Nerovivo di Evita Polidoro – Nero i giorni dispari e Vivo i giorni pari

Parlami di te. Dividi un foglio con una linea orizzontale e cospargi di nero solo la metà inferiore.
Prendi una classica Bic nera e scrivi dei tuoi beni nello spazio bianco e dei tuoi mali sopra la coltre di pece.
Non si riesce a leggere ciò che sta sotto, eppure vive, siccome esiste a prescindere dalla vista. Un disequilibrio tra la parte chiarescente dell’Io e quella che sprofonda in pullulanti atti rimossi e nascosti alla mente. Tuttavia, angolando la carta sotto la luce di una lampadina, brillano i riflessi di limpidi solchi scavati dalla penna. Il tratto disvela il suo contenuto e si avvia un processo di emersione dell’interiorità che smargina il confine netto tra due zone in antitesi, trovando una pacifica coesistenza sulla medesima superficie. “Per poi fuggire, sopra le nuvole, volare ai limiti, niente sole, nero vivo, nuvole e fuliggine.”

Un quieto urlo cantato da John di Leo, nella strofa di Nero Vivo dei Quintorigo, diventa una eco travolgente che Evita Polidoro, batterista e cantante, accoglie e trasforma nel suo primo album come band leader: Nerovivo, per l’etichetta Tuk Music di Paolo Fresu, in trio con i chitarristi Nicolò Francesco Faraglia e Davide Strangi. La carriera di Polidoro è una somma di occasioni colte e scelte per giungere a questo punto del 2024. Il triennio alla Fondazione Siena Jazz, le tournée con la cantante Dee Dee Bridgewater e Francesca Michielin e il Siena Jazz 2022 al fianco di Shai Maestro, Avishai Cohen e Matt Penman. Un’anima da rocchettara dichiarata, cui nocciolo si schiude nel privato in un ricco mondo di ascolti: pop, elettronica, trap, drill, new wave, punk, fino agli sperimentalismi di Alejandra Ghersi.
Le note incise sul calco nero dell’album sono la ricerca di un gusto timbrico-elettronico che mette i suoni su frequenze gravi in primo piano, con perpetui rumorismi e drone dei synth, riverberi, feedback e delay alla chitarra, lasciando spazio sia a ricchezze melodiche che a necessari respiri di vuoti e silenzi, un mix caro all’estetica post-rock. Una locandina che promette Thom Yorke, Alt-J, Bon Iver e Sigur Rós sul medesimo palco; special guests le limature jazzistiche e gli innesti ambient perfettamente in interplay tra le formazioni.

Commistioni che pulsano nell’eclettico batterismo della Polidoro, destreggiandosi esilmente tra rock, pop e jazz. In Black Mirror, il groove dal tiro rock si articola in un fraseggio libero ma coeso nel timing, uno stile esecutivo dei batteristi post-bop e venturi. Un moto turbinante dell’accompagnamento percussivo che si amalgama ai tratti scuri e onirici delle pennate di Faraglia e Strangi, ascrivibili a colonna sonora per l’omonima serie TV dalle tematiche distopiche. Simile attenzione ai crossover anche in Limerick, una raffinata poesia strumentale strutturata su quattro sezioni, dove cellule sonore della chitarra o della batteria in una stanza rimano per riemersione in quelle successive, in un continuo permutare della tessitura colma di impliciti da scovare con l’orecchio.

Le rifiniture jazz e le sonorità ambient spirano nelle quattro “Arie” del disco, come uno spirito errante che aleggia su tutta la tracklist. Stupefacenti nel modo in cui rovesciano il ruolo convenzionale dell’ambient da significato a significante. Infatti, Arie di pioggia ha per struttura generatrice un immaginifico paesaggio plumbeo disegnato con cupe nuvole di synth, arpeggi e frasi melodiche allacciati tra le chitarre e condite da gocce d’acqua nelle sferzate con le spazzole su piatti e pelli della batteria. Un incedere atemporale del brano in cui il cumulonembo sonoro si dirada solo verso il finale. I neri più profondi sono espressi in Arie dimenticate, un gioco d’improvvisazione tra le due chitarre che diventano l’una evanescente fantasma acustico dell’altra, e in Arie morte con i solenni rintocchi dissonanti sulle corde, simili a campane funebri. Il finale dell’album, Arie ricordate, è un risveglio della coscienza, in cui le rimembranze tratte dalle arie precedenti distendono i pulviscoli neri, senza snaturarne il senso.

In Extra-Ordinary e In Your Head, s’incastrano pezzi di puzzle in frasi verticali scritte sul foglio da cui siamo partiti, un testo che prende vita con la vocalità dolce e pulita di Evita Polidoro. Leggiamo un diario di spontanea intimità che racconta le difficoltà nel mantenere i rapporti umani a noi cari, in una quotidianità sempre meno ordinaria e il funambolico rapporto tra la realtà dentro la nostra testa e quella fuori. I sintetizzatori modulari e sampler di Ruggero Fornari e Stefano Bechini creano in questi brani un perfetto connubio con le atmosfere del trio: un tepore inquieto, così avviluppante tra suono e parola da non poterlo concepire come ossimoro. La stessa Polidoro parlando di Nerovivo spiega questa sincrasi: “Nerovivo è quello che mi passa per la testa. È il contrasto continuo nel vivermi la vita: nero i giorni dispari e vivo i giorni pari.” Pari e dispari potrebbero avere un ironico corrispettivo nella posizione della “Arie” che dividono la tracklist: prima e terza contro sesta e ottava, quali di queste metà è la parte nera del foglio? Forse entrambe?
Con Nerovivo, il trio testimonia quanto il jazz odierno sia per sua natura agglomeratore e mediatore delle forze sonore interiori ed esteriori dei musicisti. Il jazz ci ha trasmesso un’idea di approccio musicale aperto verso il superamento dei confini attraverso l’estemporaneità di stimoli globali coevi e passati, ossia suonare evitando di cristallizzarci su manifesti neromorti.

Alessandro Fadalti ©

Gatto alla Casa del Jazz: secondo ciclo di incontri per “L’altra metà del Jazz”

Com’era facilmente prevedibile, visto l’ottimo risultato del primo ciclo, il nostro direttore Gerlando Gatto il 13 febbraio torna alla Casa del Jazz di Roma con “L’altra metà del Jazz”, cinque ulteriori serate da lui ideate e condotte.   Il format è sempre lo stesso: ogni martedì sera interviste a due musiciste jazz, una che ha raggiunto un livello di fama ormai consolidato e un astro nascente ancora non così conosciuto.
Scopo di questo ciclo, come dichiarato dallo stesso Gatto, è quello di dare, da una parte un contributo, per quanto minimo, all’abbattimento delle barriere di genere all’interno del sistema jazzistico, e dall’altra di offrire un trampolino di lancio ad alcune giovani musiciste talentuose, ma non ancora note al grande pubblico.
E veniamo al calendario di questo secondo ciclo.

Martedì 13 febbraio Cinzia Gizzi e Noemi Nuti
Cinzia Gizzi pianista, compositrice, arrangiatrice, ha iniziato lo studio del pianoforte classico all’età di otto anni. Si avvicina al jazz durante gli anni di università, quando si trasferisce da Pescara, sua città natia, a Roma. Qui suona per lungo tempo nei jazz club avendo l’opportunità di accompagnare moltissimi musicisti italiani e americani. Nell’anno accademico 1995-96 ricopre la cattedra di “Jazz” presso il Conservatorio di Reggio Calabria.
Noemi Nuti. Nata e cresciuta a New York fino all’età di otto anni, inizia il suo viaggio musicale da bambina studiando l’arpa celtica in Italia per poi conseguire una laurea in arpa classica presso la Brunel University a Londra.  Nel 2012 si diploma con un master in jazz al “Trinity College of Music” di Londra. Il suo album di debutto “Nice to Meet You” (2015) è stato prodotto dal trombettista Quentin Collins. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 20 febbraio Susanna Stivali e Chiara Viola

Susanna Stivali. Studia pianoforte, canto classico e jazz, perfezionandosi con Bob Stoloff e Murk Murphy; si specializza presso il Berklee College of Music di Boston. Affianca ad una intensa attività concertistica, quella di docente di canto jazz presso alcuni Conservatori. Particolarmente interessata alle collaborazioni con musicisti della nuova scena brasiliana.
Chiara Viola. Nata a Roma, si avvicina alla musica dopo aver visto “Sister Act”. Così studia dapprima chitarra classica e poi canto jazz al Conservatorio di Santa Cecilia. Nel 2019 la prima realizzazione discografica, dopo di che si trasferisce a Parigi dove attualmente vive e lavora. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 27 febbraio  Sara Jane Ceccarelli e Veronica Parrilla

Sara Jane Ceccarelli. Italo canadese nasce a Gubbio ma vive a Roma. A 3 anni comincia a studiare pianoforte classico; a 16 anni canta e si diploma al Corso Jazz del Conservatorio Santa Cecilia. Si esibisce con il fratello chitarrista Paolo. Nel 2012 inizia il suo percorso di studio e interpretazione di musica proveniente dalle culture più diverse: canta nelle lingue originali (più di dieci) ampliando così il suo straordinario repertorio.
Veronica Parrilla. Nasce a Cirò Marina e consegue il diploma accademico di I Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “F. Torrefranca” di Vibo Valentia e il diploma accademico di II Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “A. Corelli” di Messina. Attualmente prosegue il triennio accademico in Pianoforte Jazz e il triennio accademico in canto Pop/Rock. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 5 marzo Greta Panettieri e Elena Paparusso

Greta Panettieri. Vocalist e scrittrice. La sua storia musicale parte da giovanissima, con lo studio del violino e del pianoforte al Conservatorio di Perugia; quindi, la vita a New York documentata anche dal libro a fumetti “Viaggio in Jazz”, dove le doti vocali di Greta vengono notate dalla Universal/DECCA che pubblica il suo primo disco “The Edge of Everything”. Seguono il tour europeo come opening di Joe Jackson, le collaborazioni con grandi della musica mondiale, il ritorno in Italia dove continua a mietere successi.
Elena Paparusso. Cantante e compositrice, nel 2015 ha terminato il Biennio di specializzazione in Jazz con il massimo dei voti e lode, presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma. “Anatomy Of The Sun” è il suo ultimo lavoro discografico prodotto per la Parco della Musica Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 12 marzo Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti

Cinzia Tedesco. Artista pugliese, riesce con il suo stile a superare le barriere tra i generi musicali. Cantante, compositrice, interprete di musical, rappresenta appieno l’artista completa, la cui cifra musicale si situa tra il jazz ed il soul. Numerosi i riconoscimenti all’Italia e all’estero così come le produzioni discografiche tutte di eccellente livello.
Laura Sciocchetti. Nata a Roma, inizia da adolescente lo studio di canto, chitarra e pianoforte, coltivando nel contempo la passione per il teatro. Studia il linguaggio Jazz con Elisabetta Antonini e successivamente si perfeziona al Conservatorio S. Cecilia di Roma, dove si laurea cum Laude in canto. Nel 2020 esce il suo primo disco di composizioni originali dal titolo “Characters”, per Filibusta Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

(MT – Redazione)

Info utili:
È anche possibile acquistare i biglietti attraverso:
Prevendita Telefonica TicketOne: tel. 892.101
Lun – Ven 9:00 – 21:00 / Sab 9:00 – 17:30
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

Info.
tel. 0680241281

Viale di Porta Ardeatina 55
00154 Roma

Un palco aperto per Sanremo: lettera aperta ai responsabili del festival

Cari amici jazzofili, così come lo scorso anno pubblichiamo un pezzo di Amedeo Furfaro che continua, giustamente, a insistere su un tasto ben specifico: essere una sorta di sprone affinché il Festival dia spazio anche ai generi musicali meno mainstream tra cui, ovviamente, il jazz. Dato che non scriverò alcunché sul Festival, mi sono permesso di aggiungere alla nota di Furfaro una mia considerazione su quello che personalmente considero uno dei momenti più bassi raggiunti dalla televisione Italiana durante tutta  la sua ormai lunga vita. (G.G)
                                                         *****
Repetita juvant, dicunt. Ed eccoci ancora qui a discettare del Festival della Canzone Italiana per chiederci, a partire proprio dalla detta denominazione, se tutta la canzone italica vi sia rappresentata. Certo il Festival è divenuto un megacontenitore in cui ospitare dell’altro anche perché sarebbe inopportuno isolare in vitro la canzone dal resto (società, cinema, varietà, moda, attorialità, gossip etc.) poiché la canzone è immersa fino al collo nel mondo che la circonda.  Epperò la sensazione che una parte del mondo canoro nostrano sia scarsamente presente è forte, ancora in questa edizione.

E non parliamo solo del jazz – il che ci additerebbe al pubblico ludibrio per “conflitto di interessi”, musicali, s’intende – ma anche di altri filoni i cui interpreti potrebbero essere ben degni di gareggiare occupando, distintamente per sezione, un qualche spazio nelle prime tre serate (una alla volta, per carità!). Un po’ come per l’Orpheus Award, l’articolazione potrebbe essere una triade di generi che andrebbe a coprire gran parte delle “macchie di leopardo” lasciate dalla attuale conformazione del festival. Ecco, a seguire, i termini della proposta:

  • lezione canzone lirico-classica.
  • Sezione canzone jazz/Blues.
  • Sezione canzone napoletana/ ethno-world.

L’obiezione che ci si potrebbe aspettare è che, spruzzati qua e là, assieme a pop melodico cantautorale rap rock etc. ci sono già spezzoni di jazz, lirica, musica partenopea etc.  Ma il tutto è affidato a criteri variabili mentre il nodo sarebbe garantire ai tre settori di cui sopra un minimo di visibilità e di chance nel cimentarsi, non più esclusi dalla kermesse della città dei fiori.
E lo share, dove lo mettiamo, lo share? Si, qualcuno cambierà canale. Ma ci sono varie fasce di telespettatori che risultano ad oggi desaparecidos e che potrebbero tornare a pigiare i tasti del telecomando direzione Sanremo compensando “perdite” magari irrisorie. E poi, comunque, la corazzata Rai schierata davanti a quel porto ligure andrebbe a riprendere uno spettacolo in cui anche gruppi “minoritari” di telespettatori, non “riserve indiane”, che pagano idealmente il biglietto tramite il canone, avrebbero modo e occasione di riconoscersi in una programmazione a tutto campo, nazionale oltre che pop(olare).
A chi rivolgere questa modesta proposta? Ad Amadeus, in primis, se verrà confermato direttore artistico anche per il prossimo anno, in ciò anticipando in qualche modo la politica con il suo “premierato” di fatto. O comunque a chi avrà la competenza decisionale pro-tempore, confidando nella possibilità che il palcoscenico dell’Ariston possa diventare veramente “aperto”.

Amedeo Furfaro

Comunque non possiamo concludere questa “lettera aperta” senza citare il caso scandaloso di John Travolta: ma si può invitare un’icona del cinema mondiale per fargli fare quella figura di merda? Io credo di no; di qui un altro piccolo suggerimento: il Festival si doti di qualcuno che sappia scrivere i testi del programma altrimenti si andrà sempre peggio. E il fatto che gli italiani si ostinino a guadare il Festival, non significa che lo stesso risulti un prodotto di qualità quale invece dovrebbe essere e a tutt’oggi non è. (G.G.)

Parrhesiastes di John Zorn – Una landa franca di musiche in comunione

Una parola nuova al giorno è una di quelle tendenze che ci fa sentire più acculturati per qualche ora con delle spicce informazioni su termini spesso desueti, dimenticandoli perché mal s’incastrano alla nostra piccola isola sociale di quotidianità. Con un magheggio metalinguistico questo incipit diventa un’antipatica parresia sui tempi moderni e sul linguaggio. Ecco la parola del giorno: parresia, ossia un’attività verbale in cui il parlante esprime la verità in modo diretto, evitando qualsiasi tipo di tecnicismo retorico ma esponendosi al rischio nelle relazioni con se stesso e gli altri attraverso la critica. Questa definizione in linea coi nostri tempi ci viene regalata dalle lezioni del filosofo Michel Foucault, ma nasce dalla democrazia ateniese e in particolare nelle parole di Socrate che esaltava la parresia come una questione di vita o di morte nella lotta politica agli autoritarismi. Si sente la mancanza della parresia nella contemporaneità se pensiamo a quanto il linguaggio con cui cerchiamo di porre delle verità sia disunito e infettato dal confusionario rumore bianco della retorica dei social, dove il dialogo è una tarantella di parole persuasive e visioni distorte ed egocentriche della realtà.

Le arti fanno da specchio e antitesi a questi dilemmi sociali e nella ricerca di un crogiolo linguistico che ci accomuni è difficile non imbattersi nella figura di John Zorn.
Personaggio a cui assocerei molti poli, come polistrumentista, poliglotta, poliedrico assieme a neologismi sgangherati come policompositore, polifilosofo e poliletterato. Da quasi un decennio ha scelto di darsi anima e corpo unicamente alla composizione per svariate formazioni, assumendo il ruolo di prestigiatore che sfila dal cilindro annualmente dai tre ai quattro album pregni di quel senso di sinergia consonante tra emisferi sonori underground e l’avant-garde. La recente uscita di Parrhesiastes, per l’etichetta Tzadik fondata dallo stesso compositore nel 1995, testimonia come all’età di settant’anni la giocosità creativa di Zorn sembra fossilizzata sul rigiocare la stessa partita di Burraco, tuttavia non manca lo stupore che sa donare il rimescolamento delle carte in tavola e soprattutto la compagnia con cui si gioca è ciò che rende ogni mano una storia a sé stante. Affida questo disco alla formazione Chaos Magick, eseguendo una sorta di rituale alchemico per evocare una chimera stabile tra prog e jazz con alcuni innesti sperimentali. Un’avventura mistica con il quartetto che comincia nel 2021 con l’omonimo album Chaos Magick, proseguendo con The Ninth Circle (2021), in cui viene ripreso il viaggio agli inferi di Orfeo scritto da Offenbach, Multiplicities: A Repository Of Non-Existent Objects (2022) ispirato ai pensieri aforistici del filosofo Gilles Deleuze e infine 444 (2023), dedicato alla numerologia degli angeli. Un piano astrale che ci fa immergere in suggestioni sonore, esoteriche e filosofiche assemblate sapientemente da Zorn, che nell’ultimo album si fa più esasperato in questo apice di commistioni, mantenendo però la raffinata pragmaticità e franchezza di un parresiastes. La tracklist è un alambicco articolato in tre lunghe session che si distillano in una boccetta dall’acustica inebriante nel cui fluido vengono digerite e ridigerite le sonorità caratterizzanti dei generi amati da Zorn tra gli anni ’70 e ’80. Leggendo i titoli viene lo spauracchio che i riferimenti extramusicali ci richiedano una laurea triennale in filosofia o sociologia per essere captati. Proviamo però ad affidarci alla parresia di Zorn ed entriamo nella sua ottica di comunione linguistica senza arrovellarci alla ricerca di un ateneo a cui iscriversi.

Le coordinate celesti gettate da Zorn ci orientano nell’ascolto su un sentiero boschivo, incappando in strani solchi sul terreno… sono le orme di Hermes, messaggero degli Dei e custode della parola superiore. In The Footsteps of Hermes, possiamo seguire le impronte della divinità greca che si manifesta sotto forma di una permutazione di generi scandita passo dopo passo, minuto dopo minuto. Ogni strumento ricopre un ruolo a sé stante che si regge all’inizio in una staffetta sulla sottile soglia tra il progressive rock e il math rock; rispettivamente attraverso l’organo di John Medeski e il Fender Rhodes di Brian Marsella che cedono la parola alla chitarra di Matt Hollenberg. Quest’ultima cambia con prepotenza l’atmosfera portandoci a un focoso scontro tra solisti che assomiglia ad un match mai esistito tra Jon Lord vs. Chick Corea su un ring da boxe, muniti di tastiere al posto dei guantoni. Il groove hard rock della batteria di Kenny Grohowski sostiene questa sezione incalzante interrompendosi su brevi rullate che lasciano spazio a un intermezzo di stampo ambient ricolmo di silenzi, presto spezzato dagli inaspettati accordi metal della chitarra elettrica. In questa traccia permane con forza l’idea di perenne collisione tra le identità degli strumenti, che sgomitano alla ricerca una sintesi tra le loro individualità attraverso riferimenti stilistici elegantemente riconoscibili. Meglio apprezzare la seconda metà del brano cullati dalla sorpresa di questi interventi, piuttosto che restituirne un decalogo da telecronista. Chi segue i passi di Hermes segue l’esoterismo e la conoscenza. Questa figura per il filosofo spagnolo Luis Garagalza diventa il risolutore del problema dell’interpretazione dei linguaggi, unendo i due opposti della filosofia ermeneutica di Heidegger e Gadamer con la visione psico-antropologica di Jung che vede nel simbolismo il centro dell’esperienza umana. Traslitterando il tutto alla traccia di Zorn, seguire le orme di Hermes diventa il ponte di una schietta mediazione tra i variopinti idiomi.

The Evental Devalorization of the Perhaps cita uno scritto del filosofo Quentin Meillassoux che invoca il tema filosofico del rapporto tra eventi e caso, attraverso il pensiero di Alain Badiou che rilegge la poesia di Mallarmè Un coup de dés jamais n’abolira le hazard (Un colpo di dado non abolirà il caso). Nella poesia il fato viene raffigurato dalla morte del navigante naufragato mentre stringe tra i palmi i dadi della sorte, neanche la verità del risultato del lancio avrebbe evitato il finale nefasto. La forza costituente del brano è un mulinello di improvvisazione e noise, ma il dualismo asintotico tra verità e casualità viene richiamato nell’alternanza del generale clima incerto e onirico iniziale con gli episodi dai limpidi margini funk, blues ed acid, trovando una illusoria coesione solo per un fragile istante verso la metà. Se nel primo brano l’avvicendarsi tra le identità strumentali era una bussola della verità, qui galleggiamo sul pelo del caos, dove il preudire, nota dopo nota, diventa vano. Sorge però un problema, perché il PEUT-ÊTRE – Perhaps – dovrebbe essere il culmine inciso a lettere capitali nell’ultima pagina della poesia, una parola che mette il punto su quanto il caso sia prevaricante sugli eventi; eppure la metafora viene smorzata da un evento: l’apparizione dell’orsa maggiore, la stella polare, la salvezza oggettiva che il marinaio ha mancato e che ormai giace sul fondo assieme a lui. Una verità evenemenziale che toglie valore a quel “forse” su cui il poeta ci lascia appesi e che in Zorn corrisponde al continuo richiamo di musiche affini a cui affidarci e aggrapparci per non annegare fatalmente. La poesia visuale di Mallarmé appaia il tema della discontinuità dell’esistenza e dell’effimerità del linguaggio con un’impaginazione tipografica di parole in un fluire ondulatorio dall’alto al basso della pagina, riempiendo la carta di vuoti bianchi incisivi quanto le pause musicali nel brano. La diatriba tra il vero e il caso non trova purtroppo risoluzione nel linguaggio, un dilemma che viene marcato da un gigantesco punto di domanda acustico, la cui arcata scivolante è l’arpeggio di note evanescenti del Rhodes e il punto è l’incisivo accordo dell’organo che sfuma in un silenzio tombale.

La discrepanza tra le orme nella selva di Hermes e il galleggiare nel mare simbolista di Mallarmé genera un magnetismo che apparentemente annulla la ricerca coesiva di un crogiolo linguistico. L’indagine musicale trova però un finale di coesistenza, nell’ultimo brano Form, Object, and Desire, dove ci pensa Lacan a psicanalizzare i Chaos Magick e il loro garbuglio. La seduta comincia con una musica schizofrenica formata da attriti roventi in un susseguirsi turbolento. Una sinossi sonora dei due brani precedenti, ma in un procedimento che diventa via via più formale. Lacan è colui che assurge a demiurgo di un universo sonoro sgomitolato finalmente dal suo nevrotico intricarsi perpetuo, e così i musicisti riescono ad esprimere con lucidità le proprie inclinazioni individuali in quanto, per verbo dello psicanalista, giungono ad un epifania: il desiderio dell’oggetto non è mai indirizzato all’oggetto del desiderio. Anche se ottenuto, permane un senso di assenza e allora questa pulsione si proietta verso un nuovo oggetto e così via. La verità è che non sappiamo quello che vogliamo e non lo avremo mai, perché non è nella forma di un oggetto palpabile con i nostri sensi e quindi ogni volta che desideriamo qualcosa riceviamo una spinta che ci indirizza nel profondo della nostra interiorità, dove ci attende un oggetto che non è materiale ma esiste solo in quanto relazione tra l’umano e il linguaggio. Proprio questa visione scioglie la matassa dell’album. La parresia diventa sostanza nell’equilibrato rapporto che si crea tra le anime musicali vestite da improvvisatori che cooperano nella ricerca dell’objet petit a lacaniano. Questo, si manifesta in un brano tra il rock sofisticato e metal del chitarrismo di Hollenberg, il fraseggio bebop del piano di Marsella con ombreggiature da Cecil Taylor, il ritmo serrato da brutal prog della batteria di Grohowski, strabordando talvolta in comping degni di De Jonhette, e l’organo dal volto funk, soul e blues di Medeski. Le ultime note ripropongono un residuo di commistioni tra musica d’ascensore e innesti feroci che collimano in una tanto agognata conclusione definitiva e cadenzale.
Questa è forse la franca summa del pensiero di Zorn: una landa musicale in cui le influenze diventano comunione linguistica, accettando di affrontare assieme il caos in cui si riversa per scegliere un futuro migliore dove anche il più sognante lieto fine diventa parresia.

Alessandro Fadalti ©

I nostri CD: Buone Feste con tanta buona Musica e oggi… non solo Jazz!

Heinz Holliger, Anton Kernjak – “Eventail” – ECM New Series
Consentitemi di aprire questa rubrica in modo assolutamente nuovo, vale a dire con una sortita nel campo della musica classica. Lo faccio perché questo album mi ha semplicemente incantato e credo valga la pena di essere ascoltato soprattutto da quanti, come me, amano la musica francese dei primi anni del secolo scorso incentrata sull’oboe. In programma musiche di Messiaen, Koechlin, Jolivet, Ravel, Debussy, Milhaud, Saint-Saens, Casadeus. L’ oboista e compositore svizzero Heinz Holliger (classe 1939) è considerate uno dei migliori oboisti al mondo particolarmente versato nel genere che si ascolta in questo album; al suo fianco Anton Kernjak, che ebbe modo di collaborare con Holliger nell’album “Aschenmusik” del 2014, mentre l’arpista francese Alice Belugou l’ascoltiamo in un solo brano di Andre Jovilet “Controversia” per oboe e arpa. L’ascolto è impreziosito dal libretto che accompagna il CD in cui Holliger spiega perché ha scelto questi brani illustrandone la valenza storica e artistica.

Veljo Tormis – “Reminiscentiae” – ECM New Series
Un’altra prestigiosa realizzazione di ECM nella collana New Series. Protagonista la musica di Veljo Tormis (1930-2017) considerato a ragione uno dei più grandi compositori corali contemporanei nonché uno dei più importanti compositori del XX secolo in Estonia. Nell’album sono contenute memorie che evocano scene dell’infanzia di Tormis in un alternarsi di situazioni sonore che vedono protagonisti ora il coro e i due soprani più un recitativo, ora il coro e l’orchestra, ora il mezzo-soprano Iris Oja e l’orchestra, ora il coro, il soprano Maria Valdmaa ora alcuni solisti come Indrek Vanu alla tromba, Madis Metsamart alle percussioni e Linda Vood al flauto. L’album assume una particolare rilevanza anche perché è stato personalmente curato da Tõnu Kaljuste che per decadi è stato uno dei più stretti collaboratori di Tomis e che nell’occasione, oltre a dirigere la Tallinn Chamber Orchestra ha scelto personalmente il materiale da far ascoltare, ivi compreso quel ‘The Tower Bell in My Village’ che Tormis compose nel 1978 appositamente per un tour che Kaljuste effettuò di lì a poco. Insomma un album in cui Kaljuste riflette tutto il suo amore, la sua ammirazione verso il compositore scomparso la cui musica non può che affascinare ad onta degli anni che passano.

Anthony Burgess – “Complete Guitar Quartets” – Naxos
Il compositore inglese Anthony Burgess (1917-1993) fu personalità poliedrica, capace di eccellere sia nella letteratura sia nella musica. In quest’ultimo campo compose una serie di quartetti per chitarra che vengono qui presentati in edizione integrale, unitamente ad altre due composizioni, di cui una ‘traditional’ e le altre due dovute rispettivamente all’estro di Gustav Holst e Car Maria von Weber. Tornando ai quartetti di Burgess, composti negli anni ’80, la cosa strana è che Anthony mai ha suonato la chitarra eppure in molte sue novelle il protagonista principale è proprio un chitarrista. Il primo quartetto rilevante, “Quatuor pour Guitares”, completato nel 1986, fu scritto per l’ Aighetta Quartet, e fu eseguito per la prima volta presso l’ Academié Rainer III di Monaco; sottotitolato ‘Quatuor en hommage a Maurice Ravel’ evidenzia una forte influenza della musica francese. Come già accennato, oltre ai quartetti in questo album compare “Trois Morceaux Irlandais” ovvero tre trascrizioni e arrangiamenti di altrettante arie Irlandesi che evidenziano le grandi capacità di Burgess anche come arrangiatore. Un’ultima ma non secondaria notazione: nell’album a suonare la musica di Burgess è chiamato il Mēla Guitar Quartet ovvero Matthew Robinson, George Tarlton, Daniel Bovey e Jiva Housden.

Torniamo sempre con ECM sul terreno jazzistico

Wolfgang Muthspiel – “Dance of the Elders” – ECM
Il chitarrista Wolfgang Muthspiel si ripresenta alla testa del suo trio con Scott Coley al contrabbasso e Brian Blade alla batteria per bissare il successo ottenuto con il precedente album “Angular Blues” del 2018. Ancora una volta la musica dell’artista presenta molteplici riferimenti sia alla musica folk sia alla musica classica solo che, in questa occasione, abbiamo ascoltato un Muthspiel più attratto dalle linee melodiche il più delle volte perfettamente riconoscibili. Di qui un fraseggio sempre originale, misurato, tecnicamente ineccepibile e sempre molto, molto elegante. Dei sette brani presentati nell’album (tutti a firma del leader eccezion fatta per “Liebeslied” di Kurt Weill e Berthold Brecht e “Amelia”) il brano che meglio esemplifica quanto fin qui detto è proprio il conclusivo “Amelia”: si tratta di una splendida ballad di Joni Mitchell che il trio reinterpreta con rara delicatezza e con un linguaggio prettamente jazzistico a conferma, se pur ce ne fosse bisogno, che il jazz si identifica non già per quel che si suona ma per come lo si suona.

Maciej Obara Quartet – “Frozen Silence” – ECM
Maciej Obara è un sassofonista polacco (alto e tenore) che ha già alle spalle una fortunata carriera sia come leader sia come sideman in altri gruppi. Con questo nuovo album è alla sua terza realizzazione per ECM e si ripresenta alla testa del suo collaudato quartetto che ha già alle spalle una lunga storia. Al piano troviamo Dominik Wania anch’egli polacco, un altro grande talento che si è incontrato con Obara una decina di anni fa in un ensemble di Tomasz Stanko. Da 2012 i due sono stati raggiunti da una sezione ritmica norvegese composta dal bassista Ole Morten Vagan e dal percussionista Gard Nilssen. Sette delle otto composizioni dell’album sono state scritte durante il periodo della pandemia e quindi riflettono al meglio il lato interiore di Maciej Obara. Di qui un’atmosfera sempre assai meditativa, alle volte velata da una certa malinconia, il tutto declinato con un linguaggio pacato, mai sopra le righe, che non vuol affermare alcuna validità tecnica ma solo rispondere appieno a quelle che sono le intenzioni comunicative del leader. Molto interessante anche il gioco sulle dinamiche che esplicita al meglio l’empatia tra i membri del quartetto.

Sinikka Langeland – “Wind And Sun” – ECM
Undici composizioni della vocalist norvegese Sinikka Langeland su testi del poeta Jon Fosse più un brano scritto sempre dalla Langelad ma questa volta in collaborazione con Geirr Tveitt. Ad accompagnare la leader un quartetto composto da Trygve Seim – già collaboratore della stessa Langeland – al sax tenore e soprano, Mathias Eick alla tromba, Mats Eilertssen al contrabbasso e Thomas Stronen alla batteria, musicisti tutti ben noti a chi segue il jazz nordico. L’album rispecchia ancora una volta quelle che sono le coordinate stilistiche della Langeland, vale a dire una musica essenziale, senza fronzoli, che trae i suoi motivi ispiratori il più delle volte direttamente dal ricco patrimonio folkloristico nonché dagli input che provengono direttamente dalla natura. Non è certo un caso che la vocalist abbia messo in musica i versi di uno dei più importanti poeti e drammaturghi contemporanei come Jon Fosse –  anch’egli norvegese – conosciuto come “il nuovo Ibsen”. Ma chi si aspettasse un album dalle sonorità arcaiche rimarrebbe deluso in quanto il gruppo si muove invece su elementi di assoluta modernità sorretti da grande preparazione tecnica e da un idem sentire con la vocalist. Sentite, ad esempio, come il sax (ora soprano ora tenore) di Seim sottolinei alcuni passaggi che il kantele di Sinikka continua ad eseguire in sottofondo con una stratificazione di suoni tutt’altro che banale.

Restiamo in Norvegia con le produzioni Losen

Sara Calvanelli, Virginia Sutera – “Ejadira” – Losen
La Losen si va caratterizzando sempre più per la presenza nel suo catalogo di musicisti non norvegesi tra cui parecchi italiani. Questa volta è il caso di un duo al femminile composto da Sara Calvanelli, accordeon, indian harmonium, loops, cojo, voce e Virginia Sutera, violino. Davvero strana la genesi di questo album per cui vale la pena raccontarla brevemente. La Calvanelli è fisarmonicista arguta che ama sia la scrittura sia la libera improvvisazione; dal canto suo Virginia Sutera è violinista anch’essa attenta all’improvvisazione ma soprattutto all’interazione tra la musica e le altre arti. Siamo nell’autunno del 2020, tempo di lock-down. Le due musiciste decidono di incontrarsi seppure solo per corrispondenza: di qui uno scambio di idee, di prove, di registrazioni fino a quando chiuso il periodo del lock-down, le due si incontrano personalmente dando vita all’album in oggetto. Date le premesse tutto il disco si basa su un libero gioco improvvisativo tra le due che dimostrano di avere un’ottima intesa passando da sonorità che richiamano il barocco a momenti folk fino ad atmosfere più “moderne”.

Sudeshna Bhattacharya & Somnath Roy –“Mousson de Calcutta” – Losen
Ancora una sortita fuori dai confini nazionali da parte di questa coraggiosa etichetta che si è spinta sino a considerare la musica indiana…anche se poi la registrazione è stata effettuata a Oslo. Anche di questo album è protagonista un duo ben lontano, come si accennava, dalle terre e dalle atmosfere nordiche: Sudeshna Bhattacharya e Somnath Roy. Si tratta di un connubio apparentemente improbabile: Sudeshna è infatti uno dei migliori specialisti di sarod, lo strumento a corde tipico della tradizione musicale dell’Hindustan mentre Somnath è conosciuto per la sua straordinaria abilità nel percuotere il ghatam, strumento tipico della musica carnatica indiana. E’ possibile far coesistere questi due generi sulla carta così diversi? Secondo gli esperti di musica indiana assolutamente no: viceversa i due artisti, con questo album, hanno dimostrato che sì, è possibile, basta intendersi su ciò che si vuole esprimere, basta possedere una straordinaria tecnica di base e il gioco è fatto. In repertorio tre composizioni create da Bhattacharya che durano ben sei, 13 e 38 minuti; in tutte e tre spicca il meraviglioso canto della già citata Somnath Roy che riesce ad emozionare ogni ascoltatore al di là di qualsivoglia barriera di terra e di lingua.

Benvenuta alla Ipogeo Records
E’ con vero piacere che salutiamo questa nuova etichetta discografica Ipogeo Records fondata di recente da Filippo Cosentino, uno dei principali compositori e musicisti jazz contemporanei.
Come sottolineano i responsabili dell’etichetta, fondamentale è la solidità del team di produzione. Da un lato il gruppo di lavoro, che nelle figure chiave è formato da Filippo Cosentino, fondatore, producer e direttore artistico; Federico Mollo, fonico e assistente di produzione; Adriana Riccomagno, ufficio stampa e coordinamento team di distribuzione; Fabrizia Gar e Carlotta Vacchetti, team grafico. Particolare attenzione viene dedicata alla cura del catalogo musicale assicurato dalla casa editrice Cose Note Edizioni. Le sezioni del catalogo sono: jazz music, songwriting e cantautorato; musica contemporanea; early music; soundtrack.
In jazz music e musica contemporanea, tre progetti sono stati ammessi al primo turno di ballottaggio dei Grammy® Awards in due differenti edizioni: 65th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Heros, Filippo Cosentino feat. Danilo Mineo e Daniele Bertone, nella categoria Best New Artist; Carlotta The Musical, James David Spellman / Filippo Cosentino, nella categoria Best Theatre Music essendo in effetti la colonna sonora di uno spettacolo teatrale; e quest’anno alla 66th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Ask, Filippo Cosentino, nella categoria Best Instrumental Contemporary Music mentre Leeway, singolo tratto da Ask, Filippo Cosentino & Marc Copland feat. Daniele Bertone, nella categoria Best Jazz Performance.
Nella categoria Jazz i primi due lavori pubblicato sono stati “Multiverse” solo in versione digitale e quindi “Heros” di Filippo Cosentino. In quest’ultimo album la formazione è il trio in cui il leader, chitarrista, è accompagnato dal formidabile pianista Marc Copland, per moltissimi anni componente della formazione di John Abercrombie, e Daniele Bertone alla batteria e percussioni. In programma sette composizioni del leader in cui si evidenzia da un lato le capacità strumentali di tutti e tre i musicisti, dall’altro le ottime capacità compositive di Cosentino che di certo non scopriamo oggi. Le atmosfere predilette sono un mix di jazz, folk e country anche se qua e là riemerge l‘anima mediterranea del leader.

In Italia scendono in campo anche i grossi calibri

Amato Jazz Trio – “Keep Straight On” – abeat
Elio Amato piano, Alberto Amato contrabbasso e Loris Amato batteria sono i componenti dell’Amato Jazz Trio, una delle formazioni più longeve he a storia del jazz italiano conosca. Una storia costellata di successi straordinari colti in tutto il mondo tanto che non a caso l’amico Franco Faienz li aveva definiti uno dei più originali trii d’Europa e oltre”. La storia del Trio comincia nel 1979 in Sicilia, a Canicattini Bagni, dove i tre fratellini Elio, Alberto e Sergio si divertono a suonare assieme. Ben presto si fanno notare a livello locale e arrivano i primi ingaggi, i primi concerti. Nel periodo che va dal 1985 al 1987 la svolta: il gruppo viene chiamato per aprire i concerti di stelle quali Betty Carter, Muhual Richard Abrams e Wynton Marsalis. Nel 1988 il gruppo vince a Milano il concorso indipendenti per l’allora celebre rivista Fare Musica e subito dopo il jazz contest della Dire. ottenendo come premio la possibilità di incidere il loro primo disco intitolato ‘Jazz Contest 88’. Da quel momento l’Amato Jazz trio incide una serie di album sempre di grande successo e soprattutto ottiene il plauso indiscriminato di pubblico e di critica mantenendo il suo standard qualitativo sempre molto elevato. Cosa che si ripete anche in quest’ultimo album in cui i tre fratelli convincono sempre di più. La loro è davvero una musica ‘universale’ nel senso che nel stessa confluiscono input assai diversi provenienti ovviamente dal bop, dal free jazz, dalla tradizione classica e dalle straordinarie armonizzazioni proprie della musica dei primo del ‘900, il tutto senza dimenticare le origini mediterranee del trio che trova in ognuno dei componenti l’interprete ideale per quel che in quel momento si sta eseguendo. Di qui la difficoltà di segnalare un brano piuttosto che un altro…anche se qualche parola in più desideriamo spenderla per “Arvo” scritto da Alberto Amato: si tratta di un sentito omaggio al compositore estone Arvo Pärt contenuto in poco meno di quattro minuti in cui le influenze minimaliste la fanno da padrone trasportando l’ascoltatore in un mondo “altro”, ben lontano dalle nefandezze di quello odierno.

Claudio Angeleri – “Concerto feat. Gianluigi Trovesi” – Dodicilune
Si intitola semplicemente “Concerto” il nuovo album firmato Claudio Angeleri e registrato live in occasione del Bergamo/Brescia Capitale della Cultura Italiana il 20 maggio 2023 presso l’Auditorium Modernissimo Nembro. Nella versione live i quadri di Gianni Bergamelli si intrecciano con le composizioni musicali di Claudio Angeleri, i testi narrativi di Maurizio Franco e le animazioni di Adriano Merigo che danzano in tempo reale con le improvvisazioni dei diversi solisti. Il CD che vi presentiamo è quindi  un album a tema in cui   il pianista e compositore bergamasco desidera omaggiare i grandi della cultura lombarda. Per affrontare questo difficile compito Angeleri ha chiamato accanto a sé una schiera di eccellenti musicisti quali Gianluigi Trovesi (clarinetto), Giulio Visibelli (sax soprano e flauto), Gabriele Comeglio (sax alto), Marco Esposito (basso elettrico), Matteo Milesi (batteria), Paola Milzani (impegnata sia come solista vocale sia come direttrice del coro), il giovane talento Nicholas Lecchi (sax tenore) e il coro The Golden Guys. In programma otto brani tutti scritti dallo stesso Angeleri eccezion fatta per “Lacrimosa” tratto dalla Messa da Requiem op. 73 di Gaetano Donizetti, mentre le liriche di “Light and Dark” e “Armida” sono state scritte da Alessia Marcassoli. Cercando di mantenersi in un difficilissimo equilibrio tra antico e attuale, Angeleri mette in campo tutta la sua sapienza musicale scrivendo partiture in cui echi di gospel si mescolano a input di chiara influenza “jazz contemporary” nonché classica in cui l’improvvisazione gioca un ruolo di primissimo piano grazie all’interplay che si è costituito tra i musicisti. Al riguardo eccellente il contributo degli artisti citati in precedenza con un Trovesi che sembra non sentire minimamente il peso degli anni che passano anche per lui. Per la cronaca i protagonisti cui sono dedicate le varie performance sono Caravaggio, Arturo Benedetti Michelangeli, Giacomo Costantino Beltrami, Niccolò Tartaglia, Giacomo Quarenghi, Torquato Tasso e le donne della Resistenza. Infine un elemento su cui interviene lo steso Angeleri: la musica, come si accennava, è tratta da uno spettacolo multimediale, procedimento sempre piuttosto rischioso. Di qui la domanda: è possibile gustare la valenza della musica prescindendo da tutto il resto? “Suggerisco afferma Angeleri –  di dedicarsi ad un primo ascolto esclusivamente sonoro senza guardare e leggere il booklet: solo pura suggestione uditiva. Gli ascolti e le letture successive offriranno così la possibilità di cambiare prospettiva e replicare più volte le emozioni. Il disco, in questo modo, assume una dimensione plurale e condivisa che lo rende ancora oggi, nel terzo millennio, un mezzo vivo e stimolante per i musicisti di jazz – uso volutamente un termine così ampio – che si esprimono nel tempo reale e per il pubblico che ne fruisce. Anche per questo motivo è stata scelta una versione live di Concerto per catturare una versione unica e irripetibile».

Dino Betti Van Der Noot – “Let Us Recount Our Dreams” – Audissea
Mi onoro di conoscere Dino Betti oramai da qualche decennio ma posso tranquillamente affermare che ben difficilmente ho visto un jazzista conservare un entusiasmo, una lucidità, una positività che sempre riscontro quando parlo con lui. E queste qualità si ritrovano puntualmente negli album che, in questi ultimi tempi Dino licenzia producendo sempre musica di altissima qualità. Ovviamente a questa regola non fa eccezione “Let Us Recount Our Dreams” (“Raccontiamoci i nostri sogni”) chiaramente ispirato da una delle più belle e suggestive pagine di William Shakespeare.    A parte l’originalità delle composizioni, è straordinario il modo in cui Betti gioca con le note: lui le fa ruotare, rimbalzare, rincorrere a formare un caleidoscopio che poi, fatalmente va a sfociare in un disegno unitario che evidentemente è lì, nella mente del leader. Ovviamente per raggiungere risultati del genere, è indispensabile poter contare su musicisti che ben conoscono il modo di operare del compositore: non è quindi un caso che anche questa volta Dino Betti Van Der Noot abbia chiamato accanto a sé i ventidue musicisti con i quali ha lavorato negli ultimi anni, in particolare nel precedente “The Silence of the Broken Lute”, con l’aggiunta del trombettista Tiziano Codoro, mentre a scrivere le lunghe note di copertina è stato incaricato il critico statunitense Thomas Conrad le cui considerazioni sono, a mio avviso, condivisibili dalla prima all’ultima riga. Venendo alle nostre personalissime considerazioni, anche in questo album abbiamo ritrovato quelle caratteristiche elencate in apertura con una attenzione maggiore verso certi suoni orientaleggianti che amplificano lo spettro sonoro di cui si serve Dino. Non a caso si è servito di strumenti quali l’arpa, il dizi e il flauto cinese poco usuali nelle orchestre jazz. A Conferma della sua straordinaria conoscenza dell’universo musicale nel suo insieme, non mancano accenni al progressive, accenni sempre misurati e comunque assolutamente pertinenti. Tutto Ciò, agendo allo stesso tempo con l’incrociare delle linee melodiche, con il flusso dinamico che varia in modo straordinario, con il variare delle atmosfere proposte fa sì che l’album mai perda una sola oncia di omogeneità. Insomma un gran bell’album che vale la pena ascoltare più di una volta per capirne ogni più remota sfumatura.

Maria Pia De Vito – “This Woman’s Work” – PMR
Se ci dichiarassimo stupiti dall’ascolto di questo nuovo album di Maria Pia De Vito non saremmo sinceri fino in fondo: in effetti seguiamo la straordinaria carriera della vocalist napoletana da tanti anni e l’abbiamo sempre ammirata per quel suo mai adagiarsi sugli allori di un successo più che meritato, ma continuare a ricercare, ad andare avanti ad esplorare nuovi terreni. Questa volta l’obiettivo è veramente importante e per chi scrive è un piacere sottolinearlo dal momento che proprio a questo argomento ha dedicato un libro: riflessione sulla condizione femminile e su quali strategie sono state attuate dalle donne per resistere in questi lunghi lassi di tempo. Per farlo la De Vito si è avvalsa innanzitutto di un nuovo gruppo senza pianoforte composto da Mirco Rubegni tromba, Giacomo Ancillotto chitarre ed electronics, Matteo Bortone basso ed electroncis, Evita Polidoro batteria. I pezzi in repertorio provengono dal jazz di Tony Williams, Ornette Coleman, dal cantautorato di Elvis Costello e Kate Bush, fino a elementi del folk cui si aggiungono tre pezzi composti a quattro mani dalla leader con Matteo Bortone. L’ispirazione, per esplicita ammissione della stessa De Vito, proviene dalle opere di autrici quali Virginia Woolf, Rebecca Solnit, Margaret Atwood. Il risultato? Assolutamente convincente. La De Vito è del tutto credibile quando affronta la questione femminile anche perché, come si accennava in apertura, ha speso tutta la vita al servizio della musica senza cedere a compromessi e andando sempre dritto per la sua strada. Prescindendo dalle più che lodevoli intenzioni della leader, l’album si segnala per la sua intrinseca valenza artistica: i brani sono tutti significativi, interpretati ora con vigore ora con dolcezza dalla De Vito la cui voce sembra più chiara rispetto ad altre occasioni. More solito la De Vito improvvisa con disinvoltura chiamando in causa la sua profonda conoscenza della musica non solo jazz, ma anche rock, folk e classica. Ovviamente per affrontare una tematica così complessa non solo dal punto di vista musicale, la De Vito si è affidata ad un gruppo di musicisti non solo collaudati ma anche sulla rampa di lancio come la bravissima batterista Evita Polidoro. Al riguardo occorre sottolineare come la scelta si stata più che felice dal momento che il gruppo ha funzionato semplicemente alla perfezione.

Claudio Fasoli NeXt 4et – “Ambush” – abeat–
Conosco Fasoli oramai da parecchi anni e quindi posso affermare, senza tema di smentite, che Claudio è uomo intelligente, spiritoso, cordiale e originale. Queste doti il sassofonista le trasporta nella sua musica che di conseguenza risulta sempre straordinariamente nuova, affascinante, coinvolgente. Ascoltando uno dopo l’altro i vari suoi dischi si rimane davvero stupefatti di come l’artista abbia saputo trovare una chiave sempre nuova per le sue composizioni. Così anche questo “Ambush” presenta una sua spiccata originalità che lo distingue nettamente dai precedenti album, originalità che può farsi risalire ad un uso più spregiudicato e intenso dell’elettronica che trova nella chitarra di Simone Massaron un interprete fondamentale. Le note sembrano quasi rimbalzare da un lato all’altro del pentagramma senza soluzione di continuità con il leader che guida il gruppo con mano ferma anche se le parti improvvisate paiono davvero tante. Il tutto senza che mai il discorso narrativo perda la sua logica: Fasoli è sempre perfettamente a suo agio qualunque strumento imbracci ( sax tenore o sax soprano) e qualunque ruolo rivesta in quello specifico momento. E al riguardo non si può non rilevare la grandezza di Fasoli come compositore, un musicista che conosce benissimo il linguaggio musicale anche al di là del jazz, che sa perfettamente da dove partire e dove arrivare e che soprattutto riesce sempre ad esprimere i propri sentimenti all’interno di una scrittura che sa valutare assai bene anche il valore del silenzio, l’importanza del respiro nella musica, nell’universo sonoro. Non a caso Nat Hentoff ha scritto di lui “che non lo si può confondere con nessun’altro”. Molto ben studiato anche il repertorio in cui a brani veloci si alternano atmosfere più riflessive e intimistiche. Che portano l’ascoltatore a chiedersi con curiosità ‘cosa ascolterò adesso?’. Come ci piace sottolineare sempre in occasioni del genere, quando un album riesce così bene certo il merito va alle composizioni, al leader…ma anche al resto del gruppo che per l’occasione è costituito dal già citato Simone Massaron chitarra elettrica, Tito Mangialajo Rantzer contrabbasso e Stefano Grasso percussioni.

Nicola Mingo – “My Sixties in Jazz” – Alfa Music
Come si è forse già capito dalle mie note, i jazzisti italiani che hanno più di 50 anni praticamente li conosco tutti…o quasi. Ma coloro i quali posso definire “amici” sono ovviamente pochi, molto pochi. Ecco, Nicola Mingo è uno di questi anni. L’ho conosco da tempo e tra di noi si è instaurato un bellissimo rapporto fatto di reciproca stima ed amicizia. Stima ed amicizia che però non mi impediscono di valutare con tutta l’oggettività di cui sono capace le sue ‘imprese’ musicali. E proprio partendo da tale presupposto non ho alcun timore di essere smentito affermando che quest’ultima produzione del chitarrista napoletano è fra le cose migliori da lui incise nel corso degli anni. Nicola è uno dei musicisti più coerenti che abbia conosciuto: lui è u amante del bop e a questo linguaggio rimane fortemente ancorato nonostante i boppers in esercizio permanente effettivo siano rimasti veramente pochi ed è questa una considerazione imprescindibile nel valutare l’album. Lo stesso si pone, infatti, come un esplicito omaggio da un canto ai 60 anni di jazz di Mingo in senso autobiografico e,  dall’altro esplicita il chitarrista “a quegli anni Sessanta che hanno prodotto fenomeni musicali come l’hard bop, Art Blakey and Jazz Messengers e tutte le derivazioni chitarristiche come Grant Green, Wes Montgomery, Kenny Burrell, Barney Kessel, Tal Farlow, Joe Pass, Pat Martino, George Benson, miei punti di riferimento stilistici”. M per essere ancora più chiari Mingo aggiunge che “questo progetto rappresenta un contributo personale, moderno ed innovativo al linguaggio del bebop e al suo fraseggio, nato con Charlie Parker e Dizzie Gillespie e ulteriormente sviluppatosi in una continua evoluzione fino ad approdare alla nostra contemporaneità”. Obiettivo centrato? A mio avviso assolutamente sì. La modernità di Mingo nell’approcciare uno dei linguaggi più complessi del jazz è sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di tutti e può rappresentare, soprattutto per i più giovani, un momento di attenta rilettura di uno dei periodi più gloriosi nella storia del jazz, un momento che, specie negli ultimi anni, non tutti hanno saputo interpretare, nel modo più giusto facendolo apparire vecchio e superato. Ottimo, è anche questo è un grande pregio, il rivolgersi a compagni di viaggio che hanno saputo ben interpretare gli intendimenti del leader: Francesco Marziani piano, Pietro Ciancaglini contrabbasso e Pietro Iodice batteria sono risultati perfetti, assolutamente inseriti nel progetto studiato da Mingo.

Modern Art Trio – “Modern Art Trio” – Gleam Records
Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba, Bruno Tommaso contrabbasso sono gli artefici di una registrazione che è rimasta iconica, una registrazione che ha spinto la Gleam Records a ristampare per la quarta volta il disco in oggetto. Questa ulteriore ripresentazione dell’album è il frutto di una importante opera di restauro audio voluta dal produttore Angelo Mastronardi e realizzata grazie al fortuito ritrovamento del nastro originale da parte dell’editore Luca Sciascia e accuratamente restaurato e masterizzato dal fonico Jeremy Loucas negli Stati Uniti. L’album è disponibile in edizione limitata su Vinile 180 gr. (bauletto con inedito booklet) e su CD (formato gatefold con booklet arricchito), dal 10 novembre 2023 e distribuito da IRD International Distribution. Ciò detto vediamo più da vicino i contenuti musicali (e non solo) di questo “Modern Art Trio”. Siamo nell’aprile del 1970 a Roma e già da qualche anno (per la precisione dal 1967) è attivo il Il Modern Art Trio che rimarrà in attività fino al 1972. La prima formazione vedeva al contrabbasso Marcello Melis che lascerà il posto l’anno successivo a Giovanni Tommaso, il quale a sua volta nel 1969 sarà sostituito da Bruno Tommaso. Il primo e unico disco del trio riporta sulla copertina la sigla “Progressive Jazz”, un chiaro riferimento alla musica suonata. L’album fece scalpore in quanto si trattava di un primo tentativo di mettere ordine in un linguaggio che di ordine non voleva sentir parlare come ricorderanno chi quegli anni ha vissuto in prima persona. E che il tentativo fosse già di per sé piuttosto ambizioso se non addirittura velleitario lo evidenzia lo stesso D’Andrea quando nel libro dedicato a Gato Barbieri da Andrea Polinelli afferma: Quando con Gato facemmo ‘Ultimo tango’ io venivo fuori da questa cosa terribile che era il MAT nel quale come linguaggio musicale stavo completamente da un’altra parte”. Comunque a parte le sensazioni che i componenti il trio possono esprimere oggi, resta il fatto che il disco rappresentò una grossa novità specie per il panorama italico dal momento che in ogni modo rappresenta una sorta di dichiarazioni di intenti, un documento in cui Tonani e compagni illustrano le ricerche che in quel momento stavano portando avanti, ricerche che come dimostrerà un attento ascolto del disco, avevano, hanno e avranno un loro perché.

Roberto Ottaviano – “A che punto è la notte”, “Astrolabio mistico” – Dodicilune
Credo di aver speso tutte le aggettivazioni possibili parlando di Roberto Ottaviano che considero in assoluto uno degli artisti più innovativi, immaginifici, tecnicamente superlativi, coerenti con alcuni inderogabili principi di fondo quale in primo luogo l’onestà intellettuale, che calchino le scene del jazz internazionale. E ciò che si abbia riguardo sia ai concerti sia alle registrazioni. A quest’ultimo riguardo due sono le perle che il sassofonista barese Roberto Ottaviano ha deciso di regalarci nel corso di questo 2023 che ci sta salutando: la prima – “Roberto Ottaviano & Pinturas – A che punto è la notte” – è un progetto interamente pugliese in cui il gruppo guidato da Ottaviano è completato dalla chitarra di Nando di Modugno, dal contrabbasso di Giorgio Vendola e dalla batteria e dalle percussioni di Pippo D’Ambrosio. Il progetto è dedicato alla memoria del chitarrista pugliese Rino Arbore prematuramente scomparso nel 2021. Per chi ama leggere “A che puto è la notte” avrà sicuramente richiamato il titolo di un racconto di Fruttero e Lucentini ma Ottaviano spiega chiaramente che la frase è stata usata strumentalmente solo perché “può racchiudere in sé molte altre atmosfere e richiami, come quelli contenuti in diversa letteratura”. Ciò premesso, l’album si snoda minuto dopo minuto, attimo dopo attiamo, scoprendo di volta in volta le sue innumerevoli sfaccettature. Ecco quindi trapelare nelle composizioni originali il profondo radicamento dei musicisti nella realtà mediterranea bilanciato in qualche modo dai due brani che aprono e chiudono il disco, di “O Silencio das Estrellas” della cantante e compositrice brasiliana Fatima Guedes e “Avalanche”, del cantautore canadese Leonard Cohen. Ma a parte queste citazioni quel che colpisce è soprattutto l’empatia che si avverte tra i musicisti e la loro capacità improvvisativa che emerge magari laddove non te l’aspetti.
Il secondo volume in realtà è a firma doppia – “Michel Godard, Roberto Ottaviano – Astrolabio mistico – Dodicilune” e racconta la vita di Bianca Lancia, «l’unica donna che l’imperatore Federico II di Svevia abbia mai amato». Per questa non facile impresa l’ 11 e 12 settembre scorsi al Castello Normanno-Svevo di Gioia del Colle (Ba), si sono dati appuntamento il serpentone e il basso elettrico di Michel Godard, il sax soprano di Roberto Ottaviano, il canto di Ninfa Giannuzzi, la tiorba di Luca Tarantino, i testi e la voce recitante di Anita Piscazzi. In programma quattordici brani originali scritti dai musicisti, con testi di Anita Piscazzi e arrangiamenti di Michel Godard e Luca Tarantino. In perfetta coerenza con la storia raccontata, l’album è pervaso da una a volte struggente malinconia come nel bellissimo brano d’apertura firmato da Roberto Ottaviano. E questo tono soffuso, raccolto si avverte per tutta la durata dell’album che acquisisce così una propria personalità ben distinta dal clamore della sperimentazione ad ogni costo o dalla riproposizione sic et simpliciter di modelli usati e abusati. Insomma una originalità di esposizione che caratterizza non già da oggi le produzioni dei due leader; ad ulteriore conferma si ascolti il terzo brano, “Light the Earth”, per l’appunto scritto da Godard.

Gerlando Gatto

Casa del Jazz: Stefania Tallini illustra la sua arte / Federica Michisanti conquista con la sua grazia

Dopo poco più di un mese di prolifiche serate, in cui il nostro direttore Gerlando Gatto, insieme alle sue ospiti, ha esplorato la situazione del jazz femminile in Italia, la serie L’Altra Metà del Jazz volge al termine, non prima però di aver regalato al pubblico un’ultima interessante serata, con una particolarità per quanto riguarda le due artiste: entrambe infatti sono state incoraggiate nella loro carriera musicale dallo stesso Gatto.
La prima parte è dedicata alla pianista calabrese, compositrice, arrangiatrice, didatta Stefania Tallini, impossibilitata suo malgrado a suonare dal vivo a causa di un infortunio ed ergo unica artista a presentare solo brani registrati, cosa di cui Stefania non manca di mostrare il proprio rammarico durante l’intervista. Intervista che parte appunto dalle origini del rapporto della pianista con il jazz, da ritrovare in un disco di Chet Baker ascoltato all’età di 17 anni, e che va in seguito a toccare il rapporto della musicista con le altre sfere artistiche di sua competenza, prima fra tutte la musica brasiliana. Da questo  complesso universo musicale, la Tallini confessa di essere stata influenzata   principalmente da  Antônio Carlos “Tom” Jobim, per quanto riguarda la composizione e l’interpretazione pianistica e, altro universo di riferimento, dalla musica classica, ambito che la Tallini ha proficuamente frequentato, descrivendoli come “vasi comunicanti”, senza alcuna gerarchia tra i generi: in tal modo si rievoca il filo rosso che ha inconsapevolmente percorso tutte le artiste intervistate, ovvero quello del superamento di una  concezione gerarchica tra generi musicali e di una sempre maggiore apertura alla contaminazione.

Tornando al Jazz propriamente detto, la conversazione va a vertere sul rapporto della musicista con gli standard jazzistici, e a questo proposito lei sottolinea l’anomalia del suo percorso rispetto a quello che è il canone accettato: lei prima inizia a suonare e comporre la propria musica e solo in seguito si dedica all’esecuzione degli standard, ma con il suo stile – non per presunzione, ci tiene a specificare, ma per una sua precisa esigenza espressiva; inoltre, Stefania ne approfitta per raccontare anche un aspetto più intimo di questo percorso, ovvero un costante senso di inadeguatezza che l’ha perseguitata per gran parte della sua carriera, fino a quando non ha imparato a considerare questa sua anomalia di percorso come il suo punto di forza. Parlando appunto della sua opera, il suo modus componendi è molto incentrato su un’improvvisazione del tutto libera, al contrario di quella che potrebbe essere quella in un pezzo jazz, legata inevitabilmente a schemi ritmici o giri armonici: è appunto in questa libera ed istintiva esplorazione del panorama sonoro che la Tallini trova ispirazione, comunque lontana da ispirazioni riconducibili alla corrente del free jazz.
L’intervista si conclude toccando altri due aspetti di Stefania: quello didattico, da insegnante, in cui esprime un quadro desolante per le generazioni presenti, ovvero una mancanza totale di sogni e aspirazioni per il futuro, ma al contempo non manca di precisare il suo orgoglio per i successi dei suoi alunni, e quello da esecutrice: parla infatti della sua formazione preferita al momento, ovvero il duo, che lei definisce terreno di scoperta continua e zenit del rapporto, della libertà e del dialogo. Al riguardo non si trova d’accordo con Gatto il quale ritiene che per suonare bene in duo occorre conoscersi bene; “Io – ribatte la Tallini,  presentando la sua esperienza con il flautista spagnolo Jorge Pardo – nonostante non ci conoscessimo, siamo riusciti ad instaurare  da subito una profonda sintonia”. Infine, rivela il suo sogno nel cassetto, ovvero poter registrare un progetto con una grande orchestra di archi.
I brani che come al solito hanno accompagnato l’intervista sono stati Riotango, tratto dall’album Brasita (2022) e registrato in collaborazione con i brasiliani Daniel Grossi all’armonica e Jaques Morelenbaum al violoncello, Silent Moon tratto dall’album E Se Domani (2023) registrato in collaborazione con il trombettista Franco Piana, presente peraltro in sala, e Uneven, estratto dall’album omonimo del quale purtroppo lamenta la mancata promozione a causa della pandemia e registrato in trio con il batterista Gregory Hutchinson e il contrabbassista Matteo Bortone.

Nel secondo tempo a calcare il palco è stata la contrabbassista Federica Michisanti, che si avvicina al mondo del jazz anche lei in un secondo momento: partendo da origini più legate al progressive rock dei Led Zeppelin, dei Genesis e di Sting (con il quale, tra l’altro, ha confessato di voler collaborare come sogno nel cassetto); conosce il jazz quando, a 20 anni, inizia a suonare il basso elettrico in un gruppo di progressive rock. Ma allora come mai si è fatta conoscere, e si è presentata sul palco, come contrabbassista? La risposta la può dare il pianista Stefano Sabatini, suo insegnante, che l’ha convinta a studiare anche il contrabbasso, strada che le ha portato molta fortuna, non abbandonando mai tuttavia il basso elettrico. “Presentando” lo strumento che ha portato sul palco della Casa del Jazz”, Federica ha spiegato come lo stesso abbia un manico più lungo di quello che sarebbero le dimensioni standard in quanto ricavato da uno strumento tirolese di fine 800, e di avere un’anomalia nell’ultima nota di questo manico – anomalia sistemata dopo un intervento da parte di un liutaio.
Inoltre ha parlato della sua passione per il disegno, tanto da essere convinta di voler fare la disegnatrice fino ai 20 anni – e a chi vi scrive non può non venire in mente, riguardo al rapporto tra musica e arti visive, l’esempio del fumettista e disegnatore Jamie Hewlett, membro fondatore insieme a Damon Albarn dei Gorillaz, affermati da ormai più di due decenni come una delle realtà più influenti dell’hip hop alternativo.
Riguardo alla domanda sulle difficoltà riscontrate dalla Michisanti in ambiente jazz in quanto donna, lei racconta da una parte di un ambiente ancora non del tutto sviluppato in questo senso, dall’altra però ci tiene a specificare il fatto che è una situazione che cambia radicalmente da persona a persona.
Parlando di come lei stia vivendo la sua situazione attuale, nella quale viene molto apprezzata sia da pubblico che da critica, la musicista riferisce da parte sua una visione di questo momento come uno sprone a fare sempre meglio e a suonare sempre meglio: per quanto riguarda il suo modo di suonare, lei riferisce che all’inizio si esibiva in trio con il pianista Simone Maggio, che peraltro l’ha accompagnata durante la serata, e il batterista Rosario de Martino, ma che a seguito – purtroppo – della morte di quest’ultimo ha iniziato a suonare accompagnata dal sassofonista Emanuele Melisurgo, e da questo sodalizio è nata una predilezione da parte di Federica per una formazione a tre senza batteria, mancanza alla quale rimedia molte volte, in quanto a scansione ritmica, il piano di Maggio. Riguardo alle sue influenze lei cita tra i classici Chopin, Beethoven, Debussy, Stravinsky e la scuola austriaca, mentre tra i musicisti jazz mostra un’ammirazione particolare per Scott LaFaro, Gary Peacock e Dave Holland. Parlando invece della sua composizione, illustra un aspetto che la accomuna alla collega che l’ha preceduta sul palco, ovvero il basare le sue composizioni su improvvisazioni al pianoforte, aiutate nel suo caso da un programma musicale per avere un’anteprima sul risultato finale complessivo; per quanto riguarda la sua identità di ascoltatrice confessa invece che a colpirla sono soprattutto le dinamiche e fa inoltre notare come il contrabbasso, nonostante la sua sottovalutazione negli arrangiamenti complessivi, serva come vero e proprio collante tra le varie frequenze. Infine racconta della sua esperienza con Ornella Vanoni e di come la Signora sia riuscita, nonostante una frattura al femore e le raccomandazioni dei suoi medici, a portare avanti il suo tour (non a caso Federica la definisce “un’eroina”).
I brani suonati da Federica e Simone sono stati Before I Go e Reset, tratti entrambi dall’album Isk (2017), e infine un medley tra Qalb – Il verde, tratto da Jeux de Couleurs (2020), e Floathing (2023).

Beniamino Gatto