Musica senza barriere: esce “Blu” del professore d’orchestra e multistrumentista Igor Caiazza

Sabato 15 maggio esce con Abeat Records “Blu”, l’album di Igor Caiazza, illustre professore d’orchestra che ha collaborato in Europa con i più grandi direttori come Muti, Abbado, Boulez, Maazel, Barenboim e Dudamel, e con compagini importanti come l’Orchestre de l’Opéra National de Paris, Orchestra e Filarmonica del Teatro Alla Scala, Orchestre National De France, Wiener Symphoniker, Philhamonia Orchestra di Londra, Mahler Chamber Orchestra.

Compositore e arrangiatore, percussionista classico e jazzista, Igor Caiazza ha scritto questo album con un grande desiderio di libertà rispetto ai rigidi canoni delle classificazioni tra i generi musicali. E, da un’aulica perfezione insita nell’essere musicista classico, è scaturita una ricerca gioiosa di un sound aperto, teso alla comunione tra i diversi stili e alla condivisione con l’ascoltatore.
Per colmare quel distacco emotivo che soprattutto i generi più colti e di nicchia impongono tra musicista e pubblico, Caiazza ha fortemente voluto accanto a sé grandi esponenti del jazz italiano, tra cui il trombettista Fabrizio Bosso e il sassofonista Javier Girotto: raffinati interpreti che sanno parlare direttamente all’anima di chi li ascolta. Le 8 composizioni presenti in “Blu” – disponibile in streaming e nei digital store al link https://backl.ink/146071115 – hanno indubbiamente una struttura jazzistica, contengono improvvisazioni e sono interpretate da jazzisti, ma l’aspetto è quello della canzone, di una musica più popolare, influenzata altresì dalla classica e da tutti i generi che accompagnano la vita di Igor Caiazza.

La carriera sinfonica di altissimo livello e le molteplici collaborazioni con grandi artisti come Bobby McFerrin, Placido Domingo, Lang Lang, Stefano Bollani, Mika, Zucchero, Elio, Andrea Bocelli, hanno influenzato il suo approccio alla musica.
Nel suo ensemble – completato dagli eccellenti Giacomo Riggi (Harpejjj), Gabriele Evangelista (contrabbasso), Amedeo Ariano (batteria), Carlo Fimiani (chitarra), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violino), Valentina Del Re (violino), Livia de Romanis (violoncello) – ha voluto riportare la concezione orchestrale della collettività, dove la performance individuale è utile soltanto in funzione dell’insieme. Così, dominando l’impulso di protagonismo, la musica diventa il reale centro dell’attenzione.
“Sono un percussionista, e quindi multistrumentista per definizione. Mi sento a disagio se etichettato o associato a uno strumento musicale in particolare – un vibrafono, una marimba, una batteria – cerco piuttosto di condividere la musica e le mie composizioni a prescindere dal
mezzo, e anzi se possibile preferisco utilizzare ogni volta uno strumento diverso.”

Dopo le esperienze discografiche in ambito orchestrale con Decca, Sony, Deutsche Grammophone e RAI arriva l’album “Blu” e dunque il sodalizio con una delle etichette di spicco del panorama jazz: Abeat Records.
“Il più freddo dei tre colori primari, il Blu domina il senso dell’udito, è il simbolo dello spazio, dell’armonia e dell’equilibrio. Rappresenta il mare, il cielo, il ghiaccio, è il colore della grande profondità e spinge all’introspezione, alla sensibilità, alla calma.”

Fabrizio Bosso: trumpet
Javier Girotto: soprano sax
Igor Caiazza: vibraphone
Giacomo Riggi: harpejji, melodica, e.piano
Gabriele Evangelista: double-bass
Amedeo Ariano: drums
Featuring Carlo Fimiani (guitar), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violin), Valentina Del Re (violin), Livia de Romanis (cello)

Recorded at LoaDistrict Studio, Roma Sound Engineer: Andrea Cutillo
Mixing: Andrea Cutillo at Auditorium Novecento, Napoli Mastering: Bob Fix

CONTATTI
www.igorcaiazza.com
Ufficio Stampa (Italy): Fiorenza Gherardi De Candei – www.fiorenzagherardi.com
email: info@fiorenzagherardi.com – tel. +39.328.1743236
Label: http://www.abeatrecords.com/catdetail.asp?IDprod=354

Claudio Filippini presenta la masterclass online “Il pianoforte come un’orchestra” nell’ambito di Celano Jazz Convention

Sabato 15 maggio 2021, dalle ore 16 alle 19, Celano Jazz Convention presenta “Il pianoforte come un’orchestra”, una masterclass online condotta da Claudio Filippini.

La masterclass si svolgerà sulla piattaforma Zoom: la partecipazione costa 20€ e per iscriversi occorre prenotarsi con una mail all’indirizzo conferenze@celanojazzconvention.com con oggetto, obbligatorio, ”Prenotazione Seminario” e utilizzando un indirizzo mail valido, al quale poi sarà inviato il link di partecipazione al seminario.

Attraverso collaborazioni importanti, una discografia ricca e sfaccettata, una visione musicale capace di unire rispetto per la tradizione del jazz e dimensione acustica ed orchestrale del pianoforte con le sonorità elettriche e con l’attenzione ad altri linguaggi musicali, Claudio Filippini ha sviluppato, nel corso degli anni, un percorso musicale personale, ormai maturo e sempre capace di sorprendere l’ascoltatore con connessioni trasversali e con un’estrema capacità di sintesi.

Nato nel 1982, Claudio Filippini coltiva la passione per la musica sin da bambino quando all’età di 7 anni intraprende lo studio del pianoforte. A soli 11 anni si iscrive al corso di pianoforte jazz dell’Accademia Musicale Pescarese dove ha l’occasione di studiare prima con Angelo Canelli e in seguito con Marco Di Battista, terminando il suo corso quinquennale di studi diplomandosi con il massimo dei voti e la lode.

Dal 1997 segue corsi di perfezionamento sotto la guida di Kenny Barron, George Cables, Jimmy Owens, Cameron Brown, Steve LaSpina, Garrison Fewell, Giulio Capiozzo, Bobby Durham, Pete Bernstein, Keter Betts, Shown Monteiro, Enrico Pieranunzi, Stefano Battaglia, Franco D’Andrea, Otmaro Ruiz e Stefano Bollani. Nel 2004 consegue brillantemente il diploma di pianoforte presso il conservatorio “G.B. Pergolesi” di Fermo.

Sono numerosissimi i premi e le borse di studio vinte da Filippini, a partire dal primo premio assoluto al concorso Kamerton di Pescara per due anni consecutivi. Vince, poi, il terzo premio al “Baronissi Jazz” nel 2001, aggiudicandosi il primo posto l’anno successivo. È vincitore di diverse borse di studio al “Pescara Jazz”, a Siena e a Roma.

Sia con i progetti a suo nome che con prestigiose collaborazioni, ha suonato nei festival e nei club più importanti del panorama italiano ed internazionale. Ha condiviso il palco ed ha registrato con musicisti come, tra gli altri, Luca Bulgarelli, Marcello Di Leonardo, Max Ionata, Fabrizio Bosso, Palle Danielsson, Olavi Louhivuori, Maria Pia De Vito, Fulvio Sigurtà, Giovanni Guidi, Mirko Signorile, Stefano Di Battista, Roberto Gatto, Ares Tavolazzi, Rosario Giuliani, Aldo Romano e Mario Biondi.

Il percorso didattico online di Celano Jazz Convention, tracciato dal direttore artistico della rassegna Franco Finucci, prosegue nelle prossime settimane con i seminari condotti da alcuni tra i musicisti più importanti del panorama jazzistico italiano. Dopo gli appuntamenti dedicati alla voce (condotto da Ada Montellanico, sabato 24 aprile), alla batteria (tenuto da Roberto Gatto, sabato 8 maggio) e al pianoforte (questo con Claudio Filippini, in programma sabato 15 maggio), i prossimi incontri saranno tenuti dal chitarrista Umberto Fiorentino (sabato 22 maggio) e dal sassofonista Tino Tracanna (sabato 29 maggio).

Il Jazz, una musica che ha i numeri

Stefano Bollani – “El Chakracanta” –
Se allo Steinway e Sons siede Stefano Bollani ed al suo cospetto sta un’orchestra “tipica” come la Sin Fin diretta da Exequeil Mantega, non si sa se aspettarsi un’atmosfera più jazz o più classica avendo ben nota la versatilità del musicista a destreggiarsi in più ambiti e “ambienti”. Se si guarda al “Concerto Azzurro” che impegna e impregna una buona mezzora dell’album Alobar “El Chakracanta, Live in Buenos Aires”, commissionatogli da Kristjan Järvi e dalla MDR – Leipzig Radio Symphony di Lipsia, se ne constata la struttura classica di base in tempi allegro, adagio ed allegro molto. Una suddivisione che peraltro lascia ampio spazio alla libertà ed all’improvvisazione dell’interprete-compositore Bollani nello schema orchestrale disegnato da Paolo Silvestri. La risposta data dall’ascolto ha due facce che diventano una poiché sin dalle prime note se ne evidenzia l’impasto ibrido che coniuga latin tinge e mood nordamericano, emisferi coesi da una tastiera cosparsa di riflessi timbrici di quel nuovo mondo che incuriosí Debussy, Poulenc, Ravel…misti a spirito contemporaneo. L’azzurro è il colore del quinto chakra, della gola, ed è quello, come osserva lo stesso pianista in un web/video del Centro Culturale Kirchner di Baires “che sovraintende alla espressione”. Per farlo “star bene” è utile che si dica quello che si ha da dire e si esprima ciò che si vuole esprimere in un dato momento della vita. Ed il jazzista, in questa particolare fase della propria carriera artistica, sta denudando sempre più un’anima spanish che va ad infonderne sia la vis compositiva che la pratica esecutiva. Lavoro di ampio respiro melodico è quindi “Concerto Verde” dove il pigmento bollaniano, intinto nel quarto Chakra del Cuore e dell’Amore, si cimenta in un saliscendi di sincopi e contrattempi di tanghi e milonghe collocate in quel suolo in cui il pianista ha esportato, oltre ad un certo estro mozartiano, una valigia zeppa di suoni ed armonie. Il disco è completato da due brani arrangiati ed orchestrati da Diego Schissi, il piazzolliano “Libertango”, doveroso omaggio all’ideatore del Nuevo Tango e “Don Agustín Bardi”, di Horacio Salgán, che la performance con l’orchestra trasforma in rito collettivo di tributo ad un altro grande musicista argentino.

Francesco Chiapperini – “On The Bare Rocks and Glaciers” – Caligola Records.
Ogni montagna è, a modo suo, incantata. Sarà la maestosità, sarà il senso di infinito che ispira il contemplarla, sarà la magia che la ricopre… la montagna ha dei suoni; ed ha degli echi, oltre quelli naturali, che le provengono dal passato, dalla storia che ne ha attraversato rocce, valichi, passi, sentieri, versanti, ghiacciai… Il clarinettista Francesco Chiapperini ha inteso dedicare l’album “On The Bare Rocks and Glaciers” (Caligola Records) al mondo alpino riprendendo il titolo del lavoro dalla “Preghiera degli Alpini” di Giovanni Veneri recitata in chiusura dall’ospite Maurizio Arena. Con un sestetto di taglio cameristico, formato da un “coro” di fiati (Vito Emanuele Galante, tromba; Mario Mariotti, cornet; Roger Roota, bassoon, Andrea Ferrari, sax baritono) e un violino (Virginia Sutera) ha inteso ricreare una particolare coralità che consentisse la rappresentazione musicale di un ambiente che è stato testimone di vicende umane, anche quelle più tragiche come la guerra. La sensazione che si avverte nelle diciotto tracce, tutte in tema, alcune tradizionali altre di autori come Steve Swallow (“The Green Mountains”), Pergolesi (“Stabat Mater”), Grieg (“I Dovregubbens Hall”) oltre che di Chiapperini, Bregani, Malatesta, De Marzi, è di una pervadente wilderness tutta spirituale. L’ incontaminata “altezza” è “scalata” da note musicali che quasi paiono arrampicarsi in cordata per trasmetterci l’ebbrezza dell’altitudine. Un’impressione che viene interrotta a volte da valanghe di suoni per poi rientrare nell’atmosfera composta di un sempre millenario, fra i deserti d’alta quota di una montagna bella impossibile.

Luca DalPozzo Quintet – “Rust” – Nusica.org
Luca DalPozzo, contrabbassista leader del 5et che annovera Frank Martino alla chitarra, Manuel Caliumi all’alto sax, Giulio Stermieri al piano e Marco Frattini alla batteria, ha concepito l’album “Rust” dopo essere rimasto folgorato, durante una visita in una mostra bolognese nel 2018, dalle opere di Hiroshige e di Hokusai. La pittura di quest’ultimo, in particolare, ispirata a “immagini del mondo fluttuante” nel Giappone di inizio ottocento, consta di vedute dall’alto, contorni dettagliati, ed è antesignana di prospettiva. Dal canto suo, l’incisore Hiroshige, suo contemporaneo, fu un grande “paesaggista” il cui tratto figurativo venne apprezzato dagli stessi impressionisti in Europa. Si intende allora l’input di questo disco il cui titolo lo si può riferire al noto videogioco od all’omologo linguaggio di programmazione, certamente Rust non starà per ruggine a volerne seguire la traduzione letterale. All’origine vi sono due figure simbolo del movimento “Ukiyo-E” a cui è dedicato l’incipit fra le sette tracce del cd. E già lì la musica del 5et appare di ondulata viralità ed eclissante circolarità nell’iniettarsi lo spirito di quell’antica arte nipponica ed applicarla al contemporary. Che diventa fusion in “Alamar” per rientrare, dopo la soffusa “Day a Dream”, al guscio di suggestioni dettate da Ligeti in “Gyorgy Cluster Dance”: grappoli di acciaccature a sovraintendere le iterazioni in chiave di basso e di violino verso un effetto d’insieme scioccante e talora stralunante. Ancora. “Swirl” è caratterizzata da un tempo increspato, indistinto, fuzzy, con progressioni armoniche libere un pò alla Ornette Coleman. “Upward Drop” è un brano pregno di riverberazioni e riflessi siamo cioè ancora nel grembo di una musica in qualche modo “di rappresentazione”. Carattere che il conclusivo “Blues for Larry (going ballistic)” non fa che confermare per capacità traslativa di idee in note musicali.

Francesco Maccianti – “Attese” – Abeat
La solitudine dei numeri primi ha nell’uno, nell’unità, una dimensione tutta sua. Può essere isolamento misantropico, autoesilio individualistico, autoconfinamento ma può significare ritiro spirituale, (ri)pensamento solipsistico, monologo interiore. Che tale non è più nel momento in cui ci si esteriorizza per il tramite, ad esempio, della musica.
Cosa che fa il pianista-compositore Francesco Maccianti con l’album per piano solo “Attese. Live at Lyceum Club Internazionale di Firenze”, pubblicato da Abeat. Questi, dopo aver immesso una sorta di microspia che ne registra la “confessione” live, si espone al pubblico apprezzamento di una platea potenzialmente più vasta, gli ascoltatori del cd, rispetto agli spettatori della sala concerti toscana che nel disco applaude vivamente. La qual cosa, specie in un momento di fermo dei concerti, a dir poco scuote in senso positivo. Già perché cosí anche il suono “da remoto” che offre il cd, specie se ripetuto, anche se monco dell’impressione d’ambleu che è quella che in genere può folgorare, o lasciar di sasso, ma non è questo il caso, consente di capire. Carpire, captare le nicchie più riposte di una musica pianistica fatta di ridondanze (‘Cubic Dance’) ed echi (‘Falling Up’), di modi razionali (‘Attese’) e fragori improvvisi (‘Hombres’), immersioni catartiche (‘Solstizio’) e ridondanze (‘Palomar’), di profondità armoniche (‘Requiem’) e di ricami/richiami a musica altrui (‘Exactly Like You’ di Jimmy Mc Hugh) che, per fluidità di discorso melodico e improvvisativo, pare essere sua. A riprova di come, anche per i numeri primi, nella musica e nel jazz non si può in genere parlare di solitudine.

Painting Jazz Duo – “Classica” – Dodicilune
Partiamo da Dvoràk, dalla sua Sinfonia n. 9 Dal Nuovo Mondo, dalla scoperta che il compositore boemo fece negli U.S.A. della musica popolare dei neri e dei nativi d’America.È un summit con la musica europea cosiddetta “colta” a far da epilogo all’album “Classica” del Painting Jazz Duo e cioè Emanuele Passerini ai sax e Galag Massimiliano Belloni al pianoforte, con il tema principale collocato alla fine a far da suggello simbolico. La formazione è abituata a promuovere incontri fra civiltà musicali ed a coniugare pagine autoriali classiche con altre jazzistiche e qui punta a rilevare e rivelare i legami fra musiche del nuovo mondo e del vecchio continente, quelle il cui sviluppo, secondo una miope visione storica, era sembrato potesse procedere autonomamente, a prescindere da quanto stava avvenendo di là dall’Oceano. Ecco allora spiegato l’inglobare nel cd di “Le Solitaire” di Erik Satie, in un approccio che sposa impressionismo postromantico e jazz ma vi trova spazio anche l’esuberanza realista del Mahler nel ” Titano ” (Sinfonia n. 1). C’è ancora un trittico di autori russi, Borodin, Shostakovich e Tchaikovsky, alcune pagine dei quali vengono di fatto messe a confronto con “Mareblu”, “Nordic Sun”, “Valentina”, “City Life” scritte da Passerini. Come dire la storia della musica e la sua attualità vanno a braccetto, tenute insieme da una medesima idea ispirativa legata all’istantaneità del momento vissuta dalla coppia di musicisti. Il due, non a caso, è da associarsi all’istintualità, ingrediente utile anche per rivisitare degli “standards classici”.

Stefano Tamborrino – “Seacup” – Tūk Musik
“Seacup” titolo dell’album di Stefano Tamborrino della Tūk, sta per “tazza di acqua marina”, una formula dell’acqua in cui le note non sono sciami “che si radunano e si disperdono a seconda dell’occasione” (Bauman). La “liquidità” della musica che vi viene raccolta è semmai parte di un mare interiore “informe e multiforme” (Jankélévitch) e nel contempo modulato e modulare, suscettibile di continue variazioni di armonie, timbri, colori, toni. E ritmi. Già perché il musicista toscano, prima di essere compositore, è anzitutto un batterista di valore aperto all’elettronica ed alla (sua) vocalità (ma in “Purple Whales” compare la voce di Naomi Berrill). Un percussionismo, il suo, che il sestetto con Ilaria Lanzoni al violino, Katia Moling alla viola, Dan Kinzelman al sax, Andrea Beninati al cello e Gabriele Evangelista al contrabbasso, sembrerebbe esser lasciato “sotto traccia”, per la presenza costante della sezione d’archi. Ma il beat c’è, più che evidente nella scansione metrica di brani jazz/minimali come “Jakarta” per diventare cadenza ondulata in “Almost Jesus”. È un moto perpetuo, mai ristagno, anche nella stasi melodica di “Coda”, nell’intimità estatica di “Noli Me Tangere”, nella spirale barocca degli archi in “Escher” … e se cresce in intensità in “Olifante” per la dialettica fra strumenti più “jazz” e altri più “classici”, in “Bird Vertigo” ė la spazialità ad estendersi come in mare aperto. Da rimarcare, in “Arcadia”, gli echi che vanno dai Kronos Quartet fino al serialismo e, in “Gamelan”, la linea melodica a dir poco struggente. Insomma una sorta di flânerie sonora fra volumi di gocce, racchiuse, metaforicamente, in questo strano contenitore di H2O, con estratti di oceano o di un gran lago salato, magari apparsi in sogno e al risveglio tradotti in musica.

Ugoless – “ Soul Church” – Parco della Musica.
Soul Church Music, album targato Parco della Musica, è di Ugoless, gruppo che interpreta proprie composizioni. Di base è un trio con Daniele Tittarelli al sax, Fabio Sasso alla batteria e Andrea Guastadisegni ai sintetizzatori che qui è arricchito dell’apporto del tastierista Domenico Sanna. Dunque una “band dei quattro” (che numerologicamente sta per organizzazione, stabilità) che lavora sull’intertestualità fra musica e citazioni, tant’è che lo stesso titolo riprende da Cannonball Adderley la spiegazione, ripresa da “Bach Chorale”, sulla forma di un suo brano che ricorda i gospel eseguiti in chiesa. È una fattispecie di “jazz di relazione” con modelli che possono essere in “Curvone” la struttura di “Central Park West” di Coltrane ovvero in “Bon Suarè” e “Soirèe” temi del compianto Pino Daniele. Da segnalare il tramite vocalmetallico che va ad arricchire l’apparato strumentale il quale, sarà forse superfluo precisarlo, è di prim’ordine. Così, fra un omaggio a Bud Spencer in “Bambino” e un repechage di Freud in “Nada”, l’excursus allappa e allaccia drum machine e sintetizzatori a sax e tastiere. Un modo, questo, di non lasciare il suono nudo e crudo e di ornarlo – in “Kul” sono echi da Star Wars – con l’elettronica. Quando si è campioni in campionature, se c’è gusto melodico ed inventiva e il ritmo prevale sull’ algoritmo, allora l’elemento cogitans, non l’intelligenza artificiale, dispiega appieno il proprio costrutto musicale mettendo il braccio tech al servizio della ragione creativa.

Roberto Gatto presenta la masterclass online “Stili ed Evoluzioni del Jazz Drumming” nell’ambito di Celano Jazz Convention

Sabato 8 maggio 2021, dalle ore 16 alle 19, Celano Jazz Convention presenta “Stili ed Evoluzioni del Jazz Drumming”, una masterclass online condotta da Roberto Gatto: nel corso dell’incontro, il grande batterista romano ripercorrerà la storia della batteria e, in generale, delle soluzioni ritmiche che hanno caratterizzato il jazz, fino ad arrivare alle esperienze dei più importanti batteristi di oggi.

La masterclass si svolgerà sulla piattaforma Zoom: la partecipazione costa 20€ e per iscriversi occorre prenotarsi con una mail all’indirizzo conferenze@celanojazzconvention.com con oggetto, obbligatorio, ”Prenotazione Seminario” e utilizzando un indirizzo mail valido, al quale poi sarà inviato il link di partecipazione al seminario.

Roberto Gatto è sicuramente il più rinomato batterista Italiano all’estero e vanta importanti partnerships con artisti del mondo del jazz e non solo. Nato a Roma il 6 ottobre 1958, il suo debutto professionale risale al 1975 con il Trio di Roma (Danilo Rea, Enzo Pietropaoli) e da allora ha suonato in tutta Europa e nel mondo con i suoi gruppi e a fianco di artisti internazionali. Oltre ad una ricerca timbrica raffinata e a una tecnica esecutiva perfetta, i gruppi a suo nome sono caratterizzati dal calore tipico della cultura Mediterranea: questo rende senza dubbio Roberto Gatto uno dei più interessanti batteristi e compositori in Europa e nel mondo.

Nella sua carriera musicale, Roberto Gatto ha collaborato come sideman con i più importanti interpreti della storia e dell’attualità del jazz internazionale: da Chet Baker a Freddie Hubbard e Lester Bowie, da Gato Barbieri a Kenny Wheeler e Randy Brecker e poi con Enrico Rava, Ivan Lins, Vince Mendoza, Kurt Rosenwinkel, Joey Calderazzo, Bob Berg, Steve Lacy, Johnny Griffin, George Coleman, Dave Liebman, Phil Woods, James Moody, Steve Grossman, Lee Konitz, Barney Wilen, Ronnie Cuber, Sal Nastico, Michael Brecker, Jed Levy, George Garzone, Tony Scott, Paul Jeffrey, Bill Smith, Joe Lovano, Curtis Fuller, Kay Winding, Albert Mangeldorff, Cedar Walton, Tommy Flanagan, Kenny Kirkland, Stefano Bollani, Mal Waldron, Ben Sidran, Enrico Pieranunzi, Dave Kikosky, Franco D’Andrea, John Scofield, John Abercrombie, Billy Cobham, Bobby Hutcherson, Didier Lockwood, Richard Galliano, Christian Escoude, Joe Zawinul, Bireli Lagrene, Palle Danielsonn, Scott Colley, Eddie Gomez, Giovanni Tommaso, Paolo Damiani, Emmanuel Bex, Pat Metheny, Adam Rogers, Rita Marcotulli, Niels Henning Pedersen, Mark Turner, Lew Tabackin, Chris Potter, Mike Moreno, Dado Moroni.

Come leader ha registrato molti album: Notes, Fare, Luna, Jungle Three, Improvvisi, Sing Sing Sing, Roberto Gatto plays Rugantino, Deep, Traps, Gatto-Stefano Bollani Gershwin and more, A Tribute to Miles Davis Quintet, Omaggio al Progressive, The Music Next Door, Roberto Gatto Lysergic Band, Remebering Shelly, fino ai più recenti Sixth Sense e Now.

Nel corso degli anni ha composto musica per il cinema, in particolare insieme a Maurizio Giammarco la colonna sonora di “Nudo di donna” per la regia di Nino Manfredi, e, in collaborazione con Battista Lena, le colonne sonore di “Mignon e Partita”, che ha ottenuto cinque David di Donatello, “Verso Sera” e “Il grande cocomero”, tutti diretti da Francesca Archibugi.

Nel 1983, è stato eletto il primo batterista Italiano dal sondaggio della rivista mensile Fare Musica. Nel 1983 e nel 1987 con il gruppo Lingomania ha vinto il referendum Top Jazz della rivista Musica Jazz nella categoria miglior gruppo. Nel 1988, 1989, 1990 è stato al primo posto della categoria batteristi dei “vostri preferiti” di Guitar Club. Nel 2007, 2009 e 2010 è stato votato come il miglior batterista dal referendum Top Jazz della rivista Musica Jazz.

Nel 1993, ha realizzato due video didattici “Batteria vol. 1 e 2”. È stato il direttore artistico di Jazz in progress presso il Teatro dell’Angelo a Roma. Per oltre dodici anni ha insegnato batteria e musica d’insieme presso i seminari di Siena Jazz. Ha frequentato il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e il Conservatorio de L’Aquila.

Nel 1997, il direttore Laurent Cugny della francese Orchestre National de Jazz lo chiama per un tour in Francia ed alcune date in Italia. Ultimamente si dedica all’attività solistica e suona spesso con la formazione del trombettista Enrico Rava.

Roberto Gatto è titolare della cattedra di batteria jazz al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.

Il percorso didattico online di Celano Jazz Convention, tracciato dal direttore artistico della rassegna Franco Finucci, prosegue nelle prossime settimane con i seminari condotti da alcuni tra i musicisti più importanti del panorama jazzistico italiano. Dopo gli appuntamenti dedicati alla voce (condotto da Ada Montellanico, sabato 24 aprile) e alla batteria (questo con Roberto Gatto, in programma sabato 8 maggio), i prossimi incontri sarano tenuti dal pianista Claudio Filippini (sabato 15 maggio), dal chitarrista Umberto Fiorentino (sabato 22 maggio) e dal sassofonista Tino Tracanna (sabato 29 maggio).

Luca Aquino “Gong”, con le tavole di Paladino e i testi di Terruzzi: RomaJazz rompe il Digiuno da spettacoli dal vivo Imposto dalla pandemia con le dirette dal Parco della Musica

Quando in redazione abbiamo ricevuto il comunicato stampa del RomaJazz Festival, 44a edizione, con l’annuncio che i concerti, per ovvi motivi, si sarebbero tenuti live ma in streaming… beh, devo confessare di aver arricciato il naso!
#jazzforchange è il claim scelto per questa edizione. E il cambiamento è epocale, nel senso che se l’adattamento è la chiave di ogni trasformazione, ecco che il direttore artistico Mario Ciampà deve aver fatto suo il concetto di “ottimismo della volontà” per allestire un intero festival in “virtual mood”, in questi difficili tempi di pandemia.
Devo dire che per una giornalista del mio stampo, un’Artemide sempre a caccia di emozioni vive e costantemente alla ricerca di percorsi sinestetici e di suggestioni, un concerto non in presenza rappresentava una bella incognita… quale sarebbe stato il mio approccio a questa modalità? Forse, l’unico modo sarebbe stato quello di considerare la realtà virtuale come mezzo di comunicazione, un ponte attraverso il quale vivere l’esperienza, focalizzando la mia attenzione sugli stimoli provenienti da questo scenario, semplicemente lasciandomi andare… senza pregiudizio alcuno.
Scorrendo il programma, il concerto che più ha solleticato la mia curiosità è senza dubbio quello del trombettista beneventano Luca Aquino, che il 17 novembre presentava in live streaming HD, in anteprima mondiale, il suo progetto “Gong. Il Suono dell’ultimo Round”, dedicato ai grandi personaggi della boxe mondiale, con il suo trio formato da Antonio Jasevoli alla chitarra elettrica, Pierpaolo Ranieri al basso e un ospite specialissimo: il franco-ivoriano Manu Katchè alla batteria, un’autentica leggenda che annovera tra le sue collaborazioni Jan Garbarek, Joe Satriani, Peter Gabriel, Joni Mitchell, i Pink Floyd, i Dire Straits, Sting, Pino Daniele, Stefano Bollani… e l’elenco potrebbe continuare.
A completare la rosa dei protagonisti di questo spettacolo multimediale, le opere visive inedite di Mimmo Paladino, tra i principali esponenti della Transavanguardia italiana, e i testi di Giorgio Terruzzi, valente giornalista sportivo e scrittore.
Le storie dei boxeur raccontate sono quelle di Primo Carnera, Muhammad Ali, Sugar Ray Robinson, Nicolino Locche, Carlos Monzon e Mike Tyson.

Il canovaccio dello spettacolo è molto semplice ma di grande impatto e si snoda attorno alle storie, anche personali, di questi miti dello sport. Le musiche originali accompagnano immagini d’epoca dei match più significativi affrontati dai protagonisti, le loro vittorie e le loro pesanti sconfitte, dai primi anni del ‘900 con il gigante di Sequals, Primo Carnera, per arrivare fino ai nostri tempi con il racconto dell’epopea di “Iron” Mike Tyson.
Sul ring virtuale dell’Auditorium Parco della Musica scorrono sul grande schermo le forme stilizzate ed evocative di Paladino, potenti nella loro essenzialità: sfondo blu notte e tratto bianco. È evidente, da parte del Maestro, la ricerca del segno, in un perfetto equilibrio tra significato e significante inserito in un processo digitale di smaterializzazione del ritratto in megapixel… Il Maestro non è nuovo a queste contaminazioni, mi riferisco all’imponente installazione “I Dormienti” composta da cinquanta sculture in terracotta – venti coccodrilli e trenta uomini – collocati nel 1999 nella undercroft della Roundhouse di Londra, con gli interventi musicali (sebbene sia parecchio riduttivo classificarli come “interventi musicali”) di Brian Eno.
Il talento nella scrittura di Giorgio Terruzzi traspare anche in questi racconti di vite da film quasi sempre senza happy ending… La struttura delle storie è reticolare e consequenziale ed ogni parola confluisce verso un apogeo che spesso, per contro, corrisponde alla fase discendente della carriera e della vita di questi grandi uomini.

Primo Carnera

La prima narrazione è dedicata ad uno dei miei conterranei più famosi: Primo Carnera, il colosso dai piedi d’argilla (due metri per 120 kg!) un guerriero leale, un’anima gentile e un uomo di carne e di valori profondamente radicati, che Aquino ha saputo rappresentare in musica attraverso una ballata dall’andamento solenne, che quasi pareva di udire sul palco il passo cadenzato e greve del gigante… La tromba di Luca ha un impatto timbrico onirico, evocativo e lui ha un’abilità pazzesca nel saper “ascoltare” l’ambiente in cui suona, addomesticando riverberi al servizio del suo strumento.
Le tessiture ritmiche di Manu Katchè sono, ad ogni esibizione, una lezione di sagacia tattile mista ad un’incredibile scioltezza nei movimenti e ad un timbro delicato ma incisivo. Il batterista franco-ivoriano accarezza le pelli, sfiora i piatti, il suo drumming è un dono prezioso che lui elargisce sempre in punta di sorriso. Seducente!
Il secondo round dispiega una delle figure più iconiche del ‘900: Muhammad Ali, nato Cassius Clay nel 1942. “I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione”; invero, queste celebri parole del boxeur sono applicabili non solo ai campioni dello sport…

Muhammad Ali

Ali era leggenda, un’icona per i diritti degli afro-americani, un esempio di coraggio contro ogni convenzione, “The Greatest” ricevette persino la medaglia presidenziale della libertà, tra le massime onorificenze negli Stati Uniti. Sul ring sembrava un danzatore, era aggraziato, come il brano che accompagna le immagini d’antan: un pezzo lento con la chitarra di Jasevoli dai toni vagamente arabeggianti e il basso di Ranieri protagonista con una linea originalissima, che riunisce armoniosamente aspetti ritmici e melodici; bello lo slide. Il finale molto free è assolutamente in linea con il personaggio a cui il brano è dedicato!
L’estrosa Cadillac rosa del 5 volte campione del mondo dei pesi piuma Sugar Ray Robinson irrompe idealmente sulla scena. Sugar, quello delle epiche sfide con Jake La Motta (il Toro Scatenato di De Niro nell’omonimo film!) era nato nel 1921, ballava il tip tap nei Teatri di Broadway, suonava la batteria e la tromba nei locali jazz… e tirava in palestra: un tipo decisamente eclettico! La musica che lo descrive è dolce come lui, un dio della grazia, e inizia con bel giro di chitarra Fender intorno alla quale s’inseriscono man mano gli altri strumenti. Katchè fa sentire la sua presenza ma con un’inarrivabile leggiadria, un motore ritmico che gira in perfetta simbiosi con i compagni di palco. I cambi inaspettati di tempo, le sfumature jazz-fusion, un bel solo di basso e un volo di trilli della tromba di Aquino, che nel finale passa al flicorno, rendono l’ascolto di questo brano particolarmente avvincente.
“El intocable” Nicolino Locche, mostro sacro, assieme a Monzon, della noble art in Argentina (ma la famiglia era di origini sarde), era un vero e proprio grillo, maestro della schivata e molto incline alla trasgressione (fumava continuamente, anche un minuto prima di salire sul ring!) Morì a 66 anni – i polmoni… ça va sans dire – con un palmares di 136 incontri, di cui 117 vinti, 5 persi e 14 pareggi. Aquino, in scena da solo, ci mette momentaneamente in knock-down con la sua tromba midi e una loop machine con cui crea un tappeto di suoni sui quali ricama con flicorno, djembè, egg shaker… un’azione sonora totale e un’interazione molto ben calibrata tra acustico ed elettronico.
È di questi giorni la notizia che Mike Tyson torna sul ring il 28 Novembre, a 54 anni e dopo ben 15 anni di inattività; combatterà contro Roy Jones.
Iron Mike si porta dietro la nomea di essere il più pericoloso e violento pugile della storia: un cattivo soggetto, per nascita, ceto, destinazione… tante le sue vittorie ma anche squalifiche, accuse di stupro, carcere, botte, morsi (ricordate l’orecchio di Evander Holyfield che Tyson quasi mozzò, sputandone un pezzo sul tappeto e che gli costò la sospensione della licenza da pugile?), una vera e propria Gigantomachia la sua, un gigante solo contro tutti. L’opinione pubblica contro, pronta a giudicare, ad etichettarlo come un animale, senza chiedersi mai quali demoni interiori abbiano albergato in lui che, al contrario del dàimon socratico, lo hanno fatto sprofondare in una spirale distruttiva. E dopo tre mogli e otto figli (una di essi, Exodus, morta a 4 anni) Mike si rialza un’altra volta, forse dopo aver finalmente imparato il valore di una carezza.
Musicisti ora tutti sul palco per un insieme musicale molto mobile, con cambi di tempo, passaggi di tonalità e stacchi, connotato da una linea di basso molto efficace, dove il chitarrista – davvero bravo – esprime una marcata vena fusion e Katchè ci ricorda ancora una volta quanto sia un fuoriclasse, eseguendo in scioltezza le più articolate figure ritmiche, come nel suo solo dove il piede sulla cassa percuote a una velocità tale da trasformarsi nel becco di un picchio rosso su un tronco d’albero!
Il crescendo finale è corale, sulla scia della chitarra entra il flicorno minimalista di Luca Aquino, totalmente disinteressato ai fraseggi virtuosi ma cercando piuttosto l’essenza del suono. È un jazz palpitante, che scalcia e ripudia stilemi banali e dove un ballabile valzer vira improvvisamente in un incalzante ritmo latineggiante.
A questo punto, un applauso agli ingegneri del suono non è solo doveroso ma ampiamente meritato. Bravi! Ho trovato invece meno azzeccate le scelte della regia video: per l’amor del cielo, si vedeva benissimo, fin nei minimi particolari… ma forse, quello che non ha funzionato, a mio avviso, è proprio questo, i continui cambi di campo delle telecamere, i numerosi primi piani, non mi hanno fatto vivere il live come avrei sperato, ovvero facendomi dimenticare di non essere nella platea del teatro…
Nel corso dei saluti finali, Luca ammette quanto non sia facile suonare senza lasciarsi condizionare da file e file di poltrone vuote, in una dimensione quasi irreale.
Chissà se ciò gli avrà ricordato le atmosfere dello splendido concerto tenuto con il suo trio italiano e la Jordanian National Orchestra a Petra, l’antica città Rosa della Giordania, patrimonio dell’umanità UNESCO e considerata una delle sette meraviglie del mondo moderno; ovviamente quella romana non sarà stata un’esperienza così mistica ma ugualmente  surreale ed intensa.
Chiudo citando quelle che mi sembrano le parole più adatte alle sensazioni provate dopo aver sperimentato anche questa nuova pratica di ascolto, imposta dalla pandemia.
Sono del trombettista statunitense Jon Hassel: “gran parte del mondo percepisce la musica nei termini di un flusso che avanza, basandosi su dove la musica va e cosa viene dopo. C’è però un’altra angolatura: l’ascolto verticale, che consiste nel sentire quel che accade al momento”.
ps: il Digiuno Imposto che ho citato nel titolo di questo articolo è anche quello di un libro di poesie uscito nel 2000 in Germania, per i tipi di Matthes&Seitz Verlag di Monaco di Baviera, illustrato da Mimmo Paladino.

Marina Tuni

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Giorgio Enea Sironi (ufficio stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma) per la collaborazione e Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini per le immagini presenti nell’articolo.

Il Pianista emerito: il sofferto coming out di Keith Jarrett che non potrà più suonare…

La notizia dei guai di salute di Keith Jarrett ha sollevato nel mondo ondate di emozione e sollecitato analisi critiche su un importante e amatissimo artista. Con l’augurare al pianista di Allentown una pronta guarigione, la presente valutazione prende le mosse da due aspetti che esulano dall’ambito strettamente jazzistico: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico.

Giuseppe Cardoni – Keith Jarrett – UmbriaJazz 2004

Di Keith Jarrett tutti ricordano l’atteggiamento verso le platee, la comunicazione non verbale e, in senso lato, il personaggio. (Mi scuseranno coloro che ne parlano già al passato, ma io non riesco a coniugare questo musico se non al presente). Lui che sul palco canta e grida come un ossesso non tollera rumori, è capace di abbandonare stizzito la sala al minimo cenno d’indisciplina e giunse al punto di apostrofare la platea di ‘Umbria Jazz’ con un epiteto (‘assholes’) non proprio sinonimo di kaloskagatói e tutto per aver disobbedito – alcuni – all’ordine di non registrare il con- certo col telefonino.
Jarrett antipatico e intollerante? Al di là della componente narcisistica, credo che egli ponga, e intenda superare, un problema importante e da troppi sottovalutato e lo faccia senza ipocrisie.
Si tratta della scarsa comunicazione tra artista e pubblico. L’arte non dovrebbe essere un banale scambio di oggetti tra donatore e acquirente ma un processo di liberazione interiore che permette a chi ascolta di divenire consapevole della propria forza e libertà, e a chi crea di liberare le sue intuizioni più riposte appoggiandosi alla piattaforma energetica generata insieme al pubblico, in quel luogo, in quel momento.
Il concerto si fa in due, si tratta di una trasformazione, di un ciclo di produzione, di un’alchimia possibile, tra l’altro, soltanto in sala da concerto, non nello “streaming” propugnato da finti amanti dell’arte musicale, che filtra e adultera il messaggio ostacolando irrimediabilmente lo scambio.
Lo “streaming” corrisponde alla visione napoleonica dell’arte come ‘instrumentum regni’. Il grande rito borghese, la liturgia chiesastica di Jarrett invece, criticata da molti come deriva autoritaria dell’ evento-concerto, è un fatto altamente etico e ad altezza d’uomo. L’esperienza del processo creativo, rivissuta dal pubblico, può e deve sensibilizzare lo spirito individuale. Sono intollerante  io, sembra chiedere Jarrett, che pretendo la concentrazione generale, o tu che ostacoli il medesimo processo al quale hai pagato per assistere? Jarrett può a volte mancare di equilibrio, mai però ha suonato con sciatteria di fronte al pubblico: questa sarebbe vera arroganza. E in  fondo anche la presunta arroganza di Miles che suonava con le spalle rivolte al pubblico non era altro, per mio conto, che una richiesta plateale di alzare l’asticella della comunicazione. Artisti di questa fatta aspirano a una fratellanza, non basta un pubblico che dica semplicemente: io c’ero. Educazione, recita il dizionario, “è condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e buona creanza”. Vale per chi la musica crea come per chi l’accoglie. Gli argomenti di Keith Jarrett sono solidi e contenuti nei dischi, disponibili a tutti, basta ascoltare.


Se la sua colpa è di dir la verità senza patteggiamenti lo perdono volentieri. Per tutto il resto c’è la Muzak.
Da decenni Keith Jarrett ha messo la propria enorme fama al servizio della grande repertorio concertistico. Ha registrato opere di vari autori, da Haendel a Pärt a Hovhaness favorendo di fatto una meritevole operazione culturale che ha attecchito, come era logico e auspicabile, soprattutto all’interno della comunità del jazz. Ho visto con i miei occhi jazzofili di stretta osservanza acqui- stare a scatola chiusa i dischi dei Concerti di Mozart con Russell Davies solo perché al pianoforte suonava Jarrett. Ma come sono, alla fine, queste registrazioni? Risultano paragonabili a quelle di Pollini, Richter, Ashkenazy? Per provare a rispondere, sarebbe bene rinunciare a paragoni insensati. Il ‘jazz’ più che un genere è un complesso approccio alla musica, quindi all’esecuzione e investe varie forme dell’agire. Come le lingue hanno i loro ‘argot’ il jazz ha una sua pronuncia, sincopata e accentata, un vero e proprio testo nel testo. La fraseologia del jazzista è appuntita, predilige la tensione, feconda l’instabilità laddove nell’estetica del pianoforte classico, particolarmente in Mozart, è importante l’opposto, l’uguaglianza, il controllo dinamico e il jeu perlè. È ostacolo non piccolo da superare per lo strumentista che voglia scollinare da un genere all’altro senza rotolare a valle. Ma c’è un altro problema, lo scoglio – non trascurabile pure – dell’ornamentazione, ossia della realizzazione degli abbellimenti, fioriture melodiche che presidiano i fraseggi specialmente delle opere classiche e pre-classiche.

Non è più accettabile oggi porgere un’ornamentazione casuale seguendo semplicemente l’istinto, anche chi suona lo strumento moderno deve ‘abbellire’ con cognizione di causa per non cadere in un analfabetismo stilistico di ritorno. Sicuramente tra i jazzisti che si avvicinano al non facile repertorio classico (penso a Corea, a John Lewis, al nostro Stefano Bollani) Keith Jarrett è il più convincente sotto il profilo tecnico come dello stile. Diciamo subito che suo lavoro di trasformazione della pronuncia jazz in fraseggio ‘classico’ è impressionante e si spiega sia con una facilità digitale miracolosa che con un istinto mimetico di prim’ordine. Immaginate un attore haitiano che reciti in perfetto italiano, o uno italiano brillare nel teatro kabuki. Casomai è strano sentire, come mi capita ogni tanto, che egli in questi repertorî “stravolge” e “sperimenta”. Se c’è una critica infatti che si può rivolgere alle sue incisioni “classiche” è casomai l’estrema, talvolta eccessiva timidezza dell’approccio interpretativo. Il suo famoso Bach, ad esempio, è preciso ma convenzionale, privo di una fisionomia davvero riconoscibile. Le sue ornamentazioni non vanno molto oltre i suggerimenti delle vecchie edizioni di Casella e Mugellini e le esecuzioni, in particolare quelle cembalistiche come le “Goldberg”, sono molto compassate.

I contrasti tra i tempi veloci e gli adagi risultano non di rado smussati, l’avvicendarsi delle varie situazioni un poco uniforme e la noia serpeggia qua e là. Anche le danze delle Suites Francesi si somigliano un po’ tutte. È come se il pianista, intimidito dagli autori affrontati, scegliesse di stare sempre al di qua del testo senza prendersi, diversamente da quanto avviene nei mirabili soliloqui improvvisati in pianoforte solo, alcun rischio. Anche Liszt, quando trascrisse per pianoforte le Sin- fonie di Beethoven dopo aver ricevuto la tonsura e gli ordini minori in Vaticano, non osò reinventare quelle opere come era solito fare e, intimidito forse dallo spirito del Maestro, quasi una divinità, le richiuse nel chiostro di “partitions de piano” fedeli come immagini allo specchio. Il corretto Bach jarrettiano è quindi, sul piano strettamente artistico, un’occasione perduta poiché  dall’enorme immaginazione di questo artista era lecito attendersi uno sguardo più rivelatore,  anche se restano letture rispettabili.
I dischi più convincenti invece, oltre a quelli che includono le sue proprie composizioni,
sono dedicati al repertorio novecentesco, Shostakovich in testa, ma anche il bell’album con il concerto di Barber e il terzo Bartok. Mi pare che tra il suono un po’ piccolo e nervoso di Jarrett, tra la sua koinè e il fecondo sincretismo intrinseco a quelle musiche si generi un’elettricità particolare che rende avventuroso l’ascolto. Il suo spazio improvvisativo restituisce qualcosa dell’ispirazione primigenia di questi lavori. Qui lo scattante pianismo di Keith si può anche prendere qualche rivincita su letture più blasonate, sempre restando entro il recinto di un approccio testuale filologico nel quale l’interprete non osa mai sovrapporsi autobiograficamente al testo.
Al Jarrett pianista classico può andare allora a pieno titolo una laurea “honoris causa” ma non direi, tutto sommato, che egli sia in quest’ambito un enfant terrible, piuttosto uno studente modello e un po’ secchione. Meglio così. Chi mi conosce sa quanto io stimi e ammiri Chick Corea, genio e sopra tutto poeta… ma soffrii le pene dell’inferno ad ascoltare una sua cadenza scombiccherata durante un Concerto di Mozart, peraltro tutto sbagliato stilisticamente! Non bisogna essere fedeli per forza ai pentagrammi, la musica, Dio ne scampi, non è un prontuario però, come si diceva più sopra a proposito della relazione tra artista e pubblico, il vero peccato mortale non sta nelle note sbagliate ma nella scarsa comunicazione tra testo e interprete. Ciò che ravvisai in quella deludente lettura di Corea fu proprio un’incompletezza espressiva, un non capirsi o non volersi capire. Ecco, di simili fraintendimenti linguistici nelle interpretazioni jarrettiane non vi è traccia.


È un gran merito. Chiaramente, a uno sguardo più generale, esiste il rischio opposto e fin peggiore, che il testo divenga un algido Totem, come purtroppo avviene in certe esecuzioni su strumenti d’epoca, rigide come militari passati in rassegna però fedeli alla lettera.
Il discorso qui ci porterebbe lontano. Non esistono verità ma canoni che non devono perdere di vista la stella polare di una chiara linea espressiva, pena il fallimento su tutta la linea.
Il canone jarrettiano, pur con i distinguo sopra esposti, è persuasivo, i gangli di comunicazione attivi ed ha in più una sua insostituibile funzione, torno a dire, nel rivolgersi a una specifica comunità di ascoltatori e appassionati. D’altronde se è vero, come credo, che nei sincretismi e non nella purezza troveremo buona parte della migliore musica del futuro, l’annessione della tradizione classica è una medicina naturale contro i suoni mercificati. Jarrett l’ha capito e messo in pratica. Non di molti artisti, anche in un lungo periodo di tempo, si può affermare una tale originalità e un tal carattere fondamentale, una visione così ampia.

Massimo Giuseppe Bianchi