Angélique Kidjo trascinante come sempre… Oded Tzur una bellissima scoperta!

Domenica 25 novembre si è chiusa nel migliore dei modi l’edizione 2018 di Romaeuropa Festival: cinque concerti all’Auditorium Parco della Musica di Roma, che hanno interessato le varie sale, dalla Santa Cecilia alla Petrassi, passando per la Sinopoli e il Teatro Studio Borgna. Dalle ore 16 alle 21, si sono passati il testimone cinque concerti che hanno avuto come protagonisti, in ordine di orario, Ryoji Ikeda ”Eklekto”, Franco D’Andrea Octet “Intervals I – II”, Ryoji Ikeda “Datamatics”, Angélique Kidjo e , Matthew Herbert, per la prima volta in Italia con la sua Brexit Big Band.

La scelta non è stata facile ma sia per l’entusiasmo che mi aveva trasmesso Angélique Kidjo nell’ultimo suo concerto in Italia, sia per l’esplicita richiesta di mio figlio grande appassionato di musica anch’egli, sia per la comodità dell’orario (perché non pensare più seriamente ad organizzare i concerti nel tardo pomeriggio?) ho scelto di andare a sentire la star del Benin e mai scelta fu più giusta.

Già all’ingresso dell’Auditorium si respirava l’atmosfera delle grandi occasioni: moltissima gente ed una lunga fila davanti al botteghino nella speranza – rivelatasi poi vana – di trovare qualche biglietto. Quindi sold out ed un pubblico pronto a recepire le suggestioni della vocalist che, come al solito, non si è certo risparmiata.

Vincitrice di tre Grammy award, Angélique, nella sua unica data italiana, ha presentato il nuovo disco “Remain in Light”, l’album dei Talking Heads registrato dal gruppo insieme a Brian Eno nel 1980 e contaminato dalla poliritmia africana (esplicito il richiamo a Fela Kuti), dal funk e dalla musica elettronica.

Prodotto da Jeff Bhasker (Rihanna, Kanye West, Harry Styles, Bruno Mars, Drake, Jay-Z) con la collaborazione di Ezra Koenig dei Vampire Weekend, Tony Allen e molti altri artisti, il nuovo lavoro della Kidjo si fa apprezzare per la riattualizzazione di una musica per certi versi “storica” nulla perdendo dell’originaria valenza. In altri termini, introducendo dei testi cantati in lingue del suo paese d’origine e percussioni trascinanti, la vocalist ha confezionato un piccolo capolavoro ovviamente più africanizzato rispetto all’originale e più accessibile. E se ne è avuta una palpabile conferma nel concerto romano: già a metà serata il pubblico cominciava ad accalcarsi sotto il palco per rispondere meglio ai ripetuti inviti della Kidjo a cantare, a ballare, a godersi la vita dimenticando, almeno per un po’, i molti guai che ci affliggono; e non sono mancati neanche gli appelli a rispettare le donne.  In effetti l’artista non si è limitata a riproporre il repertorio dell’album, ma ha aggiunto alcuni suoi storici cavalli di battaglia come “Cure” contro la pratica molto diffusa in Africa dei matrimoni combinati e due classici della musica africana come “Mama Africa” e il celeberrimo “Pata Pata” portato al successo da Miriam Makeba. E proprio intonando questi brani la vocalist si è immersa nell’abbraccio del pubblico prima cantando e ballando in platea con gli spettatori entusiasti e quindi, risalita sul palco, invitando molti giovani a raggiungerla dando così a molti la possibilità di esibirsi in siparietti di ballo di qualche minuto. Insomma davvero uno spettacolo forse artisticamente non esaltante, ma umanamente e sentimentalmente toccante. Peccato che, come al solito, c’era qualche signora che forse non si rendeva conto di cosa stesse accadendo e si lamentava perché la gente in piedi non le consentiva di vedere bene cosa accadeva sulla scena. E qui il discorso si farebbe molto serio … ma non è il caso di affrontarlo in questa sede, anche se prima o poi una riflessione occorre farla!

*****

Adesso facciamo un passo indietro fino a domenica 11 novembre quando, su consiglio di Lucianio Linzi, mi reco alla Casa del Jazz per ascoltare il quartetto del sassofonista Oded Tzur con Nitai Hershkovit al pianoforte, il greco Petros Klampanis al basso e Colin Stranahan alla batteria.

Prima di proseguire nel racconto del concerto, devo premettere a) che il sax tenore è il mio strumento preferito; b) talmente preferito che l’ho studiato per circa una decina d’anni senza però giungere ad un livello tale che mi permettesse di esibirmi in pubblico; c) questo per far capire che sono in grado di valutare se qualcuno il sax lo sa suonare per davvero o meno.

Ebbene in tanti anni di frequentazione con il jazz raramente mi era capitato di ascoltare un ‘tenorista’ che sapesse districarsi così bene tra le dinamiche offerte dal sax tenore. In effetti Oded è in grado di suonare con un volume assai basso mantenendo una intonazione perfetta, cosa, vi assicuro, tutt’altro che facile e banale. Ma ovviamente non è solo questa caratteristica che fa di Tzur un grande musicista. Alla straordinaria abilità tecnica aggiunge un’espressività non comune, una non banale capacità di raccontare delle storie, una intensa attività di ricerca tesa a coniugare linguaggio jazzistico, musica medio-orientale e musica classica indiana (ha studiato al Conservatorio di Rotterdam con il flautista indiano Hariprasad Chaurasia), e grandi capacità compositive e improvvisative. Ed è proprio partendo dallo studio della musica indiana che Oded ha elaborato, dopo una decina d’anni di approfonditi studi, una tecnica per sassofono da lui stesso chiamata “Middle Path”, che estende la capacità microtonale dello strumento.

Cresciuto a Tel Aviv, Oded si è stabilito a New York nel 2011 entrando quasi subito in contatto con altri grandi artisti israeliani che l’avevano preceduto quali Avishai Cohen e Shai Maestro. Insomma una sorta di apprendistato che ha giovato non poco alla sua maturazione tanto che oggi Oded Tzur è considerato una stella nascente nel panorama jazzistico mondiale.

Considerazione più che meritata stando a ciò che abbiamo ascoltato nel concerto romano. Se Tzur mi ha stupito per quanto sottolineato in precedenza, è tutto il gruppo chi si fa ascoltare con attenzione. Tutti bravi a livello individuale costituiscono un gruppo affiatato in grado di sorreggere le escursioni dinamiche del leader, eseguendo con estrema disinvoltura anche partiture complesse ed instaurando un clima di profonda spiritualità sulla scorta della via segnata da geni quali Sonny Rollins e soprattutto John Coltrane con il suo “A Love Supreme”.

Un’ultima considerazione: erano davvero tantissimi anni che non mi capitava di vedere sul palco un giovane jazzista in giacca e cravatta; un dettaglio? Forse sì…o forse no!

Gerlando Gatto

 

 

TT Jazz Collective al TrentinoInJazz 2018!

Mercoledì 25 luglio 2018
ore 21.00
Albergo Ristorante Pizzeria Valcanover
Loc. Valcanover
Pergine Valsugana (TN)

FUNK PARK QUARTET

ore 21:00
Piazza Regina Elena
Malé (TN)

In caso di pioggia: Teatro Comunale

TT JAZZ COLLECTIVE: LIKE SONNY

Giovedì 26 luglio 2018
ore 12.00
Col Margherita – Passo San Pellegrino
Moena (TN)

TT JAZZ COLLECTIVE: LIKE SONNY

ingresso gratuito

Mercoledì 25 e giovedì 26 luglio due concerti imperdibili per uno dei gruppi di punta dell’edizione 2018 del TrentinoInJazz: TTJazz Collective in Like Sonny! Un incontro tra Trento e Torino, che dà il nome al collettivo TT, formato da musicisti per metà piemontesi e per metà trentini, frutto della coproduzione fra Piemonte e Trentino Jazz e composto da Diego Borotti (sassofono), Fulvio Albano (sassofono), Emilio Galante (flauto), Alberto Marsico (organo hammond), Mirko Pedrotti (vibrafono) e Enrico Tommasini (batteria). Con lo stesso spirito del SFJazz Collective di San Francisco, che ogni anno crea programmi ispirati a grandi personalità del jazz come John Coltrane, Thelonious Monk e Horace Silver, l’agile sestetto, compatibile con l’intimità di un jazzclub ma estremamente originale timbricamente, propone un innovativo approccio al repertorio di Sonny Rollins, riarrangiando brani celebri come Oleo, Airegin, Pentuphouse, St Thomas, Doxy e tanti altri. Il fine ultimo è tendere un filo che lega indissolubilmente il jazz della grande tradizione con i linguaggi contemporanei, con rispetto ma senza tentazioni nostalgiche. Quello del 25 sarà l’ultimo evento per le Valli del Noce, il 26 invece è nel cartellone di Panorama Music (in caso di maltempo il concerto si terrà alle ore 14.30 presso l’Hotel Arnika a Passo San Pellegrino).

Mercoledì 25 sarà anche la volta del terzo appuntamento per Valsugana Jazz Tour con il Funk Park Quartet a Valcanover, una formazione funky-soul di ispirazione New Orleans dall’energia e dalla sonorità travolgenti, formata da elementi di spicco della scena nostrana (Davide Dalpiaz, tastiere; Valerio De Paola, chitarra; Flavio Zanon, basso) e dal cantante/batterista altoatesino Roland Egger. La band ha debuttato nel 2017 come gruppo di apertura del virtuoso chitarrista Matt Schofield, che ha trovato parole di ammirazione per la particolarità del sound e degli arrangiamenti melodici e allo stesso tempo graffianti dei Funk Park.

Prossimo appuntamento con il TrentinoInJazz 2018 domenica 29 luglio: Tango Tres a Lagolo (TN).

Nella musica di Randy Weston il mistero dell’amore

 

“The Power of Music”, “the Power of Spirit”: queste due frasi  potrebbero sintetizzare il radioso, energetico, coinvolgente concerto del Randy Weston’s African Rhythms Quintet alla Casa del Jazz il 19 luglio, per il “Roma Jazz Festival 2018. Jazz Is Now”.

Il direttore artistico Mario Ciampà ha in breve presentato il recital, affermando di aver fortemente voluto la presenza di Weston – splendido novantaduenne, nato lo stesso anno di Miles Davis – proprio nella dimensione contemporanea del jazz esplorata dal festival; è quella che nella programmazione vede, tra gli altri, Giovanni Guidi e Fabrizio Bosso, Corey Harris acoustic trio, il settetto di Vijay Iyer, i Five Elements di Steve Coleman e la New Talents Jazz Orchestra diretta da Mario Corvini. In questa “cornice” il pianista e compositore afroamericano rappresenta sì la “tradizione” ma non il “mainstream”, perché la ricerca e il valore delle musiche westoniane sono duraturi e si sviluppano in un percorso Africa-Afroamerica cominciato nei tardi anni ’50 e nutrito da innumerevoli esperienze, progetti, organici, iniziative. Tutto nel nome di una rigorosa coerenza che ha guidato Weston a generare la propria musica senza nessuna concessione al “mercato” o alle “tendenze”, in un’ampia dimensione che rivendica e valorizza l’enorme contributo dato dall’Africa e dai suoi “figli diasporici” alla storia dell’umanità, dalla musica all’economia.

Pubblico abbastanza numeroso e piuttosto partecipe, considerando la situazione jazzistica romana che soffre – in questo luglio – per eccesso di proposte, per la mancanza di una “cabina di regia” (strutture museali che fanno rassegne musicali…), per il conflitto fra concerti gratuiti e a pagamento, per i prezzi non differenziati (perché non fare biglietti ed abbonamenti “giovani”?), insomma per una situazione complessiva che tende ad affastellare date (spesso in concorrenza) e a non valorizzare gli artisti. Lo stesso “Roma Jazz Festival” ha dovuto annullare (e sostituire) l’annunciato concerto dei Freexielanders, da tempo in cartellone, dopo che i musicisti non hanno accettato il tardivo cambio delle condizioni d’ingaggio, con inevitabili code polemiche.

Si diceva del repertorio di Weston e dei suoi African Rhythms: l’ottimo T.K.Blue (sax alto e flauto), l’originale Billy Harper (sax tenore; collaboratore del pianista dal 1972), Alex Blake (contrabbassista virtuoso ed estroverso, dalla tecnica chitarristico-percussiva) e Neil Clarke (percussioni, infaticabile ma in alcuni episodi troppo presente). Randy Weston ha proposto, insieme al ben affiatato gruppo, lunghi brani “storicizzati” che, però, nei rispettivi arrangiamenti (uno della compianta ed eccellente Melba Liston) e nella concreta, vivace e dialettica esecuzione non hanno mostrato rughe. Si parla del fiammeggiante “African Cookbook” (nell’album omonimo del 1964), dell’orchestrale e trascinante “African Sunrise” che rievoca le atmosfere afrolatine di Dizzy Gillespie e Machito (si trova, tra l’altro, nel doppio “The Spirit of Our Ancestors”, 1992), della ballad in tempo dispari “Hi-Fly” (incisa nel 1958), del corposo “Berkshire Blues” che dà il titolo ad un long playing Black Lion del 1965, di “Blue Moses” ispirato alla musica devozionale gnawa (nel nord dell’Africa; il pezzo risale agli anni ‘70) e, come bis, del lento, mistico, profondo “The Mistery of Love” del compositore ghaniano Guy Warren (inserito nel disco “Highlife”, registrato nel 1963 dopo uno dei primi viaggi di Weston in Africa).

Occorrerebbe troppo spazio per descrivere in dettaglio ciascuno dei sei brani ma su qualche prassi esecutiva è utile soffermarsi per avere un quadro della musica westoniana e del suo livello. Intanto il pianista ha ancora oggi un carisma fortissimo, sa comunicare con semplicità ed efficacia, dirige i suoi musicisti con piccoli cenni e lascia loro ampi spazi, si ritaglia rari momenti solistici ma costruisce il tessuto vivo della musica a livello armonico, timbrico e ritmico: non a caso è un discepolo di Duke Ellington e Thelonious Monk. Gli African Rhythms non utilizzano batteria ma un set di percussioni (congas, soprattutto, ma anche bongo, timbales e piatti): ciò evita un drumming jazzistico (tranne in rare situazioni) e favorisce una costruzione poliritmica dei brani, vivida e stratigrafica. Spesso i pezzi sono introdotti da preludi pianistici a tempo libero, delle autentiche e vertiginose escursioni in cui Weston accenna alla melodia del pezzo variandola già in modo radicale, inserendo i trilli, le ottave contrapposte, i ribattuti, i cluster e le dissonanze che seducono e rapiscono chi ascolta.  Le composizioni sono strutturate in più episodi scanditi dalla presenza dei due fiati usati in varie combinazioni: T.K.Blue ha uno stile alla Johnny Hodges ma modernizzato mentre Billy Harper evoca la lezione di Sonny Rollins però come prosciugata, essenzializzata. Antifonia, senso del blues e polifonia sono spesso presenti, come una dimensione ritmico-danzante: a volte il pianista sospende la sua azione e ascolta, compiaciuto, il gruppo, accennando qualche movenza di danza. Le alternanze tra tempi liberi e fortemente scanditi è un altro elemento della musica caleidoscopica di Weston, una miscela di collettivo e individuale che è l’essenza del jazz. A volte le personalità esplodono, come nel caso del funambolico Alex Blake il cui contrabbasso diventa chitarra flamenca, gumbri (strumento gnawa), percussione. Innumerevoli i momenti pregevoli ma chi scrive ha apprezzato – in un generale alto livello espressivo – l’esplosiva sezione B di “African Cookbook”, tutti i “preludi/introduzioni” di Randy Weston, sempre altamente ispirati ed intensi, il formidabile senso del blues collettivo, l’alternarsi di quattro battute tra T.K.Blue e Blilly Harper in “Hi-Fly”, il misticismo di “Blue Moses”, la potenza spirituale e melodica di “Mistery of Love”.

Una vita in un concerto, senza retorica e senza presunzione, con una freschezza ed un’immediatezza che rendono Weston e la sua musica campioni di una “saggezza giovanile”, di un desiderio di vivere e di suonare che sembra abbattere il tempo e lo spazio, una musica per tutti gli uomini e contro tutte le violenze: “Mistery of Love”.

ALBA JAZZ 12′ EDIZIONE: Diego Pinera 4tet


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA
La foto della mostra fotografica è di FABRIZIO CIRULLI

Assisto a molti concerti, un po’ ovunque, bellissimi, meno belli, in posti prestigiosi e meno battuti. Ma ci sono Festival in cui io, che scrivo di musica per passione, mi trovo con gente che organizza quattro giorni di eventi mossa dalla stessa mia passione. Il mio fine è scrivere. Il loro fine è portare il piazza il Jazz. Uno di questi festival è Alba Jazz.
Assisto ad un “dietro le quinte” che non è poi così “dietro le quinte”, perché tutto avviene davanti agli occhi di tutti: il direttore artistico Fabio Barbero, gli amici dell’associazione Alba Jazz, i volontari, i figli dei volontari, per quattro giorni ma in realtà da molto prima, sono in fermento e organizzano tutto, ma proprio tutto, rimediano agli imprevisti, corrono a prendere cose che mancano all’ultimo momento, recuperano gli artisti all’aeroporto con le proprie macchine, allestiscono i banchetti con i gadget che permettono di autofinanziarsi, cercano e trovano gli sponsor, che evidentemente, se da anni intervengono, è perché Alba Jazz è ritenuto un evento positivo per la città.
Alba Jazz non fa guadagnare un euro agli organizzatori: ma di certo fa guadagnare la città in cultura.
Destinare le proprie risorse personali sulla musica senza avere nient’altro in cambio oltre che la gioia di veder realizzato il sogno che ci si proponeva è ammirevole, e mostra che a volte, a muovere le cose, non sono solo gli interessi economici.
Il sogno degli appassionati di Alba Jazz è questo festival in piazza, aperto a tutti, veramente a tutti, a ingresso libero, con musica scelta dopo un anno di ascolti attenti e condivisi. E bisogna dare atto a Fabio Barbero che sul palco di Alba Jazz praticamente sempre abbiamo incontrato sul palco almeno un gruppo che in Italia non aveva mai suonato prima, almeno un nome internazionale, almeno un gruppo italiano. Progetti diversi per diversi gusti, con la volontà oltre che di divertirsi anche, rischiando, di far conoscere, apprezzare, incontrare artisti di ogni genere.

Quest’ anno ad Alba, all’Oratorio della Maddalena è stata anche organizzata una mostra fotografica, in collaborazione con l’associazione Alec. Obiettivo: Alba e il Jazz è una mostra importante, che racchiude dieci anni di Alba Jazz visti da cinque fotografi che questo festival lo conoscono bene e lo hanno seguito, ognuno con il suo obiettivo, con la propria sensibilità, e, anche in questo caso, con la propria passione. I fotografi sono Roberto Cifarelli, Fabrizio Cirulli, Daniela Crevena, Carlo Mogavero e Franco Truscello. Cinque foto a testa e la storia di Alba Jazz in un percorso affascinante nella percezione della musica in immagini. Venticinque foto dalle quali trapela l’atmosfera che si respira qui ad Alba, attraverso gli artisti ritratti. Il vero protagonista ritratto è il Festival in questi 12 anni.

Alba Jazz 2018 si apre con un concerto inedito in Italia.

Piazza Cagnasso, Mercato Coperto, ore 21

DIEGO PINERA 4TET Despertando

Diego Pinera, batteria
Tino Derado, pianoforte
Omar Rodriguez Calvo, contrabbasso
Julian Wasserfurh, flicorno

Diego Pinera è un giovane batterista uruguaiano che vive in Germania da anni, e che ha un nutrito curriculum artistico e anche un prestigioso premio all’attivo come miglior batterista in Germania. Dunque a salire sul palco è uno strumentista eccellente, con una padronanza tecnica assoluta del suo strumento. Con lui tre musicisti altrettanto performanti, che volentieri si prestano, già dai primi minuti, ad assecondarne l’energia, esplosiva, e l’innegabile comunicativa.
Il gruppo esegue standard e anche musica originale, con varianti ritmiche spesso previste in tempi dispari e con un sottofondo latin che trapela senza mai prendere il sopravvento.
Il concerto comincia con assolo di batteria di Pinera: un ostinato della cassa sul quale si sovrappongono e si sommano via via, in sequenza altre cellule ritmiche ostinate, poliritmiche, in contrasto. Si moltiplicano e si sovrappongono, come mattoncini sonori, fino ad arrivare naturalmente ad uno spessore massimo, che da quel momento ricomincia a destrutturarsi fino a riassottigliarsi e tornare al solo ostinato della cassa. Un piccolo capolavoro tecnico, ispirato a Max Roach, che prelude al primo brano in trio.

Il brano è Last tango in Paris, di Gato Barbieri, ed è il contrabbasso (con arco) di Rodriguez Calvo ad introdurlo, non senza lirismo: poi tocca al pianoforte di Derado ereditare questa melodia così intensa, e Derado da quel momento non la molla mai, pur destrutturandola, nemmeno durante il solo di contrabbasso, nemmeno durante la progressiva trasformazione del linguaggio verso un latin sempre più esplicito, non solo ritmicamente, ma anche dal punto di vista del linguaggio, soprattutto pianistico.

Si passa a Caravan, in 11/8: adrenalinico, velocissimo, ricco di frasi (ritmiche – melodiche) ripetute a loop, anche contemporaneamente tra tutti gli strumenti. Il flicorno di Wasserfuhr è tanto fedele nell’esporre i temi quanto torrenziale nell’improvvisazione. Le sue note ribattute diventano battiti incalzanti della batteria.


Si prosegue con un brano coltraniano, poi si approda a St.Thomas, di Sonny Rollins, eseguito in 9/4. Il quartetto procede coinvolgendo il pubblico, anche perché il suono di ognuno è potente ma la coesione è innegabile.
Gli obbligati sono ad effetto, si ascolta più di un eco afrocubano, gli stop con ripresa improvvisa di una precisione quasi disarmante.

Non mancano le ballad, delicatamente rese con una particolare cura per i temi melodici, per una timbrica complessiva morbida ma sonora per il tessuto armonico pieno e soffuso: in questo senso Vulnerability è particolare, con quella oscillazione tra un accordo di maggiore e quello costruito al semitono sotto ma in modo minore, il tutto a ritmo quasi di milonga.
Il bis è dedicato a Wayne Shorter e al suo Footprint, in chiave afrocubana, in un crescendo di energia, applauditissimo.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un concerto divertente, coinvolgente ed energico.
Diego Pinera possiede una creatività notevolissima. Sa modulare molto bene il potenziale deflagrante dei suoi battiti e dello strumento, qualità che io ritengo fondamentale per poter definire davvero bravo un batterista. Si diverte, è comunicativo, e tiene perfettamente le fila di un quartetto composto di musicisti che hanno una spiccata personalità: in questo caso sono sidemen, ma si percepisce in ogni momento il loro spessore di solisti.
Il tocco del pianista Tino Derado, infatti, mi è parso particolare. Mi è piaciuto molto il modo cristallino di esporre i temi, ma anche la nettezza dei suoni, degli accordi, della definizione ritmica, oltre che la capacità di essere duttile e fluido in un dipanarsi veloce di episodi anche completamente contrastanti tra loro.
Omar Rodriguez Calvo ha un suono tondo, pieno, e sa essere granitico nei momenti più adrenalinici e ritmici e melodico, cantabile, a volte persino poetico nelle ballad e nei (pochi) momenti meno “tecnici” della performance.
C’è un ma. Nonostante Pinera sia giovane, talentuoso, ferratissimo tecnicamente, il suo Jazz non potrei definirlo davvero innovativo, a meno di non ritenere che l’eseguire St. Thomas in 9/4 sia un’innovazione: è uno sfizio, è anche divertente ascoltare quel quarto in più, è una sfida che i suoi musicisti accolgono con bravura, è interessante seguire lo spostamento di tutti gli accenti o quella battuta in più che ti fa attendere la ripresa del tema lasciandoti in tensione. Ma questo non esprime nulla di più che il saper attuare l’idea di eseguire uno standard in 9 invece che in 4. Forse (ed è l’unico appunto che posso fare ad un gruppo pressoché ineccepibile) dovremo aspettare che Pinera si liberi della voglia di mostrare tutta la sua bravura perché emergano le sue doti di musicista, che ci sono, e si intravedono: e che prima o poi supereranno quelle, strepitose, di strumentista.


Enrico Pieranunzi torna al Village Vanguard

 

Enrico Pieranunzi si esibirà al Village Vanguard di New York dal 10 al 15 aprile 2018. Pieranunzi sarà in trio con Scott Colley al contrabbasso e Clarence Penn alla batteria e presenterà brani dal disco “New Spring”, sempre registrato al Vanguard nel 2015 ed uscito l’anno successivo.

E’ l’ottava volta, dopo il primo invito personale ricevuto da Lorraine Gordon nel 2010, che il pianista salirà sul palco del leggendario locale a forma di diamante aperto da Max Gordon nel 1935 al 178 Seventh Avenue South di Manhattan dove si sono registrati capitoli fondamentali della storia del jazz. E’ sufficiente sfogliare la gallery sul sito del locale per rimanere impressionati dalla quantità di capolavori che sono stati relizzati al Village Vanguard: tra questi spiccano registrazioni di Sonny Rollins, Bill Evans, John Coltrane, Keith Jarrett, Wynton Marsalis, Bill Frisell e  Brad Mehldau, solo per citare alcuni dei più importanti.

Ma questa serie di concerti non è l’unico record di Pieranunzi, che infatti è il primo ed unico artista italiano, e terzo europeo dopo i pianisti francesi Martial Solal e Michel Petrucciani, ad essersi esibito come leader e ad aver registrato dischi dal vivo al Village Vanguard. Sono ben tre gli album: ”Live at the Village Vanguard” del 2010 (pubblicato da Cam Jazz nel 2013), con il compianto Paul Motian alla batteria e Marc Johnson al contrabbasso, il suddetto “New Spring” del 2015 (pubblicato da CAM Jazz nel 2016)  e che ha ottenuto 4 stelle e ½ sulla bibbia del jazz Downbeat, ed un terzo registrato nel 2016 in quintetto con Diego Urcola (tromba e trombone), Seamus Blake (sax tenore), Ben Street (contrabbasso) e Adam Cruz (batteria) e non ancora pubblicato.

Pianista, compositore, arrangiatore Pieranunzi è tra i più noti ed apprezzati protagonisti della scena jazzistica internazionale. Ha registrato più di 70 CD a suo nome spaziando dal piano solo al quintetto e collaborando, in concerto o in studio d’incisione, con Chet Baker, Lee Konitz, Paul Motian, Charlie Haden, Chris Potter, Marc Johnson, Joey Baron.

Si è esibito sui palcoscenici dei principali Paesi europei, in Sud America, in Giappone, e, numerose volte, negli Stati Uniti.

Tra i numerosi riconoscimenti per la sua attività musicale le tre affermazioni (1989, 2003, 2008) come miglior musicista italiano nell’annuale referendum “Top Jazz” della rivista “Musica Jazz”, il  “Django d’Or” francese 1997   come miglior musicista europeo, l’Echo Jazz Award 2014  in Germania come “Best International Piano Player” e  il  premio “Una vita per il jazz” assegnatogli ancora nel  2014 dalla rivista Musica Jazz.

Nel 2009 il musicologo e giornalista francese Ludovic Florin ha presentato alla Sorbona come sua tesi di Dottorato un ampio scritto dedicato al linguaggio musicale del pianista italiano.

Parecchie sue composizioni sono diventate veri e propri standard suonati e registrati da musicisti di tutto il mondo.  Tra queste ‘Night Bird’, ‘Don’t forget the poet’, ‘Les Amants’, ‘Fellini’s Waltz’, ‘Je ne sais quoi’, ‘Coralie’. Alcune di esse sono state pubblicate nei prestigiosi “New Real Book” statunitensi.

La diciottesima edizione di Jazz ‘n Fall a Pescara

La diciottesima edizione di Jazz ‘n Fall: ritorna lo storico festival autunnale della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara”

Il prossimo mese di novembre riporta una gradita sorpresa agli appassionati di jazz: dopo qualche stagione di assenza, torna Jazz ‘n Fall, il festival autunnale organizzato dalla Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” con la direzione artistica di Lucio Fumo. All’insegna del motto voluto dal direttore artistico, “New Bottle Old Wine”, la diciottesima edizione si articola in tre appuntamenti con cinque formazioni impegnate sul palco del Teatro Massimo di Pescara.

Il programma si apre, lunedì 6 novembre 2017, con il duo formato da Richard Galliano e Ron Carter. Si prosegue poi giovedì 23 novembre con i concerti del Cyrille Aimée Quartet e del Pescara Jazz Ensemble e venerdì 24 novembre con le esibizioni del Melissa Aldana Quartet e l’omaggio a Toots Thielemans proposto dal quartetto guidato dall’armonicista Gregoire Maret che vede la presenza speciale del pianista Antonio Faraò.

Con la nascita di Jazz ‘n Fall nel 1990, Pescara è stata la prima città ad avere due festival jazz in Italia. La diciottesima edizione di Jazz ‘n Fall riprende il cammino del festival autunnale ed esplicita la filosofia che da sempre lo ha caratterizzato proprio grazie al titolo scelto – New Bottle Old Wine è il titolo di un disco di Gil Evans, pubblicato nel 1958. Il carattere essenziale della rassegna è sempre stato mettere artisti dalla carriera più consolidata a fianco di vere e proprie “scommesse” e, allo stesso modo, guardare tanto alle tradizioni sviluppate negli Stati Uniti e in Europa quanto ai talenti emergenti e ai musicisti in grado di evocare il futuro del jazz. (altro…)