Per Brass in Jazz un altro progetto inedito al profumo di Flamenco

Molti i concerti al femminile nel programma della stagione concertistica Brass in Jazz

Per il secondo appuntamento della stagione concertistica Brass in Jazz, il Reale Teatro Santa Cecilia si tingerà con i suoni del flamenco grazie ad un altro progetto inedito proposto dal Brass Group con la presidenza del Maestro Ignazio Garsia e la direzione artistica di Luca Luzzu. Ad abbellire questo fine settimana la città con la musica che risale alle culture moresche dell’Andalusia, sarà un concerto unico in assoluto. Per la prima volta l’Orchestra Jazz Siciliana sarà diretta dal grande Maestro Bernard van Rossum, vincitore di Awards internazionali e Contests.  Gli elementi del flamenco verranno ridefiniti attraverso l’orchestrazione colorata e la gamma dinamica della Big Band, una simbiosi in cui le armonie e i ritmi del flamenco forniscono un nuovo contesto per l’improvvisazione. Appuntamento quindi con il concerto BVR Flamenco Project in Luz de Luna venerdì 11 e sabato 12 novembre, con doppio turno alle 19.00 e alle 21.30.

Questo progetto riunisce la voce di Bernard come compositore, arrangiatore e musicista. Sassofonista, compositore, arrangiatore e insegnante, Bernard van Rossum inoltre riflette nella sua musica la multiculturalità del proprio vissuto poiché è nato e cresciuto in Spagna da madre inglese e padre olandese, ha trascorso l’adolescenza ascoltando rock e suonando la batteria, ha conseguito la laurea in Biologia all’università di Edinburgo; quindi, si è innamorato del sassofono e del jazz, approfondendone lo studio nei conservatori di Barcellona, di Denton nel Texas e di Amsterdam. Fautore di una originale ed eccitante miscela sonora che rilegge la tradizione andalusa del flamenco secondo le strutture e i modi improvvisativi del jazz, Rossum in questi anni ha ottenuto grande successo alla testa della sua “BvR Flamenco Big Band”, formazione con cui ha pubblicato tre album acclamati dalla critica internazionale. La sua direzione vanta anche alcuni dei migliori artisti di flamenco del mondo, tra cui Paco de Lucia associati Carles Benavent, Antonio Serrano, David de Jacoba e ballerini di flamenco come Karen Lugo, Cristina Hall e Irene Alvarez. Spettacoli recenti includono Festival Internacional de Jazz di San Javier, Biennale di Flamenco, Bimhuis, Amersfoort Jazz, Festival Internacional de Jazz de Alicante, Jazz in Duketown e Xabia Jazz, tra gli altri. Per il suo lavoro con la Big Band, van Rossum ha recentemente vinto il “Rogier van Otterloo award 2022″, “Concurso de arreglos de big band SGAE 2022” e il “Canarias Big Band Composition Contest 2021”.

Una scelta importante quella del Brass che anche quest’anno ha voluto raddoppiare i concerti in programma nella stagione. L’aumento delle repliche dei concerti deriva da uno specifico bisogno culturale a cui la Fondazione risponde con un calendario ricco di artisti internazionali, produzioni orchestrali e prime assolute. Tanti i nomi del mondo jazz inseriti per la nuova stagione concertistica del Brass.

Tra gli artisti che scorrono nel cartellone del Brass in Jazz la prima mondiale con il concerto di Benny Green in Master of Piano feat. Vito Giordano. Benny Green possiede la storia del Jazz a portata di mano. Combina la padronanza della tecnica della tastiera con decenni di esperienza nel mondo reale suonando con i più celebri artisti dell’ultimo mezzo secolo, e non c’è da stupirsi che sia stato salutato come il pianista hard-bop più eccitante di sempre come emerge da Jazz Messengers di Art Blakey.

All’interno del programma ci sono anche tante figure femminili come la bellissima Janusett Mcpherson con il concerto Deezer . La cantante, pianista, arrangiatrice e cantautrice cubana,  dopo una brillante carriera a Cuba dove ha vinto l’equivalente di una Victoire de la Musique (Premio Adolfo Guzman) e ha moltiplicato prestigiose collaborazioni (Orquestra Anacaona, Omara Portuondo & Buena Vista Social Club, Alain Perez, Manolito Simonet, Tata Guines, Miles Peña ecc), si stabilì nel sud della Francia. Notata da Yves Chamberland nel 2011 (produttore di Nina Simone, Henri Salvador, Michel Petrucciani, Richard Galliano…), ha registrato il suo primo album in Francia con alcuni illustri ospiti (Didier Lockwood, Andy Narell, Michel Alibo, Thierry Fanfant, Olivier Louvel, etc…), e arrangiamenti firmati da Nicolas Folmer (Paris Jazz Big Band) e Bernard Arcadio (Henri Salvador)).

Altro concerto in rosa è rappresentato da Lucy Garsia, che con le sue altissime qualità canore, di recente ha riscontrato enorme successo sia al Teatro Massimo che nel concerto delle Ladie, si esibirà in Tribute to Sarah Vaughan con l’OJS diretta dal Maestro Domenico Riina.

Altro concerto al femminile è quello della straordinaria Bianca Gismondi in Maracatù. In duetto saranno invece Cande y Paulo con lo spettacolo The Voice of the Double Bass.

Un progetto in esclusiva nazionale e prima assoluta è anche quello che verrà messo in scena con un noto martista siciliano, Mario Incudine che si esibirà con l’Orchestra Jazz Siciliana diretta dal Maestro Domenico Riina in Serenate d’Amuri mentre l’esibizione dell’artista Ola Onabulè sarà diretta dal Maestro Antonino Pedone.

E lo spettacolo Hollywood Movies avrà la direzione del Maestro Vito Giordano. Una stagione quella del Brass Group per un audience ampia e con target diversificato, per gli amanti del jazz e della bella musica.

Info: https://www.brassgroup.it/

Pharoah Sanders – Un amore più supremo dell’amore supremo

Per cosa ci piacerebbe essere ricordati dopo la nostra morte? Solo a sentire questa domanda si materializzano ambienti rumorosi di bocche che in un flusso infinito recitano un monologo adornato di fantasticherie intime ed infinite, oppure risme di fogli bianchi che vengono incisi da penne fino a finire l’inchiostro, sfogliandoli freneticamente fino a creare una sorta di testamento immaginario da dedicare al mondo; o magari nessuna risposta, una pausa a cui non seguirà alcuna nota: il vuoto. Pensare all’oltre mondo è umanamente comune, l’abbiamo fatto tutti e immaginare quale memoria lasceremo di noi è un tema caldo. Una volta che si spengono le luci del nostro palco gli spettatori si alzano, cominciano a mettersi in fila i tuoi dolci affetti, conoscenti, colleghi, amici e parenti che non vedono l’ora di scrivere un epitaffio d’amore da dedicarti. L’unico dispiacere è che qualunque discorso propinato finisce in una damigiana da cui tracannano i provetti poeti fino ad affogare. Tutti alzano il gomito in questo rituale di auto terapia per affrontare la morte, mentre tu, che dovresti essere il diretto destinatario di ogni poesia recitata al brindisi, non potrai mai ascoltare quello che gli altri hanno da raccontare di te stesso. Quindi ha davvero senso spedire una lettera a un morto? No, meglio scrivere per quelli che restano, perché creare memoria è più importante che rispondere agli ipotetici capricci di un defunto, difatti lui non può nemmeno ribattere e dir la sua a meno che i medium non diventino avvocati e notai degli spiriti dell’aldilà.
Questo preambolo ci pone nell’ottica di ricercare quale sia l’approccio migliore per raccontare post mortem una vita musicale così intensa di significati ed eterogenea come quella di Pharoah Sanders. Un musicista del suo calibro è un poliedro complesso, in ogni angolo si rispecchia una storia che differisce per prospettiva ma si interseca per eventi. Immaginando di voler camminare sopra questa gigantesca forma geometrica ci si renderebbe presto conto che per coglierne il centro, quindi il nucleo e la sua anima, non si può solo camminare a zonzo senza farsi domande, serve un aiuto. Un album potrebbe essere la grande guida che ci serve per non perderci.

La guida che voglio proporre è un Lost Record del Live in Paris del 1975, pubblicato e restaurato dall’etichetta discografica Transversales Disques. Sébastien Rosat, co-fondatore dell’etichetta, mi ha spiegato in un breve scambio di mail che l’album è stato come ritrovare un tesoro; già dal primo ascolto si capiva quanto fosse una performance straordinaria. La Transversales Disques ha compiuto in primis un lavoro di restauro sul materiale ritrovato nel 2017 nel caveau di Radio France e a impreziosire l’esperienza c’è la minuzia per la ricerca di fotografie scattate per quella performance. Proprio quando le ricerche stavano per arrivare a un punto morto ci ha pensato la fortuna a fargli ritrovare una foto del concerto in “Jazz Hot” Magazine per mano della fotocamera di Christian Rose che ha fornito un rullino pieno di splendide istantanee dell’evento, arricchendo un’edizione discografica rara e unica; sicuramente realizzata con quel tipo di passione che solo gli amanti del jazz riescono a mettere in ciò che fanno nella vita. Questa storia ci catapulta in una prospettiva romantica nei confronti dell’album, ma diventa un antipasto ricco di proteine per affrontare il viaggio che propongo, ma soprattutto è funzionale a un piccolo gioco di prestigio: usare l’album del concerto come incipit, cercando di rovesciare la classica prospettiva della biografia al servizio della musica, seguendo piuttosto il flusso sonoro del live e quello degli eventi in ordine cronologico. Questo processo permette di trasformare quel poliedro di cui parlavo, attraverso la scomposizione e ricomposizione in una nuova forma, quella plasmata dalle note del sassofono di Sanders il 17 novembre del 1975 al Grand Auditorium nello studio 105 della Maison de la Radio.

Love is Here part I/part II
Il seguente brano potrebbe essere tanto un inedito quanto un arrangiamento improvvisato estremamente articolato di Love is Here To Stay, fatto sta che troverà pubblicazione per la prima volta in un album del 1978 Love Will Find a Way, accompagnato dalla splendida voce della cantante Phyllis Hyman. Il fatto che sia stato eseguito nel 1975 a Parigi, per venir poi pubblicato solo tre anni dopo, lo rende un esempio calzante del processo creativo del faraone. Sanders non è il tipico musicista con la matita pronta in mano a calcare il pentagramma, il punto di partenza è sempre quello dell’improvvisazione da cui si generano idee e motivi, dispiegandosi in una cosiddetta forma estesa (approccio tipico nell’estetica free), ma in questo caso è più corretto chiamarla Suite, come lui la concepiva: improvvisazioni molto lunghe ma divise in due parti. Andando oltre il contesto, quello che sentiamo di primo impatto è un forte senso energico da parte di tutto il gruppo a partire dal pianismo percussivo di Danny Mixon, alla batteria serrata di Greg Bandy in cui si inserisce l’ostinato basso di Calvin Hill, talmente intenso che sembra di poter sentire le dita della pelle levigarsi su quelle corde e infine il sassofono tenore di Sanders, che comincia con un lirismo e una dolcezza ingannevole nell’eseguire il tema. Un inganno perché nei primi minuti qualcuno potrebbe soltanto dire che è molto bravo, ha una tecnica solida ma non fuori dal comune al suo strumento; tuttavia, man mano che passano le battute ci si accorge presto di cos’abbia di così particolare da catturare ogni orecchio. La sensazione è che l’ancia venga strozzata e la campana d’ottone vibri ad altissima magnitudo, con un fluire rapidissimo di raggruppamenti di note in scala che assomigliano quasi a un glissando, altre volte si sofferma su ritmi irregolari arrivando fino a dei sovracuti urlanti, lo screaming come lo definivano alcuni, che però in Sanders si fonde a uno stile che è in parte erede del sassofonismo di Coltrane. A partire dall’album Soultrane (1958), il critico Ira Gelter in un articolo su Down Beat dello stesso anno, chiama Sheets of Sound questo approccio al sassofono. Viene da stupirsi pensando a come Sanders sia un musicista in grado di essere così aggressivo e dolce allo stesso tempo mentre suona, ma in questa duplicità passano in mezzo molti stati d’animo, ci si rende conto abbastanza in fretta di quanto la sua palette espressiva sia più complessa e variegata rispetto a quella manciata di note del tema all’inizio del brano. L’effetto è seducente, ci sentiamo lentamente magnetizzati, solo dopo solo, brano dopo brano mentre veniamo accompagnati dalla direzione di queste energie in gioco. La forza è talmente trascinante anche nel solo di pianoforte per fare un esempio, in cui ascoltiamo giochi di simili intenzioni gestuale tra registri e intensità esecutiva; percepiamo quindi una coesione tipica di quei musicisti che riescono a entrare nella misteriosa dimensione dell’Interplay.

Udin&Jazz 2008 – ph Luca A.d’Agostino

Farrell Tune
Se quella sera tra il pubblico ci fosse stato un ascoltatore casuale di jazz, trascinato di peso in quell’auditorium da un amico a sentire per la prima volta un concerto di Sanders, potrebbe essersi chinato di lato durante i primi applausi per sussurrare con stupore ed entusiasmo al suo vicino di posto: “Che figata oh! Ma scusa, chi è questo Sanders?”. Farrell “Pharoah” Sanders rientra tra quei jazzisti che in quegli anni hanno vissuto storie di vita simili tra esordi e scelte intraprese, curiosamente tutti sono arrivati ad incontrarsi e a collaborare nell’ambito della cosiddetta new thing: sono nati e cresciuti in ambienti di ghetto delle grandi città o negli stati periferici dell’America, hanno scoperto l’amore per il jazz o attraverso la musica della messa afroamericana o con la band delle High School, infine hanno creato una propria formazione o hanno tentato di piazzarsi a fianco di qualche nome grosso. La città natale di Sanders è Little Rock in Arkansas, uno stato dove i locali per suonare sono divisi come in una scacchiera, quelli per i bianchi e quelli per i neri, in questi ultimi era il rhythm and blues con i suoi ritmi molto ballabili e le note piacenti a far da padrone, un genere che ha fatto da palestra negli anni giovanili di molti jazzisti dell’epoca. Questa condivisione di destini simili è forse uno dei motivi per cui tutti questi musicisti free riuscivano a entrare così fortemente in connessione gli uni con gli altri; mi riferisco a persone del calibro di Archie Shepp, Albert Ayler, Ornette Coleman, Billy Higgins, Don Cherry e Cecil Taylor… Però, volendo scavare più a fondo su chi sia Farrell Sanders dovremmo allontanarci un minimo da meri dati storiografici e rivolgerci al diretto interessato. In merito è interessante quello che emerge in una delle interviste più semplici e umane che lui abbia mai fatto, quella realizzata da Nathaniel Friedman per il New Yorker nel gennaio 2020. Le risposte di Sanders non sono prolisse, arrivano dritte al punto. Quello che emerge è una persona perfezionista nel suo esperire la musica. Nel suo periodo di grande attività con la Impulse! capitava di rifare dei take, nonostante nelle registrazioni di musica a improvvisazione libera è piuttosto raro, in quanto la direzione sonora che si stava creando non gli piaceva tanto. Scherzo beffardo però vuole che poi, andando a riascoltare quei take appena interrotti, si divorava le mani quando si accorgeva -troppo tardi – di quanto fosse bello ciò che stava succedendo. Anche ad album completato la storia non cambiava, riascoltava le sue stesse opere già pubblicate e trovava continuamente passaggi e note al loro interno dove poter redarguirsi esclamando “potevo farlo meglio”. Con Impulse! Gli capitava di dover registrare anche due o tre album all’anno, però questo non frenava il suo perfezionismo, perché esso si lega anche alla ricerca di novità: si nota infatti come in ogni album di quel periodo c’è un perenne tentativo di rinnovarsi. Non passava molto tempo prima che considerasse invecchiata un’idea musicale, a tal punto che quando alla veneranda età di 79 anni parla della ricerca di un suono che lo renda soddisfatto, ammette di non averlo ancora trovato. Arriva a confessare come in realtà non sia mai esistito un singolo album dove fosse pienamente compiaciuto del suono ottenuto. In un altro aneddoto racconta un dettaglio che ci fa capire quanto fosse esasperato questo atteggiamento nei confronti della ricerca del suono: consumava scatole e scatole di ance, le provava tutte scegliendole e buttando via quelle che non suonavano giuste. Questa ricerca ossessiva del nuovo spiega come mai la sua discografia sia stilisticamente variegata, non sopporta l’idea di doversi ripetere quando suona, non vuole mantenere quell’approccio burocratico nei confronti della musica tipico di certi suoi colleghi… Il paradosso, però, è che quando ascolta la musica di questi ultimi ne rimane affascinato dalla bellezza e si chiede cosa stiano usando per suonare così bene. Ulteriore dettaglio che ci fa capire al meglio chi è e la sua musica è certamente la sua attrazione per i paesaggi sonori, sin da piccolo gli piaceva sentire il rumore delle cose e cita alcuni esempi come il cigolio delle macchine vecchie per strada, il rumore delle onde, i treni che sfrecciano sulla ferrovia, gli aeroplani che decollano.  Questo atteggiamento lo ha portato sempre a cercare di trasformare i suoni brutti, che lo ammaliavano, in belli in qualche modo. Il tassello mancante a questa sintesi della sua umanità sta in un’altra intervista; quella del 1995 per la rete televisiva BBC, dove ci fa capire come lui suonerebbe qualsiasi cosa cercando di trasformarla in qualcosa di bello, spiegando come lui sia una persona che non ha scopi al di fuori di voler semplicemente esprimersi. Questo brano lo rappresenta al meglio, pensandoci, un semplice tema porta in stile Rhythm and Blues dove la sua ripetitività diventa invisibile in quanto non più un centro d’attrazione musicale grazie ai musicisti che improvvisano con grande libertà e tutto suona così fresco e nuovo ad ogni passaggio; un trucco apparentemente semplice, ma in realtà molto difficile da padroneggiare.

The Creator Has a Masterplan / I Want To Talk About You
The Creator Has a Masterplan è quasi certamente il brano più iconico di Pharoah, in questo live possiamo sentirlo in una versione ridotta con un taglio dell’introduzione e della prima sezione dal carattere lento e contemplativo. Comincia direttamente dalla seconda sezione, la più rapida, mantenendo quello scambio tra momenti frenetici e feroci con lo stile aggressivo di Sanders. A questo segue uno dei più classici degli standard jazz come I Want To Talk About You di Billy Eckstine. Sembra strano che questi due brani possano essere messi vicini, ma restituiscono un’immagine della sua visione musicale ed estetica di vita, ci permettono di capire quanto due persone con cui ha collaborato negli anni ’60 lo abbiano segnato e influenzato nel mestiere del musicante: Sun Ra e John Coltrane. Sanders nel 1962 arriva a New York, una metà che ha lo stesso sapore italiano del classico “vai a Milano, lì c’è tutto”. Sempre nell’intervista per il New Yorker spiega come sia arrivato nella grande mela facendo l’autostop, con un portafoglio vuoto di verdoni ma pieno di verde… speranza, cimentandosi in una vita da senzatetto pur di respirare l’ossigeno dei quartieri dove si suonava il jazz più sperimentale e spinto. Inizialmente cerca di arraffare i soldi per poter mangiare in ogni modo, addirittura donando il sangue per appena diciassette dollari, ma il flusso degli eventi lo trasporta nel luogo giusto al momento giusto. Uno dei lavori più stabili che ha avuto era il cuoco e una sera al Greenwich Village viene notato da Sun Ra che lo vorrà nella sua Arkestra, questa fu l’occasione per compiere il primo balzo da sogno americano del jazzista. Suonare nel 1964 con l’Arkestra, sicuramente una formazione così folle e rivoluzionaria come il suo capo, non poteva che ispirarlo nelle sue avventure seguenti. Ci sarebbe un sacco da scrivere su come Sun Ra abbia praticamente gettato le basi per l’estetica cosmica e meditativa del jazz che verrà di lì in poi, ma tralasciando discorsi su possessioni aliene rivelatrici di verità sull’esistenza dei terrestri e del cosmo, basti sapere un dettaglio utile a questa narrazione, Sun Ra era affascinato sin da piccolo alla cultura egizia, da quando in televisione aveva assistito al ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Proprio attraverso la cultura egizia una buona fetta degli afroamericani di quell’epoca cominciano il cosiddetto esodo di ritorno verso la Madre Africa e l’Islam. Questo ci porta a capire come mai Sun Ra rinominerà Faraone il suo amico e collega Farrell Sanders, è quindi impossibile slegare questa esperienza quando pensiamo all’immagine di Pharoah con il suo vestiario che ci fa intendere come quell’eredità dell’Arkestra sia diventata parte di lui. Il Creatore ha un piano superiore, riprendendo il concetto islamico di unicità del Tawhid e questa idea spiega come il flusso abbia guidato Pharoah fino a quel punto. Questo piano superiore però non è di certo ancora arrivato alla sua realizzazione, perché l’anno dopo la storia di Sanders si incrocia con quella di Coltrane nell’album Ascension. I due già avevano stretto amicizia quando si erano incontrati in California nel 1959. Nel ’58 Sanders si iscrive all’Oakland Junior College in California per studiare arte e musica, portando avanti la sua passione per la pittura, tuttavia non smette di suonare. Porta a termine un affarone, baratta il suo clarinetto con un sassofono d’argento che a sua volta scambierà con un vecchio modello di tenore come ha sempre voluto. In quella California, dove per suonare nessuno fa questioni sul colore della pelle, incontra John Coltrane. Il loro rapporto viene spesso condito da grandi discorsi mistici, ma sia Coltrane sia Sanders ne parlano con la semplicità di due migliori amici che raccontano l’uno dell’altro. Erano entrambi molto silenziosi, non avevano molto da dirsi, ma quando erano vicini si capivano con qualche sguardo o frase breve. Un episodio che spiega al meglio la profondità del loro rapporto sta di nuovo in quel perfezionismo a volte assillante di Sanders, chiedeva spesso durante le sessioni se il suo suono andasse bene, se le sue note erano giuste o cozzassero, ma Coltrane non rispondeva quasi mai. A furia di insistere però un giorno Coltrane esordì con un semplice “Sì va bene così, tu continua a soffiare”. Poche parole, a dimostrazione di quanto John conoscesse bene l’indole di Sanders. Nelle note di copertina dell’album Live At Village Vanguard Again, leggiamo invece un discorso più lungo – ripreso da Nat Hentoff – di Trane che recita: «Pharoah è un uomo di grandi risorse spirituali. È sempre alla ricerca della verità. Cerca di permettere al suo spirito di guidare le sue azioni. È un uomo che ha, oltre al resto, energia, onestà mentale e che va dritto all’essenza delle cose. Mi piace moltissimo la forza con cui suona. Inoltre, è uno degli innovatori e io mi considero fortunato per il fatto che si sia dimostrato disposto ad aiutarmi, a far parte del nostro gruppo». Hanno due personalità simili nella vita, ma si colmano nelle loro differenze, questo punto sfugge spesso quando si parla erroneamente di come e cosa Sanders abbia ereditato del sassofonismo di Coltrane. La verità è che le loro sonorità sono complementari ed è per questo che assieme suonavano così bene, si inseriscono in un rapporto dialettico, infatti, Sanders è tra i pochi musicisti che sono rimasti fissi nel quintetto di Trane fino alla morte nel ‘67. Tutto questo discorso ci fa capire come in fondo non c’è nulla di così mistico nel rapporto tra loro due, è vero che erano delle persone profondamente spirituali ma ciò non vuol dire che fossero dei santoni invasati di parole ispiratrici e religiose come spesso li si dipinge. Da un lato Coltrane arrivava a chiudersi in camera e disegnare linee nel circolo delle quinte o creare scale usando sequenze numeriche matematiche, mentre Sanders aveva un poderoso istinto a guidarlo quando imboccava l’ancia, tuttavia, dopo ore e ore a fare improvvisazioni libere, come racconta lo stesso Sanders, i due si concedevano di divertirsi suonando qualche standard e alcune ballad. In tal senso, a mio parere, un pezzo come I Want to Talk About You, ci rivela molto sull’influenza di Coltrane su Sanders, più di quanto non lo facciano album come Tauhid, Karma, Summun Bukmun Umyun, Jewels of Thought o andando più in là negli anni, Elevation.

Love is Everywhere

Pharoah Sanders – Udin&Jazz 2008 – ph Luca A. d’Agostino

L’ultimo brano riporta alla memoria una frase che disse un altro dei suoi amici con cui collaborò per anni, il pianista Lonnie Liston Smith, che in un’intervista con Chris Parkin racconta cosa significasse suonare con Sanders: «Sembrava che cantasse più note contemporaneamente e proprio in quel periodo stavo cercando di tirar fuori nuove potenzialità dal mio pianoforte a coda, suonando con l’avambraccio per ottenere un suono più potente. Ho chiesto a Pharoah: “Come fai ad avere questo suono?” Lui mi ha risposto; “Ma anche tu suoni come se avessi più di dieci dita!”. A lui piaceva spingersi sempre oltre il limite». Questo discorso di spingersi oltre il limite mi ha sempre ispirato e fa riflettere su quello che è il discorso che voglio portare in chiusura di quest’album. È innegabile e stupefacente come in dieci anni e una dozzina di album Pharoah Sanders sia diventato un musicista completo già a metà degli anni ’70. Quel bisogno di ricercare la verità e rinnovarsi non gli permettono di frenarsi, non è sufficiente ciò che ha già fatto e la sua spinta creatrice lo porta in più direzioni negli anni a venire. Per un periodo, sul finire degli anni ’70, torna indietro nella musica, abbandonando l’estetica spirituale, riabbracciando musiche più vicine alla tradizione blues come l’Hard Bop o riesplorando il Modal stile West Coast. Arriva nel 1994 a viaggiare in Marocco dove conoscerà la musica Gnawa e registrerà The Trance of Seven Colors con Mahmoud Guinia. Sanders cambia spesso etichetta nel corso della sua carriera, incidendo per dieci etichette diverse, suonando con ogni musicista di ogni estrazione in virtù di quel processo di trasformazione di cui abbiamo parlato. Non si può non restare affascinati da una spinta propulsiva alla creazione come la sua, talmente potente che nel 2021 ritorna in studio dopo lungo tempo registrando Promises, un album con il producer britannico Floating Points e la London Shymphony Orchestra. Il suo sassofono ha ormai raggiunto gli ottant’anni suonati, ascoltandolo riconosciamo subito il suo stile; eppure, ci appare un’altra volta come qualcosa di nuovo mentre veniamo trasportati nel suo mondo con quei nove movimenti attorno allo stesso motivo, racchiudendo forse il migliore album del jazz del ventunesimo secolo. Mi piace pensare che alla fine della sua vita sia riuscito a trovare almeno in quell’album quella sonorità perfetta, senza macchie, quella che con certezza può affermare che gli piace, senza rimuginarci sopra, quella che, in sintesi, ha sempre voluto trovare, ma quanta ironia se pensiamo come un anno prima in quella intervista con Friedman dice di non aver ancora trovato! Questo “ancora” è carico di significato ora che ci ripenso. Il suo voler superare certi limiti e andare oltre è d’obbligo per compiere un viaggio musicale come il suo, si potrebbe pensare che questi continui cambiamenti, che di lustro in lustro ha fatto, derivino da una forza di spirito, ma questa voglia di superare i limiti da sola non basta a spiegare la sua anima. Orientarci alla ricerca di essa facendo una lista di questi cambiamenti nella sua vita ci porta verso l’infinito, fino a diventare un oceano dove, da qualunque parte indichi la bussola, navigheremmo senza ritrovare più la terra ferma. Bisogna prendere fiato, fare il punto e trarre una conclusione prima di disorientarsi. Love is Everywhere mi ha permesso proprio di fare questo: gettare l’ancora in una destinazione precisa. Questo pezzo ha all’interno un chant (caratteristica che manterrà in molti suoi brani, specie dalla collaborazione con il cantante Leon Thomas in poi) e invita il pubblico a recitare con lui questo canto, come in una messa. Questo rituale ci permette di trascendere dal sentiero che abbiamo percorso ascoltando l’album. Vediamo finalmente il poliedro nella sua nuova forma e abbiamo scavato abbastanza da trovarne il nucleo? Forse sì! L’anima che guida questa voglia di sfondare muri e superarsi sta in un dettaglio solo apparentemente trascurabile, rileggendo la sua discografia e soffermandoci sui titoli di alcuni brani possiamo notarlo abbastanza in fretta. Love is Here, Love is Everywhere, o brani con titoli omonimi all’album come Love in Us All (1974), Love will find a way (1977), Welcome to Love (1991), Crescent with Love (1994)… in cui l’amore viene suonato come qualcosa di energico e movimentato dandoci una visione allegra e positiva del sentimento o, al massimo, dove manca l’elemento del ritmo incalzante c’è quello contemplativo; in netto contrasto con il dolore e il lamento perpetuo che troviamo nel resto del mondo jazz, catapultandoci in una dimensione più drammatica, melensa, nostalgica, enigmatica e ignota: What is this thing called love, You don’t know what love is, In a Sentimental Mood, There will never be another you e tanti altri. La domanda iniziale dell’articolo trova risposta, ecco che il nucleo si disvela davanti ai nostri occhi: ciò che Sanders ci ha lasciato è amore, che si esprime da noi stessi verso tutte le cose che ci circondano e da esse fa ritorno a noi. Oserei dire che avendo superato certi limiti sia addirittura un amore ancora più supremo di quello che Coltrane cantava nel 1960 in A Love Supreme. Quanto meno, questa è la forma dello spirito che ho visto io esplorando il mondo di Farrell Pharoah Sanders.

Alessandro Fadalti

Cristina Zavalloni: devo sentire mio ogni progetto che affronto

Vocalist di grande spessore, Cristina Zavalloni è una delle poche artiste italiane ad aver frequentato con successo e competenza ambedue gli ambiti del jazz e della musica colta. Percorrere le tape della sua lunga e luminosa carriera in questa sede sarebbe assolutamente inutile. Basta, forse, sottolineare come da 1982 ad oggi abbia registrato a suo nome una quindicina di album, l’ultimo dedicato alle musiche di Nino Rota che abbiamo recensito in questi stessi spazi. Ed è proprio da “Parlami di me” le canzoni di Nino Rota, che prende il via questa nostra intervista realizzata a Roma di recente.

– Come è nata l’idea di questo disco?
“L’idea è stata di Tonino Miscenà, patron dell’Egea, etichetta con cui avevo già collaborato in passato lungamente per tre o quattro dischi; successivamente c’è stata una pausa nell’attività dell’etichetta in quanto Miscenà ha fatto un’esperienza di lavoro diversa in Colombia e poi ha avuto il desiderio di ripartire con la musica, con produzioni un po’ ragionate, pensate. E tra queste rientra proprio questo album di cui stiamo parlando. E’ stato lui a propormi di incidere un disco con le musiche di Nino Rota ben sapendo che non avrei detto immediatamente di sì”.

– Per quale motivo?
“Perché dovevo prima studiare bene la situazione, capire di cosa si stava parlando, innamorarmi del progetto come faccio sempre quando la proposta arriva dall’esterno. E quindi aderire se la cosa mi convinceva completamente. Ci son voluti vari mesi ma non perché la musica non fosse bellissima ma perché si trattava di capire quale potesse essere la mia versione dei fatti. Poi ad un certo punto ho immaginato questo filo rosso cui accenno sempre quando parlo di questo lavoro”.

– Vale a dire?
“Intendo riferirmi alle carrellate femminili, ai ruoli di personaggi femminili un po’ evinte dai film da cui sono tratte le canzoni che hanno dei testi aggiunti a posteriori. Proprio oggi ascoltavo un poadcast su Pasolini: fa parte di quella tendenza che si era affermata subito dopo la guerra di vedere se dei grandi intellettuali, dei letterati, dei poeti potessero mettere dei versi a delle canzoni che erano parte dell’immaginario di tutti e che quindi erano popolari; in questo senso è stata una sfida, io credo, riuscitissima in quegli anni. Tornando a noi, quando mi sono immaginata questa carrellata di personaggi femminili mi è scattata una scintilla sul percorso da fare all’interno di queste canzoni, come poter entrare, in altre parole come se fossi un personaggio all’interno di un’opera”.

– Partendo da ciò che mi hai appena detto, la scelta dei pezzi e dei musicisti è stata fatta assieme con Miscenà?
“Tutto è stato fatto di comune accordo ma lui ha sempre lasciato che la proposta venisse da me. Questo lavoro io l’ho fatto a quattro mani con Cristiano Arcelli che è l’arrangiatore ed anche il mio compagno nella vita. Insomma abbiamo deciso tutto assieme. Particolarmente importante la scelta dell’ensemble: io ci tenevo molto ad evitare quella direzione bandistica che spesso è associata alla musica di Rota perché mi sembra che questo coté sia già stato molto esplorato. Mi sembrava più importante dare maggiore spazio alla dimensione di compositore colto di Rota che pure si coglie nella sue canzoni. Di qui la scelta di un gruppo classico, il ClaraEnsemble, fondato nel 2019 e con cui ho sempre lavorato da allora, abbinato a dei musicisti di jazz, anche loro compagni di viaggio oramai da lunga pezza. Ecco quindi al clarinetto Gabriele Mirabassi, al sassofono soprano Cristiano Arcelli, al trombone Massimo Morganti, al pianoforte, Manuel Magrini e al contrabbasso Stefano Senni. Devo comunque confessarti che la prima scintilla per la scelta dell’organico è scaturita da una versione di Caetano Veloso di “Parlami di me” o di “Come tu mi vuoi” tradotta in portoghese…lì c’è come al solito Jaques Morelenbaum al violoncello ma ci sono anche gli archi. Ho mandato il file a Miscenà e lui aveva paura che il disco diventasse troppo colto…ma alla fine ho avuto ragione io”.

– Tu hai fatto poco fa dei riferimenti al jazz. Ma come si fa a definire oggi se un disco è jazz oppure no? Francamente io non ci riesco.
“Neppure io, se è per questo. Per quanto concerne il disco di cui stiamo parlando era importante che ci fosse anche dell’improvvisazione…che non fosse tutta musica scritta. Ad esempio il pianoforte non ha tutta la parte scritta”.

– Ma il vocale non mi sembra improvvisato
“In effetti non lo è. Io non improvviso mai; anche quado insegno improvvisazione vocale, io mai improvviso in quanto non ho quell’amore, non mi riconosco in quella pratica… poi in realtà improvviso ma lo faccio sulla modifica di una cellula melodica oppure improvviso con le parole, sul testo, aprire degli spazi improvvisi. Ciò perché io vengo da quelle esperienze: i collettivi di improvvisazione radicale e nel frattempo studiavo musica classica”.

– C’è in tal senso una cantante che per te possa costituire un punto di riferimento?
“Ce ne sono tante così come tanti sono gli album. Ce n’è uno in cui Bill Evans suona con una cantante svedese, Monica Zetterlund, e il disco è semplicemente meraviglioso in quanto lei canta con una semplicità ed una naturalezza semplicemente straordinarie (“Waltz for Debby” del 1964 con Monica Zetterlund n.d.r. ). Poi quando senti Cécile McLorin Salvant che improvvisa, è bellissimo ma è il suo linguaggio, la sua storia…non la mia”.

– Oggi cosa rappresenta la musica per te?
“Questa è una domanda tutt’altro che banale. Ho dato per scontato che fosse la mia ragione di vita per un lungo lasso di tempo poi, quando sono diventata mamma, molto tardi, questa mia percezione è un po’ cambiata. Negli ultimi anni, per effetto anche delle circostanze esterne, ci siam dovuti fermare e allora mi sono interrogata: innanzitutto volevo continuare a fare musica così come avevo fatto in passato?…domanda cui non ho dato una risposta. Comunque a conti fatti penso che la musica ancora oggi sia il mio destino: io vengo da una famiglia di musicisti, mio padre era un musicista e c’erano molte aspettative sul fatto che io facessi la musicista…in realtà mi sento di non avere scelta. La fortuna è però che tutto questo, fare musica, mi piace da impazzire, quindi è un destino che accolgo alle volte in modo un po’ conflittuale ma più in generale con grande gioia, perché questa è la mia vita. Quando si comincia a suonare tutto scompare e resta questo grande, immenso piacere di fare musica, di fare ciò che mi piace”.

– E L’attività didattica…?
“No, non è un ripiego se è questo che volevi chiedermi. Ho la fortuna di vivere di musica e come ti dicevo vengo da una famiglia in cui la musica era di casa. Mio padre ha costruito una sorte di ricchezza con la musica per cui io mai sono partita da una situazione di bisogno che mi spingesse a fare qualcosa a scapito di qualcos’altro. Così io non ho mai insegnato in Conservatorio, non ho fatto graduatorie per insegnare. Ad un certo punto è arrivato questo invito dal St. Louis di Roma quando mia figlia aveva due, tre anni ed ero quindi entrata nella modalità di occuparmi anche degli altri. Da questo dare è fiorito l’amore per l’insegnamento che rimane però altalenante: ci sono periodi in cui, se ho molte cose da fare, parecchi progetti da portare avanti anche nel campo della musica classica per cui ho bisogno di studiare molto, le energie per l’insegnamento vengono un po’ meno. Intendiamoci: io do sempre il massimo, ma di quello che posso e io stessa mi rendo conto che in alcuni casi non è abbastanza”.

– Tocchiamo un altro tasto particolarmente delicato: qual è oggi il tuo rapporto con la critica o se preferisci con i critici musicali?
“Mi ha sempre fatto molta tenerezza l’affermazione di alcuni miei colleghi che mi dicevano ‘ma lascia perdere i critici tanto le recensioni non le fa più nessuno, nessuno ti critica…’io viceversa ho avuto la fortuna di essere stata spesso oggetto di molte critiche, anche feroci, ma è stimolante perché se ti criticano significa che ti hanno ascoltato attentamente. Certo si soffre, ci si sta male ma bisogna accettarle perché queste sono le regole del gioco. Certo è importante l’onestà intellettuale di chi ti critica. Quando invece questa critica è gratuita, allora cerco di proteggermi, di tutelarmi”.

 – Perché molti musicisti reagiscono male anche ad una leggera critica?
“Perché si soffre”.

– Ho capito. Ma queste, come si diceva, sono le regole del gioco…se ci si mette in gioco questo è l’eventuale prezzo da pagare…Anzi oggi purtroppo di critiche negative se ne vedono troppo, troppo poche…
“Certo ma non tutti sono disposti a soffrire per crescere”.

Durante il periodo della pandemia si era detto: ‘ne usciremo bene, saremo tutti più buoni, più tolleranti’. Non mi pare che le cose stiano andando proprio così…
“E’ proprio vero. Al contrario siamo tutto incattiviti ma più che violenza noto una preoccupante miseria emotiva. L’unica spiegazione che riesco a darmi è che la gente ha paura di perdere la possibilità di vivere di musica e questa è una possibilità purtroppo oggettiva”.

– Ma questa acredine che travalica i confini della musica per investire tutti gli ambiti del vivere civile?
“A mio avviso c’è sempre stata solo che ora si manifesta di più come se la gente avesse perso qualche forma inibitoria: bisogna proteggersi in primo luogo circondandosi di persone che hanno una luce diversa, una energia diversa. Io vado sui social il meno possibile, li uso solo per fini promozionali per la stessa ragione per cui leggo con pudore le interviste”.

 

Gerlando Gatto

Kenny Barron: a colloquio con l’enciclopedia del jazz

È con vero piacere che “A proposito di jazz” accoglie tra i suoi collaboratori un giovane musicista appena laureato con 110 e lode al Conservatorio di Latina. Il suo nome: Daniele Mele. Daniele, classe ’97, inizia a studiare pianoforte all’età di 13 anni. Dopo una doverosa formazione classica con il M. Ilaria Liberati intraprende gli studi Jazz presso il Conservatorio “O. Respighi” di Latina sotto la guida del M. Andrea Beneventano, dove, come si diceva si diploma con lode. Approfondisce gli studi con Andrea Rea, Roberto Bottalico, Ignasi Terraza, Kevin Harris, e si forma seguendo masterclass di Jazz e di musica classica in tutta Italia (Berklee, Siena Jazz, Arcevia Jazz, etc.).
L’inizio di questa collaborazione con il nostro blog è di quelli che lasciano il segno: si tratta, infatti, di una approfondita intervista con Kenny Barron, pianista e compositore tra i più importanti ancora sulla scena.
Nato a Filadelfia, il 9 giugno 1943, Kenny si esibisce da quando aveva quindici anni e in tutto questo arco di tempo ha saputo sviluppare uno stile personale che lo colloca tra i grandi della tastiera di tutti i tempi: ancora oggi le sue registrazioni con Stan Getz nulla hanno perso dell’originario fascino così come quelle del gruppo Sphere di cui  nel 1980 fu uno dei fondatori, con Charlie Rouse (sax), Buster Williams (basso) e Ben Riley (batteria).
E, alla grandezza dell’artista, si è sempre accompagnata una statura umana di straordinaria dolcezza: chi scrive queste note ha avuto l’opportunità di intervistarlo oramai parecchi anni fa e ne conserva un ricordo bellissimo dovuto proprio alla gentilezza e alla disponibilità dell’uomo. Gentilezza e disponibilità che dimostra appieno in questa intervista che pubblichiamo qui di seguito. (G.G.)

Ore 9:00 (New York) il giorno 25/04/2021.
-Sono molto emozionato in questo momento e la ringrazio per avermi concesso quest’intervista.
“Oh, è un piacere”.

Prima parlavo con mio padre, gli stavo dicendo che credo ci sia una grande differenza tra musica jazz e musica pop: se voglio parlare con un “nome importante” del Jazz posso avere qualche possibilità di farlo, mentre credo che se volessi parlare con un idolo del pop avrei maggiori difficoltà.
“Sì, lo penso anch’io”. (ride)

-Sì… il jazz è più popolare del pop!

“È vero”.

Mi fa piacere sapere che sta bene. Vorrei chiederle della vaccinazione, perché so che si è vaccinato: è andato tutto bene?
“Oh sì, ho avuto due dosi di Moderna. Due dosi, quindi… ora sono a posto”.

-Benissimo. Questo è un periodo assurdo!
“Sì, lo è”.

-Se non le spiace, parleremo di alcuni punti che mi interessano particolarmente. So che ha suonato in Italia ad Umbria Jazz con numerosi musicisti, e mi piacerebbe sapere quale fu la sua prima volta qui e perché.

“La prima volta in Italia fu… wow… nel 1963? ’63 o ’64, ero con Dizzy Gillespie. Sì, eravamo a Milano”.

-Era una tappa del tour che faceste in giro per il mondo?
“Sì, suonammo in Piazza Duomo e la cattedrale è incredibilmente bella. Quella fu la prima volta”.

-Le piace l’Italia?
“La amo. La gente, il popolo… non si può mangiare male in Italia. È veramente difficile!”.

È vero. E invece cosa mi dice del suo rapporto con la musica italiana? Per esempio, io sono di Napoli, nel Sud Italia. Sono cresciuto ascoltando “O sole mio” e “Tu sì ‘na cosa grande”. Conosce queste canzoni?
“Oh sì, le ho sentite tante volte. Non ho mai saputo i nomi dei compositori, ma le ho sentite tante volte”.

-Ok! Ha qualche aneddoto particolare dell’Italia, o ci sono musicisti di sua conoscenza qui?
“Ah… beh, ovviamente una delle mie persone preferite è Dado (Moroni, NdT). Abbiamo suonato insieme in duo, e numerose volte abbiamo fatto dei tour suonando la musica di Monk, eravamo quattro pianisti. A dire il vero abbiamo un progetto insieme per il prossimo anno, penso a Budapest… ho suonato con lui tante volte, e gli voglio bene. La prima volta che ho incontrato Dado è stata ad un seminario in una città vicino Genova, Nervi.

-Stava partecipando ad un seminario su di lei?
“No no, in realtà era il mio interprete!”.

-Ah, bello! (si ride)
“Siamo diventati presto amici, e lì l’ho sentito suonare per la prima volta. In realtà c’era una jam session ogni sera lì al club. Andai per sentirlo suonare e ne rimasi affascinato, è un musicista incredibile… anche con contrabbasso e batteria!

-Oh… non lo sapevo!
”Oh sì, lo assumerei! Per suonare il contrabbasso, e lo assumerei anche per suonare la batteria”.

-Interessante…
“E ho fatto una registrazione con Stefano, Stefano Di Battista, alcuni anni fa. E il contrabbassista, di cui non ricordo il nome ora…”

-Forse Rosciglione? Giorgio o Dario Rosciglione?
“Oh, no. Li conosco, padre e figlio. Era un musicista più giovane. Comunque tutti bravi musicisti”.

-Bene. Adesso mi piacerebbe parlare con lei dei tre album che amo. Il primo è “Canta Brasil”. Lo adoro! Sa, ballo salsa e bachata con la mia fidanzata…
“Ah-ah, wow!”.

Sì, ballavo prima del Covid ovviamente, ora è tutto chiuso. Ma mi piace, perciò quando ascolto questo tipo di ritmi inizio a ballare e a muovermi. Mi è davvero piaciuto quell’album, e sbaglio se affermo che è iniziato tutto con L’uomo, Dizzy Gillespie?
“Oh, più o meno; in realtà non suonavamo così tanti pezzi brasiliani… ma quell’esperienza è stata d’introduzione alla musica brasiliana: suonavamo “Desafinado”, “Samba De Uma Nota So”. Tuttavia, ciò che davvero mi avvicinò alla musica brasiliana fu ascoltare “Brasil ‘65”, sai… nel 1965! Stavo ascoltando la radio a San Francisco, quando passarono proprio quell’album e ne rimasi folgorato. C’erano chitarre eccezionali, poi Wanda De Sah, e il pianista, era il leader, Sergio Mendes… fu il gruppo che mi portò alla musica brasiliana. Da quel momento in poi ho lavorato con Stan Getz, che suonava molto questo tipo di musica, e poi ho fatto ricerche e ascoltato musica Brasiliana più datata, quella della scuola del Samba. Poi ho conosciuto Nilson Matta, Duduka da Fonseca e Romero Lubambo, e iniziammo a suonare e suonare insieme. Mi insegnarono molti ritmi differenti, e da dove provenivano… questi ritmi vengono dal Nord del Brasile, questi altri dal Sud. Iniziai a lavorare con loro. E così fondammo la band, Canta Brasil”.

-Mi scusi ma vorrei sapere qualcosa di più su Gillespie. Com’era al di fuori del mondo musicale? Ho iniziato a studiare il jazz un po’ di tempo fa, e lui è uno di quei grandi nomi che si devono necessariamente studiare, e da cui si deve prendere il più possibile.
“Fuori dal mondo musicale? Era un grande, davvero una persona cortese, anche molto divertente… fuori dal mondo musicale”.

-Non lo era durante la musica?
“Oh sì, era egualmente divertente! Ma molte persone pensavano che fosse solo apparenza, invece lui era così anche fuori dal palco. Era divertente, molto cortese e molto rispettoso”.

– Quindi il vostro tour mondiale si è tenuto tra il ’62 e il ’66. Che cosa mi dice rispetto alle tappe? Mi ha parlato di Milano, nel ’63.
“Sì, in Italia. Ma abbiamo suonato anche in altri posti: Copenaghen, in Svezia, Varsavia in Polonia, che al tempo era ancora comunista”.

-E fuori dall’Europa?
“Non abbiamo suonato fuori dall’Europa. Abbiamo fatto solo un tour europeo, e quella fu la prima volta che andai in Europa. Fu un inizio fantastico per me!”.

-Sì, posso immaginarlo! (si ride) Parliamo del secondo album, si intitola “Two as One”, l’album con Buster Williams.
“Oh Buster!”.

-E questo lavoro è di particolare importanza per gli italiani, perché è stato registrato a Perugia al Teatro Morlacchi.
“Sì”.

– Ricordo “All of You” e “Someday My Prince Will Come”, e l’ostinato di Buster… 40 secondi forse sul fa, e poi tutto il sound che si apre quando suona il Re basso e con tutte quelle frequenze che arricchiscono la musica. Meraviglioso!
“Certo”(ride)

-E Buster Williams? Com’è?
“Io amo suonare con Buster Williams. In effetti ho appena visto un video su di lui… non so se avete Amazon Prime in Italia”.

-Ce l’abbiamo.
“Si intitola “Bass To Infinity”. È tutto sulla sua vita, ci sono alcune interviste con Herbie Hancock, Lenny White… tutti suonavano insieme a Buster. Dura un’ora, è molto interessante. Sai lui è buddista, perciò parla della sua pratica e di molte altre cose. Ci conosciamo dal 1958, quando eravamo entrambi adolescenti a Philadelphia. Lo conosco da molto tempo, abbiamo lavorato molto insieme… è uno dei miei contrabbassisti preferiti in tutto il mondo”.

-Ho letto che ha suonato con… c’è qualcuno con cui non ha suonato? Ha suonato davvero con tutti!
“Sì, tutti. Le cantanti lo amano, ha lavorato con Nancy Wilson per molto tempo, e anche Sarah Vaughan. Questo video racconta anche delle prime volte in cui uscì per esibirsi, appena terminata la scuola superiore, con Gene Ammons e Sonny Stitt, e di quando ha dovuto avere il permesso da sua madre… dagli un’occhiata!”.

-Senz’altro. Sa… l’inizio della mia tesi di laurea contiene una frase su Philadelphia, e sul fatto che tutti i grandi musicisti sono di lì. È una specie di magia. (ridono)
“Non tutti, ma molti sono di lì! Io penso che una delle ragioni, prima di tutto, è che è molto vicina a New York, a solo due ore di guida. Perciò Philadelphia era una delle tappe principali per i musicisti che provenivano da New York, e io ricordo di aver visto Kenny Dorham e molte altre persone che semplicemente scendevano per andare a fare un concerto a Philly. E si può arrivare a Philadelphia per una sera, e poi tornare indietro quando il concerto è finito. Ai tempi aveva due Club principali che presentavano musicisti di fama mondiale, uno si chiamava Pep’s e l’altro Showboat. Vedevo ‘Trane, Yusef Lateef e Miles suonare lì, e molti altri. Philly era un luogo dove si lavorava, e penso sia per questa ragione che c’erano molti giovani musicisti, incluso me, che poi migliorarono con tutta quella musica attorno.

-Capisco.
“Philly aveva anche molti posti di lavoro per questi giovani musicisti, ci sono molti club in cui ho lavorato. Ed era una gran cosa, avere posti in cui suonare. Questo mi ha aiutato nella crescita, c’erano altri giovani musicisti con cui ho socializzato che sono ancora in giro! C’erano Sonny Fortune, beh lui è venuto a mancare ora, siamo cresciuti insieme… e Buster come sai. Philly era proprio un gran posto”.

-Il prossimo musicista di cui vorrei parlare è anche lui di Philly, e ora mi riferisco al terzo album, che è anche il mio preferito: sto parlando di “People Time”.
“Oh, Stan!”.

-Sì, questo album è la ragione per cui ho iniziato a studiare la sua musica e il suo modo di suonare il pianoforte. È vero che lui la considerava l’altra metà della mela, in senso musicale?
“Ehm, non lo so… così diceva! (ride) Beh, credo che per dirlo lo pensasse davvero. Musicalmente eravamo… empatici? Avevamo un approccio alla musica simile, la melodia era importante”.

-Sì! Sa Kenny, ho sempre l’impressione che quando Stan smette di suonare lei continui a suonare il sassofono ma usando il piano, e viceversa.
“Ah!” (ride)

– È incredibile! Davvero, mi sembra che siate come connessi.
“Sì, lo credo anch’io. Entrambi amavamo la liricità, e questo è importante. Stan poteva suonare una ballad e farti piangere, con il suo sound e le sue idee e la sua creatività. Quello fu un concerto interessante, specialmente in duo, lui era… beh, sono sicuro che conosci la storia”.

-La conosco.
“Era malato al tempo, quando registrammo in duo. Aveva una sorta di tumore del sangue, perciò sentiva molto dolore. Dovevamo registrare per tre sere, ma andammo avanti soltanto per due, lui non riuscì a finire l’ultima sera. Avemmo solo un altro concerto insieme dopo quell’episodio, a Parigi, e non riusciva a suonare molto. Lui suonava la melodia e io feci la maggior parte dei soli al pianoforte, e quella fu l’ultima volta che lo vidi”.

-Mi dispiace molto.
“Era marzo e io lo chiamai un mese più tardi, per sapere come stesse. Mi disse che stava bene e che avrebbe suonato per il prossimo tour, e poi a giugno… è venuto a mancare. Abbiamo perso una bella persona.

-Sì. Secondo me  Stan Getz e Paul Desmond sono due grandi sassofonisti che rimarranno nella storia del jazz
“Davvero?”.

-Sì, mi piacciono davvero tanto. Sicuramente c’è anche Charlie Parker, e tutti quei sassofonisti formidabili che sono fuori da ogni sorta di classificazione. Ma mi piacciono molto Paul e Stan per il modo che hanno di suonare.
“Quindi tu ami… il loro sound?”.

-Sì.
“Lo apprezzo. Paul aveva un sound molto morbido e snello, tenero. E una delle prime registrazioni che ho ascoltato era di Dave Brubeck e Paul Desmond, era ‘Jazz Goes To College’”.

-Sì, me la ricordo. Forse anni ’60?
“In realtà tardi anni ’50, perché ancora vivevo a Philly. Questo era uno dei miei pezzi preferiti”.

– Solo un’ultima cosa su Stan Getz… in quale occasione iniziò a collaborare con lui, a quanti anni? Ha mai rimpianto di non averlo conosciuto prima?
“Rimpiango sempre di non aver conosciuto prima le persone, ma sono lieto quando le conosco! Ricevetti una chiamata per lavorare con lui, per sostituire Chick Corea. Allora aveva una band con Stanley Clarke, Tony Williams e Chick. Mi chiamò e mi chiese di prendere il suo posto, questa fu la prima volta che lavorai con Stan. Era incredibile, suonavamo tutta la musica di Chick Corea. Penso si chiamasse “Captain Marvel Band” o qualcosa del genere. Era un piccolo tour, suonammo per poche serate soprattutto in Sud Carolina e a Baltimora. Quando partimmo Stan mi disse: “Sei davvero un musicista con esperienza”, e per me quello era un grande complimento. Per un po’ non l’ho più sentito, e poi pochi mesi dopo mi chiamò per un posto alla Stanford University”.

-Ho capito.
“Artist-in-residence. Mi chiamò per chiedermi di andare lì e suonare in alcuni concerti con lui. Da quel momento iniziammo ad andare in Europa durante l’estate perché io insegnavo alla Rutgers University e lui a Stanford, perciò non potevamo provare molto durante l’anno accademico. Ma in estate andammo a tutti i grandi festival d’Europa. Aveva una buona band, con Victor Lewis e Rufus Reid. Facemmo un paio di registrazioni a Montmartre con il quartetto, e un paio in duo. Sempre grande musica, grande scrittura. Registrammo un pezzo elettronico dal titolo “Apasionado”, in California. Mi piaceva, per me era qualcosa di diverso! C’erano gli archi e tutti i tipi di strumenti elettronici. Una grande esperienza che non avevo mai fatto prima”.

-Ok. Dato che lo ha accennato, mi piacerebbe parlare dell’insegnamento. Lei era un insegnante di pianoforte alla Rutgers University, e poi alla Julliard, la vecchia Manhattan School.
“Esatto”.

-Insegna ancora? O ha lasciato?
“No, mi sono congedato”.

-Perché, se posso chiedere?
“Beh, sto invecchiando! (ride) A un certo punto senti che hai bisogno di imparare qualcosa, ed io avevo bisogno di imparare altro. Avevo bisogno di ascoltare altre persone suonare, in un certo senso di “istruirmi”. Gli studenti erano bravi, intendo bravi davvero… che cosa avevo da dare loro? A Manhattan c’erano Gerald Clayton, Aaron Parks, era uno dei miei studenti, e molti altri… alla Julliard avevo Jonathan Batiste, alla Rutgers Terence Blanchard, Harry Allen. E tutti loro suonavano benissimo il pianoforte!”.

-Com’era un sua lezione tipo? Cosa faceva durante l’ora?
“Sostanzialmente suonavamo insieme. Ho sempre avuto due pianoforti nella mia aula. Suonavamo insieme perché questo mi permetteva di capire cosa effettivamente sapessero o non sapessero suonare. Insomma, erano al punto in cui io non avevo bisogno di dire loro “questo è un accordo di Do”, non avevano bisogno di questo da me: sapevano già come come suonare. Eravamo interessati a sottigliezze e rifiniture, e idee su tocco, frasi, cose del genere”.

-Quindi le sue lezioni erano come delle performance dal vivo, ma guidate?
“Sì, una cosa di questo tipo! Suonavamo e poi ci fermavamo, e dicevo “Ok, qui stiamo suonando una ballad, non dovete suonare così rigidamente, non c’è bisogno di suonare così tante note in questa ballad… lasciate spazio, anche il silenzio è parte della musica”, cose così. E penso che la prendessero molto seriamente”.

-Quindi… ha dei suggerimenti per diventare un buon insegnante? C’è un ingrediente speciale?
“No, non penso. Certo dipende, le persone hanno diversi modi di insegnare. Il mio modo di insegnare era quello di ascoltare i musicisti e sentire costa potevano fare, e sfidarli. Prendevamo una canzone e la suonavamo per 30 minuti, e poi facevamo un botta e risposta, per fare esercizio. E poi provavamo a sfidarci l’un l’altro, ed è un bene quando gli studenti provano a sfidare anche te. (si ride) Ho imparato molto anch’io”.

-Ok.
“Non è tipo “sono il tuo insegnante e tu fai quello che dico”, a quel livello non è così. È più uno scambio di idee. Imparo da loro, loro imparano da me”.

-Certo, grazie mille. Parliamo adesso di composizione. Lei ha composto molto: adoro “Until Then e Sunshower”, in particolare. Quanto pensa sia importante scrivere pezzi originali, che abbiano la propria firma?
“Penso sia importante, e che si debba scrivere il più possibile. Quello che cerco nella scrittura, quello che cerco di raggiungere nella composizione è… la semplicità. Non scrivo cose in 11/8, 9… non scrivo cose in tempi strani. Non sento la musica in quel modo! Alcuni musicisti lo fanno comodamente e mi piace ascoltarli, ma il mio approccio è più che altro fatto di melodie semplici, armonie che forse qualche volta sono ingannevoli… o forse non qualche volta! Per me funziona la semplicità”.

-Sì. Stavo pensando… lei reputa questo un passaggio fondamentale? Un passaggio che un musicista deve fare per sentirsi completo? O pensa che si possa saltare?
“Intendi saltare la scrittura?”.

-Sì.
“Beh, non tutti i musicisti sono compositori, alcuni di loro non scrivono. Ma, come dice qualcuno, l’improvvisazione è composizione, solo che non è scritta”.

-Infatti.
“Un musicista Jazz compone tutto il tempo… quando inizia a scrivere, quella è una composizione! (si ride) Ma molti musicisti semplicemente non sono per la scrittura, e li capisco. Io penso che sia un altro aspetto di te che dovresti esplorare”.

-Ok. Guardi, una volta ho frequentato una masterclass di Billy Childs. Secondo me è un grande compositore.

“Sì, lo è.”

-E ha detto qualcosa che io ritengo incredibile. Ha detto: “Il segreto del comporre è creare qualcosa di sorprendente, e allo stesso tempo inevitabile”.
“Sì, ok”.

-Mi suona come qualcosa del tipo: “Devi creare musica che ha dei legami con il passato, in modo che ascoltandola tu sappia dove sta andando, ma che abbia anche qualcosa di sorprendente che ne cambia la direzione”, no?
“Sì, sì, sì”.

-È d’accordo?
“Sono d’accordo. E ho ascoltato abbastanza musica di Billy Childs, è un compositore brillante”.

-Lei ricorda un buon consiglio che qualcuno le ha dato recentemente o nel passato, o un evento particolare che ha cambiato il suo modo di comporre e suonare?
“Ehm… sì! Qualcuno una volta mi diede un’idea che io poi ho provato ad applicare: prova a suonare il tuo solo nello spazio di una quinta perfetta. Tutte le tue parti di improvvisazione. Ovviamente non puoi farlo chorus dopo chorus dopo chorus, ma fai una prova. Quanto puoi suonare solo in quel piccolo spazio di una quinta perfetta?”.

-Non ho capito bene, Mr. Barron…
“Sul pianoforte, una quinta perfetta, da Do a Sol. E stai suonando una canzone, qualunque essa sia, prova a suonare tutto all’interno di quella quinta perfetta, cromaticamente”.

-Ok!
“E vedi come va. È qualcosa che puoi provare… potresti restare sorpreso. Perché qualsiasi nota tu metta insieme funzionerà contro qualsiasi accordo suonerai. Deve essere risolto, ma funziona. Questo è un consiglio che qualcuno mi diede e che ho provato. È qualcosa da ricordare”.

-Ok, ora… l’ultima parte. Oltre la musica, sono curioso rispetto alla giornata tipica di Kenny Barron. Ci sono delle cose particolari che ama fare nel tempo libero, se non suona?
“Mi piace leggere molto. Mi piace leggere romanzi”.

-Che tipo di romanzi?
“Mi piace James Patterson, romanzi gialli e cose di questo tipo”.

-Sì! Le piace Zafon? Carlos Ruiz Zafon?
“Oh, non lo conosco”.

-No? È bravo! E Dan Brown?… quello de “Il Codice Da Vinci”.

-“Oh sì sì l’ho letto! (ridono di gran gusto) L’ho letto. In realtà ho anche visto il film”.

-Sì… mi scusi, l’ho interrotta.
“No, non fa niente. Stavo dicendo che durante il Covid non c’è molto altro da fare, perché altrimenti andrei da qualche parte, ascolto musica o cose di questo tipo. Perciò questo è ciò che faccio, leggo e provo anche a cucinare!”.

-Cosa cucina?
“Schnitzel… bistecca! Cose del genere”.

-Le piace la pizza?
“La amo. E a Napoli ho mangiato la migliore pizza della mia vita.”

-Wow! Si ricorda il posto?
“No, ma era così fina… con l’aglio…non ricordo perché mi ci hanno portato. Quella fu la migliore pizza che io abbia mai mangiato. E amo anche mangiare! (si ride) Che è un male!

-No. Non è un male! Sa, quest’anno mi ha fatto realizzare appieno che ci sono anche altre cose oltre alla musica. E se si usano queste cose per nutrire il proprio “appetito musicale”, ci si sentirà più rilassati nel suonare e meglio in generale.
“Lo penso anch’io. Bisogna essere una persona a tutto tondo, il che significa fare tutto nella vita, non solo musica. Ci sono persone ossessionate dalla musica, è tutto ciò che fanno: 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Ascoltano e praticano musica, scrivono musica 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Vorrei essere una di queste persone, ma non lo sono. Ci sono altre cose che catturano la mia attenzione, come la politica o quanto accade nel mondo. Ora c’è il processo di Minneapolis (per la morte di George Floyd, NdT) che mi interessa”.

-Sì, anche a me.
“Succedono anche altre cose. Possono ispirare la tua musica, in un certo qual modo”.

-Sono d’accordo. Quali sono i suoi piani per il futuro? Ci sono nuovi album in cantiere, nuovi progetti?
“Non al momento. C’è un sassofonista, Greg Abate. Ha fatto delle registrazioni di… circa 15 miei pezzi, con il trio. Suona il sassofono contralto, e ha sovrainciso il sassofono e scritto una sorta di sezione di sax in alcuni dei pezzi. È abbastanza interessante! Ma penso che l’unica cosa che vorrei fare prossimamente è un solo, e poi forse un duo, con batteria o percussioni o… un violoncello! Sì qualcosa del genere. Ed è economico da produrre perché non devo pagare me stesso. (ride)”.

Kenny Barron, Udine, Teatro Palamostre, 10.04.2018 Note Nuove

-Verrà in Italia?
“Ci sono dei piani, non so se verranno cancellati o no a questo punto. Penso che a Perugia o Pescara ci potrò essere”.

-Lo spero!
“Lo spero anch’io! E ci sono altre cose… ce n’è una in una città chiamata… Merano? Non Milano, Merano”.

-Sì, nel nord Italia.
“Sì, non sono sicuro che accadrà. Ma penso che per luglio o agosto le cose miglioreranno almeno un po’, lo spero”.

-Sì, ed io sarò lì ad aspettarla! Vaccinato ovviamente, spero di poterla conoscere e abbracciarla nella vita reale.
“Ok! Grazie molte”.

Le sono molto grato, grazie mille.
“È stato un piacere!”.

Ci vediamo presto allora.
“Ok, ciao!”.

-Grazie, arrivederci!

Daniele Mele

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021, part 1 – di Flaviano Bosco

In barba alle più catastrofiche previsioni che volevano il mondo dello spettacolo in ginocchio per le restrizioni dovute all’epidemia, le proposte musicali in Friuli Venezia Giulia negli ultimi 12 mesi sono andate moltiplicandosi a dismisura. Per quanto riguarda soprattutto il jazz non si era mai visto un tale fermento, i circuiti tradizionali di sale da concerti e locali si possono considerare paradossalmente saturi tanta è l’offerta. La risposta del pubblico, tenuto conto del momento, è sempre stata assolutamente straordinaria dimostrando tutta un’autentica passione per un genere musicale generalmente considerato “difficile”.
Il successo delle varie rassegne che prenderemo in considerazione è dovuto anche alla tenacia di associazioni e di organizzatori che da decenni operano sul territorio e che hanno “educato” e cresciuto un proprio pubblico con proposte sempre di alto livello, regalando la possibilità anche a chi risiede alla “periferia dell’impero” ma in diretta connessione con le realtà centroeuropee, di gustare le star internazionali e la musica più raffinata sulla scena mondiale.
Basta mettere insieme i vari cartelloni che si susseguono ininterrottamente durante l’anno in regione per capire quanto sia apprezzata la musica dal vivo. Certo non è possibile contare su centinaia di migliaia di potenziali spettatori come succede nelle metropoli, ma gli appassionati friulani, giuliani e gli amici d’oltre confine, austriaci e sloveni, garantiscono un seguito attento e fidelizzato.
Certo permangono delle problematiche e zone d’ombra particolarmente evidenti come quelle causate dalla cecità di alcune amministrazioni comunali che, per motivi biecamente strumentali e ideologici, cercano inutilmente in ogni modo di boicottare alcune manifestazioni; si è fatta più evidente la carenza di spazi adeguati per l’ascolto e per le esibizioni, i luoghi ci sono ma, inspiegabilmente, qualcuno preferisce tenerli chiusi o riservati ai pochi eletti; manca quel coordinamento a livello regionale tra i vari enti e associazione che potrebbe rendere omogenea e competitiva una proposta unitaria per quanto riguarda la musica e, in generale, il mondo dello spettacolo. Se esistesse una qualche forma di coordinamento le proposte e le risorse che il Friuli Venezia Giulia è già in grado di mettere in campo anche dal punto dell’attrattiva turistica non avrebbero uguali e nemmeno rivali almeno a livello nazionale. Un’amministrazione lungimirante della cultura, in questo senso, potrebbe essere un vero volano anche per l’economia locale di straordinaria forza trainante anche per gli altri settori. Qualcuno comincia ad accorgersene ma non si è ancora fatto abbastanza.
Senza fare troppe polemiche comunque è il caso di spendere qualche parola almeno sulle tre rassegne più blasonate, le prime due (Udin&Jazz e Il Volo del Jazz) ormai radicate, vincenti e per così dire storiche, che da anni si ripetono stagione dopo stagione con grande capacità di rinnovamento e di crescita; l’ultima nata (Estensioni), invece, è stata la più bella sorpresa dimostrando che con impegno, costanza e passione è sempre possibile trovare nuove suggestioni per la musica jazz nel senso più largo possibile della definizione.
Suddivideremo questa recensione in tre articoli, partendo di seguito con la rassegna Estensioni Jazz Club Diffuso 2021.

Estensioni Jazz club Diffuso 2021 è una rassegna di concerti che ha voluto riportare l’atmosfera di creatività e socialità di un jazz club, al di fuori di contesti metropolitani, andandosi a collocare in luoghi inusuali, lontani dalle solite rotte. Dagli spazi industriali di Schio passando per le architetture militari di Forte Col Badin, ai confini con l’Austria e Slovenia, per approdare nella pianura friulana che si unisce con l’Adriatico per proseguire verso il Po, alla ricerca dell’essenza del suono e della contaminazione tra linguaggi. 7 mesi di programmazione artistica, Concerti, Mostre, Workshop, 4 regioni italiane, 70 artisti”.
Così recitava la locandina della rassegna concepita dalla luciferina creatività di Luca A. d’Agostino e così è stata la lunga avventura di “Estensioni” un’esperienza musicale con pochi precedenti in regione o forse nessuno. Nuove traiettorie e una nuova concezione del fare musica e dell’ascoltarla. Naturalmente non è possibile, almeno in questa sede fare una disamina puntuale di ogni concerto o esibizione, abbiamo scelto di concentrarci su due degli artisti più significativi tra i tanti, trascurando gioco-forza le autentiche epifanie musicali di Alfio Antico, Arti & Mestieri, Patrizio Fariselli Area Open Project, Ginevra di Marco, Francesco Magnelli, Giovanni Maier, Andrea Massaria, Maistha Aphrica e tutti gli altri fino alla chiusura con il Bluegrass del “bisteccone” Joe Bastianich, non ce ne voglia nessuno ma non possiamo fare altrimenti.
Marco Colonna: artista di grandissima intensità, il sassofonista romano è stata una delle stelle più luminose di questa rassegna. Amico del Friuli ha già partecipato ad altre manifestazioni regionali. In questa occasione ha suonato al Impro festival di Schio (Vi) gemellato con “Estensioni” e dedicato a John Coltrane e poi ad Aiello del Friuli con il mago delle tastiere Giorgio Pacorig.
Per non sembrare troppo apologetici e pedissequi descrivendo le sue due ottime esibizioni della rassegna, si ritiene che valga la pena soffermarsi su un’incisione live che ne è stata il preludio e l’antefatto. Sempre durante una rassegna estiva friulana (Musica in Villa di Gabriella Cecotti) Colonna aveva dedicato alla musica di Coltrane alcune sue meditazioni per clarinetto basso e sax sopranino che oggi si possono ascoltare in: “Offering, Playing the music of John Coltrane”.
Il funerale di Trane fu alla St.Peter’s Lutheran Church. Suonarono il gruppo di Albert Ayler e quello di Ornette. Ayler fece Truth is Marching on, ma non era vero con Trane se ne andava una buona parte di verità. Tutto suonò più falso, dopo. La morte del griot ebbe conseguenze terribili. Perdemmo l’equilibrio, sbandammo, ci perdemmo nei vicoli, nelle nicchie, nell’inconseguenza. Non eravamo l’avanguardia di niente e di nessuno. Quando i cacciatori di teste si scatenarono in lungo e in largo per il Paese, noi ci affidammo a sogni d’oppio, divinità vendute al supermarket, canti di sirene che ditoglievano dalla lotta. I fortunati trovarono una vita in Europa, alcuni scelsero l’Africa, come Stokely Carmichael. C’è chi tornò da dove era venuto, di qualunque posto si trattasse. (WuMing 1, New Thing, Einaudi, pag 190)

Accostarsi alla musica di Coltrane è di per se un’esperienza spirituale. Non si tratta minimamente di un semplice ascolto musicale. È in tutto e per tutto un’ascesa, un tortuoso itinerario in una dimensione ineffabile nella quale l’ascoltatore è guidato come in una pubblica preghiera dalle note, verso un’introspezione interiore, una vera e propria meditazione che non esclude a priori il dolore e la solitudine. E’ necessaria una radicale rinuncia alla propria protervia, ragionevolezza e volontà di comprendere sempre tutto a tutti i costi. Sembra paradossale ma la musica di Coltrane non ha bisogno di essere “capita” , ma vuole solo essere accettata e metabolizzata, assimilata, fagocitata.
È materia complessa che dobbiamo imparare a rispettare e ascoltare
L’approccio di Marco Colonna è programmaticamente del tutto meditato e rispettoso, proprio come deve essere. In questo concerto non mancano di certo i momenti in cui i suoi sax esprimono un afflato mistico e spirituale ma l’interpretazione è del tutto laica e perfino materialistica, predilige l’astrazione ma non è per niente confessionale.
La vera mistica elevazione è quella che contempla l’assoluto vuoto, disanimato, minerale e sidereo. Potrebbe essere proprio questa la chiave per capire la sua interpretazione che volutamente tralascia i momenti più lirici della produzione coltraniana più nota (non ci sono brani da A Love Supreme) concentrandosi sui luoghi più desolati della riflessione del grande sassofonista.
Nessun sotto testo liturgico, nessuna giaculatoria, ma tutta immaginazione creativa ed estatica rielaborazione, in una ritualità della musica che diventa materia sottile che si sottrae ad ogni tentativo di definizione o al contrario, di astrazione. “Manifesta la sua presenza” e questo ci deve bastare.
Colonna ha dichiarato in una recente intervista riferendosi all’opera di Coltrane:
“La cosa che mi affascina da sempre, è il suo rigore, la sua continua ricerca di esprimere attraverso l’eccellenza una visione più alta della musica” (da kulturunderground.org)
Riservandosi la libertà e la personale identità nell’interpretare quei testi sacri della letteratura sassofonistica, Colonna ne rispetta profondamente l’intenzione. La grande differenza sta nel fatto che Coltrane aveva una vera e propria ossessione per il controllo di ogni singola nota attraverso la quale il suo spirito si manifestava. Colonna è, al contrario, un improvvisatore nato che sa osare mantenendosi sempre è assolutamente libero e non ha paura di perdersi e di sbagliare. Coltrane non se lo poteva permettere, lui era l’avanguardia , l’esploratore di territori incogniti e della loro vastità. Grazie a lui e agli altri pionieri dell’avant garde siamo relativamente liberi di vagare in quegli spazi e in quei luoghi del nostro cuore.
Si permetta un accostamento iperbolico ma “Offering” per associazione di idee fa venire in mente La Musicalisches Opfer, l’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach. Il re Federico II di Prussia, grande appassionato di musica e discreto flautista egli stesso, nel lontano 1747, invitò a corte il grande compositore per onorarlo. Gli fornì un tema musicale e Bach si offrì di improvvisare delle variazioni.
È proprio questo che Marco Colonna ha offerto anche nelle sue esibizioni per Estensioni Jazz club diffuso: meravigliose variazioni e interpretazioni sulle musiche dell’imperatore del sassofono.
Quella che si è officiata nella chiesetta di Santa Maria delle Grazie di Castions che il live documenta in presa diretta su CD, è un genere di celebrazione non meno spirituale ed elevata di quella tenutasi alla chiesa luterana di San Pietro a New York in quel triste mattino del 1969.
Certo è stata meno luttuosa e ferale ma la carica emotiva è stata in ogni caso enorme. Come documentato dal video, facilmente reperibile on line e anche da qualche puntuale recensione, il concerto si è svolto in una location particolarmente raccolta, un a piccola luogo di culto con una discreta comunità che da sempre gli si stringe attorno “in fondo alla campagna” friulana.
La Glesie Viere di Castions è uno di quei luoghi che da secoli sono vocati alla spiritualità più angelica e ingenua quella dei figli di una terra contadina, “bambine bionde con quegli anellini alle orecchie, tutte spose che partoriranno uomini grossi come alberi e se cercherai di convincerli allora lo vedi che sono proprio di legno” così come dice l’avvocato di Asti in una famosa canzone, andando avanti nella metafora probabilmente quello è legno di risonanza, proprio lo stesso che amplificava la voce del violino di Paganini o della spinetta di Mozart, certo anche i friulani d’oggi, in un certo senso, possono essere definiti uomini e donne di legno ma proprio per questo sensibili alla musica.
Proprio quest’anno abbiamo salutato mestamente uno dei decani della musica friulana l’organaro Gustavo Zanin artigiano dei sogni e di meraviglie musicali che ben rappresentava questa rustica raffinatissima sensibilità. Proprio lui ha testimoniato per decenni l’antica vocazione alla spiritualità in musica degli abitanti di queste terre tra le sorgenti e il cielo.
Tra i muri della chiesetta fatti di sassi di fiume e impastati di sudore, vibrano e risuonano da centinaia di anni le preghiere, mormorazioni, giaculatorie, richieste di grazia e perfino bestemmie di quelle stesse anime che li costruirono pietra dopo pietra. E’ proprio una questione di risonanza che ha reso il concerto di Marco Colonna così intenso e straordinario. La chiesetta con il ristretto pubblico seduto composto sugli scomodi banchi di legno, ha un’acustica particolarissima del tutto liturgica che fa risaltare i toni gravi del clarinetto basso rendendoli strazianti e trasforma la voce del sax sopranino nel belato di un agnello.
Naturalmente, la registrazione per quanto accurata e tecnicamente raffinatissima non ha potuto cogliere anche quella speciale magia che solo l’esibizione dal vivo in presenza sa regalare.
In questi anni di insopportabili concerti e spettacoli in streaming, videoconferenze, meeting sulle piattaforme, didattica a distanza, smart-working abbiamo davvero capito almeno una cosa, da tutte le informazioni digitali che ci è toccato sorbirci dai nostri device: la presenza umana è insostituibile.
La parola così come la musica, costretta nei bites dei nostri devices, muore.
È proprio per questo che, forte anche di queste precedenti esperienze, la rassegna “Estensioni Jazz club diffuso” ha rifiutato lo streaming preferendo disseminarsi e disperdersi in location insolite e perfino imprevedibili ma sempre cariche di umanità autentica come quella chiesetta di sassi. L’arte e la musica in particolare non sopportano più la musealizzazione cui la pseudo-cultura della visione televisiva o digitale l’hanno costretta, hanno bisogno di ritornare a dissolversi nel paesaggio, ridiventare figura tra le figure, materia viva che diventa mondo nel proprio divenire.
In questo senso, è possibile comprendere la bizzarra ma intelligente istallazione artistica “Jazz a perdere” di Luca A. d’Agostino che ha fatto da sfondo, è il caso di dirlo, ad alcuni concerti sul Forte di Col Badin presso Chiusaforte (UD). Lungo la salita verso il forte stampate su carta biologica le suggestive immagini del fotografo se ne stavano appese agli alberi come preghiere tibetane nel vento fino a che gli agenti atmosferici e il tempo se le sono riprese riassorbendole nell’ambiente circostante. Un’idea davvero poetica dall’effetto garantito.

Autostoppisti del magico sentiero: l’ensemble, agglutinato attorno alla magia del poeta Franco Polentarutti e ai “chilometri” del chitarrista Fabrizio Citossi, ha una formazione del tutto variabile che nelle sporadiche, preziose esibizioni riesce a creare una particolarissima alchimia, così è stato nell’ambito di “Estensioni” in cui hanno riproposto alcune atmosfere dei loro due lavori discografici sui quali ci permettiamo di dilungarci un po’.
Poche chiacchiere! Le ultime due incisioni de Gli Autostoppisti del Magico Sentiero sono quanto di meglio la musica sperimentale Avant Garde abbia prodotto nell’ultimo decennio nel nostro paese, se ancora esiste una cosa che si può chiamare così.
Quello che si ascolta in quei dischi è difficilmente catalogabile, non esiste qualcosa di paragonabile. I due lavori pubblicati a breve distanza quasi l’uno di seguito all’altro rappresentano riflessioni in musica e parole sulla contemporaneità.
Il primo, “Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia” s’interroga sul tema del significato del viaggio nel mondo contemporaneo massificato, nel quale sembra che non ci sia più niente da scoprire, esplorare, conquistare. È vero il contrario; Gli smartphone, la geolocalizzazione e le immagini satellitari modificano e confondono le nostre percezioni, quindi noi vediamo solo cosa l’algoritmo ritiene necessario farci vedere, gran parte della realtà dalla quale siamo abitati è per noi buio fitto molto più di prima; a volte non conosciamo nemmeno il nostro quartiere e se passeggiamo per la nostra città senza la “vocina” della nostra mappa virtuale ci sentiamo perduti. Le nostre abitazioni ordinate, chiuse dalle tangenziali come barriere esterne dei nostri agglomerati sono in realtà allevamenti intensivi di zootecnia umana, tecnologici ovili che preludono ad altrettanto meccanizzati mattatoi “for your eyes only”.

Il secondo lavoro “Pasolini e la peste” è ibrido, caotico, magmatico, pulsante, sporco, blasfemo, in una parola meraviglioso e davvero stimolante. È una delle opere ispirate al poeta di Casarsa, più creative e diagonali degli ultimi anni. Davvero poche reggono il confronto, vengono in mente, in questo senso, solo la messa in scena teatrale di “Una giovinezza enormemente giovane” di Gianni Borgna per la regia di Antonio Calenda con la magistrale, spettrale interpretazione del poeta da parte di Roberto Herlitzka (2015) e anche le Graphic Novels a tema pasoliniano dell’Allegro Ragazzo Morto Davide Toffolo.
Negli ultimi anni, appropriarsi del corpo morto del poeta (His mortal remains) è diventata una prassi senza alcuna remora o criterio; ognuno di tanto in tanto, ne sbrana un pezzettino, per poi masticarselo in tutta calma in interpretazioni e male letture. Quei brandelli di carne coriacea e indigeribile finiscono poi sputati in qualche angolo quando la loro amara sostanza fecale si è rivelata disgustosa per quei palati e quegli stomaci borghesi.
Nel corso degli anni se ne sono sentite di tutti i colori: dal Pasolini ultra-cattolico integralista a quello cripto-fascista; dal maniaco sessuale, pedofilo e onanista, al santo laico con la mano sul cuore; dal bandito rapinatore con la rivoltella d’oro in pugno fino all’eretico anarco-comunista con la bandiera nera, le spighe tra i capelli e molto altro.
Per fortuna, la sua figura e le sue opere sono talmente indecifrabili, eretiche, liminali, trasversali, non allineate, eccentriche che nessuno, proprio nessuno, può davvero appropriarsene.
Il Pasolini romantico, nostalgico e radical chic ricordato da Nanni Moretti nel suo detestabile “Aprile”, si contrappone ai tanti “Mortacci” assassinati nei vari film pseudo biografici, alcuni anche piuttosto ben confezionati, dedicati al caso del “Delitto Pasolini”. Gli “Autostoppisti” fanno un passo al di la di tutto il ciarpame pseudo pasoliniano e scelgono di bestemmiare e dissacrare il poeta con lo sberleffo dell’ironia e del sarcasmo, proprio come sarebbe piaciuto a Pasolini.
Bastano questi due esempi luminosi per comprendere che “Estensioni Jazz Club Diffuso” dopo questa prima edizione saprà farsi valere nel prossimo futuro continuando ancora con le sue scelte creative e fuori dai sentieri battuti in uno splendido nomadismo musicale e culturale sempre in viaggio verso il cuore della musica.

Flaviano Bosco

I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

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B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.