate classici del jazz: intendo riferirmi soprattutto a “Work Song” di Nat Adderley e “Dat Dere” di Bobby Timmons, pianista che nello stesso periodo stava ottenendo uno strepitoso successo con il brano “Moanin” inciso con i Jazz Messengers di Art Blakey. Ma è tutto l’album che si ascolta con estremo piacere; tra gli altri brani in programma una particolarissima menzione per “Serenata” il suggestivo brano scritto da Leroy Anderson che ebbe l’onore di essere eseguito in prima assoluta il 10 maggio del 1947 dalla Boston Pops Orchestra diretta da Arthur Fiedler.

Chico Buarque – “Caravanas” – Biscoito Fino 248

E siamo a quota quarantotto: tanti sono gli album inciso da Chico Buarque nell’arco di una lunga e prestigiosa carriera che lo ha visto spesso in prima linea anche dal punto di vista sociale e politico. All’età di 73 anni sfodera questo “Caravanas” che si impone immediatamente per la delicatezza con cui il cantautore brasiliano presenta la sua musica anche quando, come suo solito, affronta tematiche non proprio semplici. E’, ad esempio, il caso della title track in cui la “caravana” è costituita dai molti giovani neri che, a bordo di autobus ricolmi, si riversano nelle zone della classe media a Rio de Janeiro; splendida la musica, significativo il testo impreziosito da una frase – “Filha do medo a raiva é mãe da covardia”, “figlia della paura, la rabbia è la madre della codardia” che ci fornisce un’iea abbastanza precisa di quale sia il clima che si respira oggi in Brasile. Ma è tutto l’album intriso di riferimenti al sociale: così nella parte finale di “Dueto”, canzone già registrata nel 1980 da Chico Buarque con Nara Leão, e qui eseguita con la nipote Clara con un nuovo arrangiamento più vicino al jazz, viene inserito un esplicito riferimento alle varie app su cui si costruiscono i nuovi amori, da Tinder a Whatsapp fino a Telegram; ancora in “Jogo de bola” il gioco del calcio, da sempre passione di Chico, viene evocato come metafora per invitare il mondo ad una maggiore concordia mentre in “Blues pra Bia” viene trattato quasi in punta di piedi, con grande delicatezza, l’amore omosessuale. Ma, se tutto questo concerne i testi, ciò non significa che la musica passi in secondo piano. Buarque rimane un grandissimo musicista e la sua voce, in unicum con la chitarra, riesce ad essere sempre moderna, attuale, per non parlare della raffinatezza insita in taluni arrangiamenti come quello di
“A Moça do Sonho”, composto a quattro mani con Edu Lobo, in cui la scena è lasciata a una chitarra classica e a qualche contrappunto di violoncello sì da lasciare campo libero al canto ispirato di Buarque. Ciò detto resta comunque un appunto da muovere all’album: è troppo breve e lascia l’ascoltatore come insoddisfatto, desideroso di qualcos’altro che purtroppo non arriva…. Ma forse è meglio questa brevità che l’insulso sbrodolarsi di chi ha poco o nulla da dire.

Francesco Cafiso Nonet – “We Play For Tips” – EFLAT

Quello del rapporto tra musicisti e case discografiche è un problema che va assumendo toni sempre più preoccupanti: da un canto i jazzisti lamentano il fatto che incidere un disco viene a costare troppo, dall’altro le case discografiche rispondono che oramai i dischi non si vendono. Insomma un bel ginepraio che non escludiamo di approfondire prossimamente. Intanto, tornando all’attualità alcuni musicisti preferiscono creare una propria etichetta indipendente: è il caso del sassofonista siciliano Francesco Cafiso che ha creato una propria etichetta, la “E FLAT”. Questo “We play for tips” (distribuito da Egea Music) ne è la prima realizzazione e se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino allora è facile prevedere per la nuova arrivata un futuro più che roseo.
Cafiso si presenta alla testa della sua nuova formazione, un nonetto completato da Marco Ferri sax tenore, clarinetto; Sebastiano Ragusa sax baritono, clarinetto basso; Francesco Lento e Alessandro Presti tromba, flicorno; Humberto Amésquita trombone; Mauro Schiavone pianoforte; Pietro Ciancaglini contrabbasso; Adam Pache batteria. In programma dieci composizioni dello stesso Cafiso registrate live nel giugno del 2017 durante il Vittoria Jazz Festival di cui Cafiso è direttore artistico. Come afferma lo stesso sassofonista nelle note che accompagnano l’album, questo CD rappresenta un’estensione del precedente album “20 Cents Per Note” (2015) e racconta alcune delle esperienze vissute tra cui un viaggio di un mese a New Orleans. In effetti il titolo del disco fa riferimento alla scritta che i musicisti di strada di New Orleans portavano sul loro cappello per chiedere la mancia. Insomma la musica che si ascolta è fortemente ancorata al jazz nella sua accezione più completa del termine, quindi, swing, blues, arrangiamento, improvvisazione. Non a caso due brani – “Blo-Wyn’” e “Pops’ Character” – sono dedicati rispettivamente a Wynton Marsalis (artista legato a Cafiso da una profonda amicizia) e Louis Armstrong. Insomma una vera manna per chi ama un certo tipo di jazz lontano dagli sperimentalismi ma non per questo banale, tutt’altro! Si ascolti con quanta perizia tutti i musicisti eseguano i loro assolo e si apprezzi la qualità degli arrangiamenti curati da Cafiso e Schiavone che fanno suonare il nonetto come una vera e propria big band memori delle lezioni di alcuni grandi del passato.

Emanuele Cisi – “No Eyes” – Warner Music

Come recita il sottotitolo “Looking at Lester Young” l’album è un omaggio che il sassofonista italiano ha voluto tributare ad uno dei grandi geni del jazz, Lester Young.
Ad accompagnarlo in questa non facile impresa il pianista e trombettista Dino Rubino, il contrabbassista Rosario Bonaccorso, il batterista Greg Hutchinson e la vocalist Roberta Gambarini. Il repertorio si articola su undici brani di cui tre a firma di Cisi e otto tratti dal grande songbook statunitense. Impresa difficile, si diceva, sia perché Lester è stato artista fondamentale per l’evoluzione del jazz sia perché, assieme a Coleman Hawkins, può a ben ragione essere considerato l’inventore del sax tenore nel jazz; suonava, quindi, lo stesso strumento di Cisi per cui il raffronto è ravvicinato e inevitabile. Fermo restando che l’arte di Young risulta ancora oggi ineguagliabile (né credo che Cisi abbia per un solo attimo pensato di eguagliare il maestro) l’album risulta apprezzabile e per più di un motivo. Innanzitutto il sincero trasporto con cui Cisi ha voluto rendere omaggio a “Prez” evidenziato sia nelle modalità esecutive, sia nel far ricorso prevalentemente a brani o scritti e portati al successo dallo stesso Young o a lui dedicati, sia, infine, nella scelta dei testi tratti liberamente da un poema di David Meltzer. In effetti “No Eyes” ha un triplice significato: nel particolare linguaggio adoperato da Lester significava “non mi interessa”, è il titolo di un celebre blues inciso dal sassofonista nel 1946 ed infine, come accennato, è il titolo di un poema scritto da David Meltzer e ispirato all’ultimo anno di vita di Young che morì a soli 50 anni nel 1959. E crediamo non a caso Cisi abbia scelto di aprire l’album con questo brano da lui composto, particolarmente significativo per i motivi suddetti. Di qui il CD si sviluppa lungo le direttrici dettate dal leader che non si risparmia di certo prendendo significativi assolo in ogni brano sempre sorretto dal pianismo discreto ma essenziale di Rubino (che si esprime benissimo anche al flicorno in “Tickle Toe” e soprattutto in “Jumpin’ With Symphony Sid”) e da una sezione ritmica semplicemente magistrale con un Bonaccorso che sa far cantare il suo strumento come pochi e con un Hutchinson in grado di conferire ad ogni brano una precisa ed originale carica ritmica non disgiunta da una timbrica ricercata (lo si ascolti con quanta e quale dovizia dialoga con il sax di Cisi in “Jumpin’ at the Woodside”). Roberta Gambarini si conferma vocalist di squisita sensibilità ben adatta a tradurre in musica le intuizioni di Cisi il quale con questo album crediamo abbia raggiunto uno dei punti più significativi della sua poetica.

Elina Duni – “Partir” – ECM 2587

Conoscevamo Elina Duni per i due precedenti album incisi sempre per la ECM con il suo quartetto, “Matanë Malit” (Beyond the Mountain), un omaggio musicale al suo Paese natale l’Albania del 2012 e “Dallëndyshe” (The Swallow) del 2015. Per questo terzo album – registrato negli Studios La Buissone nel sud della Francia nel luglio 2017 – la vocalist ha cambiato decisamente strada e si presenta da sola accompagnandosi con il pianoforte, la chitarra e le percussioni. Qui il terreno prettamente jazzistico è abbandonato per approdare su sponde più intimistiche, alla riscoperta di un patrimonio musicale che affonda le sue radici nelle tradizioni di diversi Paesi. Ecco, quindi musica tradizionale dell’Albania, del Kosovo, dell’Armenia, della Macedonia, della Svizzera e dell’Andalusia cui si affiancano brani cantautorali quali “Je ne sais pas” di Jacques Brel, “Meu Amor” di Alain Oulman, “Amara Terra Mia” di Domenico Modugno e un originale della stessa Duni. Insomma un repertorio quanto mai variegato e difficile da eseguire mantenendone una certa omogeneità, tanto più che l’artista lo presenta in nove differenti lingue. Ebbene la Duni è riuscita nell’intento grazie ad alcune doti di fondo che in questa occasione è riuscita ad esprimere appieno: innanzitutto una grande sensibilità musicale che le consente di transitare da un brano all’altro, seppur differenti, con estrema naturalezza senza denotare sforzo alcuno; in secondo luogo un’eccellente preparazione tecnica sia vocale sia strumentale per cui l’interpretazione appare sempre ben calibrata, grazie anche agli arrangiamenti essenziali ma funzionali. Scegliere qualche brano da segnalare in modo particolare è piuttosto difficile, tuttavia vi invitiamo ad ascoltare con particolare attenzione il brano di Modugno in quanto sicuramente lo conoscete e potrete quindi meglio apprezzare la valenza interpretativa della Duni.

Duke Ellington – “Due Ellington meets Coleman Hawkins” – Poll Winners Records 27365

Siamo nei primissimi anni ’60, per l’esattezza nel 1962 e Duke Ellington macina musica straordinaria sia alla testa della sua celebre big band sia a capo di piccole formazioni com’è il caso di questo splendido album. Questa volta a coadiuvare il Duca c’è un quintetto di straordinari musicisti quali Aaron Bell contrabbasso, Harry Carney clarinetto basso e sax baritono, Johnny Hodges sax alto, Ray Nance violino e cornetta,
Sam Woodyard batteria. Tutti insieme incontrano un altro grande del jazz quale il tenorsassofonista Coleman Hawkins per dar vita ad uno splendido album che a ben ragione è stato adesso ristampato con l’aggiunta di cinque bonus tracks registrati da diverse band tra il 1955 e il 1962 in cui il sassofonista si misura con alcuni brani di Ellington inclusa “The Star Crossed Lovers” dalla suite Shakesperiana “Such Sweet Thunder” raramente sentita – come spiega Arnold Marcus nelle note di copertina – nell’interpretazione di Coleman Hawkins Inutile negarlo: ascoltando questi brani, a chi come il sottoscritto ha superato gli ‘anta’ (quali fate un po’ voi) un attacco di nostalgia è inevitabile. Ma è solo un momento ché subito dopo ci si riprende e si ascolta il tutto con la solita attenzione. E alla fine dell’album resta impressa la sensazione di aver ascoltato qualcosa di formidabile. Merito di Coleman Hawkins che ha saputo integrarsi magnificamente nelle atmosfere disegnate da Ellington, ma egualmente merito del Duca che ancora una volta riesce a far suonare i “suoi” musicisti al meglio delle loro possibilità: si ascolti il puntuale sostegno ritmico di Sam Woodyard, si ascolti il sofisticato dialogo tra gli altri due sassofoni partecipanti alla registrazione, Johnny Hodges e Harry Carney. Insomma se ancora non possedete questo album, è il caso che corriate a comprarlo.

Claudio Fasoli Samadhi Quintet – “Haiku Time” – abeat 178

Che Claudio Fasoli sia uomo di vasta cultura, al di là del fatto squisitamente musicale, lo dimostra anche la particolare sensibilità che pone nell’intitolare i suoi album. Così per quest’ultimo ha fatto ricorso al termine giapponese “Haiku” – componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo di particolare brevità – ad indicare lo specifico intendimento di presentare undici brani caratterizzati da estrema sobrietà non solo nella dimensione temporale ma anche nella durata degli assolo e negli stessi titoli. Di qui un comunicare emozioni che risulta diretto, senza orpelli, tutto affidato alla valenza della musica e alla bravura dei musicisti. Questi, grazie alla sapiente scrittura del leader, hanno la possibilità di esprimersi pienamente sia in assolo sia negli episodi d’assieme evidenziando un grado d’affiatamento davvero notevole. D’altro canto la formazione è ben rodata: Michael Gassmann tromba e flicorno, Michelangelo Decorato piano, Andrea Lamacchia contrabbasso e Marco Zanoli batteria li avevamo già incontrati nel precedente album di Fasoli “Inner Sounds” del 2016. La musica, quindi, può dipanarsi facilmente transitando dalle semplici enunciazioni dei brani allo sviluppo degli stessi affidato soprattutto ai due fiati con Decorato impegnato a cucire il tutto, portando ad unità i mille dettagli, le mille sfaccettature contenute nella musica di Fasoli. Ed è questa una sensazione che si coglie evidente sin dalle primissime note dell’album, quando il tema di “Fit” viene introdotto dalla tromba di Gassmann e poi sviluppato dal sax del leader. Ma come si accennava c’è spazio davvero per tutti: si ascolti, ad esempio, con quanta musicalità Andrea Lamacchia fa vibrare il suo strumento nell’assolo di “Bag” mentre la batteria di Zanoli si pone in particolare evidenza nell’introdurre il tema di “Dim”. Dal canto suo Fasoli non si risparmia facendosi apprezzare in ogni singolo brano sia come autore sia come interprete. Ma non scopriamo certo l’acqua calda affermando che Claudio oramai da tempo è da considerare uno dei migliori sassofonisti che il jazz internazionale possa vantare.

Maurizio Giammarco Syncotribe – “So To Speak” – 2plet Records

“Syncotribe” è la formazione varata dal sassofonista Maurizio Giammarco con Luca Mannutza all’organo e Enrico Morello alla batteria e live elctronics. La formula del trio sax, organo, batteria non è certo nuova nell’ambito del jazz internazionale e nazionale: così ricordiamo il trio del sassofonista James Carter con Alex White batteria e Gerard Gibbs organo, mentre, per restare nell’ambito dei nostri confini vanno citate le esperienze di Nevio Zaninotto (sax tenore, soprano) con Renato Chicco (organo Hammond) e Andy Watson (batteria) e dell’altro sassofonista Max Ionata con Luca Mannutza all’organo e Adam Pache alla batteria. Ma Giammarco è musicista troppo intelligente, personale ed inventivo per ripercorrere strade già battute. Ecco quindi una scrittura (i brani sono tutti suoi ad eccezione di “Decoy” di R. Irwing III) che declina il trio nell’ambito di un jazz moderno molto, molto lontano dalle classiche sonorità dell’organ trio solitamente vicine al funky e/o al soul. Ecco quindi il sassofono di Giammarco librarsi con la solita levità e sicurezza a disegnare ampie volute sempre caratterizzate da un sound robusto, asciutto, personale mentre i compagni d’avventura
si rendono essi stessi protagonisti del progetto. Si ascolti con quanta maestria la batteria di Morello dialoga con il sax di Giammarco nel già citato “Decoy” mentre Mannutza dimostra di conoscere appieno le potenzialità dello strumento sia che accompagni sia che si produca in assolo: lo si ascolti, ad esempio, in “Nueva vista”… ma si può ben dire che il suo apporto si avverte distintamente in ogni singolo brano. Un’ultima notazione non secondaria: i tre musicisti che si ascoltano nell’album appartengono a tre diverse generazioni eppure riescono a dialogare con la massima libertà ed empatia a dimostrazione di come davvero il jazz sia un linguaggio universale, che non conosce barriera alcuna.

Simone Graziano – “SnailSpace” – Auand 9073

Periodo decisamente positivo per il pianista fiorentino Simone Graziano che nell’aprile del 2017 ha inciso questo album e il 2 maggio del 2018 è stato eletto presidente del MIDJ, l’Associazione dei Musicisti Italiani di Jazz. Ma veniamo a ciò che maggiormente ci interessa in questa sede, vale a dire l’album. Per questa sua quinta fatica discografica, Simone Graziano (pianoforte, synth e fender rhodes) si ripresenta in trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso e sintetizzatore e Tommy Crane alla batteria. E’ lo stesso leader ad illustrare, nelle poche note di presentazione, il significato del titolo “A passo di lumaca”: non una lentezza in quanto tale ma una concezione secondo cui la lentezza non si riferisce tanto ad uno spazio temporale quanto al tempo necessario per capire dove si vuole andare, per scoprire la propria creatività, per coltivarla e condurla a risultati importanti. Ed in questo senso l’album appare perfettamente coerente: il trio si muove lungo coordinate non nuovissime ma di certo non banali. Intendo riferirmi all’uso intelligente e misurato dell’elettronica, alla ricerca di una timbrica particolare, alla raffinatezza della linea melodica, all’attenzione per i dettagli, alle modalità sempre misurate con cui si esprime la sezione ritmica. Tutte queste caratteristiche si evidenziano lungo tutto l’album (nove brani di cui ben otto a firma del leader) ma trovano forse la loro più completa estrinsecazione in “Aleph 3”: il brano si apre in territorio d’ispirazione hip-hop dopo di che entra in gioco l’elettronica per trasportare il pezzo in territori più arditi grazie anche alla batteria di Tommy Crane; dopo qualche minuto le atmosfere si fanno più rarefatte, quasi un jazz da camera, con in evidenza piano e synth che ci conducono verso un epilogo non scontato.

Pino Jodice – “Infinite Space” – Cose Sonore 18024

Pino Jodice è artista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, di assoluto livello sia che si esprima come pianista, come compositore, come arrangiatore, come direttore d’orchestra o come docente di Composizione jazz presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. In questo ‘concept’ album lo ritroviamo nella classica formazione del trio coadiuvato da Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, con l’aggiunta di Andrea Centrella al live electronics. Una formazione, quindi, di eccellenza su cui non c’è bisogno di ulteriori parole. Di parole ne merita, invece, e tante la musica dell’album, nove brani tutti dovuti alla penna del leader. Il titolo del CD richiama, esplicitamente, una certa visione dell’artista che rivolge il suo sguardo verso l’alto come a volersi distaccare dalle miserie, dalle angosce che affliggono l’esistenza umana. Insomma la musica come una sorta di redenzione ma nello stesso tempo di ricerca: non a caso lo stesso Jodice dedica l’album a Stephen Hawking e Margherita Hack il cui approccio e passione per la ricerca e le relative capacità di divulgazione rappresentano per Jodice un modello da seguire nella ricerca musicale, nella composizione e nella divulgazione di questa materia. Ecco, quindi, che Pino ci prende per mano e partendo dal decollo dell’Apollo 1 ci invita a seguirlo in questo fantastico viaggio. Ora, quando un album parte da un enunciato così esplicito, la musica non sempre riesce ad essere coerente con le parole. Bisogna, in questo caso, dare atto a Jodice di aver saputo declinare la sua ansia di “osservare lo straordinario spettacolo del cosmo” (per usare le sue parole) con una musica che effettivamente richiama questi concetti. Una musica, quindi, di ampio respiro che scorre fluida in tutti e nove i brani, tutti composti dal leader, in cui Jodice evidenzia da un lato la sua sapienza compositiva, mai banale e sempre originale, dall’altro le grandi, grandissime capacità esecutive che a mio avviso lo collocano tra i più grandi pianisti jazz non solo italiani. Il tutto impreziosito dal lavoro di Pirozzi e Pietro Iodice a costituire una delle più affiatate formazioni che il jazz italiano possa vantare, e la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che questi tre musicisti suonano assieme oramai da più di vent’anni. Tutt’altro che marginale, infine, il ruolo di Andrea Centrella.

Reis Demuth Wiltgen – “Once In A Blue Moon” – Cam Jazz7926-2

E’ un trio jazz senza se e senza ma quello che ascoltiamo in questa nuova produzione targata Cam Jazz: Michel Reis al pianoforte, Marc Demuth al contrabbasso e Paul Wiltgen alla batteria si misurano su un terreno usato (e fors’anche abusato) qual è quello del trio pianoforte più sezione ritmica. Di qui da un lato l’impossibilità di attendersi qualcosa di trascendentale dati gli illustri precedenti, dall’altro, però, la possibilità di ben valutare l’artista proprio perché i termini di paragone sono innumerevoli. Ebbene, partendo da questa duplice considerazione, occorre sottolineare come questo trio lussemburghese se la cavi più che bene grazie soprattutto alla bravura di ogni singolo musicista. Reis è pianista ben preparato, che si muove con agilità lungo tutta la tastiera evidenziando una spiccata propensione per la linea melodica senza però disdegnare momenti di più forte incisività come in “Push”. Demuth è batterista musicale e raffinato (si ascolti il suo gioco di spazzole in “22 May 15”) che riesce a dialogare sempre con estrema pertinenza con i colleghi di viaggio mentre Wiltgen è bassista poco appariscente ma solido nel sottolineare i momenti fondamentali del disegno armonico. Il tutto condito da una profonda empatia che lega i tre musicisti e che si respira lungo tutto l’arco del CD declinato su 13 brani di cui 12 originali cui si affianca “Both Sides Now” di Joni Mitchell. E proprio il rifacimento di questo brano rappresenta uno dei momenti clou dell’album: introdotto da un centrato assolo del bassista, cui si affianca dopo quaranta secondi la batteria, il brano viene sviluppato da un intenso dialogo tra contrabbasso e pianoforte, quest’ultimo impegnato in un assolo di rara poesia, tutto giocato su note singole a voler evidenziare la bellezza del tema. Altra esecuzione particolarmente riuscita è quella di “Dante” caratterizzata da un originale andamento ritmico,

Antonio Sanchez – “Bad Hombre” – CamJazz 7919-2

“Channels of Energy” – CamJazz 79922-2

Non si può certo dire che il batterista Antonio Sanchez si risparmi: eccolo infatti protagonista di un singolo -“Bad Hombre”- e di un doppio CD -“Channels of Energy”- ambedue pubblicati da CamJazz. I due album sono molto diversi dal momento che mentre nel primo Sanchez è il vero e proprio ‘deus ex machina’ essendo l’unico protagonista (scrive la musica, l’arrangia, la esegue con batteria, tastiere, electronics e voce), nel secondo è inserito in un contesto assai più vasto rappresentato dalla WDR Big Band arrangiata e condotta da Vince Mendoza. Ma procediamo con ordine; dopo la felice esperienza di autore ed esecutore della colonna sonora di “Birdman” film che tutti ricorderanno per la sua particolarità e per la straordinaria interpretazione di Michael Keaton, Sanchez si cimenta con questo “Bad Hombre”, che, come confessato dallo stesso artista, rappresenta “un progetto sperimentale nel senso che si distacca completamente da tutto ciò che ho fatto in precedenza come batterista, compositore, produttore”. Ma non è il solo obiettivo dal momento che Sanchez si prefigge altresì da un canto di rispondere in qualche modo al senso di frustrazione che cresce in lui a causa dell’attuale situazione politica degli States, dall’altro di rappresentare in musica le sue origini messicane. Di qui un pastiche di batteria, strumenti elettronici, fondali creati a posteriori, suoni alterati che volutamente non frequentano i territori della superficiale godibilità addentrandosi piuttosto in quelli ostili, del non facile ascolto che richiedono una particolare attenzione per essere valutati sotto una giusta luce. Completamente diverso il secondo doppio album: smessi i panni del contestatore, Sanchez torna a suonare la batteria come sa fare, al servizio di un disegno complessivo condotto da Vince Mendoza a capo della WDR Big Band. In repertorio otto brani tutti scritti dallo stesso Sanchez. Il risultato è superlativo. Sotto la sapiente regia di Mendoza l’orchestra si muove con compattezza eseguendo alla perfezione i non semplici arrangiamenti. Di qui un sound, che pur mantenendo una propria specificità, richiama comunque alcune grandi orchestre del passato come, ad esempio, quelle di Duke Ellington e di Gil Evans. Il tutto impreziosito da alcuni elementi della band che si pongono in particolare evidenza come, tanto per fare qualche nome, il pianista Omer Klein (lo si ascolti in “Grids and Patterns”), Johan Hörlen (sax) e Shannon Barnett (trombone) particolarmente brillanti nel brano conclusivo che dà il titolo all’album. Superlativa la prova di Sanchez che dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio in qualsivoglia contesto. Nel caso specifico il suo drumming è allo stesso tempo possente ma non invadente sì da sposarsi magnificamente sia con i pieni orchestrali sia con quei momenti in cui il sound si fa più delicato, prezioso.

Bobo Stenson – “Contra la indecisiòn” – ECM 2582

Il pianista Bobo Stenson (classe 1944) è una delle personalità più importanti del jazz scandinavo, uno dei pochissimi in grado di non far rimpiangere quel Esbjorn Svensson di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica. In “Contra la indecision” Stenson si ripresenta con il suo abituale trio completato da Anders Jormin al basso e Jon Fält alla batteria. Il repertorio è piuttosto vario ed esplica appieno le molteplici sfaccettature del leader. Così dello Stenson compositore abbiamo qui due soli esempi, “Alice”, e “Kalimba Impressions” composto da tutti e tre i membri del combo; la maggior parte dei brani sono a firma di Anders Jormin, la title track è opera del cantautore cubano Silvio Rodríguez mentre gli altri tre pezzi – rispettivamente di Béla Bartok, Erik Satie e Frederic Mompou – illustrano l’abilità di Stenson nell’affrontare anche la musica classica. Ferma restando la statura artistica del leader, ogni brano fa quasi storia a sé dal momento che il bilanciamento tra scrittura e improvvisazione dà la stura, di volta in volta, ad interventi solistici di squisita fattura che mai mettono in pericolo l’equilibrio globale del trio. Così, tanto per fare qualche esempio, in “Doubt Thou The Stars” ascoltiamo una splendida improvvisazione di Jormin che adopera anche l’archetto ben sorretto dalla batteria prima dell’entrata in scena del pianoforte che illustra il tema in tutta la sua bellezza; in “Kalimba Impressions” è Jon Fält a salire alla ribalta suonando la marimba in un fitto dialogo con i compagni d’avventura; in “Alice” i tre disegnano un percorso quasi a zig-zag, sghembo, straniante ma di indubbio misterioso fascino; in “Elégie” , come accennato, riscopriamo il coté classico di Stenson che affronta la partitura di Satie con pertinenza, eleganza ed originalità; “Stilla” è un blues, sempre di Jormin, che evidenzia come tutti e tre questi musicisti conoscano bene la storia della musica afro-americana; in “Oktoberhavet” ancora una splendida intro della batteria dopo di che il tema è sviluppato da Jormin all’archetto con il pianoforte di Stenson che si limita a punteggiare prima di prendere in mano le fila del discorso.

John Surman – “Invisible Threads” – ECM 2588

“Invisibili fili” è il titolo, tradotto in italiano, di questa nuova fatica discografica di John Surman ai sax soprano e baritono e al clarinetto basso. Ed in effetti di fili invisibili è fatta la musica di questo album, una ragnatela di straordinaria eleganza che Surman tesse ben coadiuvato dai due compagni d’avventura, il pianista di San Paolo, Nelson Ayres, jazzista ma anche frequentatore di terreni vicini al pop brasiliano e Rob Waring, docente “classico” al conservatorio di Oslo, al vibrafono e alla marimba. Quindi una formazione del tutto inconsueta mancando, contemporaneamente, di contrabbasso e batteria. Ma i tre suppliscono egregiamente con un affiatamento ed un’empatia che si evidenzia in ogni momento: così quando è Surman a disegnare la linea melodica gli altri due fungono da contrappunto e da sostegno ritmico; ma la stessa cosa accade quando il pallino passa nelle sapienti mani di Ayres: Surman lo contrappunta a meraviglia e Waring si assume il difficile compito di organizzare da solo una sezione ritmica. Questo idem sentire si manifesta altresì nelle reciproche influenze che i tre non nascondono: così se è vero che nella poetica di Surman è sempre presente quel riferimento alle vecchie melodie inglesi e più in generale alla musica del Nord Europa, in questo album non mancano specifici richiami alla musica brasiliana come si può apprezzare in “Summer Song” unico brano non scritto da Surman ma per l’appunto da Nelson Ayres, in “Pitanga Pitomba” introdotto da un centrato assolo di Rob Waring e sviluppato da un fitto dialogo tra Surman e Ayres mentre “Autumn Nocturne” e “The Admiral” si fanno apprezzare per la delicatezza della linea melodica; da segnalare in quest’ultimo brano l’introduzione affidata ad un dialogo tra clarinetto basso e marimba, forse uno dei momenti più belli dell’intero album.

Esbjörn Svensson Trio – “E.S.T. live in London” – ACT 9042-2

Sono trascorsi dieci anni dal quel 14 giugno 2008 quando il pianista svedese Esbjörn Svensson scomparve improvvisamente a causa di un incidente subacqueo, proprio quando la sua fama aveva oramai raggiunto appassionati e critici di tutto il mondo. La formazione proposta in questa realizzazione discografica è quella storica che prese le mosse nel 1990 quando il pianista fondò il suo primo gruppo con l’amico di infanzia Magnus Öström alle percussioni; nel 1993 si aggiunse il bassista Dan Berglund a costituire quell’Esbjörn Svensson Trio (o E.S.T. Trio) che nell’arco di pochi anni ottenne un successo planetario. Non a caso sono stati la prima band europea ad apparire nel 2006 sulla copertina di Downbeat e sempre non a caso il doppio cd “Live in Hamburg”, registrato nella città tedesca nel novembre del 2006, è stato definito “L’album jazz del decennio 2000-2010” dal Times. Il perché di tanto successo si capisce facilmente ascoltando questo doppio album registrato live al Barbican Centre di Londra il 20 maggio del 2005. La performance, articolata su dieci brani piuttosto lunghi, testimonia in modo inequivocabile la trascinante forza del gruppo che in quell’anno era in tournée per promuovere l’album “Viaticum” (e ben cinque pezzi eseguiti a Londra facevano parte di quest’album). La musica è superlativa, ricca di forza, energia, caratterizzata da una profonda carica innovativa che coniugava un linguaggio prettamente jazzistico con atmosfere tipiche del rock. Anche da qui la grande influenza che il gruppo ha esercitato specialmente sulle nuove generazioni nel corso dei suoi diciassette anni di esistenza. Un vuoto di cui si avverte ancora la gravità e che non sarà banale colmare.

Gianluigi Trovesi – “Mediterraneamente” – Dodicilune

Titolo quanto mai esplicativo questo “Mediterraneamente” con cui il “nordico” Trovesi ha voluto chiamare questa sua ultima creatura. Conosciamo Gianluigi da molti anni e contrariamente a tanti che hanno sempre visto in lui lo spericolato sperimentatore multistrumentista, capace di mandare in visibilio le platee di tutto il mondo, abbiamo sempre riscontrato nel suo stile, nella sua poetica un coté lirico che in questo album viene prepotentemente alla ribalta. Ben coadiuvato dal suo ‘Quintetto Orobico’ composto da Paolo Manzolini (chitarre), Marco Esposito (basso), Vittorio Marinoni (batteria) e Fulvio Maras (percussioni), Trovesi presenta un repertorio di dodici brani in cui a composizioni originali (“Gargantella”, “Cadenze Orfiche”, “Rina e Virgilio”, “Materiali”, “Siparietto”), si alternano pezzi della tradizione (“Carpinese”), brani del pop italiano (“Le Mille bolle blu”) e della canzone napoletana (“Tu ca nun chiagne”, “Tammurriata Nera”), nonché standard internazionali (“Yesterdays”, “In your Own Sweet Way”) e un pezzo (“La Suave Melodia”) del compositore barocco Andrea Falconieri (1585-1656). Il tutto trattato con grande delicatezza, dolcezza, ad evidenziare sempre la linea melodica della composizione ed è lo stesso Trovesi a sottolineare questo aspetto quando afferma che “per me molti di questi brani sono come delle serenate”. Serenate eseguite con trasporto, senza alcun timore di evidenziare quel coté lirico cui si faceva riferimento in apertura. Ma, ovviamente, non è il solo Trovesi a seguire questa linea: si ascolti, ad esempio, con quanta modernità espressiva la chitarra di Manzolini dialoga con i fiati del leader che in questo album predilige, comunque il sax contralto. Per non parlare della sezione ritmica che asseconda alla perfezione le idee del leader quando affronta, in modo originale, sia grandi classici del jazz sia brani pop ben noti come “Le mille bolle blu”.

Gaetano Valli – “Thirty Years” – artesuono 139

Quello di Chet Baker è davvero un caso unico nel pur variegato panorama del jazz internazionale. Nonostante per buona parte della sua vita artistica Chet sia stato afflitto da numerosi problemi che lo hanno portato, tra l’altro, a doversi reinventare un modo di suonare la tromba, non conosciamo un solo jazzista che non adori Baker, non abbiamo incontrato un solo musicista che non ci abbia parlato in termini entusiastici del trombettista di Yale; di qui una serie di tributi, di omaggi a lui rivolti con sincera partecipazione. In questo clima si inserisce l’album in oggetto che vuole essere un ricordo di Chet a trent’anni dalla sua scomparsa avvenuta il 13 maggio del 1988. Il progetto è del chitarrista Gaetano Valli che ha chiamato accanto a sé il trombettista Fulvio Sigurtà e il contrabbassista Riccardo Fioravanti. Quindi un trio senza batteria, senza cioè quello strumento con cui Baker incontrava spesso problemi di sintonia. Valli è da sempre un profondo estimatore di Baker tanto da dedicargli già nel 1998 un lavoro intitolato “Tre per Chet”, pubblicato dalla Splasc(h) records, con Mario Brioschi alla tromba e ancora Riccardo Fioravanti al contrabbasso. Adesso Valli ritorna sull’argomento con un repertorio che tende in qualche modo a legare il Chet delle origini con il Chet degli ultimi tempi quando il tasso tecnico era inferiore ma quello poetico superiore. Così accanto a “Bea’s Flat” scritto da Russ Freeman all’inizio degli anni’50 e all’inedito dello stesso Valli “Thirty Years” caratterizzati da notevoli difficoltà esecutive, ascoltiamo altri brani in cui la tecnica è ridimensionata a tutto vantaggio dell’espressività quali, tanto per citare qualche titolo, “My Funny Valentine”, “I remember You, “Beatiful Black Eyes”. Ciò detto, occorre sottolineare come l’album sia eccellente: assolutamente pertinenti i brani scritti da Valle per l’occasione che si conferma altresì chitarrista dal tocco morbido, dal linguaggio personale e soprattutto dal gusto delicato; perfetto il modo in cui Sigurtà interpreta questi brani nel segno di Chet; notevole come sempre l’apporto di Fioravanti che si è caricato il peso dell’intera sezione ritmica non disdegnando di uscire in assolo di assoluta compiutezza.

Antonio Zambrini – “Pinocchio e altri racconti” – abeat 183

Se l’intelligenza di un leader si valuta anche sulla base di come sceglie i compagni di viaggio, allora non c’è dubbio sulle qualità non solo artistiche di Antonio Zambrini. Il pianista, per questa sua nuova fatica discografica, ha richiamato accanto a sé due giganti dei rispettivi strumenti, vale a dire i danesi Jesper Bodilsen al basso e Martin Andersen alla batteria con cui collabora già da qualche tempo. A ciò si aggiunge la felice scelta del repertorio: un omaggio a Fiorenzo Carpi il quale è stato uno dei più grandi rappresentanti della scuola melodica italiana unitamente a Ennio Morricone, Piero Piccioni, Nino Rota… tanto per citare qualche nome. Il disco è intitolato a Pinocchio ed in effetti vi si possono ascoltare tre brani tratti dallo sceneggiato televisivo del 1972 diretto da Luigi Comencini, cui si aggiungono altri cinque brani sempre di Carpi e un originale di Zambrini, “Giovedì”, che, come spiega lo stesso leader, appartiene alla sua lunga collaborazione con “Cineteca Italiana di Milano”. Tracciate le linee programmatiche entro cui si inscrive l’album, occorre sottolineare come le interpretazioni del trio siano del tutto coerenti con l’assunto. La musica scorre fluida evidenziando, di volta in volta, le varie caratteristiche che si ritrovano nella produzione di Rota, vale a dire il suono mediterraneo chiaramente riscontrabile, ad esempio, in molti brani di Pinocchio, le influenze di un certo rock inglese… fino a toccare la musica brasiliana in “Notte italiana” in cui lo stesso Zambrini dichiara di aver adottato lo stile “Choro”. Insomma un album in cui la pagina scritta si equilibra assai bene con l’improvvisazione cui si abbandona Zambrini che conferma il suo stile sobrio, elegante con una costante attenzione alla timbrica e alla dinamica, in ciò perfettamente coadiuvato da una sezione ritmica che dimostra di aver ben assorbito la lezione di altre storiche formazioni come lo E.S.T. trio di Esbjörn Svensson di cui ci siamo in precedenza occupati.

Enrico Zanisi – “Blend Pages” – Cam Jazz7928-2

E’ una musica particolare quella che Enrico Zanisi ci propone in questo album, una musica dal sapore «cameristico» che assume comunque connotazioni differenziate. Così, ad esempio, in apertura il pianismo di Zanisi appare crepuscolare, quasi impressionistico in alcuni passaggi, per poi virare, decisamente, sempre nel corso dello stesso primo brano, verso territori più vicini alla musica colta contemporanea. E questa sorta di duplicità si avverte lungo tutto l’album senza che lo stesso perda in omogeneità. D’altro canto la stessa strutturazione dell’organico è del tutto coerente a quanto sin qui esposto: pianoforte, clarinetto (nella collaudate mani di Gabriele Mirabassi), percussioni e live electronics (affidate al ‘poeta’ Michele Rabbia) cui si aggiunge un classico quartetto d’archi francese, “Quatuor IXI”, formato da Régis Huby (violino), Clément Janinet, (violino), Guillaume Roy (viola) e Atsushi Sakaï (violoncello) costituiscono un ensemble ben attrezzato per navigare in acque difficili come quelle che lambiscono la musica moderna. Ora, se la cosa non stupisce con riguardo sia a Mirabassi sia a Rabbia, rappresenta viceversa una piacevole novità per il pianista che, giunto al suo quinto album, dimostra con queste incisioni di aver raggiunto una sua specificità, una ben precisa consapevolezza delle proprie possibilità…insomma di potersi considerare non più una promessa quanto una delle più belle realtà del panorama jazzistico nazionale. In effetti nei nove brani, tutti di sua composizione, Zanisi da un canto conserva sempre una certa struttura di sapore classicheggiante, dall’altro lascia ampi spazi per le improvvisazioni dei compagni d’avventura, spazi come potrete ben immaginare magistralmente occupati sia dallo stesso Zanisi con il suo incedere elegante sia da Mirabassi, superlativo come sempre.

Intervista con il chitarrista siciliano Gaetano Valli

Gaetano Valli, siciliano di Palermo classe 1958, ma “emigrato” a Udine sin da bambino, è chitarrista dotato di squisita sensibilità e persona di grande cortesia e delicatezza. Autodidatta al 100%, come lui stesso ama definirsi, ha sviluppato nel tempo uno stile personale la cui cifra stilistica è caratterizzata dal gusto per le belle melodie e dalla raffinatezza armonica.

Lo abbiamo intervistato all’indomani del concerto tenuto questa estate a “Udin&Jazz” dove ha riproposto, con una diversa formazione, i contenuti della sua ultima produzione discografica, “Hallways”, registrata nell’ottobre del 2016 con Sandro Gibellini e Fulvio Vardabasso alle chitarre, Giovanni Mazzarino al pianoforte, Flavio Davanzo alla tromba, Alessandro Turchet al contrabbasso e Aljosa Jeric alla batteria.

 – Parliamo dal concerto di ieri. Il tuo progetto prevedeva tre chitarre e poi, invece, ti sei trovato a dover fronteggiare i forfait degli altri due chitarristi, Sandro Gibellini e Fulvio Vardabasso. Cosa ti sei inventato?

“Come si dice ho dovuto fare di necessità virtù, ma questo nel jazz ci sta. Abbiamo rivisto alcuni arrangiamenti, Flavio Davanzo, il trombettista, si è reso disponibile a studiare le parti che normalmente vengono suonate dalle chitarre, ho eliminato una voce perché ci sono brani a tre voci, a tre chitarre… comunque, tutto sommato, il risultato è stato buono. Poi mi è venuta questa idea, all’ultimo istante, sapendo che la compagna del contrabbassista è una brava musicista che suona anche l’ukulele, di inserirla in organico per il brano “Calypso” ed è stato un momento che mi è piaciuto parecchio e che è stato apprezzato anche dal pubblico… anche perché, pur muovendomi nell’ambito del jazz, io cerco sempre la risposta del pubblico. Quando capisco – com’era la situazione di ieri – che c’è una platea molto varia, non mi piace propormi con una musica che in qualche modo non si collega con essa… “Calypso” è un brano molto leggero, privo di dissonanze, che fluisce abbastanza bene e l’inserimento dell’ukulele, ripeto, mi è piaciuto molto, anzi c’è il rammarico di non averci pensato in fase di registrazione. Però, un domani, chi lo sa!”

– Vogliamo ricordare il nome della musicista?

“Certo: Marinella Pavan. Lei all’inizio non voleva, è molto timida, viene dal classico, poi mi ha mandato una prova registrata sul telefonino e allora ho insistito parecchio e alla fine ce l’ho fatta”.

– Per quanto concerne il pubblico ti assicuro che se non si fosse saputo che il progetto era per tre chitarre, nessuno avrebbe avuto alcunché da ridire…insomma la performance è piaciuta… e parecchio anche!

“Come ti ho detto, ho cercato di riadattare le cose e quando uno studia un brano ad esempio a tre voci, se ne salta una non è che crolli l’impianto complessivo. Comunque la sonorità della tromba è tale per cui la voce principale diventa determinante e la voce della chitarra è sempre relativamente debole rispetto alla tromba, quindi quello che in origine era un ensemble è diventato un quartetto e la cosa ha funzionato. Ciò anche perché con questa ritmica ho una frequentazione che dura oramai da molti anni: con Aljoša, musicista sloveno, ho fatto gli ultimi quattro dischi; con Alessandro siamo già al terzo disco ed è una vera e propria garanzia: oltre a saper suonare lo strumento, ha una memoria di ferro… controlla… è un regista. E questa è una cosa strana: spesso il contrabbassista, anche se non è il leader, si accolla il compito di controllare, quasi di guidare il tutto. Per me, quindi, è una sicurezza: quando ho qualche dubbio, lo guardo e lui mi mette in riga”.

– Da cosa nasce questo omaggio a Jim Hall?

“Il tutto è nato da un fatto casuale: ci siam trovati io e Fulvio Vardabasso, che è un chitarrista triestino, e nel suonare ci siamo resi conto che, in modo spontaneo, quando ci chiedevamo cosa suonare, la scelta cadeva quasi sempre su pezzi di Jim Hall e quindi ci siamo accorti di avere questa passione in comune. Di qui la volontà di realizzare questo tributo; contemporaneamente abbiamo pensato che sarebbe stato bello introdurre una terza chitarra e così è venuto fuori anche il nome di Sandro Gibellini che conosco da vecchia data, da quando frequentavo i suoi corsi e che ritengo uno dei musicisti più indicati ad interpretare la musica di Jim Hall. Strada facendo abbiamo impostato il lavoro su pezzi di Hall cui ho aggiunto dei pezzi scritti da me pensando non tanto al suo stile e al suo modo di suonare ma alle sue condizioni del suonare, vale a dire alle diverse formazioni con cui il chitarrista si è trovato a lavorare: “Hallways” significa proprio questo, le vie di Hall, i modi di Hall e quindi nel disco si trova un duo (chitarra e contrabbasso secondo la formula Ron Carter-Jim Hall), si trova il quintetto di “Interplay” (l’album di Bill Evans con Jim Hall, Freddie Hubbard, Percy Heath e Philly Joe Jones ndr) e al riguardo ho scritto “Inter Nos” che in qualche modo segue la logica strutturale del brano che dà il titolo all’album, con questo inizio con le linee di basso e chitarra insieme, poi l’aggiunta del pianoforte, quella della  tromba… insomma questo ri-percorrere quelle che sono state le sue intuizioni compositive (lui era sì un grande chitarrista ma forse anche, se non soprattutto, un grande progettista, organizzatore, una mente razionale pazzesca) e mi viene sempre in mente il fatidico confronto con un altro grande della chitarra, Wes Montgomery. Io adoro Wes Montgomery come adoro Jim Hall ma approcciano la musica in modo totalmente diverso: l’uno – Wes – spontaneo, quasi animalesco, l’altro – Hall – razionale, preciso, da ingegnere; quindi se Montgomery è inimitabile, Hall diventa una guida. In effetti una idea originaria di titolo del disco era “Il nostro guru” “Our Guru” ma non suonava bene e così è stata bocciata ma questa è la sostanza: Jim Hall è un guru, qualcuno da seguire. Tornando al disco ho scritto anche “Three Brothers” che richiama il lavoro del trio di Jim Hall con Jimmy Giuffre; c’è poi anche il duo piano-chitarra (“Skating in Central Park”, registrato da Bill Evans e Jim Hall nel 1962 ndr)… Insomma, ho voluto impostare il lavoro non su un fatto stilistico, sull’emulazione del musicista ma su un fatto organizzativo dal punto di vista degli arrangiamenti, delle formazioni”.

– Naturalmente stiamo parlando del tuo ultimo disco che si chiama “Hallways” uscito di recente per i tipi della Jazzy Records. Vogliamo citare gli altri musicisti presenti nel cd?

“Certo; ci sono Sandro Gibellini alla chitarra semi-acustica, Giovanni Mazzarino al pianoforte, Fulvio Vardabasso alla chitarra semi-acustica, Flavio Davanzo alla tromba, Alessandro Turchet al contrabbasso e Aljoša Jerič alla batteria. Io quando suonano gli altri chitarristi, suono la chitarra classica per dare al tutto una sonorità particolare”.

– Hai già avuto qualche riscontro rispetto a questo album?

“Ancora è troppo presto dal momento che il cd è uscito da appena una settimana. Comunque quanti l’hanno ascoltato – amici, parenti, altri musicisti – hanno espresso un giudizio favorevole… e spero che la cosa continui”.

– Adesso parliamo più propriamente di Valli. Ecco, come nasce il Valli musicista?

“Come accade spesso, il Valli musicista nasce grazie ai genitori che gli fanno trovare una casa piena di strumenti – soprattutto da parte di madre – mia mamma suonava il violino e la sua famiglia è stata sempre molto attaccata alla musica. Non a caso mio nonno, mio zio, mia zia, tutti suonavano qualcosa… poi il mio carattere, assolutamente lontano dallo sport e da qualsiasi attività dinamica… ed eccomi pronto ad abbracciare uno strumento. Prima il pianoforte, che però voleva dire studiare sodo, teoria, solfeggio… forse un po’ troppo per il sottoscritto, anche perché voleva dire soprattutto essere ascoltato molto, troppo, in casa. Così sono passato alla chitarra che è uno strumento intimo, ti permette di isolarti… ricordo che l’ho trovata a casa, una Bagnini comprata per corrispondenza… ho cominciato con quella, poi ho cambiato varie chitarre e ho iniziato a suonare, come molti chitarristi, dalla musica rock”.

– E l’incontro con il jazz?

“E’ avvenuto in modo direi naturale. Si cresce, si fanno esperienze ed io mi sono avvicinato al jazz grazie alla fusion. Così sono passato da Battisti a Pino Daniele che è stato il mio colpo di fulmine portandomi ad un certo tipo di raffinatezza, di ricercatezza armonica, quindi George Benson approdando poco dopo al jazz vero e proprio”.

-Che tu identifichi con…?

Miles Davis, John Coltrane, Chet Baker e insomma tutti i grossi nomi che ben conosciamo. Tornando alla mia formazione, ho frequentato i seminari di Perugia, di Siena e poi ho incontrato Sandro Gibellini ai seminari veneziani del Suono Improvviso e da lì sono andato avanti. Insomma sono un autodidatta al 100% però qualche cosetta l’ho studiata, l’ho appresa dai seminari e soprattutto dalla necessità di insegnare perché ad un certo punto mi hanno detto: “vieni ad insegnare nella scuola nostra” e io, preso dal panico (allora lavoravo come progettista e ricordo che avevo sempre sotto mano il libro di teoria musicale) cominciai a studiare seriamente, preparavo le lezioni per la scuola e in qualche modo questa è stata la mia fortuna”.

– A quando risale il tuo primo disco?

“Siamo nel 1996, “Paludi” era il titolo dell’album che era un gioco di parole tra Palermo e Udine”.

– E già perché tu sei nato a Palermo e poi trasferito a Udine

“Esatto. Sto a Udine dal ‘65 … una vita. Mi sono trasferito a seguito della famiglia: i miei genitori, tutti e due insegnanti, hanno avuto una cattedra da questa parti e così eccomi qui… comunque devo dire che mi trovo molto, molto bene. Non è piacevole da dire ma è la verità: qui si vive bene perché c’è un clima molto produttivo, le cose funzionano… in Sicilia funzionano meno”.

– No, non funzionano…

“Ecco, l’hai detto tu. A me piace andare in Sicilia per prendere il meglio, cioè il cibo, il mare, il sole… amici, parenti e ovviamente la musica. In Sicilia c’è tanta buona musica. Ultimamente ho scoperto tutta la parte di Ragusa, Siracusa fino a Catania, vi ho suonato parecchie volte…”.

– Questo immergerti nella musica, come e quanto ha influito sul tuo sviluppo come uomo?

“E’ stato fondamentale. Oggi senza musica non riuscirei a vivere. Io non faccio solo il musicista perché è veramente difficile campare con il jazz, anche se devo dire che non ho molto forzato su questo versante perché ho un carattere piuttosto schivo e non mi piace mettermi in mostra, chiedere favori… insomma, propormi a manager e organizzatori… e poi non riuscirei a vivere la vita del musicista al 100%. Per fortuna i miei genitori mi hanno costretto a prendere una laurea, in architettura, e questo mi ha fatto bene perché si tratta sempre di un lavoro creativo – adesso faccio il designer e quando progetto, lo stereo è sempre acceso -. Insomma, l’ascolto mi accompagna sempre e mi predispone bene al lavoro che faccio”.

– Che tipo di jazz ascolti?

“Io sono appassionato di canzoni per cui ascolto molte cantanti e lavoro tanto con le cantanti: da molti anni ho parecchi duo con cantanti proprio perché mi piace lavorare sulle canzoni”.

– Qualche nome?

“Prima di tutte Lorena Favot con la quale di recente ho fatto un disco che si chiama “Acustikè” assieme ad Alessandro Turchet (contrabbasso), Luca Colussi (batteria, percussioni) e Gianpaolo Rinaldi (pianoforte). Poi, anche per questioni logistiche, molto spesso lavoro con cantanti della zona come Michela Grena, cantante pordenonese caratterizzata da una voce molto black, con Elsa Martin, Letizia Felluga, Valentina Gramazio ma anche con cantanti maschi. Mi piace ricordare Giuseppe Bellanca, talentuoso tenore (canta alla Scala di Milano) che canta benissimo il jazz ed è divino nello scat. Vorrei anche ricordare che con me ha cantato una giovanissima Elisa, ora regina del pop. Pensa che suonavamo gli standard! Era una bravissima interprete di jazz. Peccato che abbia scelto un’altra strada… Il jazz in Italia ha perso una grande vocalist.

– Tra le cantanti estere c’è qualcuna che prediligi?

“A me piace molto una cantante che si chiama Robin McKelle che però nessuno conosce e non riesco proprio a capire perché: ha una voce splendida, forse l’ultimo album potrebbe essere discutibile da parte dei jazzofili perché ha fatto un lavoro molto R&B, ma l’impronta sua di jazzista puro sangue si sente ben precisa. Comunque di cantanti brave ce ne sono moltissime. A me piacciono in particolare quelle che interpretano gli standard… e poi ci sono le grandi del passato che mai passano di moda come Ella Fitzgerald (di cui ascolto particolarmente i lavori fatti in duo ad esempio con Joe Pass)”.

– Non credi che questo voler per forza etichettare la musica – questo è jazz, questo è R&B – sia oramai superato in qualche modo?

“La risposta da parte dei critici e di buona parte dei musicisti è scontata: non credo nelle distinzioni, non credo nelle etichette e via di questo passo… personalmente penso che le etichette servono ai venditori di dischi per incasellare gli album in determinati scaffali”.

– Questo è vero ma è altresì vero che le differenze tra jazz e canzoni pop esiste ed è ben individuabile.

“Fino a un certo punto. Mi viene in mente il lavoro che stanno facendo cantanti famosi della musica leggera come Gino Paoli e Massimo Ranieri che si sono affidati a jazzisti come Danilo Rea, Rava, Fioravanti, Bagnoli e tanti altri. Io li ascolto con interesse, anche se cantano sempre in maniera tradizionale senza usare una pronuncia e un linguaggio jazzistici… ma rimane sempre una parte, che è quella strumentale, in cui il jazz è ben presente”.

– A mio parere quando si fanno lavori del genere o le due parti si integrano o l’esperimento non ha molto senso…

“Sono perfettamente d’accordo. Non bisognerebbe percepire uno scollamento tra chi canta e chi lo accompagna. D’altra parte è lodevole; è bello che certi personaggi cerchino di incontrarsi con una certa qualità. E’ sempre una buona promozione che si fa al jazz. Può succedere addirittura il contrario. Ci sono dei cantanti che hanno uno stile jazzistico e che tuttavia si fanno accompagnare da gruppi pop… penso a Mario Biondi che ogni sera fa le stesse cose, tutto secondo copione. Ecco questa per me è la fine della musica. Io ho smesso di suonare musica leggera perché fare ogni sera le stesse cose è per me impensabile. Mi viene in mente Chet Baker: quante volte ha suonato “My Funny Valentine”? Ti sfido a trovare due esecuzioni uguali. Ecco questa secondo me è la musica. E penso a Bach, a questo grande artista che sicuramente mentre suonava improvvisava, componeva in quel momento. Tutto ciò mi fa pensare con un po’ di tristezza ai musicisti “classici”, i quali sono sempre legati al pezzo di carta; ho incontrato dei musicisti che mi chiedevano:“ma tu come fai? Dove hai la parte?”. Mi ricordo che da ragazzino ho trascritto il “Bourrée” di Segovia, l’ho imparato a memoria, l’ho fatto sentire ad un pianista classico il quale mi ha detto: “bellissimo questo pezzo, dammi la parte che devo assolutamente impararlo”. Tornando alla tua considerazione, se qualche cantante pop vuol fare degli esperimenti con jazzisti e la cosa non riesce vuol dire semplicemente che la musica non è bella, non è valida”.

(ph: Marco Ambrosi, courtesy Jazzy Records)

– Oltre a Jim Hall e Wes Montgomery, c’è qualche altro chitarrista cui ti sei ispirato nel corso della tua carriera?

“Il primo che ho già menzionato e che mi fatto amare il jazz è stato George Benson, un colosso che ancora oggi continua a stupirmi. Come ti dicevo sono passato attraverso la fusion ma oggi non riuscirei più ad ascoltare quella musica. Così sono andato a scoprire i ‘vecchi’ e ho incontrato Barney Kessel e poi tutta una serie… Jimmy Raney… poi sono andato ai moderni anche se mi piacciono i moderni che suonano tradizionale come Anthony Wilson, figlio del grande Gerald Wilson e a lungo collaboratore di Diana Krall, l’olandese Jesse Van Ruller; poi, avendo lavorato a lungo per la rivista “Axe”, sono entrato in contatto con molti chitarristi come Larry Koonse, Peter Bernstein, Julian Lage, Gilad Hekselman, Jonathan Kreisberg e poi con gli italiani Fabio Zeppetella, Sandro Gibellini, Roberto Cecchetto, Umberto Fiorentino e tanti, tanti altri… Comunque mi piace molto suonare sulle armonie. L’unico jazz che non ascolto è il free jazz perché credo sia più interessante suonarlo che ascoltarlo”.

– Tra i tanti musicisti che hai frequentato, ce n’è qualcuno che ti ha lasciato un ricordo indelebile?

“Peter Bernstein è sicuramente uno di quelli che mi hanno particolarmente impressionato sia come persona sia come musicista. Poi, oltre ai già citati Sandro Gibellini e Giovanni Mazzarino, devo ricordare i musicisti della zona con cui ho lavorato e con cui ancora oggi continuo a collaborare come Bruno Cesselli, Nevio Zaninotto, Francesco Bearzatti, U.T.Gandhi, Piero Cozzi, Giovanni Maier e tanti, tanti altri… Riccardo Fioravanti con cui ho fatto un disco che è stato molto apprezzato dalla critica, “Tre per Chet” per la Splasc(H), che nel 1998 ho dedicato a Chet per il decennale della sua scomparsa, con Marco Brioschi, trombettista favoloso che non riesco a capire come mai non sia ancora emerso nel modo giusto dato che è, a mio avviso, il più “bakeriano” che ci sia oggi in Italia. Adesso sto preparando qualcosa per il 2018 e lavorerò ancora con Riccardo e Fulvio Sigurtà”.

– Qual è, tra i dischi da te incisi, quello cui sei più affezionato?

“Direi “Suoni e luoghi” un disco che considero ben equilibrato, molto vario, forse quello che meglio potrebbe riassumere la mia personalità”.

– Con chi l’hai inciso?

“Con “Artesuono” di Stefano Amerio. E Stefano è un’altra figura che mi fa piacere citare in quanto, oltre alle sue innumerevoli qualità che tutti gli riconoscono, personalmente devo dire che mi ha permesso di lavorare bene. Io lo conosco da tanti anni… avevamo aperto una scuola e l’ho coinvolto assieme ai musicisti locali più rappresentativi come Glauco Venier, Zaninotto, Gandhi, Giovanni Maier… e quella volta ho pensato “perché non inserire anche un corso per fonici?”. Così ho chiamato Stefano… lui allora faceva musica leggera, disco-music, tant’è che anch’io, lavorando con lui, facevo album di quel genere sotto lo pseudonimo di Gae Valley. Insomma, per fartela breve, qui in Friuli, nonostante se ne parli poco, c’è comunque un eco-sistema musicale che funziona abbastanza bene”.

– Ecco, come ti spieghi il fatto che qui in Friuli ci siano un sacco di talenti jazzistici che riguardano tutti gli strumenti e un po’ tutti gli stili?

“La musica si sposa molto bene con il carattere solitario e un po’ da orsi dei friulani; noi essere umani abbiamo comunque il bisogno di sfogare il nostro bisogno di espressione e i friulani si esprimono bene attraverso la musica anche perché questa ha bisogno di solitudine, di relax per concentrarsi, per prepararsi. Forse difetta un po’ la coralità: quando si fanno i gruppi, la cosa difficile qui è far stare insieme le persone. Poi, però, quando riesci ad ottenere un buon rapporto con gli altri, i risultati si vedono: c’è dedizione, c’è serietà… poi vedo molto bene i giovani che sono venuti fuori… tanta qualità. In fin dei conti credo che noi vecchietti si sia fatto un buon lavoro di semina di cui ora si raccolgono i frutti”.

(ph: Marco Ambrosi, courtesy Jazzy Records)

– Qualche nome?

“E’ difficile… non vorrei dimenticare per strada qualcuno, ce ne sono veramente tanti. Molti di loro li ho sentiti ma non ti saprei dire il loro nome. Comunque tra i nomi che ricordo bene ci sono Gianpaolo Rinaldi e Emanuele Filippi come pianisti, Marco D’Orlando come batterista… lo stesso Alessandro Turchet, poi Letizia Felluga e Chiara Di Gleria come cantanti e per finire ci sono una sacco di bravi giovani sassofonisti e trombettisti nati nelle bande di paese e poi confluiti nelle classi dei conservatori di jazz di Udine e Trieste”.

Gerlando Gatto

Per le immagini, si ringraziano: Luca A. d’Agostino / Phocus Agency per gli scatti di Udin&Jazz 2017 e Marco Ambrosi e Jazzy Records

 

 

“Occhi Negli Occhi” il nuovo cd di Francesca Elena Monte – Un omaggio a Chico Buarque

“Occhi negli Occhi – Un Omaggio a Chico Buarque” è il nuovo CD della cantante piemontese Francesca Elena Monte, realizzato al fianco di Roberto Taufic, chitarrista e arrangiatore di fama internazionale e con la partecipazione di Riccardo Fioravanti al contrabbasso.

Appassionata di musica popolare brasiliana e bossa nova, già nel 2013 aveva dedicato un intero album a Vinicius De Moraes, intitolato “Saravà, Vinicius!”. L’idea di un progetto su Chico Buarque De Hollanda, esponente della cultura brasiliana, è stata una naturale tappa del percorso di ricerca che Francesca Elena Monte sta portando avanti con sensibilità ed entusiasmo. Affascinata dalla figura del musicista e poeta straordinario brasiliano, ed incuriosita dalle melodie imprevedibili e dalle armonie coinvolgenti, Francesca Elena Monte ha ritrovato in questa musica popolare, al tempo stesso colta e profonda,  influenze di musica classica, di jazz, unite alle radici africane; ha riscoperto testi profondi e “interi universi di sentimenti e vita vissuta nello spazio di due strofe e un ritornello” e ha messo al servizio la sua voce in questo album che la vede interprete e studiosa esemplare.

Un progetto ambizioso in cui la cantante ha selezionato alcune delle perle più belle del vasto canzoniere di Chico Buarque: da “Joana Francesa” a “Apesar de você”, da “A banda” alla splendida “Trocando em miúdos”, dal medley “O meu amor- Teresinha” a “Atràs da porta”; ha curato personalmente la traduzione di alcuni brani dal portoghese all’italiano, ottenendo l’approvazione dello stesso Chico Buarque: Tatuaggio (Tatuagem), Passerà (Vai passar) e Occhi negli occhi (Olhos nos olhos). Proprio da “Occhi negli Occhi”, title track dell’album – che vede la partecipazione speciale di Riccardo Fioravanti al contrabbasso – comincia la genesi di questo album, da una rinascita: “Un giorno ci ritroveremo a guardare negli occhi chi ci ha fatto piangere e sentiremo con un brivido di orgoglio che siamo andati oltre e che tutto quel dolore non esiste più”. Nell’album ci sono anche alcune canzoni conosciutissime in Italia, perché portate al successo già negli anni ’60 da cantanti straordinarie del calibro di Mina e Ornella Vanoni, su testi dell’indimenticato Sergio Bardotti: “Far niente” (famosa sigla della trasmissione Un “Pomeriggio con Mina” del 1968) e “Costruzione”, versioni italiane di “Bom tempo” e “Constução”. (altro…)

Andrea Pozza in tour con Bobby Watson

Andrea Pozza pianista genovese, riconosciuto dalla critica e dal pubblico come una delle personalità più rappresentative in ambito jazz attualmente in circolazione, sarà in tour con Bobby Watson, leggenda vivente del jazz americano, per tre appuntamenti che toccheranno Modena, giovedì 14 luglio, in occasione del Jazz Festival (Piazza XX Settembre, ore 21.00), in quartetto con Riccardo Fioravanti al contrabbasso e Matteo Rebulla alla batteria; Arese, in occasione della rassegna “La Piazza in Jazz” organizzata dal Bollate Jazz Meeting, venerdì 15 luglio, sempre in quartetto; e Comacchio, in duo, ai Lidi di Ferrara, in occasione delle Conversazioni Musicali, Bar Ragno, sabato 16 luglio.

Il pianismo di Pozza è caratterizzato da uno stile elegante, attento ai colori, alle sfumature, in perfetto equilibrio fra la solidità di un impianto formale di stampo europeo e l’inventiva fresca e ammaliante di un sound oltre oceanico. Andrea Pozza ha una solida carriera nazionale ed internazionale che lo ha visto protagonista in Estremo Oriente, in America ed in Europa. Musicista eclettico capace di affrontare con grande disinvoltura qualsiasi repertorio, è sia leader carismatico sia partner ideale per grandi artisti che trovano in lui empatia e innato interplay. Andrea Pozza è inoltre protagonista di numerosi progetti discografici a suo nome. L’album più recente in trio si intitola “Siciliana” ed è realizzato con Andrew Cleyndert al contrabbasso e Mark Taylor alla batteria, per l’etichetta inglese Trio Records (2016) ed è un omaggio ai grandi pianisti-compositori che hanno segnato in maniera indelebile la storia della musica, da Bach a Chick Corea. Composto da undici tracce tra nuove composizioni dello stesso Andrea Pozza, “Siciliana” comprende brani tratti dai più diversi repertori, dalla musica classica al pop, dalla bossa nova a, naturalmente, l’immenso song book degli standard jazz.

Per più di tre decenni Watson ha contribuito, con la sua sensibilità ed intelligenza, a ridefinire il nuovo e moderno lessico jazz. Con il suo immenso talento è oggi considerato un vero e proprio veterano, Watson ha pubblicato circa 30 registrazioni come leader e oltre 100 in qualità di co-leader o guest di altri musicisti. Non semplicemente un esecutore, ma anche un fervido compositore di oltre un centinaio di composizioni originali tra cui la musica per la colonna sonora di “Bronx”, film che segna l’esordio da regista di Robert De Niro (1993). Numerose composizioni di Watson sono diventate classici come il suo “Time Will Tell”, “In Case You Missed It” e “Wheel within a Wheel” che vengono interpretate da numerosi musicisti sui palchi in ogni parte del mondo. (altro…)

Il jazz italiano tra piccoli gruppi e grandi organici

a proposito di jazz - i nostri cd

Acoustic Time – “Acoustic Time” – Audio Records

acousticbAlbum di grande raffinatezza questo del trio Acoustic Time ovvero Antonella Vitale alla voce, Roberto Genovesi alla chitarra e Karl Potter alle percussioni con l’aggiunta, quale special guest, di Ruggero Artale al djembé e dun dun; ma allo stesso tempo album “prezioso” in quanto raccoglie le ultime registrazioni di Karl Potter che sarebbe morto pochi mesi più tardi di queste incisioni nel gennaio del 2013. Ma questo genere di emozione per nulla influisce sulla valutazione dell’album che, come accennavamo, si raccomanda per i suoi contenuti prettamente musicali. In possesso di una voce calda, suadente, Antonella Vitale sciorina le sua armi migliori nella presentazione di 14 brani attraverso cui ha inteso sganciarsi dal jazz, per sperimentare qualcosa di nuovo e diverso dai suoi precedenti lavori. “Interpretare canzoni degli Earth wind & Fire, o degli Eagles e poi brani come Barco Abandonado di Ennio Morricone – spiega la stessa vocalist – ha rappresentato una ricerca personale da un punto di vista tecnico vocale”. Ricerca che ha raggiunto ottimi risultati: l’atmosfera generale dell’album è gradevole dal primo all’ultimo istante, con la Vitale tutta tesa a comunicare il proprio mondo emozionale ben sostenuta dal ritmo incalzante seppure mai invadente di chitarra e percussioni. Così , ad esempio, si ascolta una versione straniante ma di grande interesse di “Stranger in Paradise” hit di molti anni fa, seguito subito dopo da “Choro pro zè” di Guinga, personaggio tra i più significativi dell’odierna musica brasiliana. E così di successo in successo, in una cavalcata attraverso la musica degli anni ’80, cavalcata interrotta solo da tre brani dovuti alla penna dei quattro protagonisti: “Andeja”  (K. Potter – R. Genovesi – A. Vitale) , “Libero” (R. Genovesi) e  “Ghirinbaduè” (R. Artale – R. Genovesi) .

Theo Allegretti – “Memorie del Principio” – Dodicilune 353

Ecco un album cui non fa certo difetto l’ambizione: rappresentare in musica un viaggio lungo un percorso che attraversa idealmente i primordi del pensiero filosofico. Di qui i titoli dei brani, sette dei quali richiamano apertamente antichi filosofi quali Talete, Anassimandro, Senofane, Eraclito, Parmenide, Anassagora, Democrito. In apertura e in chiusura altri due brani, il primo, “Verso Mileto”, introduce Talete, mentre l’altro, “Il Caos vi era…”, rappresenta il pensiero mitologico ed è dedicato ad Orfeo. Per meglio seguire il percorso tracciato, il libretto riporta alcuni passi degli scritti che hanno ispirato la musica. Tutto ciò potrebbe apparire quanto mai macchinoso ove non si consideri che inizialmente si trattava di uno spettacolo di teatro-musica, un reading di musica d’atmosfera con testi di poesia e prosa degli albori del pensiero filosofico. I materiali sono stati poi sintetizzati nei nove brani confluiti nel cd. Responsabile del progetto, in piano-solo, Theo Allegretti, artista a 360 gradi che si va sempre più affermando per ora in ambito nazionale. Francamente ascoltando solo la musica, si fatica a collegarla ai filosofi di cui sopra; ciò non toglie, comunque, che l’album abbia una sua valenza grazie alla statura artistica di Allegretti. Nella duplice dimensione di pianista e compositore Theo è riuscito ad elaborare uno stile personale in cui confluiscono input provenienti da generi diversi quali il jazz, il folk, la classica con alcuni accenni – nell’album in oggetto – a stilemi della musica greca antica. Di qui un pianismo di forte suggestione e a tratti chiaramente evocativo (si ascolti al riguardo come il brano d’apertura introduca alla perfezione il clima che caratterizzerà l’intero CD).

Banda del Bukò – “Rosmarinus” – Riverberi

rosmarinusChi segue “A proposito di jazz” sa bene quanto non amiamo gli album a soggetto preferendo soffermarci sulla qualità della musica piuttosto che sull’idea che la sottende. Ma, more solito, ogni regola soffre la sua brava eccezione è questo è proprio uno di questi casi ché il progetto, pensato e realizzato nel beneventano, è davvero meritevole di nota. In breve il tentativo – ben riuscito – è stato quello di costituire un ensemble “aperto” in cui potessero confluire tutti coloro che avessero voglia di fare musica; di qui una Band in cui assoluti principianti si sono trovati accanto a veri e propri professionisti tra i quali, tanto per fare un solo nome, Luca Aquino. Il trombettista ha preso così a cuore il progetto da partecipare attivamente alla produzione di questo primo album presentato in occasione della serata inaugurale del festival beneventano “Riverberi” dello scorso anno. Indicativo anche il titolo: “Rosmarinus” , pianta simbolicamente accostata a molte tradizioni e leggende, nel caso specifico rappresenta i sentimenti, le emozioni che hanno caratterizzato un anno e mezzo di vita della Banda ed è dedicato ad Emanuele Viceré, uno dei fondatori del gruppo, scomparso prematuramente. Dal punto di vista squisitamente musicale, l’album si fa ascoltare per la varietà dei temi proposti: otto tracce di cui sei pezzi tradizionali, caratterizzati da una profonda  contaminazione tra musica balcanica, popolare, jazz. In buona sostanza il merito maggiore della Banda è l’aver saputo coniugare la musica di Nino Rota (“Saraghina Rumba”) con la tradizione klezmer (“Odessa”, “Froggy Waltz”, “Sem Sorok”), la tradizione kosovara in lingua serba (“Ajde Jano”) con la tammurriata napoletana (gustosa la rielaborazione della “Tarantella Schiavona” di Mario Salvi rinominata “Tammurriata Balcanica” per gli evidenti richiami alla musica balcanica), senza trascurare un riferimento alla musica araba (“Lamma Bada”); il tutto completato da un original intestato a tutta la band, “Ornitorippo Freshness”.

Rosa Brunello Y Los Fermentos – “Upright Tales” – CamJazz7901-2

UPRIGHT TALESDopo il debutto nel 2014 con “Camarones a la plancha”, questo è il secondo disco da leader della contrabbassista veneziana Rosa Brunello, accompagnata nell’occasione da David Boato alla tromba e flicorno, Filippo Vignato al trombone (già collega negli Omit Five) e Luca Colussi alla batteria ai quali si aggiungono in alcuni brani Francesca Viaro alla voce, Dan Kinzelman al sax tenore e clarinetto e Enzo Carniel al pianoforte. Il repertorio consta di undici brani di cui cinque della stessa Brunello, quattro di Boato e due di Vignato, a costituire – come afferma la contrabbassista – una raccolta di singoli racconti, uniti dall’aspetto melodico e dalla sonorità del gruppo. Gruppo guidato con professionalità da veterana dalla Colussi che riesce a coinvolgere tutti nel suo progetto senza mai essere invadente, senza dare in alcuna occasione l’impressione di voler occupare tutti gli spazi. Anzi, agendo al centro della scena, tratteggia atmosfere cangianti in cui la tromba di Davide Boato e il trombone di Filippo Vignato danzano liberamente in continuo dialogo con la batteria di Luca Colussi, altro elemento fondamentale per la riuscita del progetto. Il clima raccolto è alle volte interrotto dalle impennate free dei fiati di Dan Kinzelman sempre più presente sulla scena jazzistica nazionale. Ciò detto resta il fatto che a nostro avviso l’album non convince appieno denotando una forse eccessiva staticità e dei momenti – seppur rari – in cui sembra venir meno l’ispirazione dal punto di vista compositivo. Peccati sicuramente veniali dato che, come sottolineato in apertura, siamo solo al secondo album da leader.

Franco Cerri – “Barber Shop 2” – abeat 150

Barber Shop 2Ci sono artisti per i quali lo scorrere del tempo non sembra avere alcuna conseguenza, anzi! A questa categoria appartiene il chitarrista Franco Cerri che a “Novant’anni suonati” (come recita il sottotitolo dell’album) ci ha regalato queste registrazioni effettuate a Milano nell’ottobre del 2015. L’album è stato presentato ufficialmente il 29 gennaio 2016, giorno del compleanno dell’artista, in una grande festa organizzata dalla città di Milano, presso il Teatro dal Verme , con 1400 persone ed altrettante fuori dalla sala. Ad un paio d’anni di distanza, “il negozio del barbiere” ha riaperto i battenti, ospitando sempre gli stessi elementi: Cerri,  Dado Moroni (piano), Riccardo Fioravanti (contrabbasso) e Stefano Bagnoli (batteria), come a dire un vero e proprio gruppo “all stars”. Il quartetto affronta un repertorio costituito da nove standard (tra cui “Roma nun fa’ la stupida stasera” di Armando Trovajoli) e due originals dello stesso Cerri. Un banco di prova, quindi, severo, ma Cerri e compagni lo affrontano quasi in surplace, con bella leggerezza che non significa sottovalutazione del materiale affrontato ma, viceversa, piena consapevolezza di ciò che si suona e soprattutto assoluta lucidità sul come si vuole eseguire le partiture. Ecco quindi un Cerri che, ad onta dell’età, appare fresco, in grado di portare nuova linfa a brani già ampiamente battuti, grazie ad un fraseggio sempre misurato, sobrio, con quelle note staccate, udibili una per una che da tempo caratterizzano il suo stile a conferma di una personalità elegante, discreta, gentile che tutti gli riconoscono. Accanto al chitarrista ancora una prova superba di Dado Moroni che personalmente consideriamo uno dei pianisti più sensibili dell’attuale panorama jazzistico non solo nazionale; il suo pianismo è di grande modernità, ricco di swing, di inventiva, capace di adattarsi alle varie atmosfere volute dal leader: lo si ascolti particolarmente nel brano d’apertura “Take The “A” Train” e nella intro di “Roma nun fa’ la stupida stasera”.

Cojaniz, De Mattia, Feruglio, Mansutti – “Il grande drago” – Setole di maiale

Il Grande DragoAlbum di grande fascino questo realizzato da un quartetto sotto certi aspetti anomalo, in quanto, pur essendo costituito da artisti che operano prevalentemente nel Nord-Est, accomuna sensibilità diverse. Così accanto al pianista Claudio Cojaniz, che vanta un robusto bagaglio accademico, troviamo il flautista Massimo De Mattia a ben ragione considerato uno dei massimi esponenti europei della nuova musica improvvisata tanto che questo album si allontana non poco da quelle che sono le strade da lui tradizionalmente battute; assieme a loro Franco Feruglio titolare della cattedra di Contrabbasso presso il Conservatorio “J. Tomadini” di Udine, che si divide tra jazz e musica classica in special modo del XX secolo e il batterista Alessandro Mansutti che si è fatto le ossa collaborando spesso con lo stesso Cojaniz, nonché con Juri Dal Dan e Marco Cisilino. I quattro formano un combo compatto, equilibrato in grado di proporre una musica in cui il richiamo alla tradizione si coniuga con direzioni astratte in cui le facoltà improvvisative sono messe a dura prova. Così le linee disegnate da pianoforte e flauto si intersecano con naturalezza ben sostenute da una sezione ritmica il cui ruolo va ben al di là del semplice supporto ritmico-armonico (si ascolti, ad esempio, la ‘Variazione IV’), con gustose figurazioni ritmiche che alle volte richiamano addirittura il funky. In definitiva, cosa più unica che rara, un disco che riesce a coniugare l’interesse per la sperimentazione, per la modernità, per la ricerca di qualcosa di nuovo, con una certa gradevolezza d’ascolto.

Oscar Del Barba – “Two Suites For Jazz Orchestra” – Dot Time 9036

two suitesIl fisarmonicista, pianista, tastierista e compositore bresciano Oscar Del Barba è personaggio ben noto negli ambienti jazzistici: in passato si è fatto notare come musicista attento, appassionato in grado di ben figurare nei contesti più diversi: così, ad esempio, lo ricordiamo nell’album “Scale mobili” del gruppo Pentagono in cui compose otto delle nove tracce incise, o ancora con Simone Guiducci, con Toni Melillo e in duo con il chitarrista Francesco Saiu. Questa volta il discorso è completamente diverso: Oscar ha assemblato una vera e propria big-band, con elementi di tutto rispetto quali, tanto per fare qualche nome, i sassofonisti e clarinettisti Achille Succi e Rossano Emili, il trombonista Beppe Caruso, il chitarrista Domenico Caliri, il contrabbassista Salvatore Maiore e il batterista Vittorio Marinoni cui si è aggiunto, classica ciliegina sulla torta, il grande “altista” Dave Liebman presente nella prima composizione. Per questo ensemble Del Barba ha composto due suites, ambedue in cinque tempi, intitolate, rispettivamente, “Cinque scene per big band” e “Variazioni sopra un canto popolare bresciano”: Come lascia intendere il titolo della seconda suite, l’artista si è ispirato alle musiche della sua terra cui si era già rivolto per altre composizioni. Il risultato è eccellente. Oscar Del Barba conosce la musica, scrive e arrangia bene trovando un giusto equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione. Così i singoli hanno modo di esprimere le proprie potenzialità senza per questo mortificare il giuoco d’assieme che rappresenta, in realtà, il vero punto di forza dell’album. Le melodie , accattivanti nella loro non banale semplicità, galleggiano su un tappeto ritmico-armonico piuttosto complesso mentre a tratti avvincente è l’alternarsi tra tensione e distensione che il leader sembra conoscere assai bene. Superlativa, come al solito, la prestazione di Dave Liebman… ma forse questo non c’era bisogno di aggiungerlo!

Gianluca Esposito – “The Hammer “ – Wide 205

The HammerUna tonnellata di groove quella che il sassofonista abruzzese Gianluca Esposito scarica sugli ascoltatori attraverso questo riuscito “The Hammer”. Il gruppo è di quelli che non si esiterebbe a definire “all stars”: accanto al leader ci sono, infatti, Mauro Grossi al piano e all’organo Hammond, Daniele Mencarelli al contrabbasso e basso elettrico, Andrea Dulbecco al vibrafono e, udite udite, Gregory Hutchinson alla batteria. Il programma comprende sei originals scritti dallo stesso Esposito, due standard rispettivamente di Pat Metheny e Kurt Weill e un brano tratto dal repertorio pop vale a dire “Fragile” di Sting. Le composizioni di Esposito appaiono ben strutturate, anche se non presentano elementi di particolare novità; comunque le melodie sono spesso godibili e si sviluppano su un tessuto ritmico-armonico di rara eleganza. L’approccio del gruppo al materiale tematico è incentrato sulle invenzioni soliste di Esposito e Grossi, magistralmente coadiuvati da una sezione ritmica semplicemente stellare in cui Hutchinson si conferma un mostro sacro della batteria, con Dulbecco bravissimo nel lavoro di punteggiatura e di contrappunto oltre che di solista (“Question and Answer” di Pat Metheny). Ovviamente gli spazi solistici maggiori sono riservati al leader che si esprime compiutamente sia al sax alto sia al soprano, con un linguaggio moderno, con un sound rotondo, pieno, un senso del ritmo veramente notevole e una spiccata capacità improvvisativa: di qui la difficoltà di segnalare un solo brano in cui si mette in particolare evidenza. Discorso quasi identico per Mauro Grossi di cui comunque vi consiglieremmo di ascoltare con particolare attenzione “The Hammer” (con l’organo Hammond) e “Like a Dream” (al pianoforte) . Puntuale il sostegno di Mencarelli, notevole anche in alcuni assolo (“Play for Kenny”) mentre su Hutchinson è quasi inutile spendere ulteriori parole dal momento che tutti lo considerano giustamente uno dei massimo esponenti della moderna batteria jazz.

Dario Faiella meets Monday Orchestra – “Recurring Dreams” – abeat544

Recurring dreamsMauro Negri (clarinettol), Emanuele Cisi, Michael Rosen (sax ten), Giulio Visibelli (flauto), Emilio Soana (tromba), Marco Brioschi (flicorno) sono alcuni degli “ospiti” che impreziosiscono questo bel cd del chitarrista Dario Faiella che in questo caso si misura al cospetto di una big band , la “Monday Orchestra” diretta da Luca Missiti, responsabile quest’ultimo di tutti gli arrangiamenti, eccezion fatta per “Estrelas” e il monkiano “Pannonica” dovuti a Gabriele Comeglio. Diciamo subito che è un piacere ascoltare la musica di questo CD: la band è ben rodata e altrettanto ben diretta, con gli arrangiamenti che funzionano alla perfezione riuscendo a mettere in risalto sia la compattezza dell’insieme sia la capacità improvvisativa dei singoli. Così abbiamo la possibilità di ascoltare assolo di tutti gli “ospiti” a partire da Mauro Negri in “Conception” di George Shearing, per chiudere con Bonacasa nel già citato Pannonica. Dal canto suo il leader si dimostra non solo eccellente strumentista (ma questo già lo si sapeva) ma anche dotato compositore: tre brani (“Cyber Blues”, “Estrelas” e “Care”) sono dovuti alla sua penna e non sfigurano accanto a standard quali “Moment’s Notice” di John Coltrane o “Celia” di Bud Powell. Ma quel che veramente colpisce in questo album è il sound, un sound pieno, corposo, carico di swing proprio come quello delle big-band di una volta, un sound che purtroppo si ascolta sempre più raramente nei dischi e ancor più di rado nei concerti per ovvii motivi economici.

FunSlowRide – “FunSlowRide” – SAM 9039

FunSlowRide_1I FunSlowRide – International Collective of Music Travellers – sono un collettivo di talentuosi musicisti ; prodotto da Gegè Telesforo con la supervisione di Leo Sidran (figlio di Ben) e realizzato in due anni di lavoro in vari studi di registrazione (Brooklyn, Madison, Londra,….), FunSlowRide vede la collaborazione di artisti e vocalist del calibro di Alan Hampton, Sachal Vasandani, Joanna Teters, Mosè Patrou, Joy Dragland, Ainé, Greta Panettieri oltre naturalmente a Gegè Telesforo alla voce, tastiere e percussioni. A tutti questi si aggiunge il grande Ben Sidran con uno “spoken-words” sul tema di un emozionante brano dedicato ai bambini (“Let The Children”). Il risultato è dei più positivi: proprio grazie all’innesto di tante voci, di tanti artisti così differenti, l’ album acquista una sua specificità rafforzata da alcune linee guida che Telesforo ha voluto seguire: la ricerca di un groove incessante e la proposta di melodie ampie, ariose, riconoscibili. Di qui un ritmo incalzante che caratterizza tutto il disco con una tensione che mai si dilegua. In programma nove originals scritti prevalentemente da Gegé Telesforo (musica) e Greta Panettieri (parole) con l’aggiunta di “I Shot The Sheriff” di Bob Marley; tra questi ci piace segnalare “Next”, una dolce melodia scritta da Telesforo e dedicata alla figlia Joana per raccontarle – spiega lo steso vocalist pugliese – “le emozioni contrastanti di una storia d’amore”: convincente la prestazione vocale di Alan Hampton, sicuramente un grande talento, ben accompagnato da Domenico Sanna al pianoforte; assolutamente trascinante il già citato brano di Bob Marley con in bella evidenza il vocalist Moses Patrou e il sassofonista Alfonso Deidda.

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