“Immersivity” è l’insegna del Roma Jazz Festival 2022!

E siamo alla 46° edizione: dal 6 al 19 prossimo torna il Roma Jazz Festival, che animerà la Capitale con 26 concerti fra l’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, la Casa del Jazz e il Monk Club, fino ad arrivare al Teatro del Lido a Ostia. Diretto da Mario Ciampà, il Roma Jazz Festival 2022 è realizzato con il contributo del MIC – Ministero della Cultura, di Roma Capitale ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
Dopo “Jazz is Now” del 2018, “No Border” del 2019, “Jazz for Change” nel 2020 e “Jazz Code” del 2021, il titolo di questa nuova edizione è “Immersivity”, per un approccio multisensoriale, ludico e coinvolgente che guarda al contemporaneo e al futuro senza dimenticare le radici di un linguaggio al tempo stesso colto e popolare, sofisticato e immediato, in grado di parlare a pubblici diversi, da quelli della sale da concerto e dei jazz club, fino ai frequentatori del dancefloor e dei grandi festival multimediali.
Giganti della scena mondiale come Steve ColemanSpyro Gyra e la celeberrima Mingus Big Band al fianco dei protagonisti della nuova scena british come Alfa Mist o esordienti puri come il collettivo Jemma, vincitori del programma LazioSound Scouting 2022. Il protagonismo femminile è incarnato da straordinarie artiste come Lady BlackbirdNuby GarciaRosa Brunello e Ramona Horvath mentre l’inarrestabile spinta all’innovazione è documentata da artisti già celebri come Enrico Rava – al festival con il chitarrista sperimentale austriaco Christian Fennesz e il percussionista indiano Talvin Singh – e Danilo Rea, in programma con il progetto cromestetico Soundmorphosis.
Ancora: i sofisticati software del pianista Ralf Schmid e le performance multimediali di XY Quartet, le visioni ecologiche di Kekko Fornarelli e della giovanissima Jazz Campus Orchestra con lo spettacolo Let’s Save The Planet e la carica visionaria di videoartisti come Paolo Scoppola e Claudio Sichel. La cura della tradizione del pianista azero Isfar Sarabski e l’avanguardia di Erik Fredlander, in compagnia di Uri Caine, o dell’ensemble Itaca 4et, ma anche i ritmi elettroacustici di Kodex. E poi le produzioni originali della New Talent Jazz Orchestra con un grande omaggio a Charles Mingus e di Fabrizio Consoli e Fausto Beccalossi che celebrano Pasolini, così come l’incontro fra jazz e teatro e i due appuntamenti dedicati ai bambini di Fiabe in Jazz.
Questo lo straordinario programma del Roma Jazz Festival 2022, che prosegue così l’incessante ricerca sulle trasformazioni della scena jazz nazionale e internazionale, sulle sue contaminazioni con altre forme espressive e con l’innovazione tecnologica per rendere ancor più manifesta la trasversalità assoluta del Jazz e offrirne una fruizione più dinamica e contemporanea.

Info: https://romajazzfestival.it/

CALENDARIO
6 novembre
Fiabe Jazz: I Musicanti di Brema | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
New Talent Jazz Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Lady Blackbird | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Ralf Schmid: Pyanook | Casa del Jazz, h21

7 novembre 
Rosa Brunello: Sounds Like Freedom ft. Yazz Ahmed, Enrico Terragnoli, Marco Frattini| Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

8 novembre 
Erik Friedlander The Throw | Casa del Jazz, h21

9 novembre
Ramona Horvath/Nicolas Rageau | Casa del Jazz, h21

10 novembre
Enrico Rava/Christian Fennesz/Talvin Singh | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

11 novembre
Nubya Garcia | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Kodex | Casa del Jazz, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Teatro del Lido (Ostia), h21

12 novembre
Spyro Gyra | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Lino Volpe/Rosario Giuliani: Jazz Story | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Casa del Jazz, h21

13 novembre
Fiabe Jazz: Cenerentola Rock | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
Jazz Campus Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Mingus Big Band | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

14 novembre 
Kekko Fornarelli: Anthropocene | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

15 novembre 
Isfar Sarabski Quartet | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Itaca 4et | Casa del Jazz, h21

16 novembre 
XY Quartet: 5 astronauts | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

17 novembre 
Danilo Rea/Paolo Scoppola: Soundmorphosis | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Jemma | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

18 novembre 
Alfa Mist | Monk Club, h21:30

19 novembre 
Steve Coleman Quintet | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita (parte 2)

Pubblichiamo la seconda parte della recensione di Flaviano Bosco sul Festival Internazionale Udin&Jazz, 32esima edizione, svoltosi a Udine dal 25 giugno al 16 luglio 2022 (clicca qui per leggere la prima parte)

Rosa Brunello è una delle certezze della giovane musica italiana. Figlia d’arte, di ottima formazione, è coinvolta in innumerevoli progetti musicali ed ha al proprio attivo molte collaborazioni anche con artisti internazionali. Il suo quintetto è composto da professionisti della sua stessa pasta che in qualche modo gravitano attorno al pianeta creativo dell’estroso trombonista Gianluca Petrella. La contrabbassista ha voluto mettere a frutto le sue innumerevoli esperienze musicali in un’incisione che interpreta le ultime tendenze del jazz che vedono come capofila i soliti giovani leoni della scena inglese con i loro mash-up di elettronica, nu-jazz, free form, Techno, Trance, World Music, tutte etichette giornalistiche che non dicono moltissimo ma che servono a delimitare un oggetto musicale, altrimenti non facilmente definibile. La musicista si è dimostrata coraggiosa e ardita a provarci, certo ha investito molto del suo talento in un progetto che ha buone prospettive ma che, almeno dal vivo, dimostra qualche reticenza o quanto meno il bisogno di essere maggiormente rodato. Comunque l’insieme è una perfetta espressione della forza gentile e del cuore cortese e generoso della giovane, affascinante contrabbassista che forse potrebbe osare di più.

Completamente fuori registro invece il celebre chitarrista Al Di Meola, la cui esibizione ispirata alle canzoni dei Beatles (Across the Universe) era tra le più attese dell’intera rassegna. Nessuno può mettere in dubbio le sue capacità tecniche e la sua meritata fama a livello mondiale ma a Udine ha dimostrato un’assoluta mancanza di rispetto per il suo pubblico e un’insospettabile irascibilità prendendosela con l’organizzazione e con il service fin dal sound check pomeridiano.
Irritato e risentito, per motivi probabilmente nemmeno chiari a lui stesso, si è fatto attendere per più di un’ora dal pubblico ignaro già in sala. Dopo mille esortazioni e preghiere dell’organizzazione si è deciso a salire sul palco accolto da una selva di fischi e di booo del pubblico che l’aveva tanto atteso. Non si è minimamente scusato rivolgendo parole decisamente insultanti ai tanti paganti accorsi per ascoltare la sua arte. Ne è seguita, naturalmente, un’esibizione nervosa, scostante, sbrigativa e autoreferenziale; il chitarrista ha suonato al peggio di sé con sommo rancore e nessuna empatia. Una serata sbagliata può capitare a tutti ma il chitarrista ha davvero passato il segno.
Molto meglio la serata successiva con la presentazione dell’ultimo lavoro del vulcanico collettivo italiano C’Mon Tigre e quello del Vjay Iyer Trio, incredibile protagonista della scena jazz mondiale.
I primi sono l’esempio perfetto di ciò che si può intendere per musica socialmente impegnata che però non abdica anche alla propria funzione d’intrattenimento. “Scenario”, l’ultimo album dell’ensemble ad organico variabile, vive letteralmente dei suoni della diaspora migrante dei nostri fratelli in cammino lungo le vie della speranza e della libertà. C’Mon Tigre collabora da anni con il fotografo di guerra della Magnum Photos, Paolo Pellegrini, che ha documentato, tra l’altro, il dramma dei profughi delle guerre africane e mediorientali sia sulla rotta balcanica, sia su quella Mediterranea. Con gran gusto estetico per il light design e le coreografie, l’ensemble sonorizza sul palcoscenico quella drammatica esperienza esistenziale, visivamente documentata dalle fotografie, facendo riferimento all’Afrobeat, al indie-rock, alla world music nelle loro declinazioni elettroniche e clubbing in un’atmosfera complessiva che forza le frontiere del jazz fino a dissolverle. Un’esibizione che davvero ha lasciato un segno nel cuore di tutti.

Indimenticabile anche il concerto di Vijay Iyer della contrabbassista Linda May Han Ho e del batterista Tyshawn Sorey. Un trio all star di musicisti straordinariamente dotati, al vertice del nuovo jazz a livello planetario. Nemmeno qui sono mancati i riferimenti all’impegno civile e politico della musica. Il pianista ha come modello d’ispirazione primaria l’opera poetica di Amiri Baraka con il quale ebbe una fruttuosa collaborazione. Sappiamo bene quanto fosse radicale la critica al regime capitalistico e schiavistico del poeta afroamericano che nel 2008 fu anch’egli ospite graditissimo di Udin&Jazz. Iyer a proprio modo se ne fa portavoce con una musica tellurica e carica di una bellezza abrasiva e indiavolata che non lascia indifferenti, esplosiva e perfino tribalistica nella sua essenza esplosiva e dirompente. In concerto, il trio s’impegna in lunghissime, compatte e travolgenti suite che sono un’esperienza immersiva e totale per musicisti e pubblico uniti in un percorso interiore di eccezionale valore.

Tra le conferme del festival anche quest’anno la “serata brasiliana” ispirata dal conduttore radiofonico Max De Tomassi, grande esperto della musica latinoamericana che durante tutta questa edizione di Udine&Jazz trasmetteva le cronache della rassegna in diretta su Radio Uno RAI nel suo programma estivo “Torcida”.
Il concerto del cantautore Ivan Lins, autentico monumento vivente della musica Popular brasileira, è stato il meraviglioso compimento di un breve interessante percorso tra interviste e approfondimenti che anche quest’anno ha avvicinato il pubblico di Udine all’universo creativo della musica tropicale.
Lins ha deliziato il pubblico con le sue melodie suadenti fatte di lontane nostalgie e dolcezze   di caramelle tra sofisticato jazz main stream e ritmi sudamericani del Samba e della Bossa Nova.

L’evento finale della rassegna udinese, il concerto degli Snarky Puppy è andato in scena in un gremitissimo Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Centinaia di fan aspettavano con ansia da mesi questo concerto che non ha deluso per nulla le aspettative. Il supergruppo di League e Lawrence ha una preparazione tecnica e una capacità esecutiva fuori dall’ordinario che lascia basiti e ipnotizzati gli ascoltatori. Grandissima e coinvolgente la verve compositiva del gruppo che sul palcoscenico rivela un’energia che fa sognare e ballare e che fin dalle prime note disegna un largo sorriso sul volto di tutti da una parte all’altra del palcoscenico. Generosissimi si sono impegnati in un acclamatissima esibizione, con trionfale, meritata ovazione finale di tutto il teatro giusta conclusione di un festival come sempre tutto maiuscolo.
Dulcis in fundo da non dimenticare due iniziative per nulla minori che rivelano la cifra della manifestazione e le sue prospettive.
Il festival ha attivato un’interessante collaborazione con il collettivo Muud, acronimo di Musica a Udine, che normalmente si occupa di promuovere giovani artisti locali attraverso un canale di podcasting finalizzato alla condivisione di contenuti culturali sui social. Il sodalizio già sperimentato nelle due edizioni Winter di Udin&Jazz, ha trasmesso in diretta streaming interviste e succulenti approfondimenti in deliziosi dopo-concerto in un accogliente pub della notte udinese.

Di grande significato il gioioso Workshop d’introduzione al Jazz dedicato ai bambini nel quale, attraverso suoni e giochi, i più piccoli hanno giocato con le note blu. La loro fresca, genuina creatività è la migliore garanzia per il futuro della musica; al loro cuore è dedicata ogni emozione, saranno loro a decidere direzione e prospettive, qualunque percorso sceglieranno sarà quello giusto perché apparterrà solo a loro, di tutto il resto avrà ragione il tempo.
In fondo a queste righe è utile ripetere una celebre frase di John Coltrane che come sempre ci esorta a meditare sull’Amore supremo:
“Il Jazz se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica per me è un’espressione degli ideali più alti: c’è dunque bisogno di Fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra… with brotherhood, there would be no war.”

Flaviano Bosco

A Proposito di Jazz ringrazia Udin&Jazz Festival e il suo ufficio stampa per la collaborazione e i fotografi Luca A. d’Agostino, Angelo Salvin e Gianni Carlo Peressotti per le immagini.

Udin&Jazz 2022 ovvero Play Jazz Not War

Di recente abbiamo fornito alcune anticipazioni su Udin&Jazz 2022 sottolineando, come fattori di grande positività, il fatto che la manifestazione rientrasse a Udine, sua sede naturale.
Adesso il programma è stato presentato nella sua interezza, e si tratta di un programma di sicuro spessore in quanto, more solito, riesce a coniugare l’esigenza di valorizzare le risorse locali con l’opportunità di offrire al pubblico alcune vere e proprie eccellenze del jazz di oggi.
Il Festival, giunto alla 32esima edizione e da sempre organizzato da Euritmica, per la direzione artistica di Giancarlo Velliscig, si svolgerà dall’11 al 16 luglio. Una settimana, quindi, densa di concerti, di eventi, di laboratori, di mostre, a valorizzare i molteplici aspetti di questa straordinaria musica, che in queste zone ha trovato sempre terreno fertile come dimostrano i numerosi talenti che provengono dal Friuli-Venezia Giulia.
Il clima culturale che, anche grazie alla musica, in questi anni si è sviluppato a Udine «ci inorgoglisce – ha dichiarato Velliscig nel corso della conferenza stampa di presentazione del Festival – e ci dà energia e slancio per continuare, in un non facile futuro in cui i rapporti umani e culturali dovranno essere fondamentali per la ricostruzione di tessuti sociali devastati da anni di pandemia e di inasprimenti bellici ed economici; confidiamo pertanto che il progetto di Udin&Jazz, che da qualche tempo si sviluppa anche in versione invernale, venga valutato e vissuto in senso positivo anche da parte della comunità regionale e locale, così come fino ad oggi è accaduto. Anche per questo il nostro motto di quest’anno sarà Play Jazz, not War!».
Udin&Jazz 2022 si apre l’11 luglio con la proiezione, introdotta dal critico musicale Andrea Ioime, del film “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” al Giardino Loris Fortuna in Piazza Primo Maggio (in collaborazione con il C.E.C.); dal 12 al 16 luglio poi, Udin&Jazz ospiterà due concerti a sera al Teatro Palamostre (alle 20 e alle 22) e contestualmente, in fasce orarie diverse, altri concerti, incontri e presentazioni.
Apertura il 12 luglio, nella sala Carmelo Bene del Teatro Palamostre (ore 18.30) con il vernissage della Mostra “I Colori del Jazz”, dell’artista udinese, Ivana Burello; la serata proseguirà, nella sala Pasolini, sempre al Palamostre, con due concerti: dapprima il pianista udinese, che risiede a Parigi, Emanuele Filippi, definito da Enrico Rava “uno dei migliori pianisti della nuova generazione”, presenta il suo nuovo progetto, “Heart Chant”, esibendosi con il giovane sassofonista olandese Ben van Gelder, uno dei musicisti più interessanti della nuova scena jazz Europea; successivamente, alle 22, il quartetto del celebre trombettista Fabrizio Bosso, completato da Julian Oliver Mazzariello, piano, Jacopo Ferrazza, double bass / e Nicola Angelucci, batteria presenterà  il suo ultimo lavoro “WE4”.
Il 13 luglio, il Palamostre ospiterà la presentazione del libro a fumetti “Mingus”, di Flavio Massarutto e Squaz, alla presenza dell’autore. A seguire, i concerti del quartetto internazionale della contrabbassista Rosa Brunello, con il suo nuovissimo “Sounds Like Freedom” e l’omaggio all’infinito universo dei Beatles di uno dei più grandi chitarristi del nostro tempo, Al Di Meola, che presenta “Across the Universe” alla testa del suo trio acustico con Peo Alfonsi alla chitarra e Sergio Martinez alle percussioni.

Il 14 luglio, ancora due concerti: s’inizia con la musica di “Scenario”, nuovo progetto dei C’Mon Tigre, collettivo che coinvolge diversi musicisti nazionali e internazionali (tra cui il friulano Mirko Cisilino), e si prosegue con il trio del pianista Vijay Iyer, uno dei grandi protagonisti del nuovo pianismo jazz, che presenta, tra l’altro, la straordinaria bassista Linda May Han Oh e il batterista Tyshawn Sorey a costituire un ensemble, che prescindendo dal valore del leader, viene oggi considerato uno dei migliori gruppi jazz in esercizio.
Il Brasile sarà il protagonista della penultima giornata del festival, il 15 luglio. Alle 18.30, il Palamostre ospiterà un incontro dal titolo “La Musica brasiliana ieri e oggi” in cui il conduttore di Radio 1 Rai, Max De Tomassi illustrerà le dinamiche musicali del grande Paese sudamericano. Alle 20 l’esibizione di Mel Freire, cantante e compositrice di Belo Horizonte che rende omaggio alla grande Elis Regina, cui segue il concerto di Ivan Lins, autentica star e maestro della Musica Popular Brasileira sicuramente uno degli eventi clou dell’intero Festival; Ivan sarà accompagnato da André Sarbib piano, Léo Espinosa basso, Claudio Ribeiro chitarra e Chris Wells batteria.
Chiusura il 16 luglio, con la musica travolgente degli Snarky Puppy, collettivo statunitense guidato dal geniaccio Michael League che conta circa 25 musicisti in rotazione, band tra le più acclamate della scena jazz contemporanea, band che avevamo già avuto modo di apprezzare nelle scorse edizioni di Udin&Jazz. Per sottolineare l’importanza di questo gruppo, basti ricordare che League, Laurance e compagni, hanno di recente vinto l’ennesimo Grammy Award come miglior album strumentale.
Nella mattinata del 16 luglio, Udin&Jazz propone un concerto/laboratorio interattivo interamente dedicato ai bambini e alle loro famiglie: U&j 4 Kids.
Tra gli eventi in cartellone, per Aspettando Udin&Jazz, è in corso una serie di 5 concerti che si alternano tra lo storico Jazz Caffè Caucigh ed il Giangio Garden al Parco Brun: il 25-06 il trio di Bruno Cesselli, il 30-6 Giampaolo Rinaldi Trio, il 2-7 Luca Dal Sacco Trio, il 5-7 Matteo Sgobino & Luna Troublante, e il 9-7 l’Armando Battiston duo; gli aperitivi del Jazz Corner, alle 18,30 alla Ghiacciaia, saranno animati il 12-7 da Laura Clemente/Gaetano Valli Duo e il 14-7 dal duo di Michele Pirona e Stefano Andreutti.
Sempre alla Ghiacciaia il 14 luglio – alle 12 – il sottoscritto presenterà il suo ultimo libro di interviste “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”, dialogando con Andrea Ioime.
Le notti di Udin&Jazz Festival saranno animate dalle dirette del MUUD Podcast, alla Tana del Luppolo, accanto al Palamostre, con approfondimenti di quanto proposto dal festival attraverso interviste, incontri ed esibizioni di giovani musicisti, flash di jazz contemporaneo e non solo. In presenza oppure in streaming.
Udin&Jazz gode del patrocinio e del sostegno di: Ministero della Cultura, Regione Autonoma Friuli Venezia-Giulia – Assessorato alla Cultura, Fondazione Friuli, PromoTurismoFvg, Cciaa di Udine e della sponsorship di Reale Mutua Assicurazioni Franz e Di Lena, Udine e della Banca di Udine.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

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B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.

È stato un sogno fortissimo! Grado Jazz 2021 (prima parte)

di Flaviano Bosco –

Concepire, progettare e realizzare una rassegna musicale nei mesi passati poteva sembrare una follia assoluta, un azzardo, un vero colpo di dadi. Qualche volta però anche la pazzia è necessaria ed è proprio vero quello che dicevano gli antichi: “La fortuna aiuta gli audaci” o un po’ più volgarmente: “Chi non risica non rosica”; non sempre è vero ma questa volta si! E non è stato solo il favore della dea bendata.

In lingua friulana si dicono bonariamente “Cjastrons” i testardi irriducibili, quelli che contro tutto e contro tutti continuano dritti per la loro strada, a qualunque costo, anche se sembra che non abbiano alcuna possibilità di riuscire. Preferiscono continuare a sbattere la testa contro gli ostacoli pur di non cedere ai compromessi e soprattutto osano perdere e piuttosto di genuflettersi si spezzano.
“Cjastrons” di successo, in questo senso, sono sicuramente Giancarlo Velliscig e i suoi collaboratori di Euritmica che da 31 anni organizzano Udin&Jazz, la manifestazione che da tre anni ha partorito Grado Jazz che si aggiunge ad altre stagioni musicali e teatrali (Onde Mediterranee, Borghi Swing, Teatro Pasolini di Cervignano, Note Nuove, MusiCarnia ecc.)
In tutti questi anni gli è di certo capitato di sbattere il capo ma la scommessa è stata davvero vincente e i numeri e la qualità di quest’ultima edizione di Grado Jazz lo dimostrano. In accordo con la lungimirante amministrazione comunale dell’Isola d’oro è stato approntato e portato a termine un programma davvero succulento che ha fatto divertire, commuovere, emozionare, rilassare, eccitare gli spettatori spesso tutto nello stesso momento.
Ecco di seguito una mia selezione dei momenti più significativi, tra i tanti del festival,  che ho seguito dalla seconda serata alla fine.

Claudio Cojaniz “Black Water Music”. Quella dei concerti all’alba è diventata ormai una piacevole consuetudine di festival e rassegne, è un modo per riappropriarsi o per esplorare in musica momenti della giornata che normalmente non consideriamo. Accompagnare l’alba con le note del pianoforte di fronte all’orizzonte marino con il sole che sorge direttamente dalla laguna nel silenzio di una città che ancora dorme è un’esperienza quasi religiosa, un rito pagano. Se poi a suscitare le note sono le dita di un pianista come Cojaniz capace di un grande lirismo e sconfinati orizzonti non si può sbagliare. Provare per credere!

Bandakadabra: all’insegna del divertimento stradaiolo più verace e disimpegnato i “ragazzi” di Torino sanno davvero come far sorridere la gente e non c’è niente di più divertente che il vedere una band scatenata in mezzo alla folla che la segue in processione per tutta la città al ritmo del tamburo. Frizzanti, scoppiettanti, leggeri, clowneschi, saltimbanchi del jazz, una street marching band senza troppe pretese se non l’allegria propria e del pubblico. Momenti come questo contribuiscono a fare della rassegna una festa per tutta la città e non solo un evento elitario per i tanti appassionati. Bene hanno fatto gli organizzatori a voler disseminare in giro per la città balneare alcune iniziative, il grande favore riscontrato dal pubblico significa che la strada è quella giusta.

Dee Dee Bridgewater. Una vera Lady con la voce intatta nonostante non sia più una fanciulla in fiore. Con un gruppo di giovani musicisti italiani tra i quali spiccavano la contrabbassista Rosa Brunello e la batterista Evita Polidoro. La cantante ha proposto dal suo sconfinato song book soprattutto brani del periodo con Stanley Clarke e Chick Corea; alla memoria di quest’ultimo era dedicato l’intero concerto. Visibilmente divertita, la Bridgewater ha “giocato” con la propria voce e con i musicisti, ridendo, ballando, raccontando gustosi aneddoti sulla sua lunga carriera fatta di incontri straordinari ma soprattutto incantando il pubblico con le sue doti canore strabilianti in grado di passare in un battito di ciglia dai toni più gravi, sporchi e bluesy fino ai più verticali acuti con estrema naturalezza e senza artifici accademici.

Daniele D’Agaro con i suoi sax e i suoi clarinetti ha saputo intrattenere i passanti proprio nel cuore della città lagunare in un luogo dalle architetture straordinarie e dalle antichissime testimonianze: il sagrato comune tra due basiliche paleocristiane, una a fianco dell’altra (Santa Eufemia e Santa Maria delle Grazie). Le sue ance sembravano riempire il balzo temporale tra quell’estrema antichità e il “presente fatto di attimi e settimane enigmistiche” come dice il poeta. D’Agaro sa essere evocativo e immaginifico sulle sue chiavi ma spesso risulta meditativo e distante, per un sassofonista non sono certo difetti. La sua performance solitaria è stata affascinante ma anche piacevolmente ermetica e astratta.

Brad Mehldau trio. Molti musicisti tra gli spettatori, il gotha dei jazzisti locali e di oltre confine con l’aggiunta di moltissimi appassionati, critici e giornalisti che aspettavano l’apparizione di quello che ormai è considerato un gigante della musica contemporanea senza definizioni di genere. L’attesa non è stata vana, Mehldau ha presentato il suo ultimo lavoro con un’esibizione convincente e maiuscola nonostante una piccola ferita al pollice che si era procurato tagliando un limone a poche ore dal concerto. Romantico e lirico, lontano dalle iper-virtuosistiche prestazioni di inizio carriera, mantiene una certa predisposizione ad un pop colto e “pettinato” che gli permette gli usuali sconfinamenti e crossover musicali appropriandosi, come in questo caso, di canzoni del tutto eterodosse come “Friends” dei Beach Boys. Ottimo l’interplay con i propri musicisti Grenadier al contrabbasso e Ballard alla batteria.

Mirko Cisilino: Tromba, trombone, Tuba in fa e una moltitudine di sordine, con queste armi si è presentato il trombettista in una delle vie centrali dello “struscio” serale di Grado. La sua esibizione ha colpito e affascinato molti ma ha ugualmente reso perplessi e forse anche indifferenti altri. Non è facile improvvisare davanti ad un pubblico a passeggio. Di recente anche Paolo Fresu travestito da barbone è stato completamente ignorato in un concerto improvvisato in piazza Navona a Roma, era successo alcuni anni fa anche a Joshua Bell, genio del violino, in una stazione della metropolitana a New York. Spesso siamo troppo distratti e non poniamo sufficientemente attenzione a ciò che ci circonda, a volte ci impediamo di scoprire autentici tesori come quelli che Cisilino soffiava nei propri labiofoni, da improvvisazioni su melodie classiche a quelle free form e rumoristiche. Tra gli spettatori più attenti, due bambini che leccavano il loro gelatone guardavano divertiti e perplessi qualcosa che forse non capivano del tutto ma che destava la loro curiosità. E’ proprio quello l’atteggiamento che tutti dovremmo sforzarci di avere. La vera musica è sempre Bellezza e Mistero.

Danilo Rea&Luciano Biondini: intrattenimento elegante fatto di classici della canzone italiana rivisitati in jazz in un’atmosfera da piano bar; c’è da chiedersi se abbia ancora senso un progetto del genere dopo che il revival jazzato sulle canzoni “leggerissime” della tradizione anni ‘60 si fa da decenni in tutte le salse e dopo che l’ottimo pianista Bollani ci ha costruito sopra una carriera trentennale. Anche il progetto che i due da anni portano in scena (Cosa sono le nuvole) che rivisita i brani più famosi della canzone italiana comincia ad essere una replica di se stesso, nostalgia di nostalgia. Certo entrambi sono ottimi musicisti, al pubblico continuano a piacere moltissimo, lo si è visto al Parco delle Rose e non si può certo rimproverare nessuno, il jazz cinquant’anni fa era fatto anche di questo.

Jazz Portraits. Fotografo ufficiale del festival e di tante altre avventure, Luca A. D’Agostino con i propri collaboratori segue il festival da trentun’anni. Una splendida esposizione, da egli stesso curata, con significativi scatti suoi e di altri eccellenti fotografi AFIJ (Associazione Fotografi Italiani di Jazz) per ciascuna edizione faceva bella mostra di sé nel centro della cittadina balneare durante la rassegna. Tra le tante meravigliose immagini, tutte in un rigoroso, evocativo bianco e nero di veri e propri giganti della musica ospitati dalla manifestazione (Elvin Jones, Ornette Coleman, B.B King ecc.) ne spiccava uno del presente che è già proiettato nell’immediato futuro. Shabaka Hutchings, il geniale tenor sassofonista, che fu a Udine nel 2017 con i suoi The Ancestors, è immortalato in chiaroscuro nella cornice di una porta proprio mentre si sta accingendo a entrare in palcoscenico, imbracciando il proprio strumento. E’ un attimo sospeso in perfetto equilibrio tra quello che non c’è ancora e quello che sarà che da l’idea di che cosa sia oggi la musica dentro e intorno il jazz.

A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Luca A. d’Agostino Phocus Agency, Alessandra Freguja, Angelo Salvin (AFIJ) e l’ufficio stampa di GradoJazz/Euritmica

Il Jazz ai tempi del Coronavirus le nostre interviste: Enzo Favata, sassofonista

Intervista raccolta da Gerlando Gatto

Enzo Favata, sassofonista

-Come stai vivendo queste giornate?
“Potrei dirti come tutte le persone di questo mondo, vivo le giornate con apprensione e sospensione, paura non solo del nemico invisibile, ma soprattutto del futuro incerto. Detto questo, cerco di usare questo periodo sospeso in maniera differente dal solito e di darmi un organizzazione rigida del tempo e delle cose da fare nell’immediato. Naturalmente un po’ spaventato dal fatto che alla ripresa dei “ giochi”, data la mia condizione di musicista geograficamente lontano dai centri di diffusione della musica, sarà molto difficile che tutto ritorni alla normalità in tempi brevi, ho deciso di riorganizzare il mio tempo, dandomi uno schema rigido alle mie lunghe giornate, suddivise con orari ed impegni precisi: la mattina la passo in studio cercando di fare come tutti i musicisti, pratica con lo strumento, la composizione di nuove idee ecc… ho anche preso in mano il mio archivio con 30 anni di lavori, registrazioni live, colonne sonore, lavori per cinema teatro, album mai usciti, performance e concerti live, un lavoro davvero imponente dato che ci saranno più di 400 ore di registrazione, non voglio lasciarle in un cassetto e le cose più interessanti le sto rimasterizzando e mettendo online, sarà un lavoro che continuerò anche finiti i tempi del coronavirus, per ora ci sono 22 album digitali già pubblicati https://enzofavata.bandcamp.com/  La seconda parte della giornata, dato che per scelta di vita da dodici anni ho deciso di abitare in campagna, il pomeriggio lo dedico alla terra che ho intorno a casa e cerco di fare seriamente un lavoro completamente diverso che richiede devozione e cura come la musica, lavoro a volte sin quando è buio. So che avere queste possibilità di poter non essere incollati ad un divano o reclusi in una piccola casa di 40 mq, di questi tempi può essere una grande fortuna, quindi porto grande rispetto alla condizione degli altri e spero che l’emergenza finisca presto”.

-Come ha influito tutto ciò sul tuo lavoro? Pensi che in futuro sarà lo stesso
“Il lavoro stava avendo un profondo cambiamento anche prima di questo sconvolgimento, vivo la scena musicale da davvero tanto tempo e la situazione per i musicisti è precipitata già da tempo, sin dall’avvento di alcune mode digitali che ne ha sconvolto il mercato, appiattendolo su di un concetto davvero restrittivo rispetto al ruolo della musica e del musicista. Personalmente lavoro molto e soprattutto all’estero e non sto a dire quanti concerti e tournée ho perso. Credo che il futuro non sarà più  lo stesso, ma lo vedo in positivo, dopo le grandi tragedie ci sono stati sempre epocali cambiamenti, credo che questa esperienza farà nascere  collaborazioni, nuovi network ed  una maggior coscienza anche da parte dei musicisti e della filiera dello spettacolo, compreso il pubblico: ci sono segnali già evidenti di una consapevolezza e riorganizzazione nel nostro mondo, basta iniziare ad avere più coraggio, a mettersi in gioco anche nella vita associativa, dare qualcosa anche agli altri per ottenere di più tutti e su questo la filiera del jazz italiano ha ancora da lavorare molto”.

-Come riesci a sbarcare il lunario?
“Sto riprendendo con più costanza la mia attività di colonne sonore, dove ho fatto molto negli anni, alternandola all’attività concertistica; non nascondo che è un momento difficile, ma vedendo il bicchiere mezzo pieno ho deciso di utilizzare i materiali  risorti dal mio archivio e li sto mettendo online. Credo  che  promuovere la tua musica su piattaforme come bandcamp stia iniziando a dare risultati non solo per me, all’estero è uno standard usato ed ha successo, in Italia impera Spotifly che, con tutto il rispetto per la musica per tutti, a noi del jazz fa arrivare qualche euro, per questo lancio un’idea alla stampa specializzata: sarebbe una bella cosa che anche la critica musicale, i media internet i blog e riviste, si dedicassero con più convinzione a questo modo di concepire la produzione musicale diretta tra musicista e fruitore della musica, per semplificare è un po’ come fa la Coldiretti in Italia, che promuove i prodotti  a chilometro zero”.

-Vivi da solo o con qualcuno. E quanto ciò risulta importante?
“Vivo con la mia famiglia e naturalmente in questo momento è importate, ma lo è sempre stato”.

-Pensi che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e   professionali sotto una luce diversa?
“Credo che l’isolamento aiuti a capire meglio il valore dei rapporti umani di una volta anche con i contatti diretti, chi non è della mia generazione non conosce il valore di una cartolina di una telefonata, di andare a far visita ad un conoscente, l’era degli sms e poi delle chat hanno appiattito tutto ad un messaggio uguale per tutti da spedire alla tua rubrica telefonica. Meno male che la tecnologia oggi, con le video-chiamate, ci aiuta a ridurre la distanza tra le persone che conosciamo e spesso riduce il noioso susseguirsi di messaggi, in questo periodo le video-chiamate sono aumentate visibilmente e questo modo visivo di dedicare più tempo, a mio parere cambierà notevolmente in meglio il rapporto tra le persone. Io lo sto sperimentando questo trend, conosco persone in tutto il mondo, ma mai come ora ne ricevo segnali e comunicazioni da tutti, credo che sia il leitmotiv che accompagna l’umanità tecnologica   ed è una bella cosa che tutti vogliono sapere degli altri. Anche nel lavoro si usano sempre più video-chiamate anche in gruppo per condividere qualche minuto insieme, guardarsi in faccia, oppure chiedere consigli su certe cose, parlare di problematiche comuni. Tutto questo prima di febbraio era molto più raro, oggi anche se distanti siamo più vicini perché ci accomuna un dramma e la voglia di superarlo”.

-Credi che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento?
“La musica aiuterà tutti ad affrontare questo momento, mai come al giorno d’oggi la musica è facilmente raggiungibile ed è facilmente fruibile. La musica influisce molto sul modo in cui pensiamo, in cui ci comportiamo, in cui sentiamo. La musica è un mezzo davvero molto potente che lavora direttamente sulle emozioni. Per noi che la produciamo è una ragione di vita e non da oggi. Per me ora è un momento di grande immersione interiore, come ho detto prima sia nel passato con oltre 30 anni di  archivio dentro cui scavare e riscoprire, sia nel futuro con una  grande la voglia di creare a cui ho iniziato a dedicare più tempo proprio in questi giorni. Il lavoro della riscoperta di mie radici musicali ed anche il lavoro in campagna mi stanno dando la forza non solo di superare, ma anche di creare qualcosa di nuovo, come finalmente la realizzazione di un mio album in solo e la composizione di nuovi materiali per la realizzazione e registrazione del nuovo album con il mio attuale gruppo “The Crossing” con Pasquale Mirra, Rosa Brunello e Marco Frattini di cui esiste un album live recording su bandcamp  https://enzofavata.bandcamp.com/album/enzo-favata-the-crossing-live”.

-Se non la musica a cosa ci si può affidare?
“Chi ama la musica e la crea difficilmente pensa ad altro, ma nel concreto a mio avviso la forza per superare questo momento è l’unione il non sentirsi soli anche nel nostro mondo artistico, partecipare socialmente come ho detto prima, essere presenti , non solo con il dito sulla tastiera di un social, ma sentirsi parte di una comunità, far valere i propri diritti, ma anche i nostri doveri” .

-Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?
“Devo dire che se da un punto di vista bisogna essere assolutamente ottimisti nonostante la banale, ma necessaria retorica di: “ce la faremo, andrà tutto bene, gli italiani sono un grande popolo… ecc…”, bisogna comunque iniziare a raccontare un po’ di verità su cosa è la nostra nazione, non dimentichiamo che l’Italia era già un paese scassato da prima con sei milioni di disoccupati, nove milioni di sommerso (tra cui anche molti musicisti danno il loro piccolo contributo lavorando in nero) cinque milioni di poveri. Insomma l’unità va bene ma anche la coscienza di essere sull’orlo di un baratro e che le risorse che verranno impiegate per la ripresa saranno dei conti salatissimi che dovremo pagare, non dimenticandoci che gli Italiani complessivamente evadono per 150 miliardi all’anno e questo non è un esempio di unità. Su questa domanda vorrei divagare un poco prendendo ad esempio dei post che in questi giorni vedo sul mondo dello spettacolo a proposito di iniziative virtuose come quelle del governo tedesco. Secondo voi possiamo paragonarci? Oppure post “l’Italia è il paese della cultura e dell’arte”.  Ma si ha in mente quanto i governi “cattivi” del Nord investano in cultura? Chi ha frequentato i palcoscenici della Germania, Norvegia, Svezia ma anche dell’Olanda si rende conto di quanto i governi spendono e di quanto il pubblico sia presente e spenda i soldi di un biglietto, anche per andare a vedere musicisti non conosciuti; esiste insomma più senso di unità nel vedere la gente che conduce una vita sociale legata alla cultura, al ritrovarsi per un evento che non sia di natura commerciale o nazional-popolare; speriamo che cambi qualcosa che non sia l’unità dei flashmob dai balconi, e di tante altre iniziative che lasciano il tempo che trovano. Finisco il concetto dicendo che il mondo della musica ha sempre risposto al concetto di unità andando in aiuto sempre per le cause dei più deboli”.

-Sei soddisfatto di come si stanno muovendo i V/si organismi di rappresentanza?
“Il mondo del jazz, come è noto, per una parte si è associato in Federazione del Jazz Italiano, che riunisce l’associazione dei Musicisti, quella dei Festival ecc… (conoscete già chi ne fa parte) si tratta comunque di un buon inizio e credo siano stati fatti passi importanti, dato che prima non esisteva nulla; detto questo si ha la necessità di dare un’accelerazione vista la situazione contingente, lasciando da parte certi atteggiamenti garantisti solo per una piccola parte del jazz italiano, siamo una filiera e se una parte soffre, ne soffre l’intera catena. La mia non vuole essere una critica bensì un suggerimento attivo: AMJ, di cui faccio parte e che riunisce i musicisti di jazz, per avere più massa critica deve riuscire ad accogliere più musicisti non solo della fascia “giovanile” e per far questo deve riuscire a dare più fiducia a chi sarebbe intenzionato ad aggregarsi, ma non lo fa perché comunque non si sente rappresentato; è un duro lavoro, credo che l’attuale dirigenza stia facendo anche oltre il possibile, ma bisogna superare questo stallo e gli strumenti necessari si hanno basta metterli in atto. I-Jazz in questo momento, almeno per la fine del 2020 e credo per buona parte del 2021, dovrà essere cosciente del “capitale artistico“ che sono i musicisti di jazz Italiani ed imparare a valorizzarlo maggiormente, anche con importanti azioni di promozione, sviluppare azioni comuni per quanto riguarda il fundraising e mettere in campo, anche aiutati dal Governo, tutte quelle azioni che permettano di promuovere i Festival, Teatri, Rassegne, per riportare a loro il pubblico anche con una visone diversa,  prendendo spunto, come ho spiegato prima, dal pubblico dell’Europa del Nord”.

-Se avessi la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederesti?
“Il Governo ha iniziato un piccolo dialogo con la Federazione del Jazz ed “a bellu a bellu” ( traduzione dal sardo: a piccoli passi) sta iniziando un percorso. Nella Fase 3 post Coronavirus e con la riapertura delle frontiere chiederei: una disposizione finanziaria maggiore sia nelle attuali risorse per il Fus, sia meccanismi di avvicinamento per quei Festival e realtà importanti (e ce ne sono) che non hanno avuto la fortuna di aver accesso al Fondo Unico per lo Spettacolo; creare incentivi almeno per un quinquennio  per I Festival ed i Palinsesti che ospitino musicisti Italiani di Jazz (di qualsiasi età); creare una campagna di promozione di riavvicinamento del pubblico, anche reintroducendo e incentivando le iniziative statali e private, la programmazione della musica jazz e dei concerti com’era una volta. Infine, ma non meno importante, attivare l’Export Office, una Istituzione di promozione governativa, attiva con successo in tantissime nazioni, che in Italia deve dipendere dal MIBACT , con un modello a struttura aperta ed a sportello, con due call annuali che finanzino i viaggi dei musicisti che ne abbiano diritto, ovvero con dei contratti firmati da Festival ed Organizzazioni straniere, lo stesso Export  Office che andrà a promuovere il jazz Italiano nelle Fiere”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“Diciamo che dopo quello che ho detto, consiglio a tutti di andare a scoprire la musica su Bandcamp, è un buon modo per essere uniti e solidali con i musicisti che non stanno lavorando in questo momento e naturalmente, una volta ascoltati i brani, scaricate gli album; trovate anche le più importanti etichette, digitate un genere ed andate a scoprire. Libri? “Logo Land” di Max Barry, per capire in un romanzo del 2003 la società attuale. “In Patagonia” di Bruce Chatwin, per comprendere un mondo in cui la distanza sociale è usuale. “Peggio di un Bastardo” autobiografia di Charles Mingus. Ed infine per chi volesse angosciarsi di più, ma con un libro straordinario “La Peste” di Albert Camus.

Gerlando Gatto