DECATHLON DISCOGRAFICO

La seguente selezione di dieci album è un Decathlon fatta per “disciplina” di strumento dei leader di formazione. Ovviamente la scelta è un’istantanea hic et nunc, dettata dal momento.  E’ un po’ come al Fantabasket od al Fantacalcio! Si individuano le individualità fra quelle più in forma, e si inseriscono a tavolino in una squadra virtuale che esiste solo sulla carta. Dopo un po’ è prevista una rotazione dei nomi, oltretutto quella proposta non è una classifica delle valenze ma una inquadratura parziale del materiale discografico che ci si ritrova in attesa di esaminarne dell’altro. Il team che ne vien fuori è un ipotetico ensemble di cd con sax/tromba/piano/tastiere/vibrafono/violino/contrabbasso/batteria/percussioni/musica d’insieme.

  1. Stefano Conforti Quintet, Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef, Notami Jazz

L’omaggio a Yusef Lateef (William Evans), grande tenorsassofonista flautista oboista e fagottista americano, come quello che Stefano Conforti ha prodotto per Notami Jazz è di quelli destinati a lasciare il segno. Intanto è un tributo, oggi a dieci anni dalla morte, ad un jazzista dal curriculum straordinario che annovera collaborazioni con Gillespie, Burrell, Grant Green, Mingus, Fuller, Cannonball e Nat Adderley, Lawson, Cecil McBee, ma soprattutto a chi ha sviluppato, dopo gli inizi bop, “different moods” di un “sound ricco e denso di growl “ (Barithel-Gauffre)  con influssi mediorientali. Pur consapevole nella difficoltà ad accostarsi ad un siffatto polistrumentista il sassofonista-flautista-oboista italiano vi si è cimentato disinvoltamente nell’album “Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef”, inciso per Notami Jazz, con la formazione che vede Doriano Marcucci a chitarra acustica trombone didgeridoo e percussioni, Tonino Monachesi alla chitarra elettrica, David Padella a basso elettrico e contrabbasso e Roberto Bisello alla batteria. Il quintet ha riproposto in tutto otto brani – fra i quali “Metaphor”, “Road runner”, “The Golden flùte”, “Belle isle”, “Spartacus” di Alex North – con buona resa specie se si pensa a certi tributi alla naftalina che capita di ascoltare qua e là. Le esecuzioni, se non sono calligrafiche sul piano filologico-musicale, lo sono a livello di sonorità estesa e tensione distesa nel segno di un musicista dalla narrazione inzeppata di riferimenti filosofici e poetici, espressi tramite una musica che lui stesso ha definito “auto-fisiopsichica”.

  1. Sean Lucariello, Despite It All, Caligola Records

Gli editor italiani fanno sempre più scouting. Succede anche in campo discografico con label come Caligola Records che pubblica lavori di giovani e/o esordienti per rimpolpare di forze fresche il catalogo. Una politica editoriale che spesso viene premiata dagli ok di pubblico e critica, prospettiva che saremmo pronti a sottoscrivere per l’album Despite It All del trombettista-flicornista nonché compositore Sean Lucariello.  E’ indubbio che questa coppia di strumenti principe del jazz ha sempre un fascino che seduce. Ed è di un camaleontismo unico il suo modificarsi a seconda della collocazione. Nel quintetto italo-spagnolo assortito da Lucariello che vede Edoardo Doreste Velasquez a sax soprano e alto, Sasha Lattuca al pianoforte, Francesco Bordignon al contrabbasso e Ignacio Ampurdanès Ruz alla batteria, la cornice è l’esatto contrario dello strepitio tanto è armonicamente sottile. E la tromba, il cui suono a momenti pare richiamare il Wheeler più compassato, vira sciolta la canna d’imboccatura in brani come l’introduttivo “Astral Conjunctions” scritto da Bordignon seguito da “Il Maestro e la Margherita” che il leader ha inteso dedicare a Bulgakov.  L’attenzione letteraria è comune con il pianista, autore della suite “Tendre Est La Nuit”, chiaro il riferimento al romanzo di Fitzgerald, dove pare che la tastiera rincorra il silenzio, forse la vera e segreta aspirazione della musica, nonostante tutto. Lasciando scorrere il cd dall’ulteriore “notturno” “Song With No Title” si passa poi ad una atmosfera di taglio più nettamente bop in “The Beaty of Boredom” mentre In “Five”, pezzo di Matteo Nicolin,  gli accenti si fanno più metropolitani grazie al piglio elettrico del Fender Rhodes di Lattuca.

  1. Federica Lorusso, Outside Introspections, Zennez Records/Abeat

Con un album inciso in Olanda per la Zennez Records, la Abeat Records presenta anche sul mercato italiano Outside Introspections, firmato dalla giovane pianista italiana Federica Lorusso.  La musicista fa da calamita nell’ integrato interplay del 4et con Claudio Jr. De Rosa al tenore (e ad al clarinetto in “Take A Breath”), David Macchione al contrabbasso ed Egidio Gentile alla batteria. I jazzisti dimostrano singolarmente di poter  vantare notevole “arte/fare” nei nove brani in cui il sax lascia sgolare una “voce” suasiva, il contrabbasso inchioda una probante cadenza nel timing, la batteria gioca costante sull’accentare e sincopare, la leader canta a mò di octaver, unisonica sulle note della tastiera: indizi che fanno la prova di un percorso agile per esporre, esplicare, esplicitare the hidden side of the music. Dall’inside all’extroversion, all’outside i vari gradi compositivi arricciolano un bijou di tracklist che gronda di “assorbimenti” stilistici che non vogliono essere, come il titolo del cd, degli ossimori stilistici – postbop-fusion, pop-classical – che poi tali non sono specie se innaffiati di quei semi creativi sparsi anche nella regione dei tulipani.

  1. Enrico Solazzo, Perfect Journey, Millesuoni/ Via Veneto Jazz

Se esiste una chiave per creare connessione autentica col pubblico quella è anzitutto la musica. Ed esiste un tipo di comunicazione musicale che avvicina perché la si avverte, semplicemente, coetanea. Il tastierista Enrico Solazzo ce ne dà un saggio con l’album Perfect Journey edito da Millesuoni (mai marchio fu più illuminante) della ViaVeneto Jazz. Vi sono esaltate le sue capacità di arrangiatore, oltre che di solista, unitamente a quelle di musical coach in quanto allenatore di un team che conta qualcosa come quaranta fuoriclasse. Riesce alquanto difficile elencarli tutti per ragioni di spazio. Qualche nome? Dennis Chambers, Gumbi Ortiz, John Pena, Kadir Gonzalez Lòpez, Niclas Campagnol, Baptiste Herbin, Lo Van Gorp fra gli stranieri. Roberto Gatto, Stefano Di Battista, Antonio Faraò, Fabiana Rosciglione, Tony Esposito, Gegè Munari fra gli italiani. Insomma un bel “gruppo misto” alle prese con una quindicina circa di brani fra originali e standard di musica internazionale.  Tornando al discorso iniziale come fa un professionista, quale Solazzo, è a comunicare la propria musica nell’epoca dei podcast e del gaming? Intanto non basta esser maestri dell’ entertainment. E non è sufficiente riprendere alla grande hits tipo “Crazy” o “Caruso” per avvicinare l’audience. Ogni epoca ha suoni che le si confanno. Ad esempio le keyboards midi avevano un suono che oggi risulterebbe datato come un moog così come certi effetti campionati. La particolarità di questo disco, a parte il caleidoscopio di collaborazioni, sta nell’aver lo strumentario giusto per l’oggi, nell’averne saputo introiettare lo zeitgeist più positivo con gli arrangiamenti, nel trasmetterlo ad un ampio ventaglio di fasce d’ascolto come tappe di un viaggio perfetto, quello di Enrico Solazzo, di Brindisi: da brindisi!

  1. Michele Sannelli & The Gonghers, Inner Tales, Wow Records.

Mezzo secolo dopo i ’70 si può ancora suonare progressive? La risposta è affermativa se non ci si limita a frugare nel modernariato dei suoni vintage o nei mercatini del suono usato. Il prog, alla mezz’età, si presenta quale estetica musicale vigente, contermine a rock e jazz rock. Vero è che in alcuni casi si è assistito ad un ritorno regressivo all’infanzia e in altri la senescenza ne ha incanutito sembianze e portamenti baRock. Quando però capitano fra le mani album energici e briosi come Inner Tales, della Wow, inciso dal vibrafonista Michele Sannelli & The Gonghers, si ha cognizione di come quel “non genere” abbia ancora un carattere … progressivo. Della band, finalista al contest Jam The Future – Music For A New Planet di JazzMi  nel 2019 e, nel 2022, prima al Concorso “Chicco Bettinardi” di Piacenza, fanno parte il chitarrista Davide Sartori, il tastierista Edoardo Maggioni, il bassista/contrabbassista Stefano Zambon e il batterista Fabio Danusso. Questo disco d’esordio rivela ad una platea potenzialmente più ampia dei palcoscenici che i musicisti già calcano una forgiata vis sperimentativa che è uno degli stampini del prog brand. Vi campeggiano due icone: Dave Holland in uno dei sette brani di Sannelli (“Uncle Dave”) eppoi c’è il richiamo in denominazione al gruppo space rock dei visionari Gong di Daevid Allen, fondatore degli psichedelici Soft Machine. Le “Storie interne” al compact, dalla romantica “Song for Chiara” all’iterativo “Circle”, dal marcato “Hard Times” al soffuso “Green Light”, dal dinamico “Run Mingo Run” al lirico “Just in Time to Say Goodbye”, vanno peraltro lette non solo in termini di rivisitazione di modelli esistenti bensì di riscoperta di quei modi di far musica d’insieme che risorgono ciclicamente, resistenti alle intemperie, “eterne modernità” per dirla alla Sironi.

  1. Francesco Del Prete Violinorchestra, Controvento/Dodicilune.

Fra musica e vino, dicono studi scientifici, esiste una relazione profonda. Il rapporto interessa anche i musicisti, si pensi all’opera (“Fin ch’han dal vino”, dal Don Giovanni di Mozart), ai walzer di Strauss (“Vino donna e canto”), agli standard jazz (“The Days of Wine and Roses”), al canto nero di Nina Simone (“Lilac Wine”), al blues di Amy Winehouse (“Cherry Wine”, coautore Nas), al soul/r&b di Otis Redding (“Champagne and Wine”), al pop di Adele (“Drink Wine”).   Dalle nostre parti si ritrovano gli stornelli di Gabriella Ferri (“Osteria dei magnaccioni”), le note cantautoriali di Modugno (“Stasera pago io”), Gaber (“Barbera e champagne”), Guccini (“Canzone delle osterie di fuori porta”) con il rock di Ligabue (“Lambrusco e popcorn”) e Zucchero (“Bacco perbacco”) e la “chanson” di Sergio Cammariere (“Il pane il vino la visione”).
Dalla terra dei messapi si segnala, nella corrente annata discografica, l’album Rohesia di Francesco Del Prete con la Violinorchestra (Controvento/Dodicilune). Un lavoro non della serie jazz & wine, questo del violinista salentino gravitante anche in area jazz, essendo intriso di sonorità legate al territorio in cui si vendemmiano i cinque vini della Azienda Cantele a cui sono dedicati altrettanti brani. Scrive al riguardo Maria Giovanna Barletta che “in Rohesia  Pas Dosè, Rohesia Rosso, Teresa Manara, Rohesia Rosè ed Amativo, ecco una diversità resistente che si riappropria attraverso l’arte poetica della melodia del qui e ora”.  Il compact, nel cui progetto sono partecipi Lara Ingrosso (voce), Marco Schiavone e Anna Carla Del Prete (violoncelli), Angela Così (arpa), Emanuele Coluccia (piano) e Roberto “Bob” Mangialardo (chitarre), ha un booklet-winelist  esplicativo sui “nettari degli dei” oggetto della selezione e sulla musica loro abbinata a mò di etichetta. Amalgamando pizzica e swing, elettronica ed echi mediterranei, a seconda del carattere e delle caratteristiche, non solo organolettiche, del vino da “sonorizzare”, Del Prete ha generato un prodotto originale che oltretutto fornisce un esempio di come la musica possa essere alleata di un’economia resa “circolare”. Da un disco.

  1. Marco Trabucco, X (Ics), Abeat Records

X (Ics), a marchio Abeat Records, del contrabbassista Marco Trabucco, è album che trae spunto nel titolo dal numero decafonico dei ruoli musicali che vi figurano, appunto dieci (Scaramella, pf; Colussi, dr; Vitale, mar; Ghezzo, g.; Andreatta, v.; Dalla Libera, viola; Calamai, fl.; Pennucci, cor., oltre Trabucco nella doppia veste di compositore e strumentista).  X, inoltre, rimanda, come scrive Paolo Cavallone nelle liner notes, “all’incognita che risulta dall’accostamento di sonorità cameristiche classiche con quelle del jazz”. X potrebbe stare anche per Pareggio vista l’equivalenza degli apporti fra legni-ottoni e jazz 4et di base con rivoli afrofolk a base di balanon (e marimba). I brani, in tutto cinque che è la metà di dieci (“One For Max”, “Open Space”, “Untitled”, “Meraki”, “Otranto”), scorrono limpidi come un ruscello alle falde di una montagna tant’è che non si avverte (di)stacco fra l’uno e l’altro. Segnale, questo, che la spinta inventiva ha origine da uno statuto creativo fondato su idee fluide sul come moltiplicare (ancora x) temi armonie timbri spazi improvvisativi sui due confini, classica e jazz, promossi a zona franca da etichettature di sorta.  Un disco, inoltre, contrassegnato da atmosfere rarefatte e da un lessico talora minimalista – chissammai perché la mente va al film Dieci di Kiarostami – in cui il regista Trabucco da autore si cala appieno nel “personaggio” del musicista che sa trasmettere, agli/cogli altri interpreti, il gioco instabile, tipo playing 1X2 dove è sempre la X a funzionare da centro di gravità.

  1. Andrea Penna, A New World, Workin’ Label.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Dvorjak dedicò al Nuovo Mondo la Sinfonia n. 9! Eppure l’aspirazione/ispirazione dettata dal desiderio, magari utopico, di un mondo diverso e migliore, affiora ancora fra i musicisti. Il batterista-compositore piemontese Andrea Penna, con il c.d. A New World (Workin’ Label), è uno dei pensierosi visionari che “usano” la  musica per autoproiettarvi  i riflessi interiori del proprio mondo in osservazioni (“It Was Just Like That”), ricordi (“Poki”, “In My Arms”), emozioni (“E Fuori piove”), ritratti (“1B My Dear”), flashes (“Tutto in un Momento”) ora raccolti e ordinati. Ah, ecco perché i dischi li chiamano album! Il relativo sound registra umori provenienti dalla memoria – richiami GRP, echi travel/metheniani, ibridismi similrock –  nello sfarinare una tracklist di nove brani di fusion effusiva grazie alla formazione che vede Massimo Artiglia a piano e tastiere, Luca Biggio ai sax, Mario Petracca e Andrea Mignone alle chitarre,  Umberto Mari al basso e voce,  Antonio Santoro al flauto. Se è lecito esprimere una preferenza la scelta cade sul brano d’apertura, “Parlami Ancora”, “scritto immaginando il mare, il discorrere intenso e rilassato passeggiando sulla spiaggia, con qualche brivido di gioia ed una grande voglia di libertà”. Giusto e opportuno antecederlo per far assaporare da subito il gusto della scoperta dell’immaginifico New World di Andrea Penna.

  1. Roberto Gatti, Amanolibera, Encore Music

Quello delle percussioni è un mondo a sé stante con la propria storia, le riviste, i libri, le cattedre, i miti: Don Azpiazù, Ray Barretto, Alex Acuna, Airto Moreira, Chano Pozo,  Mino Cinelu, Ralph MacDonald, James Mtume …  Quello delle percussioni non è un mondo a sé stante in quanto legato a filo doppio con gli altri strumenti che ne valorizzano al meglio le peculiarità. Sono due affermazioni uguali e contrarie. E bisognerebbe aggiungerne una terza, sempre ambivalente, che le percussioni possono rappresentare un’idea ritmica della musica, il latin, ad esempio, in cui la collocazione solistica è al tempo stesso elemento funzionale spesso imprescindibile dell’ensemble. L’album Amanolibera di Roberto Gatti, percussionista, edito da Encore Music, con circa una trentina di musicisti coinvolti nel progetto – fra gli ospiti anche Horacio El Negro Hernandez, Paoli Mejias, Oscar Valdes, Roberto Quintero, Jhair Sala, Gabriele Mirabassi, Lorenzo Bisogno, Tetraktis – documenta quanto il percussionismo, in particolare quello di spanish tinge, ne sia elemento vitale appunto insostituibile. Gatti vi si è cimentato anche a livello compositivo ragionandoci sopra con un drum set di congas, bongos, cajon, timbales, voce, tessendovi sei brani degli otto in scaletta (“Gatti Song”, “Bombetta”, “Chachaqua”, “Roberto’s Jam”, “Rumba per Giovanni”, “Jicamo 2.0”) in alcuni casi cofirmati, recitando così free hand un rosario sonoro allargato in sincronia al Sudamerica ed in diacronia a figure storiche dell’afrocubanismo. “La Comparsa” di Lecuona e “Giò Toca” di Valdes sono i due pezzi che Gatti non ha assortito dalla collezione personale, consentendo a chi ascolta un ritorno a melodie già metabolizzate con le sue percussioni a far da sorelle siamesi di una batteria con cui dialogare fittamente, da minimo comun denominatore che diventa massimo comun divisore di microscansioni particellari e poliritmie a catena.

  1. No Profit Blues Band. Helpin’ Hands. 20th Anniversary LILT di Treviso.

Musica e medicina. Un’arte e una scienza. Con tante applicazioni e “trasfusioni” dall’area sanitaria a quella musicale destinate a creare effetti benefici di vario ordine, a partire dalla musicoterapia. E sono tanti gli operatori del ramo che hanno coniugato Esculapio ed Euterpe. Pensiamo a medici-compositori come Borodin, ai cantautori Jannacci e Locasciulli, a uno stimato pianista jazz come Angelo Canelli, a trombettisti come il docente di ginecologia Nando Giardina della Doctor Dixie Jazz Band, a chitarristi come il radiologo Vittorio Camardese sperimentatore del tapping sulla seicorde, al medico-batterista Zbigniew Robert Prominski membro dei Behemoth (collaboratore degli Artrosis, tanto per rimanere in tema)… Fra gli stili il blues (e derivati) si evidenzia come una fra le più azzeccate medicine dell’anima. Sono vent’anni che lo sperimenta sul campo la No Profit Blues Band che, per il compleanno, presenta l’album Helpin’ Hands frutto della collaborazione con la LILT di Treviso. Dismessi camici e mascherine, messi nel cassetto bisturi e stetoscopi, la band di professionisti della sanità con pianoforte (Alberto Zorzi), chitarra (Maurizio Marzaro), batteria (Danilo Taffarello), basso (Matteo Gasparello), voci (Teo Pelloia, Jessica Vinci, Luisa Lo Santo, Elisabetta Monastero), saxes ( Giacomo “Jack” Berlese) e armonica (Mauro Erri) ha adoperato un altro tipo di attrezzatura per “radiografare” i dintorni del blues . Scopo dell’”operazione”? Far sorridere i pazienti della LILT trevigiana diffondendo pillole di buonumore con iniezioni di spensieratezza. Un ensemble, il loro, mosso esclusivamente dal piacere di offrire la loro musica come antidoto per quanti vi possano trovare motivo di distrazione. Va detto che i pezzi in scaletta sono stati scelti ed eseguiti con maestria e verve.  In scaletta ci sono “Smile” di Chaplin  (cavallo di battaglia del fisiatra Zorzi), “Mustang Sally” di Rice (si è  in pieno  r&b alla Pickett ), “Summertime” (Gershwin forever), “Route 66”  di Troup (con versioni che vanno da Nat King Cole agli Stones), “Unchain My Heart” di Sharp (ripreso divinamente fra gli altri da Joe Cocker), “Hoochie Coochie Man” di Dixon (Muddy Waters uber alles), “I Got A Woman” e “Halleluja I Love Her So” di Ray Charles, “Let The Good Times Roll” hit di B.B. King … Musica angelica, macchè diabolica, per lenire le ferite dello spirito.

I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero e due note di classica

UNO SGUARDO ALL’ESTERO

Wolfert Brederode – “Ruins and Remains” – ECM
Questa suite per pianoforte, quartetto d’archi e percussioni, ha un preciso significato storico in quanto è stata composta da Wolfert Brederode nel 2018, in occasione del centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. Da quell’anno al 2021 quando la suite è stata registrata dal pianista Wolfert Brederode coadiuvato dal percussionista Joost Lijbart e dal gruppo d’archi olandese Matangi Quartet la composizione ha visto alcuni cambiamenti grazie alla stretta collaborazioni fra i musicisti. In effetti Brederode aveva avuto in passato occasione di collaborare sia con il Matangi Quartet sia con il percussionista presente nei suoi gruppi sin dal 2004. Lijbart è un esponente del “nuovo” jazz caratterizzato da una profonda e radicale improvvisazione ed è riuscito a portare questa cifra stilistica all’interno di composizioni che, pur privilegiando una certa ricerca melodica, non disdegnano di riservare spazi significativi all’improvvisazione. E, ad avviso di chi scrive, il pregio maggiore dell’album – e probabilmente del leader – è quello di aver saputo dare alla musica un’anima che riesce assai bene a coniugare l’espressività del pianoforte con il sound del quartetto e le capacità improvvisative di Lijbart. Ancora una volta, come fa rilevare Maria-Paula Majoor, componente del Matangi Quartet, fondamentale è risultato in sala di incisione il ruolo di Manfred Eicher, produttore nonché fondatore nel 1969 della ECM, il quale ha spinto sempre i musicisti a rimodellare la musica di modo che la transizione tra le parti improvvisate e quelle scritte fosse quasi impercettibile.

Ali Gaggl – “A Piece of Art” – ATS
Nonostante l’Austria abbia dato i natali a due grandissimi musicisti quali Joe Zawinul e Friedrich Gulda, negli ultimi anni poco conosciamo di quel che accade in quel Paese. Ben venga, quindi, l’ATS che ci presenta alcuni musicisti austriaci. Questo “A Piece Of Art” è l’ultimo album della vocalist e compositrice Ali Gaggl, vero nome Alberta Gaggl, nata il 15 Ottobre 1959 a Klagenfurt. Musicista a 360 gradi (ha studiato jazz e musica popolare al Conservatorio della città natale, specializzandosi in canto e in pianoforte oltre ad aver avviato una rilevante carriera didattica insegnando canto al Conservatorio di Trieste, alla Bruckner University di Linz e alla Summer Academy del Castello di Viktring) la Gaggl si è fatta ascoltare sia in Europa sia in Canada collaborando spesso con Kenny Wheeler e la Upper Austrian Jazz Orchestra. In quest’ultimo album, la Gaggl ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra i quali il sassofonista Wolfgang Puschnig, la Upper Austrian Jazz Orchestra – UAJO e il quartetto d’archi Koehne; in programma un repertorio assai variegato in cui accanto a sue composizioni, figurano standard come “In a Sentimental Mood” (accompagnata dal quartetto d’archi) e “God Bless The Child” con l’UAJO, forse il brano meno riuscito. Il clima che si respira ascoltando per intero l’album è quello di un solido mainstream sostenuto dall’abilità di tutti i protagonisti e specialmente della vocalist che appare perfettamente in linea sia quando è accompagnata dal solo trio di pianoforte (“Stund Up”), sia che canti con l’orchestra, sia che interpreti brani più leggeri (“C’est ci bon”), sia che si trovi immersa in un contesto ritmico più marcato come nei casi della title track e di “African Child” uno dei brani più originali dell’intero album.

Sverre Gjørvad – “Here Comes the Sun” – Losen
È con vero piacere che presentiamo al pubblico italiano questo batterista norvegese in Italia sostanzialmente ancora sconosciuto, nonostante non sia più giovanissimo (classe 1966). Il musicista di Stathelle, cittadina nel comune di Bamble nella contea di Vestfold og Telemark, viceversa è ben noto in patria avendo collaborato con alcuni musicisti di rilievo come Live Maria Roggen, Ståle Storløkken, Mats Eilertsen e Nils-Olav Johansen. In questa nuova registrazione si ripresenta alla testa del suo gruppo storico completato da Herborg Rundberg piano, Dag Okstad basso, Kristian Svalestad Olstad chitarra cui si aggiunge Eirik Hegdal ai sax nel brano che conclude l’album, “Voi River”. Questo “Here Comes the Sun” chiude un ciclo di quattro CD dedicati alle quattro stagioni, registrati sempre con i medesimi musicisti. La stagione cui si riferisce questa volta è la primavera ed in effetti la musica rispecchia abbastanza bene il clima che si respira da quelle parti a partire da marzo, aprile. E questo è un discorso difficile da capire per chi non sia mai vissuto nel Nord Europa e non sia stato testimone di quello straordinario risveglio della natura che si registra in quel periodo. Così la musica del gruppo è vivace, sostenuta da un buon ritmo, con pianista e chitarrista in primo piano a supportare le concezioni del leader che si rispecchia appieno, anche come compositore, in tutte e trenta le composizioni attraverso cui sono declinati i quattro album di cui in precedenza.

Rolf Kristensen – “Invitation” – Losen
Eccellente chitarrista norvegese, nato a Kristiansand, nel 1961, ha già ottenuto in patria numerosi riconoscimenti di pubblico e di critica soprattutto come solista del gruppo Secret Garden. In questa nuova fatica discografica, Rolf ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra cui alcuni vocalist da lui ritenuti tra i migliori del momento in Norvegia (Torun Eriksen, Hilde Hefte , Kari Iveland e Hilde Norbakken) e un altro celebre chitarrista Allen Hinds (The Crusaders, Roberta Flack, Randy Crawford, Natalie Cole)il quale, trovandosi in città durante la registrazione dell’album, accettò volentieri l’invito del leader ad unirsi al gruppo per incidere il classico di Corea “Crystal Silence” Per il resto il repertorio è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi dal momento che si tratta di brani tutti tratti dal “Great American Songbook”. Ecco quindi uno dopo l’altro alcuni classici come “Blue in Green”, la title track…per chiudere con il già citato “Crystal Silence”. Si tratta, in buona sostanza, di una sfida che Rolf ha espressamente dichiarato di voler affrontare proprio per evidenziare in che modo la sua preparazione soprattutto la sua personalità gli consentono di affrontare questi brani apportando qualcosa di personale. Obiettivo raggiunto? Difficile dirlo…nel senso che sicuramente Kristensen interpreta assai bene tutti i brani, un po’ più difficile affermare che vi apporti qualcosa di veramente nuovo.

Maja Jaku – “Soul Searching” – ATS
Maja Jaku giunta al suo quarto album da leader, ha tutte le carte in regola per affermarsi nel pur vasto panorama del jazz europeo. Può innanzitutto vantare una solida preparazione di base avendo studiato, tra gli altri, con
Sheila Jordan, Mark Murphy, Jay Clayton e Andy Bey e nel suo curriculum figura la prestigiosa collaborazione con la band fusion di Gerd Schuller “Attack”. Questo nuovo album, creato tra San Diego e Vienna, si intitola significativamente “Soul Searching” ad indicare la precisa volontà della vocalist di rifarsi alle atmosfere tipiche della Blue Note anni ’70 declinando un repertorio abbastanza variegato. Principale responsabile il compositore e trombonista Dave Scott che ha scritto 3 composizioni mentre il trombettista americano Jim Rotondi ha contribuito agli arrangiamenti degli ottoni e due composizioni sono state co-scritte dalla stessa Maja Jaku. Il gruppo è completato da Sasa Mutic piano, Dusan Simovic basso e Joris Dudli batteria.
Per chi ama questo tipo di jazz l’album risulterà sicuramente interessante; per tutti gli altri detto che la Jaku ha molte carte da giocare, in alcuni passaggi si nota una qualche incertezza, una non perfetta padronanza della materia musicale che si può spiegare con la giovane età nella consapevolezza che in un futuro non lontano le cose non potranno che migliorare. Tra gli otto brani in programma particolarmente interessante “Be Real” mentre in “God Bless The Child” si apprezza una bella intro del trombettista Jim Rotondi. Un’ultima notazione: vi abbiamo presentato due vocalist austriache e ambedue hanno messo in repertorio quest’ultimo brano, scelta che non comprendiamo appieno data la difficoltà di interpretare al meglio una partitura entrata oramai nell’immaginario collettivo.

Keith Jarrett – “Bordeaux Concert” – ECM
Ascoltando album come questo si riaccende il rammarico per l’impossibilità di ascoltare nuove imprese di colui che a ben ragione può essere considerato uno dei massimi pianisti del secolo scorso. Questa volta Jarrett viene ripreso durante un concerto svoltosi all’Auditorium dell’Opera National di Bordeaux il 6 luglio del 2016, nell’ambito di quel tour europeo che aveva portato l’artista ad esibirsi, tra l’altro, a Budapest, Vienna e Monaco. Venendo a quest’ultimo album, dobbiamo confessare che recensirlo è impresa davvero ardua in quanto su Jarrett molto, moltissimo è stato scritto e “Bordeaux Concert” non fa altro che ribadire tutto ciò che già si conosceva. Vale a dire un artista straordinario sotto le cui dita il pianoforte assurge a vertici difficilmente raggiungibili. Jarrett suona con straordinaria lucidità e quindi con pieno controllo della materia sonora che si sviluppa seguendo una logica ben precisa, non ardua da individuare specialmente per chi ben conosce Jarrett. Ecco quindi la sua capacità di suonare frasi già conosciute ma in modo totalmente nuovo grazie soprattutto alla costante ricerca di nuove cellule melodiche. Quindi non è certo un caso che la stampa internazionale abbia accolto l’album con grande rilievo sottolineando a più riprese sia il carattere intimistico della musica sia la bellezza delle parti estese che si collocano in una dimensione altra lontana dallo spazio e dal tempo. Da sottolineare come l’album è declinato attraverso tredici parti senza titolo ma numerate con cifre romane, parti che si allacciano perfettamente l’una all’altra pur nella diversità d’ispirazione sì da costituire un lungo straordinario, entusiasmante e commovente discorso sonoro.

Jean-Charles Richard – “L’ètoffe des reves” – La Buissonne
Come l’album “Canto” più sopra recensito, anche questa nuova produzione del sopranista e baritonista Jean-Charles Richard può definirsi ‘jazz da camera’, ove con tale definizione si intenda riferirsi ad una musica organicamente costruita con pochi mezzi e soprattutto scritta con sobrietà ed eleganza. Oltre al sassofonista nell’album è possibile ascoltare il pianista Marc Copland, la vocalist Claudia Solal e il violoncellista Vincent Segal. E a nostro avviso è proprio Copland, unitamente al leader, a conferire una precisa cifra stilistica all’intero album declinato attraverso undici composizioni. I due dialogano sempre con empatia disegnando atmosfere che sembrano collocarsi al di fuori del tempo e dello spazio, una dimensione in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono; si ascolti, ad esempio “Giverny” o “Desquartes”… anche se in realtà queste caratteristiche si evidenziano in tutte le esecuzioni. Eccellente anche la prestazione della vocalist Claudia Solal moglie del sassofonista e figlia del celebre Martial; Claudia interpreta con pertinenza “Ophélie Death” (in cui si mette in musica i versi dell’Amleto) e la “Title track” (con testo tratto dalla Tempesta shakespeariana) ambedue porte in inglese e “Ophélie” (con versi di Rimbaud) cantata viceversa in francese.
Ma questi rimandi alla letteratura attraversano un po’ tutto l’album così come i richiami a musicisti di altre epoche quali Olivier Messiaen, Igor Stravinsky, Claude Debussy. L’album si chiude con “Weeping Brook” un pezzo di bravura del leader al sax baritono.

Steve Tibbets – “Hellbound Train: An Anthology” – ECM 2CD
Le antologie non figurano in cima alle nostre preferenze…a meno che non si tratti di qualcosa di particolare. Ed è proprio questo il caso dal momento che si tratta di un tributo riservato ad un artista tanto originale quanto riservato. Molti anni sono passati da quel lontano 1977 quando Steve pubblicò il suo primo album ma l’artista ha sempre tenuto fede a quelle che sin dall’inizio sono state le direttrici su cui ha impostato la propria ricerca: i continui riferimenti etnici, impiego di una strumentazione del tutto particolare ivi compresi i nastri magnetici, l’alternarsi di momenti estatici ad altri molto più terreni. In repertorio 28 brani tratti dagli album che l’artista ha realizzato per l’ECM in un lungo lasso di tempo. Ovviamente molti i musicisti che si ascoltano accanto al polistrumentista leader, ma la musica ruota sostanzialmente intorno a Steve che suona la chitarra, il dobro (o chitarra resofonica), la kalimba e le percussioni. Due le notazioni che si possono fare per rendere più agevole l’ascolto: la sequenza dei brani non è cronologica e i brani scelti rispecchiano assai bene la multiforme personalità del leader. Molti sarebbero i brani da segnalare all’attenzione del lettore, ma andremmo ben oltre i limiti che riserviamo ad ogni recensione per cui basti sottolineare come i curatori sono riusciti a tracciare un ritratto esaustivo dell’artista.

DUE NOTE DI CLASSICA

Margherita Porfido – “Da Gesualdo a Piccinni – Musicisti del Sud Italia dal 1500 al 1700) DiG 2 CD
Margherita Porfido – “Margherita’s Miniatures” – DiG
In questi due album, editi da DiG (Digressione) abbiamo l’opportunità di ascoltare e ammirare una delle più complete clavicembaliste italiane. Nata ad Altamura, Margherita Porfido comincia a studiare musica sin da giovanissima diplomandosi in pianoforte e clavicembalo. A partire dal 1983 si dedica completamente allo studio del clavicembalo soprattutto con riferimento alla musica Rinascimentale-Barocca ed a quella contemporanea, prediligendo il repertorio solistico e di solista con orchestra.
Nel primo album, “Da Gesualdo a Piccinni”, impreziosito da un esauriente libretto vergato da Alessandro Zignani, scrittore, musicologo e germanista di grande spessore, possiamo ascoltare una serie di brani che risultano assolutamente indispensabili per capire a fondo la musica tra ‘500 e ‘700 del meridione d’Italia. Il repertorio, infatti, comprende tra l’altro la “Canzon francese del principe” di Gesualdo Da Venosa, la “Salve Regina” di Rodio, composizioni di Giovanni Salvatore, Giovanni Maria Trabaci, i balli e le danze di Antonio Valente e Bernardo Storace, fino alle “Tre Sonate e Una Toccata” di Niccolò Piccinni. In buona sostanza si tratta di uno straordinario viaggio attraverso le note che ci conduce alla scoperta, o forse sarebbe meglio dire alla riscoperta, di autori purtroppo non particolarmente eseguiti ma che risultano fondamentali per lo sviluppo della musica colta nel nostro Paese.
Diverso il secondo CD, “Margherita’s Miniatures”, in cui la clavicembalista affronta un repertorio variegato, molto diverso dal precedente, con autori non accademici, e con l’ausilio di un artista proveniente da altri ambiti quali Pino Minafra alla tromba e al didgeridoo. Ad onta di queste discrepanze, l’album mantiene una sua ben precisa unità di fondo data dal clavicembalo della Porfido che riesce ad interpretare tutte le partiture con maestria dimostrando come anche uno strumento oggettivamente “antico” possa misurarsi con linguaggi moderni. Ecco quindi che si parte con le “Danze popolari romene di Béla Bartok per approdare a “Les fastes de la grande et ancienne MXNXSTRXNDXSX” di François Couperin, in cui si ascolta il jazzista Pino Minafra al didgeridoo. In mezzo ancora un autore classico come Erik Satie ma soprattutto esponenti della musica moderna quali Eugenio Colombo, Fred Van Hopve, Keith Tippett, Livio Minafra, Michel Godard, Daniel Pinkham, Nino Rota e Gianluigi Trovesi. Ed è proprio al confronto con questi ultimi che si manifesta in tutta la sua bravura la Porfido che riesce ad adattare il suo strumento alle necessità espressive dei vari brani senza che gli stessi perdano un’oncia dell’originario fascino. Particolarmente suggestivo “Romeo e Giulietta” di Nino Rota anche per la presenza di Pino Minafra alla tromba, musicista che, come sottolinea Ugo Sbisà nelle note che accompagnano l’album, proprio in veste di trombettista si fa desiderare oramai da lunga, troppo lunga, pezza

Valentin Silvestrov – Maidan – ECM
Il significato di questo album va ben al di là del fatto squisitamente musicale in quanto si inserisce a pieno titolo nella più drammatica vicenda che il mondo sta vivendo dopo la Seconda guerra mondiale. Valentin Silvestrov, nato nel 1937 a Kyiv, è considerato il compositore più significativo in Ucraina e queste registrazioni, effettuate nel 2016 dal Kyiv Chamber Choir diretto da Mykola Hobodych, durante un concerto tenuto presso la cattedrale di San Michele, nella capitale ucraina, ne sono la palese testimonianza. La sua è una musica sobria, riflessiva, che rispecchia perfettamente l’anima di un popolo nel tentativo perfettamente riuscito di coniugare le cose semplici della vita con il senso più profondo della bellezza del mondo e degli umani sentimenti. In tal senso Silvestrov è sempre rimasto una sorta di cronista in musica della storia della sua terra. Ed è proprio in questo senso che l’album assume quella valenza di cui in apertura. In effetti il compositore, dopo i moti ucraini del 2004 (noti come la Rivoluzione arancione) e le proteste di Maidan (Majdan Nezaležnosti – Piazza Indipendenza, la piazza centrale di Kiev capitale dell’Ucraina) contro l’influenza russa nel 2014, si è rivolto più apertamente a temi politici e religiosi. Di qui una serie di pezzi raccolti sotto l’insegna “Maidan-2014”, per coro a cappella. (Il suo tredicesimo movimento è la “Preghiera per l’Ucraina”). Adesso la situazione per Silvestrov si è fatta davvero pesante: poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha dovuto lasciare la sua città natale e vive a Berlino da allora. Parallelamente dopo l’inizio della guerra, la musica di Silvestrov viene eseguita spesso al di fuori dell’Ucraina ottenendo sempre grandi successi di pubblico e di critica e portando la fama dell’autore a vertici mai raggiunti in precedenza. Dal punto di vista squisitamente artistico, la musica si fa apprezzare particolarmente per come riesce ad esprimere atmosfere assai diverse transitando da momenti corali maestosi ad altri in cui sembra prevalere una sensazione di dolorosa partecipazione, ad altri ancora in cui si avverte una grande dolcezza. Di qui anche le diverse strutture del coro che ora si avvale solo di alcune sezioni, ora interviene per intero nella sua maestosità, altre volte ancora si affida ad alcune voci soliste. Insomma, un piccolo capolavoro che va ascoltato con il massimo rispetto.

Gerlando Gatto

Roberto Bottalico: non posso suonare solo standard

Il “Salotto Rosso” è la rubrica di interviste a cura di Daniele Mele: esponenti del Jazz italiano e internazionale parlano della propria visione musicale e del loro percorso artistico. In questa puntata, Roberto Bottalico racconta l’Alter&Go Project e il suo nuovo album: Il Favoloso Mondo di Wayne Lo Strambo.

 – Roberto, a che età hai iniziato a studiare sassofono?
“Fine liceo, 17-18 anni, a scuola. Il Jazz non sapevo neanche cosa fosse, all’inizio ascoltavo Progressive: Genesis, King Crimson…”.

– Classica e progressive? O solo progressive?
“No, classica dopo. Rock, progressive… comunque avevo 17 anni. Il percorso è stato Pearl Jam, Nirvana, The Doors, Led Zeppelin. Poi mi sono diplomato al liceo e ho iniziato Lettere a indirizzo Spettacolo all’università. Non era per me”.

– Indirizzo Spettacolo perché c’era già un’indole artistica?
“Sì, sempre andato a vedere concerti. E iniziavo a suonicchiare… e ad ascoltare Jazz, Blues. Ho iniziato ad andare a lezione da Deidda, Sandro”.

– Il fratello di Dario e Alfonso
“Sì. Dopo un po’ di tempo ho pensato di voler fare uno studio più accademico del sassofono, e lui mi indirizzò verso il Conservatorio (classico allora, non c’era Jazz). Io non conoscevo niente del mondo dei Conservatori, a casa mia non c’era una gran cultura musicale, al massimo si ascoltava Battisti. La prima volta che sono andato al Conservatorio mi hanno iniziato a parlare di orari di segreteria e di esami, ma io avevo bisogno di parlare con un docente. Un giorno mi sono presentato con il sassofono, ho detto che avevo lezione con il Maestro e son salito da lui. E lui mi ha detto “Ok, entra da me” “.

Ah così è andata?
“Sì, selvaggio proprio! (si ride) È che lui mi disse: “Sei troppo grande, al Santa Cecilia non hai possibilità, ci sono tre posti, prendono i minorenni” e io avevo questo sassofono da duecento euro. “A Perugia ci sono più cattedre, per te che suoni il tenore è più semplice”. Faccio l’ammissione ed entro con Mario Raia, la svolta della mia vita. Se non avessi incontrato lui, io non avrei fatto il musicista”.

– Ah sì?
“Mi ha insegnato che dipendeva solo da me, se volevo migliorare. È stata dura, sia psicologicamente che praticamente, perché ero solo con me stesso e questo rapporto interiore mi devastava… e io studiavo come un matto ma non bastava, 10 ore nette al giorno, le cronometravo e cercavo sempre di allungare i tempi degli esercizi. Il più grande insegnamento di Mario è stato il rispetto per la musica. Una volta mi disse: “Devi suonare il pezzo e cercare di comunicare sempre una sensazione, anche se è una Polka”. Non avrei capito molte cose senza di lui… anche perché sono entrato al Conservatorio già grande, a 23 anni. Mi ha salvato. Alla fine ho apprezzato il suo modo di fare, mi è stato dietro anche in momenti difficili. Mi ha fatto diventare un musicista”.

– E il recente percorso di studi ti ha portato al biennio a Santa Cecilia.
“Sì, e lì ho avuto una conferma che le cose che scrivevo piacevano. Potevo fare quello che volevo, e ho iniziato ad osare di più”.

– Ma tu già suonavi Jazz, anni prima, e pure parecchio bene.
”Sì sì, però lì mi sono realizzato completamente… soprattutto a livello compositivo. Al Conservatorio ho avuto dei riconoscimenti, in occasione della mia tesi, in cui ho portato un libro che ho scritto su Shorter e sui suoi principi compositivi e da cui nasce quest’ultimo disco “Il Favoloso Mondo di Wayne lo Strambo”. Anche grazie agli insegnanti che ho incontrato, in primis Pietro Leveratto che mi ha dato molta fiducia e molte idee, Fabio Zeppetella e Alfredo Santoloci, ho capito che nella musica potevo essere sincero con me stesso. Prima andavo alle Jam e studiavo il linguaggio, linguaggio, linguaggio… certo, la tradizione mi è servita, ma adesso suono come voglio. E non è che io sia innovativo, perché hanno fatto tutto, però mi sento libero di suonare come suono. Ho iniziato un percorso di elaborazione improvvisativa prima del conservatorio e qui ho capito che avevo delle particolarità che potevo sfruttare”.

 

 

– Ti sei accorto che tanto più eri spontaneo tanto più eri apprezzato.
“È quello! Ho sempre fatto un lavoro sugli accordi, su idee armoniche personali che escono quando improvviso. Ci inculcano che dobbiamo essere sempre simili a qualcuno, ma io non posso suonare frasi di altri. Anche io mi ispiro ai grandi del jazz da cui prendo idee, non se ne può fare a meno, ma un conto è prendere, capire e rielaborare e un conto è l’imitazione. Non posso suonare solo standards”.

– Perché no? Perché sono stati già fatti troppo bene da troppi musicisti?
“Ma sì, li devo stravolgere, come se fosse un gioco. O sei Brad Mehldau, oppure… Per me gli standards vanno studiati, sono la tradizione che va prima conosciuta e da cui successivamente ci si può allontanare. Sono un veicolo per comunicare con gli altri, a sei vai a suonare a un festival importante ti devi presentare con un’idea tua, personale”.

– Certo. E preferisci esporti con pezzi originali piuttosto che con i soliti standards che tutti conoscono.
”Suonerei sempre pezzi originali se possibile, anche non miei volendo”.

– E in tal senso, ci sono dei musicisti che ti ispirano o che ti hanno ispirato a seguire questo “modo di fare musica”?
“Che sono in vita? In Italia… Manlio Maresca, lui fa tipo Punk-Jazz e secondo me ha moltissimo da dire. Anche Daniele Tittarelli è un grande, ma ce ne sono tanti altri… però ci sono altri che sono bravissimi, ma non hanno niente da dire”.

– Sono d’accordo, ma non basta.
“Non basta. Ormai chiunque suona è bravissimo, il sistema non premia chi è spontaneo ma premia chi si sa muovere, e ovviamente i talenti veri, che escono anche se non parlano con nessuno”.

– Che tipo di ascolti fai oggi?
“Io ascolto il Jazz che si ispira ai dischi Blue Note degli anni ’60. Coltrane, Hancock, Shorter… Shorter mi ha detto che potevo fare quello che volevo, basta che avesse un senso”.

– Sembra una cosa semplice. (si ride)
“Eh, certo. Scrivo dei brani a volte che armonicamente non si capiscono. Basta II-V-I, basta il V che va al primo, basta. Si gioca con gli accordi, è divertente, è artistico. Uso diversi metodi per unire gli accordi che non sono quelli del jazz standard, come il legame delle note guida, dare importanza alle singole note che insieme creano accordi e melodie, cercando di trovare un suono giusto completando la qualità degli accordi”.

– Quando devo scrivere una canzone Pop, io personalmente mi avvicino prima alla chitarra. Quando devo scrivere un tema strumentale, passo per il pianoforte. C’è una sorta di canovaccio che segui per la realizzazione di un brano, o di un album? Come si arriva alla fine?
“A volte non c’è niente. A volte c’è solo un’idea, ed è armonica. E passa sempre prima per il pianoforte, infatti i miei temi non sono mai tecnicamente difficili, perché inizio a comporre sulla tastiera e sono tecnicamente scarso. Sul disco ci sono due brani intitolati Giant Half Steps, e non c’entrano niente con Giant Steps, anche se gli accordi vengono da lì. Sono un esercizio, un lavoro mio fatto su quegli accordi. E nel comporre mi interessa più il lavoro “di concetto” che “di estetica”. Questi brani, per esempio, si chiamano così perché il tema è una sperimentazione cromatica sul giro armonico di Giant Steps. Parte sempre tutto da un’idea, un concetto con uno sviluppo in musica: così mi piace. Alter Shorter, il terzo brano, è stato scritto perché volevo approfondire gli accordi maj7(#11), senza accordi di dominante, tutto con quel suono. Ho scelto un suono, il tema è lento e melodico, e si ripete, tipo Nefertiti di Shorter stesso. Io scrivo molto dissonante, ma i temi sono melodici, creo un movimento che prepara all’ascolto”.

– E passi per il sassofono solo alla fine, in questo processo.
“Alla fine sì, se serve”.

– La parte compositiva è al piano. Perché sulla tastiera hai una visione “geometrica” del pezzo, oppure…?
“Il tema completa sempre gli accordi. Poi, prendo il sassofono per vedere come è in velocità, e improvviso, e qualcosa cambia”.

– Al sassofono si concretizza la parte più creativa. Quella più… autentica?
“Sì. Non è “bella questa frase, ora ci faccio un pezzo” quanto “bello questo giro, ora ci faccio un pezzo”. Voglio fare un pezzo “con questo suono”, voglio sviluppare quest’idea/concetto in musica”.

Molto interessante Roberto. La melodia viene dopo, è a funzione del brano. Pensi che questo posso contribuire a rendere le melodie più interessanti? Perché, dal mio punto di vista, se parti dalla melodia ti incaselli, anche se comunque seguendo il tuo gusto musicale, in una sorta di “catologo di idee melodiche” già preconfigurato. Invece, partire da un suono che ti stuzzica e poi “forzarsi” a costruire una linea che faccia da collante…
“Esatto. Così sei costretto a trovare delle soluzioni diverse. Shorter ci ha detto tutto eh: la struttura, per esempio, non viene prima. La struttura viene col pezzo. Vuoi farla durare 7, 8, 13? Ha senso? E va bene, se l’artista vuole farsi capire trova un modo efficace per comunicare quella spigolosità”.

– Roberto volevo chiederti: quanto è durata la scrittura dell’album?
“I brani li ho scritti velocemente. Tre-quattro brani erano fatti, il resto è venuto in tre giorni. Alter Shorter è, secondo me, il pezzo più bello che abbia mai scritto in vita, e l’ho scritto in un due ore. Un pezzo puro, spontaneo. Anche se, ovviamente, il lavoro di studio delle sonorità è durato molto tempo”.

E il tempo di produzione?
“Due-tre giorni, mi sono visto con il gruppo e gli ho dato temi e accordi. Alcuni brani sono cambiati in quei giorni, perché i ragazzi hanno dato il loro contributo. Non ho detto loro come si dovevano comportare, ed è stato meglio così”.

– Un bel lavoro di gruppo. Due parole sui musicisti?
“Augusto Creni mi completa, accompagna con la chitarra in un modo molto pianistico, mi asseconda a seconda del mio fraseggio come un pianista ma in modo meno “invadente” di un pianista. Il bassista Alessandro Del Signore e il batterista Massimo Di Cristofaro, sempre pronti a prendere delle idee e rinnovarle, sono, oltre che musicisti eccezionali, grandi amici ormai grazie alle molte prove che abbiamo fatto. Sono molto contento”.

Splendido. Grazie Roberto per l’intervista.

Daniele Mele

I NOSTRI CD: ANCHE NEL JAZZ IN “DUO” VIENE MEGLIO

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Francesco Cusa, Giorgia Santoro – “The Black Shoes” – Dodicilune
Album denso di contenuti questo registrato dalla flautista salentina Giorgia Santoro e dal batterista siciliano Francesco Cusa, artisti ben noti e apprezzati nel panorama jazzistico non solo nazionale. In repertorio diciassette composizioni, sedici originali più la conclusiva “Un Joueur de flûte berce les ruines” del grande Francis Poulenc. Il punto di partenza è declinato chiaramente nel titolo: le scarpe nere sono quelle del jazzista che proprio attraverso la musica tende verso il cielo. Il terreno su cui si muovono i due è quello della libera improvvisazione con un linguaggio ben coerente con gli obiettivi prefissati. Di qui il ruolo diverso assunto dai due strumenti: la batteria che quasi personifica la vita terrena con tutti i suoi pesi, mentre i flauti – la Santoro ne usa tutta la ‘famiglia’ – sembra indirizzare la musica verso l’alto. Ciò detto è comunque difficile se non impossibile penetrare nella mente dei due artisti e stabilire senza ombra di dubbio cosa volessero rappresentare. Alle nostre orecchie si presenta una musica tutt’altro che facile, in cui si nota una ricerca che si sostanzia in improvvisazione come composizione istantanea, tra le cui pieghe alle volte si intravvede qualche traccia di linea tematica, come nel caso di “Whisper”. Il tutto sostenuto da un bagaglio tecnico di notevole spessore e da una comune fonte d’ispirazione.

Franco D’Andrea, DJ Rocca – “Franco D’Andrea Meets DJ Rocca” – Parco della Musica Records 3 CD
Conosciamo Franco D’Andrea da tanti, tanti anni e quelle non poche volte in cui ci siamo confrontati sulla sua arte, sul futuro della musica, sulle possibilità insite nel jazz abbiamo sempre trovato un musicista, un artista, un uomo mai appagato ma sempre rivolto al futuro, alla ricerca di nuove situazioni che gli permettano di esprimersi al meglio. Ecco, quindi, questo triplo album registrato alla fine del 2021, in cui D’Andrea si confronta con Luca Roccatagliati (in arte Dj Rocca) musicista con il quale aveva già avuto modo di collaborare in due precedenti occasioni ma non in duo. Ovviamente in quest’ultimo lavoro le cose cambiano in modo radicale. D’Andrea si trova a dover connettere il proprio strumento con un suo “pari” che disegna paesaggi sonori in maniera totalmente diversa, mai dando tregua al compagno d’avventura in un rimpallo costante. Di qui un’incessante ricerca soprattutto sul suono, sulle combinazioni timbriche, cosa tutt’altro che banale dati gli strumenti in azione. Quasi inutile sottolineare come in questa registrazione così come in ogni concerto dei due, non esista alcuna scaletta ma tutto nasca spontaneamente nel momento stesso in cui gli artisti decidono di intervenire. Insomma questa realizzazione discografica ci consegna due artisti impegnati al massimo e particolarmente attratti da questo lavoro. Prova ne sia che l’album, verrà ripresentato in alcuni concerti che, se avete la possibilità, vi consiglio vivamente di andare a sentire.

Giovanni Falzone, Glauco Venier – “Dialogo espressivo” – Parco della Musica Records
All’insegna della melodia questo album che vede come protagonisti il trombettista Giovanni Falzone e Glauco Venier in una sorta di incontro che congiunge l’Italia dal momento che Glauco è friulano mentre Falzone è cresciuto in Sicilia. Ma a parte questa curiosità geografica, l’album, registrato il 3 agosto del 2020, si segnala per ben altre particolarità. Innanzitutto la qualità artistica dei due musicisti che oramai da tempo si caratterizzano non solo per le capacità strumentali ma anche per quelle interpretative; in secondo luogo la gradevolezza del repertorio: undici brani tutti composti dal trombettista il quale sottolinea come fosse suo preciso obiettivo mettere al centro del progetto la ricerca melodica, il suono acustico e l’essenzialità del duo. Obiettivo perfettamente centrato in quanto sin dal primo brano si percepisce compiutamente quella che sarà la cifra stilistica dell’intero album tutto giocato per l’appunto su un dialogo spontaneo, naturale, che pone in primo piano l’espressività: di qui il titolo “Dialogo espressivo” quanto mai centrato, cosa che raramente accade. I pezzi sono tutti godibili anche se personalmente preferisco “Il poeta del silenzio” anche questo titolo assai significativo dal momento che il brano è dedicato a Enrico Rava; particolarmente suggestivi anche gli altri due omaggi rivolti a Kenny Wheeler e Tomasz Stanko, come a dire tre trombettisti che hanno contribuito a forgiare lo stile del musicista siciliano.

Biagio Marino, Zeno De Rossi – “Break Seal Gently” – Fonterossa
Biagio Marino (chitarra elettrica, effetti) e Zeno De Rossi (batteria, percussioni) sono gli autori di questo “Break Seal Gently” uscito il 6 settembre per Fonterossa Records, l’etichetta fondata dalla contrabbassista Silvia Bolognesi. Il duo, al debutto discografico, si muove su quel territorio di confine che lambisce jazz, rock e free improvisation, ma lo fa sempre con grande lucidità e proprietà di linguaggio. D’altro canto si tratta di due musicisti che possono vantare un curriculum di assoluta eccellenza. In particolare Biagio Marino, nato a Eboli nel 1972 e residente a Bologna, ha alle spalle lunghi anni di approfonditi studi e sperimentazioni che l’hanno portato ad elaborare particolari tecniche chitarristiche basate sull’uso di accordature anomale, tecniche poi impiegate nei suoi progetti sempre caratterizzati da un sound affatto particolare come nel caso dell’album in oggetto. Zeno De Rossi (Verona – 1970) è artista completo sotto ogni punti di vista prova ne sia che attualmente è uno dei batteristi-percussionisti più richiesti sulla scena. Le sue collaborazioni davvero non si contano; in questa sede basti citare quelle con Hank Roberts, Wayne Horvitz, Bill Frisell, Greg Cohen, Ralph Alessi, , David Murray… In questo album i due hanno la possibilità di esplicitare appieno il proprio talento. Sei brani tutti scritti dal chitarrista in cui sognanti ambientazioni (“La grande pellicola effimera”) si incrociano con atmosfere in cui aleggia l’influenza del grande Frisell. Si tenga presente come il disco arrivi dopo una fase di maturazione iniziata nel 2021 e cementata attraverso tutta una serie di concerti.

Roberto Ottaviano, Alexander Hawkins – “Charlie’s Blue Skylight” – Dodicilune

Roberto Ottaviano al sax soprano e Alexander Hawkins al pianoforte acustico ed elettrico sono i superlativi interpreti di questo omaggio alla musica di Charles Mingus nel centenario della sua nascita (Nogales, 22 aprile 1922). Dedicare a Mingus un qualcosa è impresa da far tremare le vene ai polsi ma i due l’affrontano con il piglio e la determinazione giuste…per non parlare della classe e dell’originalità che costituiscono elementi fondamentali della poetica dei due artisti. Di qui un album assolutamente convincente declinato attraverso undici composizioni di Mingus tra cui brani arcinoti come “Pithecanthropus Erectus”, “Self Portrait In Three Colors” e “Haitian Fight Song” e pezzi meno eseguiti come “Canon” o “Hobo Ho”. Ma, a prescindere dai brani, i due si muovono sorretti da una intesa perfettamente, dialogando strettamente per tutta la durata dell’album, senza un solo attimo in cui si avverta un benché minimo calo di tensione. Il sax di Ottaviano appare lucido, preciso, timbricamente superbo come sempre mentre il pianismo di Hawkins è perfettamente a suo agio con le non semplici partiture del contrabbassista. In definitiva i due artisti, pur rimanendo rispettosi delle strutture architettoniche e delle trame narrative mingusiane, non rinunciano ad aggiungere un quid di originalità che conferisce al lavoro una propria pregnanza. Assolutamente inutile evidenziare un brano rispetto all’altro: vanno tutti ascoltati con la massima attenzione e la soddisfazione sarà massima.

Barre Phillips, György Kurtag jr. – “Face à Face” – ECM
Barre Phillips, Daniele Roccato – “Confluence” – Parco della Musica Records
Una doverosa avvertenza: qui non siamo nel campo del jazz propriamente detto ma in un terreno quasi di confine tra la musica moderna europea e una certa forma di sperimentalismo, basato totalmente sull’improvvisazione, pratica che i tre musicisti conoscono assai bene. Per cui se volete ascoltare questi album – per altro assai interessanti– è d’obbligo una buona dose di concentrazione che vi consenta di seguire le evoluzioni degli artisti. L’iniziativa per la registrazione del primo album parte dal contrabbassista che dopo aver ascoltato lo specialista di effetti elettronici ungherese lo vuole al suo fianco. Nasce così questo “Face à Face” registrato a Pernes-les Fontaines tra il settembre del 2020 e il settembre del 2021.  Come sottolinea lo stesso Kurtag, i due si sono trovati in piena sintonia nel mantenere l’intensità del dialogo. Inutile, quindi, cercare una qualsivoglia traccia di linea melodica, occorre lasciarsi andare totalmente al flusso sonoro che scaturisce dai due artisti. I quali sono impegnati a disegnare cangianti atmosfere a seconda di chi, in quel momento, detiene le redini dell’incontro. Di qui un universo sonoro che nasconde grandi sorprese come l’incalzante “Stand Alone” a parere di chi scrive il pezzo migliore dell’album, seguito da un altro brano di grande spessore, il conclusivo Forest Shout, un brevissimo, suggestivo bozzetto. Interessante sottolineare come i due artisti riescono a far convivere il sound di uno strumento acustico e tradizionale come il contrabbasso con le sonorità ultra moderne della strumentazione di Kurtag, davvero un esempio di come in musica quasi nulla sia impossibile.
In “Confluence”, registrato live nella Sala accademica del Conservatorio Santa Cecilia, a Roma, il primo marzo del 2020 il contrabbassista statunitense si trova a collaborare con un altro contrabbassista, Daniele Roccato, musicista che da anni si dedica all’interazione fra più contrabbassi, essendo tra l’altro il fondatore dell’ensemble Ludus Gravis, un gruppo di soli contrabbassisti (spesso nove) che si è affermato nel mono della musica moderna eseguendo partiture, fra gli altri, di Hans Werner Henze, Sofia Gubaidulina, Terry Riley, Gavin Bryars, Stefano Scodanibbio. Come evidenziato in apertura, i due contrabbassisti si incontrano sul terreno dell’improvvisazione libera e dal convergere di questi due percorsi musicali, totalmente diversi, emergono nuovi paesaggi che siamo sicuri saranno ancora nuovi e diversi se i due avranno modo di incidere un altro album. Insomma un’immersione totale in una sorta di università sonora per chi ama questo strumento. Un’ultima notazione: davvero belle le foto che accompagnano l’album.

Enrico Rava, Fred Hersch – “The song s You” – ECM
Registrato a Lugano nel novembre 2021, “The Song is You” è il frutto di un incontro tra due straordinari musicisti che pur partendo da situazioni piuttosto differenziate, trovano un magnifico punto di intesa negli otto brani presentati nell’album. In effetti il repertorio comprende oltre a due brani con la loro firma “Child’s Song” di (Hersch) e “The Trial” (Rava), alcuni standard come “Misterioso” e “‘Round Midnight” di Thelonious Monk, “The Song Is You” di Jerome Kern, “Retrato em Branco e Preto” di Jobim -Chico Buarque   e “I’m Getting Sentimental Over You” di George Bassman-Ned Washington. Per chi conosce anche se non approfonditamente questi due artisti, è facile capire come l’improvvisazione sia la chiave di lettura più appropriata per entrare nel mood dell’album. Sia Rava sia Hersch evidenziano una certa predilezione per linee melodiche riconoscibili e affascinanti e da questo idem sentire iniziano il loro discorso che li porterà a ridare nuova linfa a brani già iper noti come “Round Midnight” o “Retrato em Branco e Preto”. Ma anche nei due original la cifra stilistica dell’album non si discosta da quanto detto in precedenza. I due continuano a narrare le loro storie senza nulla sacrificare del proprio bagaglio ma facendo confluire l’uno nell’altro le capacità improvvisative ed esplorative. Insomma un album che tiene fede a quanto ci si poteva attendere da due giganti del jazz quali Enrico Rava e Fred Hersch.

Gerlando Gatto

Pharoah Sanders – Un amore più supremo dell’amore supremo

Per cosa ci piacerebbe essere ricordati dopo la nostra morte? Solo a sentire questa domanda si materializzano ambienti rumorosi di bocche che in un flusso infinito recitano un monologo adornato di fantasticherie intime ed infinite, oppure risme di fogli bianchi che vengono incisi da penne fino a finire l’inchiostro, sfogliandoli freneticamente fino a creare una sorta di testamento immaginario da dedicare al mondo; o magari nessuna risposta, una pausa a cui non seguirà alcuna nota: il vuoto. Pensare all’oltre mondo è umanamente comune, l’abbiamo fatto tutti e immaginare quale memoria lasceremo di noi è un tema caldo. Una volta che si spengono le luci del nostro palco gli spettatori si alzano, cominciano a mettersi in fila i tuoi dolci affetti, conoscenti, colleghi, amici e parenti che non vedono l’ora di scrivere un epitaffio d’amore da dedicarti. L’unico dispiacere è che qualunque discorso propinato finisce in una damigiana da cui tracannano i provetti poeti fino ad affogare. Tutti alzano il gomito in questo rituale di auto terapia per affrontare la morte, mentre tu, che dovresti essere il diretto destinatario di ogni poesia recitata al brindisi, non potrai mai ascoltare quello che gli altri hanno da raccontare di te stesso. Quindi ha davvero senso spedire una lettera a un morto? No, meglio scrivere per quelli che restano, perché creare memoria è più importante che rispondere agli ipotetici capricci di un defunto, difatti lui non può nemmeno ribattere e dir la sua a meno che i medium non diventino avvocati e notai degli spiriti dell’aldilà.
Questo preambolo ci pone nell’ottica di ricercare quale sia l’approccio migliore per raccontare post mortem una vita musicale così intensa di significati ed eterogenea come quella di Pharoah Sanders. Un musicista del suo calibro è un poliedro complesso, in ogni angolo si rispecchia una storia che differisce per prospettiva ma si interseca per eventi. Immaginando di voler camminare sopra questa gigantesca forma geometrica ci si renderebbe presto conto che per coglierne il centro, quindi il nucleo e la sua anima, non si può solo camminare a zonzo senza farsi domande, serve un aiuto. Un album potrebbe essere la grande guida che ci serve per non perderci.

La guida che voglio proporre è un Lost Record del Live in Paris del 1975, pubblicato e restaurato dall’etichetta discografica Transversales Disques. Sébastien Rosat, co-fondatore dell’etichetta, mi ha spiegato in un breve scambio di mail che l’album è stato come ritrovare un tesoro; già dal primo ascolto si capiva quanto fosse una performance straordinaria. La Transversales Disques ha compiuto in primis un lavoro di restauro sul materiale ritrovato nel 2017 nel caveau di Radio France e a impreziosire l’esperienza c’è la minuzia per la ricerca di fotografie scattate per quella performance. Proprio quando le ricerche stavano per arrivare a un punto morto ci ha pensato la fortuna a fargli ritrovare una foto del concerto in “Jazz Hot” Magazine per mano della fotocamera di Christian Rose che ha fornito un rullino pieno di splendide istantanee dell’evento, arricchendo un’edizione discografica rara e unica; sicuramente realizzata con quel tipo di passione che solo gli amanti del jazz riescono a mettere in ciò che fanno nella vita. Questa storia ci catapulta in una prospettiva romantica nei confronti dell’album, ma diventa un antipasto ricco di proteine per affrontare il viaggio che propongo, ma soprattutto è funzionale a un piccolo gioco di prestigio: usare l’album del concerto come incipit, cercando di rovesciare la classica prospettiva della biografia al servizio della musica, seguendo piuttosto il flusso sonoro del live e quello degli eventi in ordine cronologico. Questo processo permette di trasformare quel poliedro di cui parlavo, attraverso la scomposizione e ricomposizione in una nuova forma, quella plasmata dalle note del sassofono di Sanders il 17 novembre del 1975 al Grand Auditorium nello studio 105 della Maison de la Radio.

Love is Here part I/part II
Il seguente brano potrebbe essere tanto un inedito quanto un arrangiamento improvvisato estremamente articolato di Love is Here To Stay, fatto sta che troverà pubblicazione per la prima volta in un album del 1978 Love Will Find a Way, accompagnato dalla splendida voce della cantante Phyllis Hyman. Il fatto che sia stato eseguito nel 1975 a Parigi, per venir poi pubblicato solo tre anni dopo, lo rende un esempio calzante del processo creativo del faraone. Sanders non è il tipico musicista con la matita pronta in mano a calcare il pentagramma, il punto di partenza è sempre quello dell’improvvisazione da cui si generano idee e motivi, dispiegandosi in una cosiddetta forma estesa (approccio tipico nell’estetica free), ma in questo caso è più corretto chiamarla Suite, come lui la concepiva: improvvisazioni molto lunghe ma divise in due parti. Andando oltre il contesto, quello che sentiamo di primo impatto è un forte senso energico da parte di tutto il gruppo a partire dal pianismo percussivo di Danny Mixon, alla batteria serrata di Greg Bandy in cui si inserisce l’ostinato basso di Calvin Hill, talmente intenso che sembra di poter sentire le dita della pelle levigarsi su quelle corde e infine il sassofono tenore di Sanders, che comincia con un lirismo e una dolcezza ingannevole nell’eseguire il tema. Un inganno perché nei primi minuti qualcuno potrebbe soltanto dire che è molto bravo, ha una tecnica solida ma non fuori dal comune al suo strumento; tuttavia, man mano che passano le battute ci si accorge presto di cos’abbia di così particolare da catturare ogni orecchio. La sensazione è che l’ancia venga strozzata e la campana d’ottone vibri ad altissima magnitudo, con un fluire rapidissimo di raggruppamenti di note in scala che assomigliano quasi a un glissando, altre volte si sofferma su ritmi irregolari arrivando fino a dei sovracuti urlanti, lo screaming come lo definivano alcuni, che però in Sanders si fonde a uno stile che è in parte erede del sassofonismo di Coltrane. A partire dall’album Soultrane (1958), il critico Ira Gelter in un articolo su Down Beat dello stesso anno, chiama Sheets of Sound questo approccio al sassofono. Viene da stupirsi pensando a come Sanders sia un musicista in grado di essere così aggressivo e dolce allo stesso tempo mentre suona, ma in questa duplicità passano in mezzo molti stati d’animo, ci si rende conto abbastanza in fretta di quanto la sua palette espressiva sia più complessa e variegata rispetto a quella manciata di note del tema all’inizio del brano. L’effetto è seducente, ci sentiamo lentamente magnetizzati, solo dopo solo, brano dopo brano mentre veniamo accompagnati dalla direzione di queste energie in gioco. La forza è talmente trascinante anche nel solo di pianoforte per fare un esempio, in cui ascoltiamo giochi di simili intenzioni gestuale tra registri e intensità esecutiva; percepiamo quindi una coesione tipica di quei musicisti che riescono a entrare nella misteriosa dimensione dell’Interplay.

Udin&Jazz 2008 – ph Luca A.d’Agostino

Farrell Tune
Se quella sera tra il pubblico ci fosse stato un ascoltatore casuale di jazz, trascinato di peso in quell’auditorium da un amico a sentire per la prima volta un concerto di Sanders, potrebbe essersi chinato di lato durante i primi applausi per sussurrare con stupore ed entusiasmo al suo vicino di posto: “Che figata oh! Ma scusa, chi è questo Sanders?”. Farrell “Pharoah” Sanders rientra tra quei jazzisti che in quegli anni hanno vissuto storie di vita simili tra esordi e scelte intraprese, curiosamente tutti sono arrivati ad incontrarsi e a collaborare nell’ambito della cosiddetta new thing: sono nati e cresciuti in ambienti di ghetto delle grandi città o negli stati periferici dell’America, hanno scoperto l’amore per il jazz o attraverso la musica della messa afroamericana o con la band delle High School, infine hanno creato una propria formazione o hanno tentato di piazzarsi a fianco di qualche nome grosso. La città natale di Sanders è Little Rock in Arkansas, uno stato dove i locali per suonare sono divisi come in una scacchiera, quelli per i bianchi e quelli per i neri, in questi ultimi era il rhythm and blues con i suoi ritmi molto ballabili e le note piacenti a far da padrone, un genere che ha fatto da palestra negli anni giovanili di molti jazzisti dell’epoca. Questa condivisione di destini simili è forse uno dei motivi per cui tutti questi musicisti free riuscivano a entrare così fortemente in connessione gli uni con gli altri; mi riferisco a persone del calibro di Archie Shepp, Albert Ayler, Ornette Coleman, Billy Higgins, Don Cherry e Cecil Taylor… Però, volendo scavare più a fondo su chi sia Farrell Sanders dovremmo allontanarci un minimo da meri dati storiografici e rivolgerci al diretto interessato. In merito è interessante quello che emerge in una delle interviste più semplici e umane che lui abbia mai fatto, quella realizzata da Nathaniel Friedman per il New Yorker nel gennaio 2020. Le risposte di Sanders non sono prolisse, arrivano dritte al punto. Quello che emerge è una persona perfezionista nel suo esperire la musica. Nel suo periodo di grande attività con la Impulse! capitava di rifare dei take, nonostante nelle registrazioni di musica a improvvisazione libera è piuttosto raro, in quanto la direzione sonora che si stava creando non gli piaceva tanto. Scherzo beffardo però vuole che poi, andando a riascoltare quei take appena interrotti, si divorava le mani quando si accorgeva -troppo tardi – di quanto fosse bello ciò che stava succedendo. Anche ad album completato la storia non cambiava, riascoltava le sue stesse opere già pubblicate e trovava continuamente passaggi e note al loro interno dove poter redarguirsi esclamando “potevo farlo meglio”. Con Impulse! Gli capitava di dover registrare anche due o tre album all’anno, però questo non frenava il suo perfezionismo, perché esso si lega anche alla ricerca di novità: si nota infatti come in ogni album di quel periodo c’è un perenne tentativo di rinnovarsi. Non passava molto tempo prima che considerasse invecchiata un’idea musicale, a tal punto che quando alla veneranda età di 79 anni parla della ricerca di un suono che lo renda soddisfatto, ammette di non averlo ancora trovato. Arriva a confessare come in realtà non sia mai esistito un singolo album dove fosse pienamente compiaciuto del suono ottenuto. In un altro aneddoto racconta un dettaglio che ci fa capire quanto fosse esasperato questo atteggiamento nei confronti della ricerca del suono: consumava scatole e scatole di ance, le provava tutte scegliendole e buttando via quelle che non suonavano giuste. Questa ricerca ossessiva del nuovo spiega come mai la sua discografia sia stilisticamente variegata, non sopporta l’idea di doversi ripetere quando suona, non vuole mantenere quell’approccio burocratico nei confronti della musica tipico di certi suoi colleghi… Il paradosso, però, è che quando ascolta la musica di questi ultimi ne rimane affascinato dalla bellezza e si chiede cosa stiano usando per suonare così bene. Ulteriore dettaglio che ci fa capire al meglio chi è e la sua musica è certamente la sua attrazione per i paesaggi sonori, sin da piccolo gli piaceva sentire il rumore delle cose e cita alcuni esempi come il cigolio delle macchine vecchie per strada, il rumore delle onde, i treni che sfrecciano sulla ferrovia, gli aeroplani che decollano.  Questo atteggiamento lo ha portato sempre a cercare di trasformare i suoni brutti, che lo ammaliavano, in belli in qualche modo. Il tassello mancante a questa sintesi della sua umanità sta in un’altra intervista; quella del 1995 per la rete televisiva BBC, dove ci fa capire come lui suonerebbe qualsiasi cosa cercando di trasformarla in qualcosa di bello, spiegando come lui sia una persona che non ha scopi al di fuori di voler semplicemente esprimersi. Questo brano lo rappresenta al meglio, pensandoci, un semplice tema porta in stile Rhythm and Blues dove la sua ripetitività diventa invisibile in quanto non più un centro d’attrazione musicale grazie ai musicisti che improvvisano con grande libertà e tutto suona così fresco e nuovo ad ogni passaggio; un trucco apparentemente semplice, ma in realtà molto difficile da padroneggiare.

The Creator Has a Masterplan / I Want To Talk About You
The Creator Has a Masterplan è quasi certamente il brano più iconico di Pharoah, in questo live possiamo sentirlo in una versione ridotta con un taglio dell’introduzione e della prima sezione dal carattere lento e contemplativo. Comincia direttamente dalla seconda sezione, la più rapida, mantenendo quello scambio tra momenti frenetici e feroci con lo stile aggressivo di Sanders. A questo segue uno dei più classici degli standard jazz come I Want To Talk About You di Billy Eckstine. Sembra strano che questi due brani possano essere messi vicini, ma restituiscono un’immagine della sua visione musicale ed estetica di vita, ci permettono di capire quanto due persone con cui ha collaborato negli anni ’60 lo abbiano segnato e influenzato nel mestiere del musicante: Sun Ra e John Coltrane. Sanders nel 1962 arriva a New York, una metà che ha lo stesso sapore italiano del classico “vai a Milano, lì c’è tutto”. Sempre nell’intervista per il New Yorker spiega come sia arrivato nella grande mela facendo l’autostop, con un portafoglio vuoto di verdoni ma pieno di verde… speranza, cimentandosi in una vita da senzatetto pur di respirare l’ossigeno dei quartieri dove si suonava il jazz più sperimentale e spinto. Inizialmente cerca di arraffare i soldi per poter mangiare in ogni modo, addirittura donando il sangue per appena diciassette dollari, ma il flusso degli eventi lo trasporta nel luogo giusto al momento giusto. Uno dei lavori più stabili che ha avuto era il cuoco e una sera al Greenwich Village viene notato da Sun Ra che lo vorrà nella sua Arkestra, questa fu l’occasione per compiere il primo balzo da sogno americano del jazzista. Suonare nel 1964 con l’Arkestra, sicuramente una formazione così folle e rivoluzionaria come il suo capo, non poteva che ispirarlo nelle sue avventure seguenti. Ci sarebbe un sacco da scrivere su come Sun Ra abbia praticamente gettato le basi per l’estetica cosmica e meditativa del jazz che verrà di lì in poi, ma tralasciando discorsi su possessioni aliene rivelatrici di verità sull’esistenza dei terrestri e del cosmo, basti sapere un dettaglio utile a questa narrazione, Sun Ra era affascinato sin da piccolo alla cultura egizia, da quando in televisione aveva assistito al ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Proprio attraverso la cultura egizia una buona fetta degli afroamericani di quell’epoca cominciano il cosiddetto esodo di ritorno verso la Madre Africa e l’Islam. Questo ci porta a capire come mai Sun Ra rinominerà Faraone il suo amico e collega Farrell Sanders, è quindi impossibile slegare questa esperienza quando pensiamo all’immagine di Pharoah con il suo vestiario che ci fa intendere come quell’eredità dell’Arkestra sia diventata parte di lui. Il Creatore ha un piano superiore, riprendendo il concetto islamico di unicità del Tawhid e questa idea spiega come il flusso abbia guidato Pharoah fino a quel punto. Questo piano superiore però non è di certo ancora arrivato alla sua realizzazione, perché l’anno dopo la storia di Sanders si incrocia con quella di Coltrane nell’album Ascension. I due già avevano stretto amicizia quando si erano incontrati in California nel 1959. Nel ’58 Sanders si iscrive all’Oakland Junior College in California per studiare arte e musica, portando avanti la sua passione per la pittura, tuttavia non smette di suonare. Porta a termine un affarone, baratta il suo clarinetto con un sassofono d’argento che a sua volta scambierà con un vecchio modello di tenore come ha sempre voluto. In quella California, dove per suonare nessuno fa questioni sul colore della pelle, incontra John Coltrane. Il loro rapporto viene spesso condito da grandi discorsi mistici, ma sia Coltrane sia Sanders ne parlano con la semplicità di due migliori amici che raccontano l’uno dell’altro. Erano entrambi molto silenziosi, non avevano molto da dirsi, ma quando erano vicini si capivano con qualche sguardo o frase breve. Un episodio che spiega al meglio la profondità del loro rapporto sta di nuovo in quel perfezionismo a volte assillante di Sanders, chiedeva spesso durante le sessioni se il suo suono andasse bene, se le sue note erano giuste o cozzassero, ma Coltrane non rispondeva quasi mai. A furia di insistere però un giorno Coltrane esordì con un semplice “Sì va bene così, tu continua a soffiare”. Poche parole, a dimostrazione di quanto John conoscesse bene l’indole di Sanders. Nelle note di copertina dell’album Live At Village Vanguard Again, leggiamo invece un discorso più lungo – ripreso da Nat Hentoff – di Trane che recita: «Pharoah è un uomo di grandi risorse spirituali. È sempre alla ricerca della verità. Cerca di permettere al suo spirito di guidare le sue azioni. È un uomo che ha, oltre al resto, energia, onestà mentale e che va dritto all’essenza delle cose. Mi piace moltissimo la forza con cui suona. Inoltre, è uno degli innovatori e io mi considero fortunato per il fatto che si sia dimostrato disposto ad aiutarmi, a far parte del nostro gruppo». Hanno due personalità simili nella vita, ma si colmano nelle loro differenze, questo punto sfugge spesso quando si parla erroneamente di come e cosa Sanders abbia ereditato del sassofonismo di Coltrane. La verità è che le loro sonorità sono complementari ed è per questo che assieme suonavano così bene, si inseriscono in un rapporto dialettico, infatti, Sanders è tra i pochi musicisti che sono rimasti fissi nel quintetto di Trane fino alla morte nel ‘67. Tutto questo discorso ci fa capire come in fondo non c’è nulla di così mistico nel rapporto tra loro due, è vero che erano delle persone profondamente spirituali ma ciò non vuol dire che fossero dei santoni invasati di parole ispiratrici e religiose come spesso li si dipinge. Da un lato Coltrane arrivava a chiudersi in camera e disegnare linee nel circolo delle quinte o creare scale usando sequenze numeriche matematiche, mentre Sanders aveva un poderoso istinto a guidarlo quando imboccava l’ancia, tuttavia, dopo ore e ore a fare improvvisazioni libere, come racconta lo stesso Sanders, i due si concedevano di divertirsi suonando qualche standard e alcune ballad. In tal senso, a mio parere, un pezzo come I Want to Talk About You, ci rivela molto sull’influenza di Coltrane su Sanders, più di quanto non lo facciano album come Tauhid, Karma, Summun Bukmun Umyun, Jewels of Thought o andando più in là negli anni, Elevation.

Love is Everywhere

Pharoah Sanders – Udin&Jazz 2008 – ph Luca A. d’Agostino

L’ultimo brano riporta alla memoria una frase che disse un altro dei suoi amici con cui collaborò per anni, il pianista Lonnie Liston Smith, che in un’intervista con Chris Parkin racconta cosa significasse suonare con Sanders: «Sembrava che cantasse più note contemporaneamente e proprio in quel periodo stavo cercando di tirar fuori nuove potenzialità dal mio pianoforte a coda, suonando con l’avambraccio per ottenere un suono più potente. Ho chiesto a Pharoah: “Come fai ad avere questo suono?” Lui mi ha risposto; “Ma anche tu suoni come se avessi più di dieci dita!”. A lui piaceva spingersi sempre oltre il limite». Questo discorso di spingersi oltre il limite mi ha sempre ispirato e fa riflettere su quello che è il discorso che voglio portare in chiusura di quest’album. È innegabile e stupefacente come in dieci anni e una dozzina di album Pharoah Sanders sia diventato un musicista completo già a metà degli anni ’70. Quel bisogno di ricercare la verità e rinnovarsi non gli permettono di frenarsi, non è sufficiente ciò che ha già fatto e la sua spinta creatrice lo porta in più direzioni negli anni a venire. Per un periodo, sul finire degli anni ’70, torna indietro nella musica, abbandonando l’estetica spirituale, riabbracciando musiche più vicine alla tradizione blues come l’Hard Bop o riesplorando il Modal stile West Coast. Arriva nel 1994 a viaggiare in Marocco dove conoscerà la musica Gnawa e registrerà The Trance of Seven Colors con Mahmoud Guinia. Sanders cambia spesso etichetta nel corso della sua carriera, incidendo per dieci etichette diverse, suonando con ogni musicista di ogni estrazione in virtù di quel processo di trasformazione di cui abbiamo parlato. Non si può non restare affascinati da una spinta propulsiva alla creazione come la sua, talmente potente che nel 2021 ritorna in studio dopo lungo tempo registrando Promises, un album con il producer britannico Floating Points e la London Shymphony Orchestra. Il suo sassofono ha ormai raggiunto gli ottant’anni suonati, ascoltandolo riconosciamo subito il suo stile; eppure, ci appare un’altra volta come qualcosa di nuovo mentre veniamo trasportati nel suo mondo con quei nove movimenti attorno allo stesso motivo, racchiudendo forse il migliore album del jazz del ventunesimo secolo. Mi piace pensare che alla fine della sua vita sia riuscito a trovare almeno in quell’album quella sonorità perfetta, senza macchie, quella che con certezza può affermare che gli piace, senza rimuginarci sopra, quella che, in sintesi, ha sempre voluto trovare, ma quanta ironia se pensiamo come un anno prima in quella intervista con Friedman dice di non aver ancora trovato! Questo “ancora” è carico di significato ora che ci ripenso. Il suo voler superare certi limiti e andare oltre è d’obbligo per compiere un viaggio musicale come il suo, si potrebbe pensare che questi continui cambiamenti, che di lustro in lustro ha fatto, derivino da una forza di spirito, ma questa voglia di superare i limiti da sola non basta a spiegare la sua anima. Orientarci alla ricerca di essa facendo una lista di questi cambiamenti nella sua vita ci porta verso l’infinito, fino a diventare un oceano dove, da qualunque parte indichi la bussola, navigheremmo senza ritrovare più la terra ferma. Bisogna prendere fiato, fare il punto e trarre una conclusione prima di disorientarsi. Love is Everywhere mi ha permesso proprio di fare questo: gettare l’ancora in una destinazione precisa. Questo pezzo ha all’interno un chant (caratteristica che manterrà in molti suoi brani, specie dalla collaborazione con il cantante Leon Thomas in poi) e invita il pubblico a recitare con lui questo canto, come in una messa. Questo rituale ci permette di trascendere dal sentiero che abbiamo percorso ascoltando l’album. Vediamo finalmente il poliedro nella sua nuova forma e abbiamo scavato abbastanza da trovarne il nucleo? Forse sì! L’anima che guida questa voglia di sfondare muri e superarsi sta in un dettaglio solo apparentemente trascurabile, rileggendo la sua discografia e soffermandoci sui titoli di alcuni brani possiamo notarlo abbastanza in fretta. Love is Here, Love is Everywhere, o brani con titoli omonimi all’album come Love in Us All (1974), Love will find a way (1977), Welcome to Love (1991), Crescent with Love (1994)… in cui l’amore viene suonato come qualcosa di energico e movimentato dandoci una visione allegra e positiva del sentimento o, al massimo, dove manca l’elemento del ritmo incalzante c’è quello contemplativo; in netto contrasto con il dolore e il lamento perpetuo che troviamo nel resto del mondo jazz, catapultandoci in una dimensione più drammatica, melensa, nostalgica, enigmatica e ignota: What is this thing called love, You don’t know what love is, In a Sentimental Mood, There will never be another you e tanti altri. La domanda iniziale dell’articolo trova risposta, ecco che il nucleo si disvela davanti ai nostri occhi: ciò che Sanders ci ha lasciato è amore, che si esprime da noi stessi verso tutte le cose che ci circondano e da esse fa ritorno a noi. Oserei dire che avendo superato certi limiti sia addirittura un amore ancora più supremo di quello che Coltrane cantava nel 1960 in A Love Supreme. Quanto meno, questa è la forma dello spirito che ho visto io esplorando il mondo di Farrell Pharoah Sanders.

Alessandro Fadalti

I nostri libri

Angela Davis – “Blues e femminismo nero” – Alegre – pgg. 320 – € 20,00

Quando si parla di Angela Davis il pensiero corre immediatamente all’attivista afro-americana che, nei decenni scorsi, fu protagonista di tante battaglie per l’emancipazione della gente di colore. Attività che si svolse anche attraverso importanti contributi letterari tra cui “Blues Legacies and Black Feminism” pubblicato nel 1998 e che adesso possiamo leggere in italiano grazie all’ottima traduzione di Mari Moise e Angelica Pesarini.
Della storia del blues si occupa compiutamente Ted Gioia nel volume che analizziamo qui di seguito. Questo volume analizza viceversa un aspetto particolare ma molto, molto importante del blues: il ruolo di tre vocalist – Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, appartenenti a tre generazioni diverse – nell’interpretare questo genere, sostanziandolo di contenuti che avrebbero influenzato lo sviluppo sociale nel suo insieme. Stiamo, infatti, parlando di un tema ancora oggi di attualità come l’emancipazione delle donne e l’importanza del loro ruolo.
Angela Davis, con la sua prosa partecipativa, analizza i testi dei brani interpretati dalle tre blueswoman e le loro performances, ricavandone tracce di tradizioni culturali risalenti al passato schiavista. Di qui un quadro esauriente di quali fossero le condizioni in cui le citate vocalist si sono trovate ad operare, un ambiente in cui era molto molto difficile contestare gli assunti patriarcali sul ruolo delle donne specie per quanto concerneva la sessualità. Per non parlare della marginalità che avevano gli artisti di colore nella nascente industria discografica. Ebbene queste tre artiste rivoluzionarono letteralmente l’industria discografica di massa assegnando un ruolo ben preciso e importante alle donne in genere, a quelle di colore in particolare. E si badi bene, si parla di musica, ma l’azione ‘rivoluzionaria’ qui accennata spinse i suoi orizzonti ben al di là del jazz degli anni Venti in quanto vi possiamo trovare i prodromi di quel femminismo che, come si accennava in apertura, avrebbe posto in primo piano il problema dell’emancipazione femminile, indipendentemente dal colore della pelle. Come a dire che sarebbe errato consegnare il monopolio della lotta femminista alle sole donne bianche della middle class, anche se “attribuire una coscienza femminista per come la definiamo oggi a Ma Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday sarebbe insensato e poco interessante”. A dirlo è la stessa Angela Davis nell’introduzione al suo libro, affermando subito dopo: “Ciò che è più interessante e provocatorio della produzione artistica che ognuna di queste donne ha lasciato è il modo in cui dalla loro musica emergono – attraverso delle crepe all’interno dei discorsi patriarcali – tracce di un’indole femminista”.
E crediamo che questa sia una chiave di lettura assai utile per chi voglia intraprendere un viaggio nel tempo attraverso le parole di Angela Davis.

Amedeo Furfaro – “100 dischi di jazz italiano” – The Writer – pgg. 128 – € 12,00

Si succedono le fatiche editoriali del nostro collaboratore Amedeo Furfaro dedicate prevalentemente alla discografia. Quest’ultimo volume si pone come occasione di riflessione sulla produzione discografica compresa fra 2020 e inizio 2022, un periodo quindi particolarmente delicato e non solo per il jazz e i suoi musicisti.
Ecco quindi una selezione di album, successiva ai cinque tomi de “Il giro del jazz italiano in ottanta dischi”, in cui l’Autore ha messo assieme materiali sparsi per rappresentare il jazz italiano su disco in era pandemica. Un jazz, quello italiano, le cui quotazioni sono in netto rialzo anche a livello discografico grazie ai grandi maestri, alla “generazione di mezzo” e alle nuove leve che hanno saputo coniugare preparazione tecnica e originalità dei progetti attuati.
In effetti i musicisti italiani di jazz, pure in un momento di difficoltà operativa e di graduale ripresa dei rapporti col pubblico, non hanno rinunciato al proprio ruolo ritrovando proprio nei lavori discografici momenti di rivalsa verso le difficoltà   esterne. Certo, non tutte le produzioni discografiche del periodo assurgono ad un eccellente livello, ma in linea di massima siamo su standard qualitativi più che accettabili.
Il merito è sicuramente ascrivibile ai musicisti…ma non solo ché rilevante è stato anche il contributo di altre componenti quali le label che hanno acquisito una levatura professionale che le proietta sempre più spesso sul mercato internazionale e gli staff che in varie fasi hanno concorso a confezionare il prodotto discografico. Monitorando il jazz nazionale di inizio millennio l’Autore ha individuato alcune macro-tendenze, da quelle più attente alla tradizione afroamericana a quelle più radicali, da quelle affondate nell’humus del territorio alle più contaminate stilisticamente.
Dal turn over emerso si sono evidenziati interessanti talenti ma è un po’ tutto il  “sistema” jazzistico italiano che si va riconfigurando, a  partire da festival e rassegne che sono poi il campo in cui le idee si confrontano e ricevono il riscontro della critica e del pubblico. Quel pubblico che è anche acquirente di dischi in cui cerca di riassaporare il gusto di un live, di un contatto ravvicinato con i propri beniamini. Il saggio è impreziosito dall’inserto fotografico curato da Maria Gabriella Sartini.

Ted Gioia – “Delta Blues” – EDT, Siena Jazz – pgg. 460 – € 26,00

Prima di addentrarmi nelle valutazioni su quest’altro importante volume di Ted Gioia, vorrei premettere alcune considerazioni che mi sembrano importanti.
Innanzitutto devo confessare che pur amando il blues non ne sono un esperto per cui il volume in oggetto è stato come una sorta di manna avendomi fornita una messe enorme di informazioni che non possedevo.
In secondo luogo è straordinario il modo in cui Gioia è riuscito ad includere in questo volume quella messe enorme di informazioni cui prima facevo riferimento: tenete presente che il sottoscritto è da due anni che cerca di completare la biografia di un grande pianista ancora in esercizio, senza riuscirvi proprio per la difficoltà di trovare e sistematizzare dati biografici.
A questo punto vi sarete già fatta un’idea di quanto potrete trovare in “Delta Blues” ma vi assicuro che l’integrale lettura del libro sarà di gran lunga superiore alle vostre più rosee aspettative.
In effetti Gioia, nel tracciare la storia del Blues partendo da quegli artisti provenienti dalle zone poverissime del Delta del Mississippi a partire dai primi anni Venti del secolo scorso, in realtà ci racconta la storia di un genere musicale che ha avuto una influenza determinante sulla musica degli anni a venire. Ecco quindi i primi straordinari personaggi come Charley Patton, Son House, Skip James e Robert Johnson che hanno lasciato i primi semi fatti poi germogliare da artisti di caratura internazionale che hanno portato il blues al successo mondiale, da Muddy Waters a Howlin’ Wolf, da John Lee Hooker a B. B. King, fino al blues revival degli anni Sessanta, il tutto senza trascurare la scena contemporanea del Delta fino agli anni Duemila.
Insomma Ted Gioia, dopo aver tracciato un quadro esauriente di cosa fosse la regione del Delta agli inizi del secolo scorso, con una agricoltura ridotta ai minimi termini per la concorrenza del cotone proveniente dall’Asia e senza speranza di sviluppo data anche la mancanza di rilevanti fermenti culturali, ci fa capire passo dopo passo come proprio in questa poverissima regione siano da ricercare le radici della musica nera, fosse la stessa chiamata jazz, funky o rock’n’roll.
Ancora una volta, comunque, almeno a mio avviso, il volume di Gioia si caratterizza oltre che per la competenza (ma su questo non credo ci sia bisogno di aggiungere altro) anche – e forse soprattutto – per lo stile di scrittura, uno stile assolutamente piano ma non banale, comprensibile a tutti, in cui le vite e le azioni dei vari artisti si inseriscono a perfezione nelle trame di un racconto tanto appassionante quanto di straordinaria vivacità. Ci sembra quasi di vedere con i nostri occhi il contesto socio-economico in cui si svolge la vicenda, le piantagioni in cui i primi bluesmen operavano, le prigioni in cui molti di essi trascorsero del tempo, i locali in cui accorreva una massa di povera gente per ascoltare i loro eroi. E in questo racconto trovano il loro posto anche le altre figure che hanno contribuito all’affermazione del blues: i produttori, i discografici, i ricercatori grazie ai quali si devono importanti scoperte, i musicologi che hanno cercato di interpretare i più reconditi anfratti di questa musica. E a questo punto è doverosa una precisazione: se lo stile di Gioia risulta tanto potente anche nella nostra lingua lo si deve all’ottima traduzione operata da Francesco Martinelli non nuovo ad operazioni del genere, e in questo caso “responsabile” anche di un prezioso glossario, pubblicato alla fine del volume, in cui si spiegano molti termini che ai più potrebbero risultare assolutamente incomprensibili.
Il volume è arricchito, infine, da un indice analitico sempre opportuno, una discografia selezionata (i 100 ascolti imprescindibili) e una ricca bibliografia, in cui gli appassionati troveranno pane per i loro denti.

Leonardo Lodato – “Cielo, la mia musica!” – Domenico Sanfilippo Editore e Compagnia Nuove Indye – pgg. 145 – € 20,00

Dal Mississippi alla Sicilia: il salto è notevole ma non privo di qualche suggestione. A condurci per mano in questo immaginario viaggio attraverso una delle isole più belle del mondo, è Leonardo Lodato,  giornalista e saggista ovviamente siciliano, capo servizio Cultura e Spettacolo del quotidiano “La Sicilia” di Catania, che oramai da tempo dedica la sua attenzione al mondo musicale nelle sue più svariate accezioni.
La genesi del libro, giunto alla seconda edizione, è spiegata assai bene dallo stesso Lodato nel corso di un’intervista: “guardavo il cielo stellato e ascoltavo la mia musica preferita. E’ nato un gioco. Ogni stella veniva associata ad un artista o ad una canzone che avesse a che fare con il cielo, con la luce, con i colori. All’improvviso mi è venuto un flash e ho pensato: ma perché non costruire una piccola costellazione di artisti siciliani? E questo è il risultato”.
In particolare, l’autore è partito da una serie di domande davvero originali che tendono a coniugare il cielo con la musica (da cui il titolo): quanto influiscono la luce del sole, il suo calore, nell’essere siciliani? E tutto ciò quanto in particolare se si è musicisti? E il cielo, soprattutto, come lo vede chi suona, chi canta, chi compone? Insomma come influiscono sulla musica due delle principali caratteristiche del mondo siculo quali il calore del sole e la bellezza del cielo? Per offrire esaurienti risposte a tali interrogativi Lodato ha intervistato dodici musicisti, fortemente legati all’Isola, che citiamo uno per uno: Bob Salmieri (Milagro Acustico e Erodoto Project), Andrea Cantieri, Caterina Anastasi (Babil On Suite), Compagnia d’Encelado Superbo, Giuseppina Torre, Lello Analfino, Marian Trapassi, Mario Venuti, Paolo Buonvino, Pupi di Surfaro, Roberta Finocchiaro e Rosalba Bentivoglio.
Questi artisti, appartenenti a diversi generi musicali (tra cui ovviamente anche il jazz) hanno risposto cercando di offrire una propria personalissima visione di quale può essere per un artista il rapporto con gli elementi naturali che ci accompagnano giorno dopo giorno. Di qui interviste che si distanziano dal classico cliché per rappresentarci non tanto e non solo l’artista quanto l’uomo, la donna che vivono compiutamente la propria vita ponendosi interrogativi non banali. Ecco quindi, ad esempio, la vocalist jazz Rosalba Bentivoglio che afferma:” Questo è il cielo che sogna la terra e mi domando: è il cielo di tutti o solo il mio a darmi questa vertigine e farmi presentire l’essere mortale? Il mondo materiale che appare così solido alla percezione dei nostri cinque sensi è un universo di energia in movimento. Il macrocosmo ripete se stesso nell’uomo e il microcosmo è a sua volta riflesso in tutti gli atomi minori”. Alla successiva domanda di Lodato se esiste un altrove dove cercare Dio, la Bentivoglio risponde semplicemente “Questo, forse, taumaturgicamente, è la ricerca di Dio”.
Questa nuova edizione di “Cielo, la mia musica” è arricchita da una playlist, ascoltabile su Spotify, con i brani scelti dall’autore per raccontare il cammino che ha portato alla stesura del libro, mentre la prefazione è firmata dal tastierista dei Rockets, Fabrice Quagliotti.

Gerlando Gatto