Inside Jazz Quartet, Claudio Cojaniz e Jonathan Finlayson al Roccella Jazz

Il Comune di Roccella Jonica (RC)
è lieto di presentare:

ROCCELLA JAZZ FESTIVAL 2017 – RUMORI MEDITERRANEI
XXXVII EDIZIONE

“A me piace il sud”
Original Tribute to Rino Gaetano

Direzione Artistica: Vincenzo Staiano

Giovedì 24 agosto 2017
ore 18.30
Auditorium Comunale “Unità D’Italia”
Via Cristoforo Colombo 2:

INSIDE JAZZ QUARTET:
“Four By Four”

ingresso € 7 intero / € 5 ridotto (per under 25/over 60)

ore 21.15
Teatro Al Castello:

COJ & SECOND TIME:
“Sound Of Africa”

ingresso € 10 intero / € 7 ridotto (per under 25/over 60)

ore 22.30
Teatro al Castello:

JONATHAN FINLAYSON & SICILIAN DEFENSE:
“Moving Still”

Prima europea!

ingresso € 10 intero / € 7 ridotto (per under 25/over 60)

Ore 24.00
Teatro al Castello:

MIDNIGHT JAZZ READING

 

Giovedì 24 agosto 2017 tredicesima e ultima serata della XXXVII Edizione del Roccella Jazz Festival con gli appuntamenti finali di Rumori Mediterranei, la fitta settimana di jazz italiano e internazionale che ha ospitato straordinari concerti e che termina con tre proposte di eccezionale rilevanza, di cui una prima europea, quella di Jonathan Finlayson.

Il concerto del tardo pomeriggio all’Auditorium è un evento speciale, una prima per Roccella dedicata alla presentazione del nuovo disco Four By Four. Gli autori non hanno bisogno di presentazioni: Tino Tracanna (Sassofoni), Massimo Colombo (Pianoforte), Attilio Zanchi (Contrabbasso) e Tommy Bradascio (Batteria), meglio noti come Inside Jazz Quartet, sono quattro personalità fondamentali per il jazz nostrano ed europeo, sia per il proprio percorso personale che per le numerose collaborazioni incrociate negli anni. Il nuovo album Four By Four (Abeat Records) è un tributo ad alcuni fra i più importanti compositori jazz del Novecento: Billy Strayhorn, Charles Mingus, Dave Holland e Kenny Wheeler, omaggiati con due pezzi scelti da ogni membro del quartetto e con un brano originale a testa, ispirato allo stile di questi grandi maestri.

Altro concerto di notevole rilievo, anche perchè in linea con l’omaggio al Sud e ai sud del mondo intrapreso dal Roccella Jazz 2017, è quello di Claudio Cojaniz, atteso in modo particolare dal pubblico roccellese grazie a SiSong – Una canzone per Sisinio, una suite dedicata al compianto Sisinio Zito, ora su DVD che sarà presentato all’Ex Convento dei Minimi nel pomeriggio. Il pianista e compositore friuliano, in compagnia di Maria Vicentini (Violino), Alessandro Turchet (Contrabbasso) e Zeno De Rossi (Batteria), torna a Roccella con un progetto in cui emerge tutta la sua lunga e apprezzata esperienza nel mondo del jazz a partire dagli anni ’80: Coj & Second Time presenta infatti Sound Of Africa, chiaro riferimento a quella speciale attenzione che Cojaniz ha sempre dedicato alle radici e alla tradizione jazz e blues.

Gran finale con Jonathan Finlayson & Sicilian Defense, il gruppo del giovane ma già quotatissimo trombettista californiano, che debutta con il suo nuovo tour proprio a Roccella, una straordinaria prima europea. Nato nel 1982, Finlayson ha avuto dalla sua mentori e maestri come Richard Porter, Eddie Henderson, Jimmy Owens e Cecil Bridgewater, dal 2000 è con Steve Coleman nei Five Elements, ha suonato o registrato con giganti quali Steve Lehman, Craig Taborn, Henry Threadgill, Muhal Richard Abrams e molti altri. Insomma un talento apprezzato e riconosciuto, “maturato a fuoco lento”, come sostenuto da Musica Jazz che lo ha votato come Nuovo Talento Internazionale del Top Jazz 2016, anche grazie ai responsi ottenuti dal suo splendido album Moving Still. Insieme a lui i Sicilian Defense con Matt Mitchell (Piano), Liberty Ellman (Chitarra), John Hebert (Contrabbasso), Craig Weinrib (Batteria) per un concerto di chiusura da non perdere.

Roccella Jazz:
http://www.roccellajazz.org/

Robert Bonisolo Trio al TrentinoInJazz 2017

TRENTINOINJAZZ 2017
e
Valli del Noce Jazz
presentano:

Mercoledì 26 luglio 2017
ore 21.00
Mulino Museo dell’ape
(in caso di pioggia Sala Busetti)
Via al Molin 3
Croviana (TN)

Robert Bonisolo Trio

ingresso libero

Mercoledì 26 luglio, una serata all’insegna del jazz internazionale per chiudere in grande stile Valli del Noce Jazz, una delle più rappresentative sezioni del TrentinoInJazz 2017, che ospita a Croviana (TN) il trio di Robert Bonisolo! (altro…)

Se ne è andata Geri Allen

Di Luigi Onori

Foto di Carlo Mogavero

Chiedo scusa ai lettori se ho fatto passare una decina di giorni dalla morte della pianista afroamericana Geri Allen, prima di parlarne. La Allen si è spenta il 27 giugno scorso in un ospedale di Philadelphia: era malata di tumore ed aveva sessant’anni, essendo nata nel 1957 a Pontiac (Michigan). In Europa (ed in Italia) si era esibita l’ultima volta nel maggio scorso, in un apprezzato duo con Enrico Rava.

Ci sono artisti che si seguono per lunga parte della carriera, artisti con cui chi scrive di musica cresce insieme: ci si nutre dei loro progressi, si assimilano e condividono i passi in avanti… Ho intervistato Geri Allen all’inizio della mia carriera e pubblicato sulle colonne di <<Musica Jazz>> (allora dirette da Pino Candini) un suo ritratto nella seconda metà degli anni ’80. In tante occasioni ho parlato della jazzwoman per varie testate, spesso all’interno del movimento M-BASE (capitanato da Steve Coleman), collettivo in cui la sua personalità emerse. Per molto tempo, fino al 2006 circa, ho seguito costantemente la sua carriera ed i suoi concerti, l’ultimo in trio presso la romana Casa del Jazz insieme ad un ballerino di tip-tap: una sorta di ritorno al passato, quando Louis Armstrong negli anni ’20 accompagnava i “folletti” dalle suole rinforzate.

Sono del 1956, un anno più anziano della pianista di Pontiac, e  la sua scomparsa mi ha ferito, anche perché la sua parabola creativa era tutt’altro che discendente e la rende paragonabile a Mary Lou Willians. Come quest’ultima, Geri Allen si è affermata in un mondo caratterizzato da una marcata presenza maschile; di notevole importanza è il suo itinerario artistico che, partito dai fermenti vivi della contemporaneità, l’ha vista definitivamente approdare all’insieme delle musiche afroamericane (“Timeless Portraits and Dreams”, Telarc 2006). L’ultimo album, non a caso,  si intitola “Celebrating Mary Lou Williams live at Birdland NY” (Intakt, 2016).

Prima di approdare al New York ed al collettivo M-BASE, la pianista si è interessata al soul ed al pop, giungendo al jazz attraverso la fusion degli Head Hunters, un gruppo elettrico capitanato negli anni ’70 da Herbie Hancock. In realtà è stata la metropoli industriale di Detroit il luogo della sua formazione, presso la Cass Technical High School dove insegnava l’influente trombettista Marcus Belgrave. A questo “imprinting” la Allen è tornata nel 2013 con il Cd “Grand River Crossing: Motown & Motor City Inspirations” (Motèma): brani di artisti Motown (da Smokey Robinson a Stevie Wonder) e di jazzisti d Detroit, terzo album di un trittico iniziato nel 2010 e con esecuzioni soprattutto in solo.

Laureatasi in etnomusicologia con Nathan Davis, la pianista – come si diceva –  arriva a New York ed è parte attiva del collettivo MBASE insieme ad un’altra jazzista di vaglia, la vocalist Cassandra Wilson, e ad artisti del calibro di Greg Osby (altista), Gary Thomas (tenorista), Kevin Eubanks (trombonista), David Gilmore (chitarrista), Gene Lake (bassista), Marvin “Smitty” Smith (batterista). In Europa incide il suo primo album “The Printmakers” cui seguirà il solo “Homegrown” (Minor Music 1984-’85). Da lì la carriera di Geri Allen ha dimostrato di  saper unire Monk a Cecil Taylor, il funky al jazz ed al gospel, Jimi Hendrix alla tap dance. Si susseguiranno, poi, esperienze e collaborazioni sempre significative: il suo gruppo elettroacustico Open On All Sides; i magistrali trii con Charlie Haden e Paul Motian; le proprie formazioni (dal trio al settetto) spesso con musicisti dalla forte personalità (da Ron Carter a  Kenny Garrett); il matrimonio con il trombettista Wallace Roney; l’attività di compositrice; l’incisione con Ornette Coleman dell’album “Sound Museum” (1996), primo pianista ad affiancare il padre del free jazz dopo Paul Bley (che lo fece nel 1958); i tour e numerosi i progetti discografici.

Nello stile di Geri Allen c’era sempre una forte tensione ritmica, unita ad un sottile melodismo. Spesso dietro le quinte, guidava con mano sicura ed esperta i suoi gruppi come sapeva mettersi al servizio degli altri musicisti, si trattasse di Dave Holland o Wallace Roney. Sono personalmente legato ad una manciata di sue registrazioni che consiglio, senza nessuna sistematicità. “Homegrown” (per l’etichetta europea Minor Music, 1985) la vedeva in piano solo, in una fragrante poetica che fondeva Monk e  Taylor alternando ritmo e cantabilità, giocando sulle pause, rendendo ora fitta ora rarefatta una musica originale (in gran parte suoi  brani, tra cui “Mama’s Babies” ed “Alone Together”) e sempre ispirata. In “In The Middle” (Minor Music, 1987) dove guida il suo ottetto Open on All Sides (con Steve Coleman e Robin Eubanks) c’è tutta l’anima “black music” dell’artista di Pontiac: strumenti elettrici, cori, forme non convenzionali, davvero un’apertura in tutte le direzioni con una salda radice jazz. Il trio con il contrabbassista Charlie Haden ed il batterista Paul Motian rappresentò la vera e propria consacrazione della Allen che seppe inserirsi fra i due “giganti” (latori ciascuno di una storia sonora imponente, tra Ornette Coleman e Bill Evans). Nell’album “In the Year of the Dragon” (JMT 1989) si percepiscono un ruolo paritario ed un riuscito interplay, evidente anche dal contributo compositivo di Geri Allen: “For John Malachi” e “No More Mr.Nice Guy”. Musica che travalica generazioni e gerarchie e si fa, soprattutto, “relazione”. Splendida anche la registrazione “Maroons” (Blue Note, 1992) con Marcus Belgrave e Wallace Roney (trombe), Anthony Cox e Dwayne Dolphin (contrabbasso), Pheeroan AkLaff e Tani Tabbal (batteria): tolti gli aspetti più vistosamente eversivi, resta una salda poetica ispirata anche dalla storia e da altre arti (come la lirica di Greg Tate che dà il titolo all’album). Niente di neoclassico, piuttosto un jazz intensamente contemporaneo quanto consapevole della propria storia.

Mi mancherà Geri Allen.

 

Luigi Onori

Geri Allen, Enrico Rava accoppiata vincente

 

Geri Allen pianoforte , Enrico Rava tromba e flicorno: un duo di straordinaria efficacia; lo abbiamo constatato personalmente il 19 maggio in occasione del concerto inserito nel programma di “Narrazioni Jazz” a Torino.

Allen e Rava rappresentano oramai due icone del jazz moderno, due artisti acclamati dai pubblici di tutto il mondo.

Nata a Pontiac, Michigan, cresciuta a Detroit, Geri Allen si è messa in luce, a partire da metà degli anni Ottanta, nel giro M-Base di Steve Coleman, dopo di che ha suonato in trio con Charlie Haden e Paul Motian, con Dave Holland, Ron Carter, Charles Lloyd, Ornette Coleman costruendosi una solida reputazione sia come solista sia come ‘accompagnatrice’. Nel suo stile si rintracciano disparate influenze, da Monk a Hancock, da Mary Lou Williams a Cecil Taylor, assorbite e ricondotte ad unità con grande maestria.

Parlare di Enrico Rava è quasi superfluo data la notorietà che il trombettista ha oramai raggiunto; in questa sede basti ricordare che si tratta del jazzista italiano meglio conosciuto all’estero e che la sua poetica ha conquistato un pubblico che va ben al di là dell’ancora ristretta cerchia degli appassionati di jazz.

I due si conoscono da molto tempo ma mai avevano avuto l’occasione di suonare assieme. Finalmente quest’anno è stato possibile organizzare un tour che partito il 10 maggio da Vienna, passando poi per Belgio, Germania e Francia, ha ‘toccato’ anche l’ Italia per quattro date: il 17 maggio a Correggio (Reggio Emilia) in occasione del Crossroads 2017, il 18 al Vicenza Jazz Festival, il 19 al Narrazioni Jazz di Torino e il 20 all’Unicredit Pavilion di Milano.

Ma veniamo alla serata del 19. Com’era fin troppo facile attendersi, il concerto è stato semplicemente superlativo. Ad onta del fatto che mai avevano suonato assieme, i due hanno evidenziato un interplay stupefacente: il loro jazz, che non esiteremmo a definire da camera, era asciutto, essenziale, declinato quasi per sottrazione; mai una nota ridondante, mai un passaggio superfluo, mai un’inutile sottolineatura ma un continuo gioco di rimandi, di ammiccamenti sonori, di scambi di ruolo in un flusso sonoro che ha letteralmente affascinato il pubblico. La sonorità lirica e a volte struggente di Rava, la sua freschezza inventiva, il suo fraseggiare così particolare si sono sposati magnificamente con il pianismo sicuramente più materico della Allen che ancora una volta ha evidenziato uno stile del tutto personale pur nella derivazione da quei modelli sopra accennati.

In repertorio brani originali come “Wild Dance” di Enrico Rava tratto dall’omonimo album inciso nel 2011 per la ECM, “Overboard” sempre di Rava registrato nel lontano 1994 con gli  ‘Electric Five’ e “Feed the  Fire” di Geri Allen  già contenuto in due album “Twenty One” del ‘94 e “Some Aspects of Water” del ’97, unitamente ad alcune perle del repertorio jazzistico e brasiliano come “Retrato en branco y preto” di Jobim – Chico Buarque de Hollanda, “Night in Tunisia”,  i monkiani “Round Midnight” e “Well you needn’t”, il sempre attuale “Jitterburg Waltz”  di Fats Waller tutti porti con pertinenza ed eleganza.

Essendo inserito in un contesto significativamente intitolato “Narrazioni Jazz” gli organizzatori hanno pensato bene di affiancare alla musica dei testi scelti davvero bene da Guido Michelone e recitati altrettanto bene da Anna Bonaiuto. Tutto bene, dunque? Non proprio. Intendiamoci: lo scrivente nulla ha contro l’accoppiata parole e musica tanto è vero che lo stesso fa parte del gruppo di Giampaolo Ascolese quando si organizzano spettacoli multimediali. Ma occorre sempre tener presente che la protagonista principale rimane la musica; insomma gli interventi parlati devono essere brevi, concisi sì da non spezzare il ritmo del concerto. Invece a Torino gli interventi della Bonaiuto sono stati troppo lunghi ed accorciarli di qualche minuto nulla avrebbe tolto alla valenza degli stessi, anzi…

I NOSTRI CD

Rosario Di Rosa – “Composition And Reactions” – Deep Voice Records.

L’ album Composition e Reactions (Deep Voice Records) di Rosario Di Rosa, in solo pianistico, presenta essenzialmente un’unica opera che si “sfasa”in 12 cosidette Reactions.
Nasce nel solco del precedente già maturo Pop Corn Reflection (NAU) in un percorso artistico i cui riferimenti stilistici arrivavano a Steve Reich e Schoenberg.
Stavolta il jazzista offre una versione ulteriormente aggiornata della propria musica.
Nella struttura d’insieme affiora una certa affinità con le arti visive, le tecniche grafiche nell’uso di forme e colori per il gusto di “rappresentare” spazi e figure, nel definirne i passaggi.
E c’è poi una dichiarata apertura agli effetti elettronici e un recupero del datato MIDI. In dettaglio le Reactions sono 12 frammenti liberi della Composition n.26, questa, si, scritta, non improvvisata.
Ognuna di esse ha una propria specifica caratterizzazione. Si comincia con Variation e Morphing ovvero trasformazione dei lineamenti iniziali in quelli del tutto nuovi del punto d’arrivo. La successiva, e suggestiva Phasing e’ l’attuazione per gradi della cellula sonora selezionata attraverso sequenze di tipo minimalista laddove Density, giocando su “l’interdipendenza dei vari parametri musicali” (Harrington), percorre in lungo e largo una tastiera che pare non pesata.
La Reaction n. 4, Spaces, è la più onirica, gravida di silenzi astrali. Seguono, appesi/sospesi nel pentagramma, Intervals, in due takes, il primo dei quali a momenti si adagia melodicamente liberandosi dal senso di tensione che li contrassegna.
La n. 6, Tuning, e’ il ritorno alla culla tonale dopo varie scorribande fuori dal seminato. E se nella n. 7, Sampling And Loops, sopravviene la techné di una voce metallica che comprime le note del pianoforte, in Strings lo strumento ritorna percussione pura. Di Rosa espone poi in Clusters grappoli di note grumose del ricorrente sapore monkiano reso contemporaneo che in Textures rivela trame di puro tessuto non tappezzeria musicale.
Lo (s)compositore insomma assembla e sfaccetta, anatomizza e ricuce, spostandosi dal concreto all’astratto mosso da un impulso espressivo forte. Verificando dinamicamente come alla azione (compositiva) possa corrispondere una reazione (improvvisativa).

Federica Gennai, Filippo Cosentino – “Come Hell Or High Water” – Naked Tapes 01
C’e’ modo e modo di combinare e disporre corde e corde vocali, nel jazz.
Petra Magoni si fa accompagnare da Ferruccio Spinetti al contrabbasso. Claudio Lodati non disdegna loop ed elettronica creativa nel seguire la voce di Rossella Cangini. Il melodizzare di Patty è armonizzato dalla chitarra di Tuck così come il bel canto, fra etno e classica, di Noa trova nella chitarra di Gil Dor una piattaformasonora che è un riferimento più che costante. E c’è chi, come Filippo Cosentino, nel seguire volute ed evoluzioni canore, alterna diverse soluzioni di strumento, orientando così ovviamente la prospettiva musicale.
Assieme alla vocalist Federica Gennai annovera nel proprio armamentario sonoro sia chitarra acustica sia elettrica sia, spesso con funzione di “basso armonico”, la chitarra baritona. La cantante, come del resto lui stesso, si serve spesso di effettistica, ma il dato saliente della loro ricerca sonora sono i colori variopinti della timbrica da una parte, dall’altra un ondeggiare fra atmosfere mediterranee e climi musicali tipici del jazz contemporaneo europeo in un comporre del tutto originale.
Nel cd Naked Tapers 01 intitolato Come Hell Or High Water la proposta dei due musicisti evidenzia in modo abbastanza nitido la propria dimensione ispirativa. Beninteso, fra i brani eseguiti si ritrovano Avalanche di Leonard Cohen e Footprints di Wayne Shorter quasi come due fari del folk-blues e dei ’60s jazzistici a cui guardare e riprendere con rispetto e partecipazione. Ma ecco la musica popolare, la propria, in senso strettamente culturale, affiorare in Tramuntanedda (il chitarrista piemontese ha origini siculo-calabre) brano che, ne siamo sicuri, sarà stato fra i più apprezzati nei suoi tour estivi fra Centroeuropa ed Asia per l’abile coniugare linee melodiche southern con improvvisazioni su base spanish. Peraltro ogni brano in scaletta ha una propria connotazione ben definita. Loneliness per il tema trattato della solitudine “nel cuore della terra” affrontato consuadente poesia dalla Gennai. E se No Solution Re Solution è ancora un meditare, essenziale e spoglio, che si adagia su reverberi di arpeggi come stesi sotto la luce solare e Lullaby in Blue è viaggiointrospettivo… bifronte insomma dai due poli, a Baritona e Crescendo, un nome un programma, segue Every Moment Is A Gift (SongFor Paola) con quello strano sapore di istantaneo come il momento in cui il pezzo è nato. Resalio ha un attacco che ricorda Non dire No diBattisti ma è solo un’impressione; lo sviluppo prende una piega bluesy che si trasforma strada facendo, strato per strato di accordi.
Infine il brano che da il titolo all’album è un rientro in quella confidenziale intimità che costituisce la principale cifra stilistica del progetto discografico del duo. Meglio dire della Coppia, per sinergia, musicale e interpersonale.
Umberto Tricca – “Moksha Pulse” – Workin’ Label

Curioso il titolo del disco di esordio del chitarrista Umberto Tricca, Moksha Pulse, edito da Workin’ Label e distribuito da I.R.D.   Moksha, in sanscrito, significa liberazione, emancipazione, affrancamento dalle limitazioni. E la cosa ci può stare, col jazz, visto che anche l’Asia, oltre l’afroamericanità, può rivendicare vicinanze con questo tipo di musica. Pensiamo all’improvvisazione della musica indiana tradizionale. E già nell’intro dell’album, Slow Passacaglia, il chitarrista appare slegato da contorni e margini canonici occidentali.
Non si pensi a influssi etnici spinti alla Remember Shakti per intenderci. Gli strumentisti che lo accompagnano, Achille Succi (sax, clarinetto basso), Giacomo Petrucci (sax baritono), Nazareno Caputo (vibrafono), Gabriele Rampi Ungar (contrabbasso) e Bernardo Guerra (batteria) producono con lui un magma sonoro che afferisce a modalità più di jazz contemporaneo che parajazz o metafolk che dir si voglia.
Pulse, l’altro termine del titolo, non c’entra con i Pink Floyd ne’ con Roger Waters. Nessuna parentela rock (semmai la 6 corde pare richiamare a volte certa sgorgante limpidezza accordale di Larry Coryell). Pulse è il polso, il battito, semplicemente. Seguendolo il sestetto si prodiga in una ricerca di gruppo consistente nell’interfacciare linguaggi musicali anche eterogenei nelle 6 composizioni del chitarrista (la settima, Lude, e’ dell’indiano Vijay Iyer). E se Jhumara Tal pare riecheggiare Sue’s Changes di Mingus, contrattempi ostinati e complesse sincopi contrassegnano in stile Metrics di Steve Coleman il brano che da titolo all’album. Che poi, nell’incedere inventivo si allarga, scopre spazi nuovi, si diversifica. Empty Sky, ballad legata idealmente a Burning in Varanasi, ha un attacco scofieldiano che lascia insinuare, come un serpente dal cesto, l’alto sax di Succi, sorretto da vibrafono e double bass, musica allo statu nascenti dalle estreme radici est/ovest.
Chango Rebel ha per finire una lenta struttura ciclica con un crescendo che deborda in una caleidoscopica poliritmicità afrocubana, con relativa esplosione della sezione ritmica.
L’opera prima di Tricca, sia come compositore che leader, si presenta insomma come un buon viatico verso i prossimi lavori, si spera sempre a 360 gradi di latitudine geomusicale.

 

 

I risultati del Top Jazz 2016 non valorizzano appieno le nuove generazioni

 

di Luigi Onori –

E’ trascorso circa un mese dall’uscita dei risultati del referendum “Top Jazz 2016”, frutto della consultazione dei “migliori esperti di jazz italiani” indetta ogni anno dalla rivista <<Musica Jazz>>, a partire dal 1982.

Si è, quindi, ancora in tempo per riflettere sulle indicazioni scaturite (limitandosi ai primi tre/quattro piazzati per ciascuna delle dieci categorie) che dovrebbero offrire un quadro delle novità a livello discografico, concertistico e di progetto. Voglio precisare che quanto leggerete non riguarda le mie individuali opinioni ma si configura come un tentativo di interpretare in modo ampio i voti del <<Top Jazz>>

 

DISCO ITALIANO DELL’ANNO

Vince con 63 punti “Ida Lupino” (Ecm) del duo composto dal trombonista Gianluca Petrella e dal pianista Giovanni Guidi, allargato con la creativa presenza del pluristrumentista Louis Sclavis e del batterista Gerald Cleaver. Di poco staccato (61 punti) il trio del pianista Franco D’Andrea “Trio Music Vol. II” (Parco della Musica Records). Arriva terzo “Music For Lonely Souls (Beloved  by Nature)” (Almar Records) della Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale (38 punti), seguito a 35 dal Cristiano Calcagnile Ensemble in “Multikulti Cherry On” (Caligola).

La classifica andrebbe rovesciata, al di là della classe e del valore indiscutibile del gruppo di D’Andrea. Brazzale ha portato la sua Orchestra, con un lungo lavoro, a livelli altissimi sia su repertori originali che storicizzati; Calcagnile ha rivisitato le composizioni di Don Cherry esaltandone proprio lo spirito eversivo, meticcio e di apertura, ricollocandole di fatto in un presente che il trombettista aveva già ampiamente intuito. L’album di Petrella e Guidi ha momenti di eccellenza ma resta magmatico e laboratoriale, quindi pregevole nel suo dipanarsi ma ancora sfuocato rispetto agli altri due.

 

MUSICISTA ITALIANO DELL’ANNO

Franco D’Andrea (91 punti), Tino Tracanna (31), Luca Aquino e Cristiano Calcagnile (30). Qui è necessario interrogarsi sul “senso” della votazione per la categoria in oggetto. Credo che sia utile votare guardando soprattutto alle “generazioni più recenti” che non possono essere confinate al “miglior nuovo talento”. D’Andrea ha vinto più volte in questa categoria e nulla si può togliere alla sua perdurante ed originale produzione. Continuare a votarlo (come a scegliere musicisti ampiamente riconosciuti quali Enrico Rava, Paolo Fresu o Enrico Pieranunzi) contribuisce – indirettamente – alla rigidità ed alla mancanza di ricambio nei cartelloni di festival e club. I musicisti alle spalle del pianista meranese, in questo senso, riguardano nomi che meritano il massimo di attenzione e che dovrebbero viaggiare quanto più possibile nel circuito concertistico nazionale: il sassofonista (didatta e compositore) Tino Tracanna, il trombettista Luca Aquino ed il batterista-leader Cristiano Calcagnile. Guadare al presente, quindi, indirizzando verso il ricambio: nel 1982 (prima edizione del referendum) vinsero, tra gli altri, Massimo Urbani ed Enrico Rava, non Nunzio Rotondo ed Enzo Scoppa (e nessuno mette in dubbio il valore di tutti i citati).

 

NUOVO TALENTO ITALIANO

In questa categoria le indicazioni del <<Top Jazz>> sono  rispondenti alla realtà. Un vero e meritato plebiscito per il trombonista veneziano Filippo Vignato (81 punti); 50 punti per il trombettista bresciano Gabriele Mitelli, artista di grande creatività spesso a fianco del vibrafonista Pasquale Mirra. Più staccata (39 punti) la clarinettista e compositrice Zoe Pia che si è imposta e fatta apprezzare con l’album “Shardana” dove si intrecciano folclore e contemporaneità, scrittura ed oralità. Qua e là nella classifica altri nomi di pregio tra cui Francesco Diodati, Mattia Cigalini, Manlio Maresca, Piero Bittolo Bon, Simone Graziano… Giustamente <<Musica Jazz>> ha abbinato a questa categoria un’intervista al produttore dell’etichetta Auand, Marco Valente, che spesso ha documentato con anticipo i “nuovi talenti”.

 

NUOVO TALENTO INTERNAZIONALE

I risultati prevedono un ex-aequo (29 punti) ed uno scarto di cinque punti per il terzo classificato (23). Sovradimensionato il risultato della sassofonista e compositrice norvegese Mette Henriette (suo album di debutto per la Ecm) mentre pienamente meritato quello del trombettista trentaquattrenne Jonathan Finlayson, un artista che suona da quindici anni nei Five Elements di Steve Coleman, ha un ruolo importante nell’ottetto di Steve Lehman e compare nell’ensemble del “chicagoano” Muhal Richard Abrams. Coglie il personaggio emergente la terza segnalazione, quella della sassofonista danese (residente in Norvegia) Mette Rasmussen; si esibisce spesso in solo (sarà il 19 febbraio in prima italiana al Centro d’Arte di Padova) e fa parte della Fire!Orchestra di Mat Gustafsson.

 

MUSICISTA INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Indiscussa – e indiscutibile – la vittoria del polistrumentista e compositore Henry Threadgill (81 punti); ampio lo scarto per il secondo e terzo classificato che si collocano in un’area simile, quella del jazz d’avanguardia: il pianista Vijay Iyer ed il trombettista Wadada Leo Smith (seguiti da vicino dal batterista-compositore Jack DeJohnette e dal pianista Brad Mehldau).

 

DISCO INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Al di là della prima posizione, il resto della classifica è piuttosto fluido. Threadgill trionfa (65 punti) con il suo album “Old Loks and Irregular Verbs” dedicato all’amico Lawrence “Butch” Morris (Pi Rcordings, realizzato con l’Ensemble Double Up); distanziati i Cd di Jack DeJohnette (“In Movement”, Ecm, inciso con Ravi Coltrane e Matthew Garrison) e “Into the Silence” (Ecm) del trombettista Avishai Cohen (da non confondere con l’omonimo contrabbassista). E’ tuttavia importante che nei primi dieci classificati ci siano gli album che hanno “segnato” e contraddistinto il 2016: “America’s National Parks” (Cuneiform) di Wadada Leo Smith; “The Distance” (Ecm) del Michael Formanek Ensemble Kolossus; “Lovers” (Blue Note) di Nels Cline; “Take Me To the Alley” (Blue Note) di Gregory Porter; “The Declaration of Musical Indipendence” (Ecm) di Andrew Cyrille; “A Cosmic Rhythm with Each Stroke” (Ecm) del duo Iyer / Smith; “Sélébéyone” (Pi Recordings) di Steve Lehman.

 

GRUPPO INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Molto vicini i punteggi ed uno scarto massimo di 16 punti tra il primo e l’ultimo gruppo. Opinioni, quindi, variegate con una leggera prevalenza per il trio The Bad Plus (32 punti), l’Ensemble Double Up di Henry Threadgill (30 punti) e la Fire!Orchestra di Mat Gustafsson (28), tallonata da un’altra formazione orchestrale di estetica opposta, gli Snarky Puppy (27). Apprezzabile la presenza in classifica del trio di Brad Mehladu, degli Snakeoil di Tim Berne e del gruppo São Paulo Underground.

 

GRUPPO ITALIANO DELL’ANNO

In questa categoria i giurati sono stati compatti incoronando, con pieno merito, la Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo  Brazzale (90 punti). Seguono a distanza formazioni rodatissime come il Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti (43 p.) e gruppi più recenti quali Tino Tracanna & Acrobats (40 p.) e Cristiano Calcagnile Ensemble (39 p.). Tra i primi dieci Roots Magic, il Double Quartet di Claudio Fasoli, Enten Eller e i Sousaphonix di Mauro Ottolini. Le indicazioni per “gruppo italiano dell’anno” se intrecciate con quelle di “musicista italiano dell’anno” riescono a dare un’efficace istantanea del panorama del jazz del BelPaese nella sua ricca e poliedrica complessità.

 

Un paio di categorie riguardano “inediti storici” e “ristampe”: non hanno bisogno di commento perché hanno rispettivamente incoronato album di Bill Evans, Miles Davis quintet, Charlie Parker e dell’Albert Ayler quartet, John Coltrane, Peter Erskine trio. Qui parla la “storia”, remota o recente, e c’è veramente poco da aggiungere.

Luigi Onori