DECATHLON DISCOGRAFICO

La seguente selezione di dieci album è un Decathlon fatta per “disciplina” di strumento dei leader di formazione. Ovviamente la scelta è un’istantanea hic et nunc, dettata dal momento.  E’ un po’ come al Fantabasket od al Fantacalcio! Si individuano le individualità fra quelle più in forma, e si inseriscono a tavolino in una squadra virtuale che esiste solo sulla carta. Dopo un po’ è prevista una rotazione dei nomi, oltretutto quella proposta non è una classifica delle valenze ma una inquadratura parziale del materiale discografico che ci si ritrova in attesa di esaminarne dell’altro. Il team che ne vien fuori è un ipotetico ensemble di cd con sax/tromba/piano/tastiere/vibrafono/violino/contrabbasso/batteria/percussioni/musica d’insieme.

  1. Stefano Conforti Quintet, Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef, Notami Jazz

L’omaggio a Yusef Lateef (William Evans), grande tenorsassofonista flautista oboista e fagottista americano, come quello che Stefano Conforti ha prodotto per Notami Jazz è di quelli destinati a lasciare il segno. Intanto è un tributo, oggi a dieci anni dalla morte, ad un jazzista dal curriculum straordinario che annovera collaborazioni con Gillespie, Burrell, Grant Green, Mingus, Fuller, Cannonball e Nat Adderley, Lawson, Cecil McBee, ma soprattutto a chi ha sviluppato, dopo gli inizi bop, “different moods” di un “sound ricco e denso di growl “ (Barithel-Gauffre)  con influssi mediorientali. Pur consapevole nella difficoltà ad accostarsi ad un siffatto polistrumentista il sassofonista-flautista-oboista italiano vi si è cimentato disinvoltamente nell’album “Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef”, inciso per Notami Jazz, con la formazione che vede Doriano Marcucci a chitarra acustica trombone didgeridoo e percussioni, Tonino Monachesi alla chitarra elettrica, David Padella a basso elettrico e contrabbasso e Roberto Bisello alla batteria. Il quintet ha riproposto in tutto otto brani – fra i quali “Metaphor”, “Road runner”, “The Golden flùte”, “Belle isle”, “Spartacus” di Alex North – con buona resa specie se si pensa a certi tributi alla naftalina che capita di ascoltare qua e là. Le esecuzioni, se non sono calligrafiche sul piano filologico-musicale, lo sono a livello di sonorità estesa e tensione distesa nel segno di un musicista dalla narrazione inzeppata di riferimenti filosofici e poetici, espressi tramite una musica che lui stesso ha definito “auto-fisiopsichica”.

  1. Sean Lucariello, Despite It All, Caligola Records

Gli editor italiani fanno sempre più scouting. Succede anche in campo discografico con label come Caligola Records che pubblica lavori di giovani e/o esordienti per rimpolpare di forze fresche il catalogo. Una politica editoriale che spesso viene premiata dagli ok di pubblico e critica, prospettiva che saremmo pronti a sottoscrivere per l’album Despite It All del trombettista-flicornista nonché compositore Sean Lucariello.  E’ indubbio che questa coppia di strumenti principe del jazz ha sempre un fascino che seduce. Ed è di un camaleontismo unico il suo modificarsi a seconda della collocazione. Nel quintetto italo-spagnolo assortito da Lucariello che vede Edoardo Doreste Velasquez a sax soprano e alto, Sasha Lattuca al pianoforte, Francesco Bordignon al contrabbasso e Ignacio Ampurdanès Ruz alla batteria, la cornice è l’esatto contrario dello strepitio tanto è armonicamente sottile. E la tromba, il cui suono a momenti pare richiamare il Wheeler più compassato, vira sciolta la canna d’imboccatura in brani come l’introduttivo “Astral Conjunctions” scritto da Bordignon seguito da “Il Maestro e la Margherita” che il leader ha inteso dedicare a Bulgakov.  L’attenzione letteraria è comune con il pianista, autore della suite “Tendre Est La Nuit”, chiaro il riferimento al romanzo di Fitzgerald, dove pare che la tastiera rincorra il silenzio, forse la vera e segreta aspirazione della musica, nonostante tutto. Lasciando scorrere il cd dall’ulteriore “notturno” “Song With No Title” si passa poi ad una atmosfera di taglio più nettamente bop in “The Beaty of Boredom” mentre In “Five”, pezzo di Matteo Nicolin,  gli accenti si fanno più metropolitani grazie al piglio elettrico del Fender Rhodes di Lattuca.

  1. Federica Lorusso, Outside Introspections, Zennez Records/Abeat

Con un album inciso in Olanda per la Zennez Records, la Abeat Records presenta anche sul mercato italiano Outside Introspections, firmato dalla giovane pianista italiana Federica Lorusso.  La musicista fa da calamita nell’ integrato interplay del 4et con Claudio Jr. De Rosa al tenore (e ad al clarinetto in “Take A Breath”), David Macchione al contrabbasso ed Egidio Gentile alla batteria. I jazzisti dimostrano singolarmente di poter  vantare notevole “arte/fare” nei nove brani in cui il sax lascia sgolare una “voce” suasiva, il contrabbasso inchioda una probante cadenza nel timing, la batteria gioca costante sull’accentare e sincopare, la leader canta a mò di octaver, unisonica sulle note della tastiera: indizi che fanno la prova di un percorso agile per esporre, esplicare, esplicitare the hidden side of the music. Dall’inside all’extroversion, all’outside i vari gradi compositivi arricciolano un bijou di tracklist che gronda di “assorbimenti” stilistici che non vogliono essere, come il titolo del cd, degli ossimori stilistici – postbop-fusion, pop-classical – che poi tali non sono specie se innaffiati di quei semi creativi sparsi anche nella regione dei tulipani.

  1. Enrico Solazzo, Perfect Journey, Millesuoni/ Via Veneto Jazz

Se esiste una chiave per creare connessione autentica col pubblico quella è anzitutto la musica. Ed esiste un tipo di comunicazione musicale che avvicina perché la si avverte, semplicemente, coetanea. Il tastierista Enrico Solazzo ce ne dà un saggio con l’album Perfect Journey edito da Millesuoni (mai marchio fu più illuminante) della ViaVeneto Jazz. Vi sono esaltate le sue capacità di arrangiatore, oltre che di solista, unitamente a quelle di musical coach in quanto allenatore di un team che conta qualcosa come quaranta fuoriclasse. Riesce alquanto difficile elencarli tutti per ragioni di spazio. Qualche nome? Dennis Chambers, Gumbi Ortiz, John Pena, Kadir Gonzalez Lòpez, Niclas Campagnol, Baptiste Herbin, Lo Van Gorp fra gli stranieri. Roberto Gatto, Stefano Di Battista, Antonio Faraò, Fabiana Rosciglione, Tony Esposito, Gegè Munari fra gli italiani. Insomma un bel “gruppo misto” alle prese con una quindicina circa di brani fra originali e standard di musica internazionale.  Tornando al discorso iniziale come fa un professionista, quale Solazzo, è a comunicare la propria musica nell’epoca dei podcast e del gaming? Intanto non basta esser maestri dell’ entertainment. E non è sufficiente riprendere alla grande hits tipo “Crazy” o “Caruso” per avvicinare l’audience. Ogni epoca ha suoni che le si confanno. Ad esempio le keyboards midi avevano un suono che oggi risulterebbe datato come un moog così come certi effetti campionati. La particolarità di questo disco, a parte il caleidoscopio di collaborazioni, sta nell’aver lo strumentario giusto per l’oggi, nell’averne saputo introiettare lo zeitgeist più positivo con gli arrangiamenti, nel trasmetterlo ad un ampio ventaglio di fasce d’ascolto come tappe di un viaggio perfetto, quello di Enrico Solazzo, di Brindisi: da brindisi!

  1. Michele Sannelli & The Gonghers, Inner Tales, Wow Records.

Mezzo secolo dopo i ’70 si può ancora suonare progressive? La risposta è affermativa se non ci si limita a frugare nel modernariato dei suoni vintage o nei mercatini del suono usato. Il prog, alla mezz’età, si presenta quale estetica musicale vigente, contermine a rock e jazz rock. Vero è che in alcuni casi si è assistito ad un ritorno regressivo all’infanzia e in altri la senescenza ne ha incanutito sembianze e portamenti baRock. Quando però capitano fra le mani album energici e briosi come Inner Tales, della Wow, inciso dal vibrafonista Michele Sannelli & The Gonghers, si ha cognizione di come quel “non genere” abbia ancora un carattere … progressivo. Della band, finalista al contest Jam The Future – Music For A New Planet di JazzMi  nel 2019 e, nel 2022, prima al Concorso “Chicco Bettinardi” di Piacenza, fanno parte il chitarrista Davide Sartori, il tastierista Edoardo Maggioni, il bassista/contrabbassista Stefano Zambon e il batterista Fabio Danusso. Questo disco d’esordio rivela ad una platea potenzialmente più ampia dei palcoscenici che i musicisti già calcano una forgiata vis sperimentativa che è uno degli stampini del prog brand. Vi campeggiano due icone: Dave Holland in uno dei sette brani di Sannelli (“Uncle Dave”) eppoi c’è il richiamo in denominazione al gruppo space rock dei visionari Gong di Daevid Allen, fondatore degli psichedelici Soft Machine. Le “Storie interne” al compact, dalla romantica “Song for Chiara” all’iterativo “Circle”, dal marcato “Hard Times” al soffuso “Green Light”, dal dinamico “Run Mingo Run” al lirico “Just in Time to Say Goodbye”, vanno peraltro lette non solo in termini di rivisitazione di modelli esistenti bensì di riscoperta di quei modi di far musica d’insieme che risorgono ciclicamente, resistenti alle intemperie, “eterne modernità” per dirla alla Sironi.

  1. Francesco Del Prete Violinorchestra, Controvento/Dodicilune.

Fra musica e vino, dicono studi scientifici, esiste una relazione profonda. Il rapporto interessa anche i musicisti, si pensi all’opera (“Fin ch’han dal vino”, dal Don Giovanni di Mozart), ai walzer di Strauss (“Vino donna e canto”), agli standard jazz (“The Days of Wine and Roses”), al canto nero di Nina Simone (“Lilac Wine”), al blues di Amy Winehouse (“Cherry Wine”, coautore Nas), al soul/r&b di Otis Redding (“Champagne and Wine”), al pop di Adele (“Drink Wine”).   Dalle nostre parti si ritrovano gli stornelli di Gabriella Ferri (“Osteria dei magnaccioni”), le note cantautoriali di Modugno (“Stasera pago io”), Gaber (“Barbera e champagne”), Guccini (“Canzone delle osterie di fuori porta”) con il rock di Ligabue (“Lambrusco e popcorn”) e Zucchero (“Bacco perbacco”) e la “chanson” di Sergio Cammariere (“Il pane il vino la visione”).
Dalla terra dei messapi si segnala, nella corrente annata discografica, l’album Rohesia di Francesco Del Prete con la Violinorchestra (Controvento/Dodicilune). Un lavoro non della serie jazz & wine, questo del violinista salentino gravitante anche in area jazz, essendo intriso di sonorità legate al territorio in cui si vendemmiano i cinque vini della Azienda Cantele a cui sono dedicati altrettanti brani. Scrive al riguardo Maria Giovanna Barletta che “in Rohesia  Pas Dosè, Rohesia Rosso, Teresa Manara, Rohesia Rosè ed Amativo, ecco una diversità resistente che si riappropria attraverso l’arte poetica della melodia del qui e ora”.  Il compact, nel cui progetto sono partecipi Lara Ingrosso (voce), Marco Schiavone e Anna Carla Del Prete (violoncelli), Angela Così (arpa), Emanuele Coluccia (piano) e Roberto “Bob” Mangialardo (chitarre), ha un booklet-winelist  esplicativo sui “nettari degli dei” oggetto della selezione e sulla musica loro abbinata a mò di etichetta. Amalgamando pizzica e swing, elettronica ed echi mediterranei, a seconda del carattere e delle caratteristiche, non solo organolettiche, del vino da “sonorizzare”, Del Prete ha generato un prodotto originale che oltretutto fornisce un esempio di come la musica possa essere alleata di un’economia resa “circolare”. Da un disco.

  1. Marco Trabucco, X (Ics), Abeat Records

X (Ics), a marchio Abeat Records, del contrabbassista Marco Trabucco, è album che trae spunto nel titolo dal numero decafonico dei ruoli musicali che vi figurano, appunto dieci (Scaramella, pf; Colussi, dr; Vitale, mar; Ghezzo, g.; Andreatta, v.; Dalla Libera, viola; Calamai, fl.; Pennucci, cor., oltre Trabucco nella doppia veste di compositore e strumentista).  X, inoltre, rimanda, come scrive Paolo Cavallone nelle liner notes, “all’incognita che risulta dall’accostamento di sonorità cameristiche classiche con quelle del jazz”. X potrebbe stare anche per Pareggio vista l’equivalenza degli apporti fra legni-ottoni e jazz 4et di base con rivoli afrofolk a base di balanon (e marimba). I brani, in tutto cinque che è la metà di dieci (“One For Max”, “Open Space”, “Untitled”, “Meraki”, “Otranto”), scorrono limpidi come un ruscello alle falde di una montagna tant’è che non si avverte (di)stacco fra l’uno e l’altro. Segnale, questo, che la spinta inventiva ha origine da uno statuto creativo fondato su idee fluide sul come moltiplicare (ancora x) temi armonie timbri spazi improvvisativi sui due confini, classica e jazz, promossi a zona franca da etichettature di sorta.  Un disco, inoltre, contrassegnato da atmosfere rarefatte e da un lessico talora minimalista – chissammai perché la mente va al film Dieci di Kiarostami – in cui il regista Trabucco da autore si cala appieno nel “personaggio” del musicista che sa trasmettere, agli/cogli altri interpreti, il gioco instabile, tipo playing 1X2 dove è sempre la X a funzionare da centro di gravità.

  1. Andrea Penna, A New World, Workin’ Label.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Dvorjak dedicò al Nuovo Mondo la Sinfonia n. 9! Eppure l’aspirazione/ispirazione dettata dal desiderio, magari utopico, di un mondo diverso e migliore, affiora ancora fra i musicisti. Il batterista-compositore piemontese Andrea Penna, con il c.d. A New World (Workin’ Label), è uno dei pensierosi visionari che “usano” la  musica per autoproiettarvi  i riflessi interiori del proprio mondo in osservazioni (“It Was Just Like That”), ricordi (“Poki”, “In My Arms”), emozioni (“E Fuori piove”), ritratti (“1B My Dear”), flashes (“Tutto in un Momento”) ora raccolti e ordinati. Ah, ecco perché i dischi li chiamano album! Il relativo sound registra umori provenienti dalla memoria – richiami GRP, echi travel/metheniani, ibridismi similrock –  nello sfarinare una tracklist di nove brani di fusion effusiva grazie alla formazione che vede Massimo Artiglia a piano e tastiere, Luca Biggio ai sax, Mario Petracca e Andrea Mignone alle chitarre,  Umberto Mari al basso e voce,  Antonio Santoro al flauto. Se è lecito esprimere una preferenza la scelta cade sul brano d’apertura, “Parlami Ancora”, “scritto immaginando il mare, il discorrere intenso e rilassato passeggiando sulla spiaggia, con qualche brivido di gioia ed una grande voglia di libertà”. Giusto e opportuno antecederlo per far assaporare da subito il gusto della scoperta dell’immaginifico New World di Andrea Penna.

  1. Roberto Gatti, Amanolibera, Encore Music

Quello delle percussioni è un mondo a sé stante con la propria storia, le riviste, i libri, le cattedre, i miti: Don Azpiazù, Ray Barretto, Alex Acuna, Airto Moreira, Chano Pozo,  Mino Cinelu, Ralph MacDonald, James Mtume …  Quello delle percussioni non è un mondo a sé stante in quanto legato a filo doppio con gli altri strumenti che ne valorizzano al meglio le peculiarità. Sono due affermazioni uguali e contrarie. E bisognerebbe aggiungerne una terza, sempre ambivalente, che le percussioni possono rappresentare un’idea ritmica della musica, il latin, ad esempio, in cui la collocazione solistica è al tempo stesso elemento funzionale spesso imprescindibile dell’ensemble. L’album Amanolibera di Roberto Gatti, percussionista, edito da Encore Music, con circa una trentina di musicisti coinvolti nel progetto – fra gli ospiti anche Horacio El Negro Hernandez, Paoli Mejias, Oscar Valdes, Roberto Quintero, Jhair Sala, Gabriele Mirabassi, Lorenzo Bisogno, Tetraktis – documenta quanto il percussionismo, in particolare quello di spanish tinge, ne sia elemento vitale appunto insostituibile. Gatti vi si è cimentato anche a livello compositivo ragionandoci sopra con un drum set di congas, bongos, cajon, timbales, voce, tessendovi sei brani degli otto in scaletta (“Gatti Song”, “Bombetta”, “Chachaqua”, “Roberto’s Jam”, “Rumba per Giovanni”, “Jicamo 2.0”) in alcuni casi cofirmati, recitando così free hand un rosario sonoro allargato in sincronia al Sudamerica ed in diacronia a figure storiche dell’afrocubanismo. “La Comparsa” di Lecuona e “Giò Toca” di Valdes sono i due pezzi che Gatti non ha assortito dalla collezione personale, consentendo a chi ascolta un ritorno a melodie già metabolizzate con le sue percussioni a far da sorelle siamesi di una batteria con cui dialogare fittamente, da minimo comun denominatore che diventa massimo comun divisore di microscansioni particellari e poliritmie a catena.

  1. No Profit Blues Band. Helpin’ Hands. 20th Anniversary LILT di Treviso.

Musica e medicina. Un’arte e una scienza. Con tante applicazioni e “trasfusioni” dall’area sanitaria a quella musicale destinate a creare effetti benefici di vario ordine, a partire dalla musicoterapia. E sono tanti gli operatori del ramo che hanno coniugato Esculapio ed Euterpe. Pensiamo a medici-compositori come Borodin, ai cantautori Jannacci e Locasciulli, a uno stimato pianista jazz come Angelo Canelli, a trombettisti come il docente di ginecologia Nando Giardina della Doctor Dixie Jazz Band, a chitarristi come il radiologo Vittorio Camardese sperimentatore del tapping sulla seicorde, al medico-batterista Zbigniew Robert Prominski membro dei Behemoth (collaboratore degli Artrosis, tanto per rimanere in tema)… Fra gli stili il blues (e derivati) si evidenzia come una fra le più azzeccate medicine dell’anima. Sono vent’anni che lo sperimenta sul campo la No Profit Blues Band che, per il compleanno, presenta l’album Helpin’ Hands frutto della collaborazione con la LILT di Treviso. Dismessi camici e mascherine, messi nel cassetto bisturi e stetoscopi, la band di professionisti della sanità con pianoforte (Alberto Zorzi), chitarra (Maurizio Marzaro), batteria (Danilo Taffarello), basso (Matteo Gasparello), voci (Teo Pelloia, Jessica Vinci, Luisa Lo Santo, Elisabetta Monastero), saxes ( Giacomo “Jack” Berlese) e armonica (Mauro Erri) ha adoperato un altro tipo di attrezzatura per “radiografare” i dintorni del blues . Scopo dell’”operazione”? Far sorridere i pazienti della LILT trevigiana diffondendo pillole di buonumore con iniezioni di spensieratezza. Un ensemble, il loro, mosso esclusivamente dal piacere di offrire la loro musica come antidoto per quanti vi possano trovare motivo di distrazione. Va detto che i pezzi in scaletta sono stati scelti ed eseguiti con maestria e verve.  In scaletta ci sono “Smile” di Chaplin  (cavallo di battaglia del fisiatra Zorzi), “Mustang Sally” di Rice (si è  in pieno  r&b alla Pickett ), “Summertime” (Gershwin forever), “Route 66”  di Troup (con versioni che vanno da Nat King Cole agli Stones), “Unchain My Heart” di Sharp (ripreso divinamente fra gli altri da Joe Cocker), “Hoochie Coochie Man” di Dixon (Muddy Waters uber alles), “I Got A Woman” e “Halleluja I Love Her So” di Ray Charles, “Let The Good Times Roll” hit di B.B. King … Musica angelica, macchè diabolica, per lenire le ferite dello spirito.

L’altra metà del Jazz, il secondo libro di interviste di Gerlando Gatto, continua a far parlare di sé…

Il secondo libro di interviste di Gerlando Gatto, “L’Altra Metà del Jazz – Voci di donne nella musica Jazz” (2018, KappaVu – Euritmica edizioni) continua a far parlare di sé, anzi a far parlare il suo autore e, soprattutto, le trenta musiciste intervistate! (Redazione)

Cliccando qui potrete accedere all’articolo completo di Guido Michelone pubblicato su Doppio Jazz, con l’intervista in esclusiva a Gerlando Gatto 

Riportiamo il testo dell’intervista:

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«Gerlando Gatto, giornalista professionista, decano della critica jazz italiana di alto livello, negli ultimi anni ha composto una sorta di trittico librario (destinato forse a diventare un polittico) con tre volumi dedicati alla realtà locale, sia pur con apertura internazionali: il primo testo è Gente di Jazz. Interviste e personaggi dentro un festival jazz e l’ultimo, al momento, è Il Jazz Italiano in Epoca Covid. Parlano i jazzisti. Nel mezzo c’è questo originalissimo L’Altra Metà del Jazz. Voci di donne nella musica jazz, di cui l’autore stesso ci parla approfonditamente in quest’intervista esclusiva.

-Gerlando, come ti è venuta in mente l’idea di un libro di interviste a sole donne jazziste?
La genesi di questo libro è piuttosto particolare. Nel maggio del 2017, quando si trattava di dare l’ok alla stampa, in fase di impaginazione del mio primo libro Gente di Jazz, per ragioni di spazio saltarono due interviste a Tiziana Ghiglioni e Rita Marcotulli. Così il libro uscì con interviste solo a “maschietti”. La prima ad accorgersi di questa anomalia fu mia moglie di solito molto attenta al mio lavoro; lei mi rimproverò aspramente anche perché poteva venir fuori l’immagine di un giornalista (il sottoscritto) che non considerava le musiciste di jazz mentre nella vita privata aveva molte amicizie reali con jazziste quali la stessa Marcotulli, Maria Pia De Vito, Marilena Paradisi, Antonella Vitale… e l’elenco potrebbe allungarsi di molto.

-Anche per esperienza personale, i rimproveri delle mogli hanno spesso risvolti positivi…
Infatti, questa ramanzina mi fece riflettere molto e mi rafforzò in un’idea che già da tempo mi frullava in testa: dedicare un libro di interviste solo alle jazziste e non già per ghettizzarle ancora una volta ma per dimostrare con i fatti quale importanza abbiano oggi le musiciste jazz, concetto che stenta a passare nella mentalità comune. Parlai, quindi, di questo progetto con Giancarlo Velliscig presidente di Euritmica che insieme a KappaVu avevano curato l’edizione di Gente di Jazz e con Marina Tuni che mi è stata accanto nella stesura di tutti e tre i libri che ho pubblicato. Ambedue trovarono l’idea giusta e così il libro è uscito ottenendo un grande successo. Una precisazione: grande successo non di vendite ma di attestati di stima.

-In che modo le hai prevalentemente intervistate? Telefono, e-mail, prima o dopo i concerti? In hotel? O altro ancora?
Ovviamente un po’ di tutto. Tengo a precisare che il libro contiene alcune interviste storiche, tra cui una a Dora Musumeci mai pubblicate in precedenza e interviste – la maggior parte – realizzate proprio per questa pubblicazione. Ovviamente se dovessi raccontare la storia di ogni singola intervista forse potrei scrivere un altro libro, ma colgo l’occasione per segnalartene qualcuna. Innanzitutto, in questa sede vorrei ancora una volta ricordare la figura di Dora Musumeci la prima vera jazzista italiana, pianista e vocalist, di grandissimo spessore del tutto ignorata dai critici vecchi e nuovi, così come evidenziato anche nelle più recenti Storie del jazz. Ebbene la intervistai nel 1998 come primo atto di un libro a lei dedicato. Purtroppo, un pirata della strada la falciò nel pieno centro di Catania e ovviamente non fu possibile proseguire. Nel 2017 era a Roma Sarah Jane Morris un’artista che in famiglia amiamo tutti e tre: io, mia moglie e mio figlio.

-Un’occasione da cogliere al volo, come si suol dire

Così quando l’artista ci concesse un appuntamento per intervistarla ci recammo tutti e tre e lei [Sarah Jane Morris] fu di una straordinaria dolcezza. Un altro episodio: ho sempre ammirato la pianista e compositrice Myra Melford ma non avevo avuto l’occasione di incontrarla; quasi per caso, decisi di contattarla su Facebook ed ebbi così modo di conoscere non solo un’artista formidabile ma una persona di squisita gentilezza. Non altrettanto potrei dire di una celebre vocalist statunitense di cui non farò il nome che aveva delegato tutto a un portavoce, il quale voleva indicarmi lui quali domanda fare e quali no, al che si beccò un bel… infine vorrei ricordare l’intervista a Radka Toneff, una straordinaria cantante norvegese che ebbi modo di intervistare durante il mio soggiorno in quel Paese e che purtroppo se ne andò suicida nel 1983 a soli 30 anni. Ma, come accennavo, ogni intervista contiene in sé un’altra storia per cui mi fermo qui.

-Pensi che in questa fase storica (il XXI secolo grosso modo) ci sia stata davvero un’emancipazione per la donna che vuole occuparsi di jazz?
In una certa misura sì… ma solo in una certa misura.

-Come spieghi la cronica scarsa presenza nella storia del jazz dell’universo femminile (a parte quello canoro)?
Questa domanda si riallaccia alla precedente. Il jazz è nato in un ambiente prevalentemente maschilista e anche quando negli anni Venti si affermò il blues classico portato in auge da vocalist donne, queste donne faticarono non poco per far assurgere in primo piano tematiche femministe. Al riguardo consiglierei di leggere il bel libro di Angela Davis Blues e femminismo nero. In buona sostanza i maschi l’hanno sempre fatta da padroni nel micro-universo jazzistico anche quando si sapeva benissimo che c’erano moltissime musiciste al di fuori dell’ambito vocale che potevano suonare in qualsivoglia contesto.

-Nel tuo libro su 31 intervistate ben 11 sono straniere da tutto il mondo. Riveli diversità d’approccio, nel parlare e nel dialogo, tra italiane e straniere?
Sostanzialmente no. Ho notato invece diversità di approccio a seconda del rapporto con le intervistate. Ad esempio, Marilena Paradisi si è aperta in modo davvero straordinario, così come Enrica Bacchia si è rivelata nella sua complessa umanità al limite del commovente. Con le straniere questo non è stato possibile in quanto con nessuna c’era un vero e proprio legame di amicizia.

-E fra le straniere noti particolari differenze fra le jazziste?
C’è poco da fare: tranne qualche eccezione le star mai dimenticano di essere tali e non vorrei aggiungere altro.

-A differenza delle straniere (dove per circa metà incontriamo strumentiste o bandleader) le jazz woman tricolori sono tutte cantanti: perché questa penuria in Italia di donne che non suonano uno strumento (salvo qualche eccezione che tu hai ovviamente evidenziato)?
Hai ragione… ma solo in parte. Tornando al mio libro ci sono, infatti, ben sei musiciste che non sono solo vocalist: Giulia Barba si sta sempre più confermando eccellente sassofonista, Marcella Carboni è arpista di assoluto livello, Rita Marcotulli è pianista che tutto il mondo ci invidia, Silvia Bolognesi è considerata una delle migliori contrabbassiste a livello europeo, Donatella Luttazzi oltre a cantare suona bene la chitarra mentre di Dora Musumeci ho già parlato. Questo per dire che anche in Italia la situazione sta cambiando anche se attraversiamo un momento particolarmente difficile e delicato le cui responsabilità, a mio avviso, ricadono anche sugli stessi musicisti alcuni troppo ideologizzati, altri troppo poco.

-Vero o no che sembra essere tornato (magari con ironia) lo stereotipo della cantante jazz un po’ vamp o sexy o dark lady rispetto alle femministe alla Jeanne Lee o Nina Simone degli anni ’60-’70?
Francamente non mi sembra. Ma la mia opinione vale per quel che vale dal momento che negli ultimi anni ho di molto diradato la mia presenza ai concerti e quindi non ho avuto modo di percepire ciò che tu affermi.

-Da quanto ti hanno raccontato, rispetto alle narrazioni del passato, il jazz è ancora un ambiente maschilista?
A questa domanda ho già risposto seppur tra le righe in precedenza. Comunque lo ribadisco in modo chiaro e netto: il jazz rimane un ambiente maschilista e ci vorrà ancora qualche tempo perché le cose cambino realmente e non solo di facciata”.

-Come mai nel giornalismo, nella critica, nell’insegnamento, nella fotografia, nell’organizzazione del jazz la donna è largamente e tristemente assente (o minoritaria)?
Innanzitutto vorrei sottolineare come in tutti gli ambiti che hai citato si prosegue lungo la vecchia strada per cui il merito, le capacità sono all’ultimo posto. Vedi ciò che accade nell’editoria, nei Conservatori per cui gli studenti pagano cifre rilevanti per avere un’educazione al massimo livello e i direttori viceversa pensano a risparmiare a scapito della qualità dell’insegnamento. Purtroppo, valgono altri elementi. Ciò detto la risposta alla tua domanda va ricercata nel fatto che gli spazi sono veramente pochi e dato il maschilismo imperante per le donne non è facile trovare un terreno su cui avventurarsi».
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I NOSTRI CD: ANCHE NEL JAZZ IN “DUO” VIENE MEGLIO

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Francesco Cusa, Giorgia Santoro – “The Black Shoes” – Dodicilune
Album denso di contenuti questo registrato dalla flautista salentina Giorgia Santoro e dal batterista siciliano Francesco Cusa, artisti ben noti e apprezzati nel panorama jazzistico non solo nazionale. In repertorio diciassette composizioni, sedici originali più la conclusiva “Un Joueur de flûte berce les ruines” del grande Francis Poulenc. Il punto di partenza è declinato chiaramente nel titolo: le scarpe nere sono quelle del jazzista che proprio attraverso la musica tende verso il cielo. Il terreno su cui si muovono i due è quello della libera improvvisazione con un linguaggio ben coerente con gli obiettivi prefissati. Di qui il ruolo diverso assunto dai due strumenti: la batteria che quasi personifica la vita terrena con tutti i suoi pesi, mentre i flauti – la Santoro ne usa tutta la ‘famiglia’ – sembra indirizzare la musica verso l’alto. Ciò detto è comunque difficile se non impossibile penetrare nella mente dei due artisti e stabilire senza ombra di dubbio cosa volessero rappresentare. Alle nostre orecchie si presenta una musica tutt’altro che facile, in cui si nota una ricerca che si sostanzia in improvvisazione come composizione istantanea, tra le cui pieghe alle volte si intravvede qualche traccia di linea tematica, come nel caso di “Whisper”. Il tutto sostenuto da un bagaglio tecnico di notevole spessore e da una comune fonte d’ispirazione.

Franco D’Andrea, DJ Rocca – “Franco D’Andrea Meets DJ Rocca” – Parco della Musica Records 3 CD
Conosciamo Franco D’Andrea da tanti, tanti anni e quelle non poche volte in cui ci siamo confrontati sulla sua arte, sul futuro della musica, sulle possibilità insite nel jazz abbiamo sempre trovato un musicista, un artista, un uomo mai appagato ma sempre rivolto al futuro, alla ricerca di nuove situazioni che gli permettano di esprimersi al meglio. Ecco, quindi, questo triplo album registrato alla fine del 2021, in cui D’Andrea si confronta con Luca Roccatagliati (in arte Dj Rocca) musicista con il quale aveva già avuto modo di collaborare in due precedenti occasioni ma non in duo. Ovviamente in quest’ultimo lavoro le cose cambiano in modo radicale. D’Andrea si trova a dover connettere il proprio strumento con un suo “pari” che disegna paesaggi sonori in maniera totalmente diversa, mai dando tregua al compagno d’avventura in un rimpallo costante. Di qui un’incessante ricerca soprattutto sul suono, sulle combinazioni timbriche, cosa tutt’altro che banale dati gli strumenti in azione. Quasi inutile sottolineare come in questa registrazione così come in ogni concerto dei due, non esista alcuna scaletta ma tutto nasca spontaneamente nel momento stesso in cui gli artisti decidono di intervenire. Insomma questa realizzazione discografica ci consegna due artisti impegnati al massimo e particolarmente attratti da questo lavoro. Prova ne sia che l’album, verrà ripresentato in alcuni concerti che, se avete la possibilità, vi consiglio vivamente di andare a sentire.

Giovanni Falzone, Glauco Venier – “Dialogo espressivo” – Parco della Musica Records
All’insegna della melodia questo album che vede come protagonisti il trombettista Giovanni Falzone e Glauco Venier in una sorta di incontro che congiunge l’Italia dal momento che Glauco è friulano mentre Falzone è cresciuto in Sicilia. Ma a parte questa curiosità geografica, l’album, registrato il 3 agosto del 2020, si segnala per ben altre particolarità. Innanzitutto la qualità artistica dei due musicisti che oramai da tempo si caratterizzano non solo per le capacità strumentali ma anche per quelle interpretative; in secondo luogo la gradevolezza del repertorio: undici brani tutti composti dal trombettista il quale sottolinea come fosse suo preciso obiettivo mettere al centro del progetto la ricerca melodica, il suono acustico e l’essenzialità del duo. Obiettivo perfettamente centrato in quanto sin dal primo brano si percepisce compiutamente quella che sarà la cifra stilistica dell’intero album tutto giocato per l’appunto su un dialogo spontaneo, naturale, che pone in primo piano l’espressività: di qui il titolo “Dialogo espressivo” quanto mai centrato, cosa che raramente accade. I pezzi sono tutti godibili anche se personalmente preferisco “Il poeta del silenzio” anche questo titolo assai significativo dal momento che il brano è dedicato a Enrico Rava; particolarmente suggestivi anche gli altri due omaggi rivolti a Kenny Wheeler e Tomasz Stanko, come a dire tre trombettisti che hanno contribuito a forgiare lo stile del musicista siciliano.

Biagio Marino, Zeno De Rossi – “Break Seal Gently” – Fonterossa
Biagio Marino (chitarra elettrica, effetti) e Zeno De Rossi (batteria, percussioni) sono gli autori di questo “Break Seal Gently” uscito il 6 settembre per Fonterossa Records, l’etichetta fondata dalla contrabbassista Silvia Bolognesi. Il duo, al debutto discografico, si muove su quel territorio di confine che lambisce jazz, rock e free improvisation, ma lo fa sempre con grande lucidità e proprietà di linguaggio. D’altro canto si tratta di due musicisti che possono vantare un curriculum di assoluta eccellenza. In particolare Biagio Marino, nato a Eboli nel 1972 e residente a Bologna, ha alle spalle lunghi anni di approfonditi studi e sperimentazioni che l’hanno portato ad elaborare particolari tecniche chitarristiche basate sull’uso di accordature anomale, tecniche poi impiegate nei suoi progetti sempre caratterizzati da un sound affatto particolare come nel caso dell’album in oggetto. Zeno De Rossi (Verona – 1970) è artista completo sotto ogni punti di vista prova ne sia che attualmente è uno dei batteristi-percussionisti più richiesti sulla scena. Le sue collaborazioni davvero non si contano; in questa sede basti citare quelle con Hank Roberts, Wayne Horvitz, Bill Frisell, Greg Cohen, Ralph Alessi, , David Murray… In questo album i due hanno la possibilità di esplicitare appieno il proprio talento. Sei brani tutti scritti dal chitarrista in cui sognanti ambientazioni (“La grande pellicola effimera”) si incrociano con atmosfere in cui aleggia l’influenza del grande Frisell. Si tenga presente come il disco arrivi dopo una fase di maturazione iniziata nel 2021 e cementata attraverso tutta una serie di concerti.

Roberto Ottaviano, Alexander Hawkins – “Charlie’s Blue Skylight” – Dodicilune

Roberto Ottaviano al sax soprano e Alexander Hawkins al pianoforte acustico ed elettrico sono i superlativi interpreti di questo omaggio alla musica di Charles Mingus nel centenario della sua nascita (Nogales, 22 aprile 1922). Dedicare a Mingus un qualcosa è impresa da far tremare le vene ai polsi ma i due l’affrontano con il piglio e la determinazione giuste…per non parlare della classe e dell’originalità che costituiscono elementi fondamentali della poetica dei due artisti. Di qui un album assolutamente convincente declinato attraverso undici composizioni di Mingus tra cui brani arcinoti come “Pithecanthropus Erectus”, “Self Portrait In Three Colors” e “Haitian Fight Song” e pezzi meno eseguiti come “Canon” o “Hobo Ho”. Ma, a prescindere dai brani, i due si muovono sorretti da una intesa perfettamente, dialogando strettamente per tutta la durata dell’album, senza un solo attimo in cui si avverta un benché minimo calo di tensione. Il sax di Ottaviano appare lucido, preciso, timbricamente superbo come sempre mentre il pianismo di Hawkins è perfettamente a suo agio con le non semplici partiture del contrabbassista. In definitiva i due artisti, pur rimanendo rispettosi delle strutture architettoniche e delle trame narrative mingusiane, non rinunciano ad aggiungere un quid di originalità che conferisce al lavoro una propria pregnanza. Assolutamente inutile evidenziare un brano rispetto all’altro: vanno tutti ascoltati con la massima attenzione e la soddisfazione sarà massima.

Barre Phillips, György Kurtag jr. – “Face à Face” – ECM
Barre Phillips, Daniele Roccato – “Confluence” – Parco della Musica Records
Una doverosa avvertenza: qui non siamo nel campo del jazz propriamente detto ma in un terreno quasi di confine tra la musica moderna europea e una certa forma di sperimentalismo, basato totalmente sull’improvvisazione, pratica che i tre musicisti conoscono assai bene. Per cui se volete ascoltare questi album – per altro assai interessanti– è d’obbligo una buona dose di concentrazione che vi consenta di seguire le evoluzioni degli artisti. L’iniziativa per la registrazione del primo album parte dal contrabbassista che dopo aver ascoltato lo specialista di effetti elettronici ungherese lo vuole al suo fianco. Nasce così questo “Face à Face” registrato a Pernes-les Fontaines tra il settembre del 2020 e il settembre del 2021.  Come sottolinea lo stesso Kurtag, i due si sono trovati in piena sintonia nel mantenere l’intensità del dialogo. Inutile, quindi, cercare una qualsivoglia traccia di linea melodica, occorre lasciarsi andare totalmente al flusso sonoro che scaturisce dai due artisti. I quali sono impegnati a disegnare cangianti atmosfere a seconda di chi, in quel momento, detiene le redini dell’incontro. Di qui un universo sonoro che nasconde grandi sorprese come l’incalzante “Stand Alone” a parere di chi scrive il pezzo migliore dell’album, seguito da un altro brano di grande spessore, il conclusivo Forest Shout, un brevissimo, suggestivo bozzetto. Interessante sottolineare come i due artisti riescono a far convivere il sound di uno strumento acustico e tradizionale come il contrabbasso con le sonorità ultra moderne della strumentazione di Kurtag, davvero un esempio di come in musica quasi nulla sia impossibile.
In “Confluence”, registrato live nella Sala accademica del Conservatorio Santa Cecilia, a Roma, il primo marzo del 2020 il contrabbassista statunitense si trova a collaborare con un altro contrabbassista, Daniele Roccato, musicista che da anni si dedica all’interazione fra più contrabbassi, essendo tra l’altro il fondatore dell’ensemble Ludus Gravis, un gruppo di soli contrabbassisti (spesso nove) che si è affermato nel mono della musica moderna eseguendo partiture, fra gli altri, di Hans Werner Henze, Sofia Gubaidulina, Terry Riley, Gavin Bryars, Stefano Scodanibbio. Come evidenziato in apertura, i due contrabbassisti si incontrano sul terreno dell’improvvisazione libera e dal convergere di questi due percorsi musicali, totalmente diversi, emergono nuovi paesaggi che siamo sicuri saranno ancora nuovi e diversi se i due avranno modo di incidere un altro album. Insomma un’immersione totale in una sorta di università sonora per chi ama questo strumento. Un’ultima notazione: davvero belle le foto che accompagnano l’album.

Enrico Rava, Fred Hersch – “The song s You” – ECM
Registrato a Lugano nel novembre 2021, “The Song is You” è il frutto di un incontro tra due straordinari musicisti che pur partendo da situazioni piuttosto differenziate, trovano un magnifico punto di intesa negli otto brani presentati nell’album. In effetti il repertorio comprende oltre a due brani con la loro firma “Child’s Song” di (Hersch) e “The Trial” (Rava), alcuni standard come “Misterioso” e “‘Round Midnight” di Thelonious Monk, “The Song Is You” di Jerome Kern, “Retrato em Branco e Preto” di Jobim -Chico Buarque   e “I’m Getting Sentimental Over You” di George Bassman-Ned Washington. Per chi conosce anche se non approfonditamente questi due artisti, è facile capire come l’improvvisazione sia la chiave di lettura più appropriata per entrare nel mood dell’album. Sia Rava sia Hersch evidenziano una certa predilezione per linee melodiche riconoscibili e affascinanti e da questo idem sentire iniziano il loro discorso che li porterà a ridare nuova linfa a brani già iper noti come “Round Midnight” o “Retrato em Branco e Preto”. Ma anche nei due original la cifra stilistica dell’album non si discosta da quanto detto in precedenza. I due continuano a narrare le loro storie senza nulla sacrificare del proprio bagaglio ma facendo confluire l’uno nell’altro le capacità improvvisative ed esplorative. Insomma un album che tiene fede a quanto ci si poteva attendere da due giganti del jazz quali Enrico Rava e Fred Hersch.

Gerlando Gatto

Pharoah Sanders – Un amore più supremo dell’amore supremo

Per cosa ci piacerebbe essere ricordati dopo la nostra morte? Solo a sentire questa domanda si materializzano ambienti rumorosi di bocche che in un flusso infinito recitano un monologo adornato di fantasticherie intime ed infinite, oppure risme di fogli bianchi che vengono incisi da penne fino a finire l’inchiostro, sfogliandoli freneticamente fino a creare una sorta di testamento immaginario da dedicare al mondo; o magari nessuna risposta, una pausa a cui non seguirà alcuna nota: il vuoto. Pensare all’oltre mondo è umanamente comune, l’abbiamo fatto tutti e immaginare quale memoria lasceremo di noi è un tema caldo. Una volta che si spengono le luci del nostro palco gli spettatori si alzano, cominciano a mettersi in fila i tuoi dolci affetti, conoscenti, colleghi, amici e parenti che non vedono l’ora di scrivere un epitaffio d’amore da dedicarti. L’unico dispiacere è che qualunque discorso propinato finisce in una damigiana da cui tracannano i provetti poeti fino ad affogare. Tutti alzano il gomito in questo rituale di auto terapia per affrontare la morte, mentre tu, che dovresti essere il diretto destinatario di ogni poesia recitata al brindisi, non potrai mai ascoltare quello che gli altri hanno da raccontare di te stesso. Quindi ha davvero senso spedire una lettera a un morto? No, meglio scrivere per quelli che restano, perché creare memoria è più importante che rispondere agli ipotetici capricci di un defunto, difatti lui non può nemmeno ribattere e dir la sua a meno che i medium non diventino avvocati e notai degli spiriti dell’aldilà.
Questo preambolo ci pone nell’ottica di ricercare quale sia l’approccio migliore per raccontare post mortem una vita musicale così intensa di significati ed eterogenea come quella di Pharoah Sanders. Un musicista del suo calibro è un poliedro complesso, in ogni angolo si rispecchia una storia che differisce per prospettiva ma si interseca per eventi. Immaginando di voler camminare sopra questa gigantesca forma geometrica ci si renderebbe presto conto che per coglierne il centro, quindi il nucleo e la sua anima, non si può solo camminare a zonzo senza farsi domande, serve un aiuto. Un album potrebbe essere la grande guida che ci serve per non perderci.

La guida che voglio proporre è un Lost Record del Live in Paris del 1975, pubblicato e restaurato dall’etichetta discografica Transversales Disques. Sébastien Rosat, co-fondatore dell’etichetta, mi ha spiegato in un breve scambio di mail che l’album è stato come ritrovare un tesoro; già dal primo ascolto si capiva quanto fosse una performance straordinaria. La Transversales Disques ha compiuto in primis un lavoro di restauro sul materiale ritrovato nel 2017 nel caveau di Radio France e a impreziosire l’esperienza c’è la minuzia per la ricerca di fotografie scattate per quella performance. Proprio quando le ricerche stavano per arrivare a un punto morto ci ha pensato la fortuna a fargli ritrovare una foto del concerto in “Jazz Hot” Magazine per mano della fotocamera di Christian Rose che ha fornito un rullino pieno di splendide istantanee dell’evento, arricchendo un’edizione discografica rara e unica; sicuramente realizzata con quel tipo di passione che solo gli amanti del jazz riescono a mettere in ciò che fanno nella vita. Questa storia ci catapulta in una prospettiva romantica nei confronti dell’album, ma diventa un antipasto ricco di proteine per affrontare il viaggio che propongo, ma soprattutto è funzionale a un piccolo gioco di prestigio: usare l’album del concerto come incipit, cercando di rovesciare la classica prospettiva della biografia al servizio della musica, seguendo piuttosto il flusso sonoro del live e quello degli eventi in ordine cronologico. Questo processo permette di trasformare quel poliedro di cui parlavo, attraverso la scomposizione e ricomposizione in una nuova forma, quella plasmata dalle note del sassofono di Sanders il 17 novembre del 1975 al Grand Auditorium nello studio 105 della Maison de la Radio.

Love is Here part I/part II
Il seguente brano potrebbe essere tanto un inedito quanto un arrangiamento improvvisato estremamente articolato di Love is Here To Stay, fatto sta che troverà pubblicazione per la prima volta in un album del 1978 Love Will Find a Way, accompagnato dalla splendida voce della cantante Phyllis Hyman. Il fatto che sia stato eseguito nel 1975 a Parigi, per venir poi pubblicato solo tre anni dopo, lo rende un esempio calzante del processo creativo del faraone. Sanders non è il tipico musicista con la matita pronta in mano a calcare il pentagramma, il punto di partenza è sempre quello dell’improvvisazione da cui si generano idee e motivi, dispiegandosi in una cosiddetta forma estesa (approccio tipico nell’estetica free), ma in questo caso è più corretto chiamarla Suite, come lui la concepiva: improvvisazioni molto lunghe ma divise in due parti. Andando oltre il contesto, quello che sentiamo di primo impatto è un forte senso energico da parte di tutto il gruppo a partire dal pianismo percussivo di Danny Mixon, alla batteria serrata di Greg Bandy in cui si inserisce l’ostinato basso di Calvin Hill, talmente intenso che sembra di poter sentire le dita della pelle levigarsi su quelle corde e infine il sassofono tenore di Sanders, che comincia con un lirismo e una dolcezza ingannevole nell’eseguire il tema. Un inganno perché nei primi minuti qualcuno potrebbe soltanto dire che è molto bravo, ha una tecnica solida ma non fuori dal comune al suo strumento; tuttavia, man mano che passano le battute ci si accorge presto di cos’abbia di così particolare da catturare ogni orecchio. La sensazione è che l’ancia venga strozzata e la campana d’ottone vibri ad altissima magnitudo, con un fluire rapidissimo di raggruppamenti di note in scala che assomigliano quasi a un glissando, altre volte si sofferma su ritmi irregolari arrivando fino a dei sovracuti urlanti, lo screaming come lo definivano alcuni, che però in Sanders si fonde a uno stile che è in parte erede del sassofonismo di Coltrane. A partire dall’album Soultrane (1958), il critico Ira Gelter in un articolo su Down Beat dello stesso anno, chiama Sheets of Sound questo approccio al sassofono. Viene da stupirsi pensando a come Sanders sia un musicista in grado di essere così aggressivo e dolce allo stesso tempo mentre suona, ma in questa duplicità passano in mezzo molti stati d’animo, ci si rende conto abbastanza in fretta di quanto la sua palette espressiva sia più complessa e variegata rispetto a quella manciata di note del tema all’inizio del brano. L’effetto è seducente, ci sentiamo lentamente magnetizzati, solo dopo solo, brano dopo brano mentre veniamo accompagnati dalla direzione di queste energie in gioco. La forza è talmente trascinante anche nel solo di pianoforte per fare un esempio, in cui ascoltiamo giochi di simili intenzioni gestuale tra registri e intensità esecutiva; percepiamo quindi una coesione tipica di quei musicisti che riescono a entrare nella misteriosa dimensione dell’Interplay.

Udin&Jazz 2008 – ph Luca A.d’Agostino

Farrell Tune
Se quella sera tra il pubblico ci fosse stato un ascoltatore casuale di jazz, trascinato di peso in quell’auditorium da un amico a sentire per la prima volta un concerto di Sanders, potrebbe essersi chinato di lato durante i primi applausi per sussurrare con stupore ed entusiasmo al suo vicino di posto: “Che figata oh! Ma scusa, chi è questo Sanders?”. Farrell “Pharoah” Sanders rientra tra quei jazzisti che in quegli anni hanno vissuto storie di vita simili tra esordi e scelte intraprese, curiosamente tutti sono arrivati ad incontrarsi e a collaborare nell’ambito della cosiddetta new thing: sono nati e cresciuti in ambienti di ghetto delle grandi città o negli stati periferici dell’America, hanno scoperto l’amore per il jazz o attraverso la musica della messa afroamericana o con la band delle High School, infine hanno creato una propria formazione o hanno tentato di piazzarsi a fianco di qualche nome grosso. La città natale di Sanders è Little Rock in Arkansas, uno stato dove i locali per suonare sono divisi come in una scacchiera, quelli per i bianchi e quelli per i neri, in questi ultimi era il rhythm and blues con i suoi ritmi molto ballabili e le note piacenti a far da padrone, un genere che ha fatto da palestra negli anni giovanili di molti jazzisti dell’epoca. Questa condivisione di destini simili è forse uno dei motivi per cui tutti questi musicisti free riuscivano a entrare così fortemente in connessione gli uni con gli altri; mi riferisco a persone del calibro di Archie Shepp, Albert Ayler, Ornette Coleman, Billy Higgins, Don Cherry e Cecil Taylor… Però, volendo scavare più a fondo su chi sia Farrell Sanders dovremmo allontanarci un minimo da meri dati storiografici e rivolgerci al diretto interessato. In merito è interessante quello che emerge in una delle interviste più semplici e umane che lui abbia mai fatto, quella realizzata da Nathaniel Friedman per il New Yorker nel gennaio 2020. Le risposte di Sanders non sono prolisse, arrivano dritte al punto. Quello che emerge è una persona perfezionista nel suo esperire la musica. Nel suo periodo di grande attività con la Impulse! capitava di rifare dei take, nonostante nelle registrazioni di musica a improvvisazione libera è piuttosto raro, in quanto la direzione sonora che si stava creando non gli piaceva tanto. Scherzo beffardo però vuole che poi, andando a riascoltare quei take appena interrotti, si divorava le mani quando si accorgeva -troppo tardi – di quanto fosse bello ciò che stava succedendo. Anche ad album completato la storia non cambiava, riascoltava le sue stesse opere già pubblicate e trovava continuamente passaggi e note al loro interno dove poter redarguirsi esclamando “potevo farlo meglio”. Con Impulse! Gli capitava di dover registrare anche due o tre album all’anno, però questo non frenava il suo perfezionismo, perché esso si lega anche alla ricerca di novità: si nota infatti come in ogni album di quel periodo c’è un perenne tentativo di rinnovarsi. Non passava molto tempo prima che considerasse invecchiata un’idea musicale, a tal punto che quando alla veneranda età di 79 anni parla della ricerca di un suono che lo renda soddisfatto, ammette di non averlo ancora trovato. Arriva a confessare come in realtà non sia mai esistito un singolo album dove fosse pienamente compiaciuto del suono ottenuto. In un altro aneddoto racconta un dettaglio che ci fa capire quanto fosse esasperato questo atteggiamento nei confronti della ricerca del suono: consumava scatole e scatole di ance, le provava tutte scegliendole e buttando via quelle che non suonavano giuste. Questa ricerca ossessiva del nuovo spiega come mai la sua discografia sia stilisticamente variegata, non sopporta l’idea di doversi ripetere quando suona, non vuole mantenere quell’approccio burocratico nei confronti della musica tipico di certi suoi colleghi… Il paradosso, però, è che quando ascolta la musica di questi ultimi ne rimane affascinato dalla bellezza e si chiede cosa stiano usando per suonare così bene. Ulteriore dettaglio che ci fa capire al meglio chi è e la sua musica è certamente la sua attrazione per i paesaggi sonori, sin da piccolo gli piaceva sentire il rumore delle cose e cita alcuni esempi come il cigolio delle macchine vecchie per strada, il rumore delle onde, i treni che sfrecciano sulla ferrovia, gli aeroplani che decollano.  Questo atteggiamento lo ha portato sempre a cercare di trasformare i suoni brutti, che lo ammaliavano, in belli in qualche modo. Il tassello mancante a questa sintesi della sua umanità sta in un’altra intervista; quella del 1995 per la rete televisiva BBC, dove ci fa capire come lui suonerebbe qualsiasi cosa cercando di trasformarla in qualcosa di bello, spiegando come lui sia una persona che non ha scopi al di fuori di voler semplicemente esprimersi. Questo brano lo rappresenta al meglio, pensandoci, un semplice tema porta in stile Rhythm and Blues dove la sua ripetitività diventa invisibile in quanto non più un centro d’attrazione musicale grazie ai musicisti che improvvisano con grande libertà e tutto suona così fresco e nuovo ad ogni passaggio; un trucco apparentemente semplice, ma in realtà molto difficile da padroneggiare.

The Creator Has a Masterplan / I Want To Talk About You
The Creator Has a Masterplan è quasi certamente il brano più iconico di Pharoah, in questo live possiamo sentirlo in una versione ridotta con un taglio dell’introduzione e della prima sezione dal carattere lento e contemplativo. Comincia direttamente dalla seconda sezione, la più rapida, mantenendo quello scambio tra momenti frenetici e feroci con lo stile aggressivo di Sanders. A questo segue uno dei più classici degli standard jazz come I Want To Talk About You di Billy Eckstine. Sembra strano che questi due brani possano essere messi vicini, ma restituiscono un’immagine della sua visione musicale ed estetica di vita, ci permettono di capire quanto due persone con cui ha collaborato negli anni ’60 lo abbiano segnato e influenzato nel mestiere del musicante: Sun Ra e John Coltrane. Sanders nel 1962 arriva a New York, una metà che ha lo stesso sapore italiano del classico “vai a Milano, lì c’è tutto”. Sempre nell’intervista per il New Yorker spiega come sia arrivato nella grande mela facendo l’autostop, con un portafoglio vuoto di verdoni ma pieno di verde… speranza, cimentandosi in una vita da senzatetto pur di respirare l’ossigeno dei quartieri dove si suonava il jazz più sperimentale e spinto. Inizialmente cerca di arraffare i soldi per poter mangiare in ogni modo, addirittura donando il sangue per appena diciassette dollari, ma il flusso degli eventi lo trasporta nel luogo giusto al momento giusto. Uno dei lavori più stabili che ha avuto era il cuoco e una sera al Greenwich Village viene notato da Sun Ra che lo vorrà nella sua Arkestra, questa fu l’occasione per compiere il primo balzo da sogno americano del jazzista. Suonare nel 1964 con l’Arkestra, sicuramente una formazione così folle e rivoluzionaria come il suo capo, non poteva che ispirarlo nelle sue avventure seguenti. Ci sarebbe un sacco da scrivere su come Sun Ra abbia praticamente gettato le basi per l’estetica cosmica e meditativa del jazz che verrà di lì in poi, ma tralasciando discorsi su possessioni aliene rivelatrici di verità sull’esistenza dei terrestri e del cosmo, basti sapere un dettaglio utile a questa narrazione, Sun Ra era affascinato sin da piccolo alla cultura egizia, da quando in televisione aveva assistito al ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Proprio attraverso la cultura egizia una buona fetta degli afroamericani di quell’epoca cominciano il cosiddetto esodo di ritorno verso la Madre Africa e l’Islam. Questo ci porta a capire come mai Sun Ra rinominerà Faraone il suo amico e collega Farrell Sanders, è quindi impossibile slegare questa esperienza quando pensiamo all’immagine di Pharoah con il suo vestiario che ci fa intendere come quell’eredità dell’Arkestra sia diventata parte di lui. Il Creatore ha un piano superiore, riprendendo il concetto islamico di unicità del Tawhid e questa idea spiega come il flusso abbia guidato Pharoah fino a quel punto. Questo piano superiore però non è di certo ancora arrivato alla sua realizzazione, perché l’anno dopo la storia di Sanders si incrocia con quella di Coltrane nell’album Ascension. I due già avevano stretto amicizia quando si erano incontrati in California nel 1959. Nel ’58 Sanders si iscrive all’Oakland Junior College in California per studiare arte e musica, portando avanti la sua passione per la pittura, tuttavia non smette di suonare. Porta a termine un affarone, baratta il suo clarinetto con un sassofono d’argento che a sua volta scambierà con un vecchio modello di tenore come ha sempre voluto. In quella California, dove per suonare nessuno fa questioni sul colore della pelle, incontra John Coltrane. Il loro rapporto viene spesso condito da grandi discorsi mistici, ma sia Coltrane sia Sanders ne parlano con la semplicità di due migliori amici che raccontano l’uno dell’altro. Erano entrambi molto silenziosi, non avevano molto da dirsi, ma quando erano vicini si capivano con qualche sguardo o frase breve. Un episodio che spiega al meglio la profondità del loro rapporto sta di nuovo in quel perfezionismo a volte assillante di Sanders, chiedeva spesso durante le sessioni se il suo suono andasse bene, se le sue note erano giuste o cozzassero, ma Coltrane non rispondeva quasi mai. A furia di insistere però un giorno Coltrane esordì con un semplice “Sì va bene così, tu continua a soffiare”. Poche parole, a dimostrazione di quanto John conoscesse bene l’indole di Sanders. Nelle note di copertina dell’album Live At Village Vanguard Again, leggiamo invece un discorso più lungo – ripreso da Nat Hentoff – di Trane che recita: «Pharoah è un uomo di grandi risorse spirituali. È sempre alla ricerca della verità. Cerca di permettere al suo spirito di guidare le sue azioni. È un uomo che ha, oltre al resto, energia, onestà mentale e che va dritto all’essenza delle cose. Mi piace moltissimo la forza con cui suona. Inoltre, è uno degli innovatori e io mi considero fortunato per il fatto che si sia dimostrato disposto ad aiutarmi, a far parte del nostro gruppo». Hanno due personalità simili nella vita, ma si colmano nelle loro differenze, questo punto sfugge spesso quando si parla erroneamente di come e cosa Sanders abbia ereditato del sassofonismo di Coltrane. La verità è che le loro sonorità sono complementari ed è per questo che assieme suonavano così bene, si inseriscono in un rapporto dialettico, infatti, Sanders è tra i pochi musicisti che sono rimasti fissi nel quintetto di Trane fino alla morte nel ‘67. Tutto questo discorso ci fa capire come in fondo non c’è nulla di così mistico nel rapporto tra loro due, è vero che erano delle persone profondamente spirituali ma ciò non vuol dire che fossero dei santoni invasati di parole ispiratrici e religiose come spesso li si dipinge. Da un lato Coltrane arrivava a chiudersi in camera e disegnare linee nel circolo delle quinte o creare scale usando sequenze numeriche matematiche, mentre Sanders aveva un poderoso istinto a guidarlo quando imboccava l’ancia, tuttavia, dopo ore e ore a fare improvvisazioni libere, come racconta lo stesso Sanders, i due si concedevano di divertirsi suonando qualche standard e alcune ballad. In tal senso, a mio parere, un pezzo come I Want to Talk About You, ci rivela molto sull’influenza di Coltrane su Sanders, più di quanto non lo facciano album come Tauhid, Karma, Summun Bukmun Umyun, Jewels of Thought o andando più in là negli anni, Elevation.

Love is Everywhere

Pharoah Sanders – Udin&Jazz 2008 – ph Luca A. d’Agostino

L’ultimo brano riporta alla memoria una frase che disse un altro dei suoi amici con cui collaborò per anni, il pianista Lonnie Liston Smith, che in un’intervista con Chris Parkin racconta cosa significasse suonare con Sanders: «Sembrava che cantasse più note contemporaneamente e proprio in quel periodo stavo cercando di tirar fuori nuove potenzialità dal mio pianoforte a coda, suonando con l’avambraccio per ottenere un suono più potente. Ho chiesto a Pharoah: “Come fai ad avere questo suono?” Lui mi ha risposto; “Ma anche tu suoni come se avessi più di dieci dita!”. A lui piaceva spingersi sempre oltre il limite». Questo discorso di spingersi oltre il limite mi ha sempre ispirato e fa riflettere su quello che è il discorso che voglio portare in chiusura di quest’album. È innegabile e stupefacente come in dieci anni e una dozzina di album Pharoah Sanders sia diventato un musicista completo già a metà degli anni ’70. Quel bisogno di ricercare la verità e rinnovarsi non gli permettono di frenarsi, non è sufficiente ciò che ha già fatto e la sua spinta creatrice lo porta in più direzioni negli anni a venire. Per un periodo, sul finire degli anni ’70, torna indietro nella musica, abbandonando l’estetica spirituale, riabbracciando musiche più vicine alla tradizione blues come l’Hard Bop o riesplorando il Modal stile West Coast. Arriva nel 1994 a viaggiare in Marocco dove conoscerà la musica Gnawa e registrerà The Trance of Seven Colors con Mahmoud Guinia. Sanders cambia spesso etichetta nel corso della sua carriera, incidendo per dieci etichette diverse, suonando con ogni musicista di ogni estrazione in virtù di quel processo di trasformazione di cui abbiamo parlato. Non si può non restare affascinati da una spinta propulsiva alla creazione come la sua, talmente potente che nel 2021 ritorna in studio dopo lungo tempo registrando Promises, un album con il producer britannico Floating Points e la London Shymphony Orchestra. Il suo sassofono ha ormai raggiunto gli ottant’anni suonati, ascoltandolo riconosciamo subito il suo stile; eppure, ci appare un’altra volta come qualcosa di nuovo mentre veniamo trasportati nel suo mondo con quei nove movimenti attorno allo stesso motivo, racchiudendo forse il migliore album del jazz del ventunesimo secolo. Mi piace pensare che alla fine della sua vita sia riuscito a trovare almeno in quell’album quella sonorità perfetta, senza macchie, quella che con certezza può affermare che gli piace, senza rimuginarci sopra, quella che, in sintesi, ha sempre voluto trovare, ma quanta ironia se pensiamo come un anno prima in quella intervista con Friedman dice di non aver ancora trovato! Questo “ancora” è carico di significato ora che ci ripenso. Il suo voler superare certi limiti e andare oltre è d’obbligo per compiere un viaggio musicale come il suo, si potrebbe pensare che questi continui cambiamenti, che di lustro in lustro ha fatto, derivino da una forza di spirito, ma questa voglia di superare i limiti da sola non basta a spiegare la sua anima. Orientarci alla ricerca di essa facendo una lista di questi cambiamenti nella sua vita ci porta verso l’infinito, fino a diventare un oceano dove, da qualunque parte indichi la bussola, navigheremmo senza ritrovare più la terra ferma. Bisogna prendere fiato, fare il punto e trarre una conclusione prima di disorientarsi. Love is Everywhere mi ha permesso proprio di fare questo: gettare l’ancora in una destinazione precisa. Questo pezzo ha all’interno un chant (caratteristica che manterrà in molti suoi brani, specie dalla collaborazione con il cantante Leon Thomas in poi) e invita il pubblico a recitare con lui questo canto, come in una messa. Questo rituale ci permette di trascendere dal sentiero che abbiamo percorso ascoltando l’album. Vediamo finalmente il poliedro nella sua nuova forma e abbiamo scavato abbastanza da trovarne il nucleo? Forse sì! L’anima che guida questa voglia di sfondare muri e superarsi sta in un dettaglio solo apparentemente trascurabile, rileggendo la sua discografia e soffermandoci sui titoli di alcuni brani possiamo notarlo abbastanza in fretta. Love is Here, Love is Everywhere, o brani con titoli omonimi all’album come Love in Us All (1974), Love will find a way (1977), Welcome to Love (1991), Crescent with Love (1994)… in cui l’amore viene suonato come qualcosa di energico e movimentato dandoci una visione allegra e positiva del sentimento o, al massimo, dove manca l’elemento del ritmo incalzante c’è quello contemplativo; in netto contrasto con il dolore e il lamento perpetuo che troviamo nel resto del mondo jazz, catapultandoci in una dimensione più drammatica, melensa, nostalgica, enigmatica e ignota: What is this thing called love, You don’t know what love is, In a Sentimental Mood, There will never be another you e tanti altri. La domanda iniziale dell’articolo trova risposta, ecco che il nucleo si disvela davanti ai nostri occhi: ciò che Sanders ci ha lasciato è amore, che si esprime da noi stessi verso tutte le cose che ci circondano e da esse fa ritorno a noi. Oserei dire che avendo superato certi limiti sia addirittura un amore ancora più supremo di quello che Coltrane cantava nel 1960 in A Love Supreme. Quanto meno, questa è la forma dello spirito che ho visto io esplorando il mondo di Farrell Pharoah Sanders.

Alessandro Fadalti

Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita.

Dopo la triennale parentesi balneare di Grado, è tornata nella sua sede naturale di Udine la storica manifestazione Udin&Jazz che ha dimostrato, con la sua 32 edizione, di essere uno dei punti di riferimento per il jazz non solo a livello italiano.


Lo ha ribadito autorevolmente con una serie di straordinari eventi musicali ma anche con tutta una serie di attività culturali collaterali che da sempre sono parte integrante di un modo di intendere la musica non solo come intrattenimento ma prima di tutto come rivendicazione di istanze democratiche e libertarie che considerano le blue note in tutte le loro sfumature come strumento di conoscenza, condivisione e rispetto di diritti inalienabili nei confronti dei nostri fratelli meno fortunati e di tutti.
Il jazz può essere inteso in molti modi: può essere un modo un po’ esotico e snob di estraniarsi dalla realtà per qualche ottusa élite oppure il grido di dolore che si alza dai campi dell’ingiustizia e della discriminazione che scuote il potere con l’intento di abbatterlo a colpi di note. Non a caso la rassegna si è aperta con il film “Gli Stati Uniti vs Billie Holiday” di Lee Daniels (Usa 2021) che a modo suo ricostruisce la persecuzione giudiziaria che subì la grande cantante per aver denunciato attraverso la propria arte gli orrori dei linciaggi contro gli afroamericani in “Strange Fruit”.
Il Jazz è uno strano frutto che penzola dall’albero dell’ingiustizia sociale ma che non muore mai continuando a scalciare contro ogni sopruso senza che nessuno possa mai far tacere la sua voce di denuncia e di protesta.
L’associazione Euritmica con il suo patron Giancarlo Velliscig, che da sempre organizza il festival, lo sa bene e da sempre si batte per gli alti valori in cui crede e professa. Il motto della manifestazione di quest’anno lo diceva chiaramente: “Play Jazz, Not War” semplice e diretto ma per nulla scontato in un momento nel quale stiamo assistendo ad una nuova pericolosa corsa al riarmo generale, mentre i soliti mentecatti credono che solo dotandosi di missili più potenti si possa “vincere la pace”. Stiamo passando dalle tragicomiche “missioni di pace” a suon di bombardamenti a tappeto (Iraq, Afghanistan, Siria ecc.) alle “Operazioni speciali di difesa democratica” con i droni telecomandati e con i lanciamissili portatili. Gli imperialisti sono sempre gli altri così come molti di noi dicono: “Sono pacifista ma…”, affermano tranquillamente anche “Non sono razzista ma…”come in una canzone, tristemente ironica, di Willie Peyote.
Di seguito daremo conto brevemente degli eventi principali del festival, solo una piccola parte di tanta meraviglia che per essere davvero compresa ha bisogno di essere vissuta personalmente, per questo si considerino le righe che seguono solo come un’indicazione e un invito a partecipare alla prossima edizione.
Gianpaolo Rinaldi con il suo rodato trio è in grado di affascinare e divertire in qualunque situazione anche la più improbabile. Udin&Jazz quest’anno più che mai ha voluto sperimentare nuovi angoli della città per alcune delle proprie esibizioni in cartellone. Come preambolo al festival ha creato un’apposita sezione chiamata semplicemente : “Aspettando Udin&Jazz”. A Rinaldi e ai suoi è toccato un bel giardino nel pieno centro cittadino perfettamente attrezzato con aree giochi per bambini e un fornitissimo chiosco per quelli che bambini non lo sono più da un pezzo e possono annegare negli spritz tutti i rimpianti e le nostalgie mentre i loro bambini fanno il diavolo a quattro su altalene, tappeto elastico e cavallucci a molla. Non è facile suonare in un luogo del genere ma è davvero affascinante, vivo, reale; non si può contare sulle liturgie della sala da concerto e nemmeno sulla dimensione intima del club, è stato vero jazz in plein air con i bambini che scorrazzavano e il vociare delle famiglie al parco mentre i tanti intervenuti per il concerto si godevano i suoni meravigliosi della vita reale che si univano dinamicamente in perfetta sinergia a quelli dei musicisti.

L’ultima ambiziosa incisione del trio con composizioni originali di Rinaldi, “Sapiens doesen’t mean Sapiens” è stata ispirata al best seller Sapiens, da animali a dei di Yuval Noah Harari e, almeno nelle intenzioni, vuole tracciare un arcobaleno di note tra la scimmia che eravamo e i quadrumani che diventiamo mano a mano che pervertiamo le nostre esigenze di esseri umani. E’ un fatto ormai acclarato che tanta abilità e adattamento evolutivo non hanno portato solamente a miglioramenti nella nostra esistenza; la catastrofe ecologica che abbiamo provocato su scala planetaria ci dimostra chiaramente che di certo siamo Homo ma che sul Sapiens si può discutere. Rinaldi traduce impeccabilmente questo discorso in musica dal proprio punto di vista di pianista talentuoso alle prese con un mondo difficile da capire ma che la musica può aiutarci a comprendere.
Il tutto è suggerito da Rinaldi in modo lieve ma per nulla superficiale, il linguaggio della sua musica è alto ma perfettamente comprensibile a tutti. Nel trio si distingue anche il batterista Marco D’Orlando dalla grande fantasia poliritmica che usa anche gli stridii delle bacchette sui piatti e altri bizzarri rumori per esprimere al meglio inquietudini e illuminazioni. Ottima la calibratura dell’insieme attraverso il contrabbasso di Mattia Magatelli.
Armando Battiston è uno dei decani del pianismo jazz friulano e si è esibito per “Aspettando Udin&Jazz” in duo con il proprio storico batterista Daniele Comuzzi al Caffè Caucigh, uno dei luoghi storici della buona musica udinese con un cartellone fitto di eventi, jam sessions e readings.
La versatilità del pianista, la lunghissima esperienza gli permettono di guardare avanti e progettare futuri imperscrutabili e inauditi. Per l’occasione ha sfoggiato la sua conoscenza e predisposizione verso il Latin Jazz con una certa vena tangheira. Moltissimi anche gli standard più classici interpretati dalla sua particolarissima sensibilità e dal suo gusto che va dalle più spericolate sperimentazioni free form al jazz main stream e confidenziale venato dalla tradizione della canzone italiana melodica. E’ davvero un gran piacere ascoltarlo; la sua musica è un vero balsamo vivificante, la sua fluviale esibizione in perfetto interscambio ed equilibrio con il batterista Comuzzi in uno degli angoli più suggestivi della città medievale ha respirato al ritmo della serata estiva e dei suoi incanti.
La manifestazione è entrata nel vivo spostando i propri eventi centrali al Teatro Palamostre. Tra i primi ad esibirsi in quella sede il pianista Emanuele Filippi che presentava per l’occasione il suo nuovo lavoro, fresco di stampa, in duo con Seamus Blake: “Heart Chant”. Il sassofonista inglese, purtroppo non ha potuto essere presente a Udine perché impegnato nella tournée americana di Roger Waters, d’altronde un nome come “Seamus” deve ricordare sicuramente qualcosa al fondatore dei Pink Floyd (Meddle, 1971). Solo da questo, che non è per nulla un particolare irrilevante, possiamo capire la rilevanza internazionale di Blake e il conseguente alto valore del sodalizio con il giovane pianista friulano. Il lavoro discografico che ne è scaturito è di una bellezza meditativa e sospesa. A sostituire il musicista inglese per il concerto udinese, Ben van Gelder da Amsterdam, giovane di talento e di grandi prospettive ma comprensibilmente, non proprio allo stesso livello.
La musica è sembrata molto solida dal punto di vista compositivo ma fin troppo sorvegliata per quanto riguarda il Pathos. Di certo, almeno dal vivo, il cambio di partner all’ultimo momento non ha giovato al risultato finale che comunque ha regalato alcuni momenti di grande intensità.

A seguire, in una serata dal doppio concerto, il quartetto del funambolico trombettista Fabrizio Bosso che ha trascinato il pubblico in un’atmosfera gioiosa di divertimento dai suoni scintillanti e preziosi fatti di grandissimo virtuosismo ma anche di tanta emozione elegante. Bosso non è mai eccessivo e non vuole stupire il pubblico a tutti i costi con equilibrismi trombettistici fine a se stessi così come i suoi musicisti che pur lanciati a folli velocità da ritmi prodigiosi mantengono sempre la barra a dritta. Nessuno di loro vuole fare il “fenomeno”. Fin da subito hanno saputo creare un’atmosfera piacevole, senza tensioni eccessive o liturgie narcisistiche, solo tanta buona musica che lascia Good Vibrations e che fa sognare ad occhi aperti. Ogni tanto ci vuole proprio.
Udin&Jazz presentava anche una personale dedicata della pittrice Ivana Burello dal significativo titolo “I colori del Jazz”. Nel ridotto del Palamostre, dedicato a Carmelo Bene e ricavato sotto una delle scalinate dell’auditorium, erano esposti alcuni ritratti di grandi icone del jazz, (Sonny Rollins, John Coltrane, Miles Davis, Billie Holiday) frutto di varie tecniche pittoriche soprattutto relative all’espressionismo astratto e all’action painting. L’effetto era quello di un’improvvisazione musicale per spatole e pennelli non del tutto inedita o assolutamente originale ma sicuramente di grande impatto.

Nel corso della manifestazione è stata anche presentata quella che ormai è giustamente diventata la migliore e più venduta graphic novel di Jazz nel nostro paese: Mingus di Flavio Massarutto e Pasquale Todisco “Squaz” dal quale, per concludere questa prima parte della recensione, rubiamo impunemente l’explicit che può davvero servirci come nuovo inizio per future riflessioni: Mingus “è la storia di un intellettuale autodidatta in lotta perenne con una società che lo vorrebbe marginale e subalterno. La storia di un Martin Eden meticcio, la si potrebbe definire anche una biografia apocrifa. Come ebbe a scrivere Ingeborg Bachmann – Lo scrittore apocrifo non gioca con la storia, non divaga con i destini, non costruisce biografie: prende una vita umana, consegnata all’erbario delle storie dell’arte, della poesia e della filosofia, e la provoca, la smaschera, la interroga: le fa rivelare sorprendenti segreti, fantasie più vere della realtà, che fanno esplodere tutte le storie e tutti i cimiteri, riconsegnando alla vita quanto di una vita è stato immaginato vivente.”
(continua)

Flaviano Bosco

JAZZ E SIGLE TV

La televisione è stata spesso oggetto di critiche in quanto possibile veicolo di regresso culturale delle masse. Umberto Eco, a proposito dell’uomo circuìto dai mass media, scriveva che “poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l’evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e quelli con cui si possa stabilire una tensione” (Diario Minimo, 1961). La tematica dei rapporti fra musica e mass media investe anche un genere non definibile “narcotizzante” come il jazz nella sua relazione con la tv. In proposito, in Italia, si sono verificati dei momenti di avvicinamento fra i due termini del rapporto che consentono di abbozzare dei lineamenti di storia televisiva “vista” attraverso il fil rouge delle sigle jazz.

Donald Bogle ha osservato che “attorno al 1950 i sets tv arrivavano nelle case degli americani trasformandone gradualmente abitudini e prospettive” (Blacks in American Films and Television, New York, Fireside, 1989). E David Johnson di recente ha annotato che “come la tv si insinuava nell’entertainment dell’America di metà 900, musicisti e compositori, molti con esperienze jazz, venivano chiamati a scrivere temi ed “attacchi” per varietà e programmi” (Heard It On The Tv: Jazz Takes On Television Themes, indianapublicmedia.org, 12/5/2021). Osservazioni in parte trasferibili, con le dovute proporzioni, all’Italia che, dal 1954, dai primi vagiti della neonata tv, subiva il modificarsi di usi, linguaggio, immaginario collettivo in un contesto di rapida trasformazione economica, sociale e culturale, a causa anche alla spinta dei mass media. Su queste colonne, fra le sottotracce della nostra storia televisiva, abbiamo provato a “rintracciare” un argomento abbastanza sottaciuto, quello delle sigle (e intersigle) che sono poi l’antipasto e il post prandium del programma televisivo, nello specifico quelle dialoganti lato sensu in jazz o comunque prodotte od associabili a jazzisti. Come “la radio degli anni Cinquanta è a cavallo tra conservazione e trasformazione” (cfr. sub voce Cultura e educazione, l’Universale Radio, Milano, 2006) così il nuovo medium, già dai primi anni di vita, attenzionava sonorità che erano espressione di differenti musiche del mondo. Su un tale sfondo il jazz riusciva man mano a ritagliarsi spazi nei palinsesti e ad essere presente in filmati, notiziari, dossier, speciali, spot e jingle (cfr. Jazz e pubblicità, “A proposito di Jazz”, 9/4/2021), programmi a quiz, a premi e a cotillon, varietà, sceneggiati e “originali televisivi”, serie tv. Già nell’Italia della ricostruzione postbellica la dimensione locale non più autarchica si era confrontata sulla globale “importando” liberamente musica che durante il regime era proibita. Con l’avvento del medium tv le sigle di fatto fungevano da possibile cavallo di Troia per conquistare al jazz spazio in audio/video e lasciar trapelare le note di Woody Herman, Stan Kenton, Duke Ellington, Toots Thielemans … e vari artefici di una musica che in quegli anni non veniva più percepita solo come intrattenimento omologante bensì anche quale propaggine di quella cultura neroamericana propria di una comunità oppressa non dominante. Una comunità in fibrillante opposizione politica e spiccato antagonismo sociale i cui risvolti rimbalzavano nelle lettere, nelle arti, nella musica. Ma entriamo nel dettaglio. In Italia, nel 1957, coetanea di Carosello, vedeva la luce in tv Telematch. La trasmissione a premi era introdotta dalle note di “Marching Strings” dell’orchestra di Ray Martin, il bandleader di “The Swingin’ Marchin’ Band” (RCA, 1958). Light music, la sua, che rappresentava però un’apertura internazionale verso la musica easy listening d’oltrefrontiera sul Programma Nazionale e in prima serata. Parallelamente, alla radio, nel 1960, Adriano Mazzoletti, da un anno collaboratore della Rai, debuttava con la Coppa del Jazz promuovendo in tal modo una più stabile programmazione in senso jazzistico sul mezzo radiofonico i cui primordi risalgono all’antenato Eiar Jazz del 1929.

A dire il vero, dopo il primo melodico Sanremo del ’51, una decisa aura jazz si era avvertita in Nati per la Musica, un programma con Jula De Palma, Quartetto Cetra, Teddy Reno che si avvaleva delle orchestre di ritmi moderni di Gorni Kramer e Lelio Luttazzi, la cui sigla è ascoltabile sul Portale della Canzone Italiana dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (www.canzone italiana.it/1zlns). Sorella Radio avrebbe dato anche in seguito significativi contributi alla causa jazzistica – si pensi all’uso fatto da Radio1 dello stacco di “Country“ tratto dal cd “My Song” di Jarrett con Garbarek, Danielson e Christensen (ECM, 1977) –  ma il copioso materiale di Mamma Rai, con il ricchissimo archivio sonoro ad oggi digitalizzato, meriterebbe di essere approfondito in altra sede. Torniamo allora al come eravamo tramite il cosa guardavamo. Dopo la vittoria di Modugno all’Ariston nel ’58, con una “Nel blu dipinto di blu” a ritmo swing, nell’anno di grazia televisivo 1961 passavano in video le immagini di Moderato Swing che era anche il titolo della sigla di Piero Umiliani.  Un biennio ancora per poi sentire il canto e la tromba di Nini Rosso echeggiare in “I ragazzi del jazz”, sigla di Fuori I ’Orchestra, epica trasmissione, per la regia di Lino Procacci, che si avvaleva della direzione musicale dello stesso Umiliani. Si trattava di una rubrica che si occupava “di musica equidistante fra quella leggerissima e quella classica“ (www.umiliani.com) che rimane una pietra miliare della televisione italiana. Fra i numeri fissi c’erano quello dedicato al Jazz made in Italy ed l’altro spazio denominato Parole e musica che registrava partecipazioni lussuose tipo la cantante Helen Merrill. Da segnalare che Umiliani avrebbe poi collaborato con I Marc 4 (acronimo di Maurizio Majorana, Antonello Vannucchi, Roberto Podio, Carlo Pes), gruppo operante fra ’60 e ’76, a cui è da ascrivere la sigla di Prima Visione (su album Ricordi, 1974). Il 1963 resta un anno significativo per il jazz sul piccolo schermo anche perché decollava in Italia, con TV7, l’idea di utilizzare un brano jazz come intro di un programma d’inchiesta. Per l’occasione la scelta cadeva su “Intermission Riff” di Stan Kenton, poi sostituita con una storica versione dell’Equipe 84. A fine decennio toccava alla serie tv Nero Wolf diretta da Giuliana Berlinguer con Tino Buazzelli, vedere impressi i titoli di testa e di coda dalla tromba di Nunzio Rotondo sulla base elettronica di Romolo Grano, musica da noir con echi dal lungometraggio di Louis Malle Ascenseur pour l’échafaud, del ’58, sonorizzato da Miles Davis, trombettista a cui Rotondo è stato spesso accostato. Ed avrebbe “aperto” un thriller televisivo il compositore Berto Pisano con la sua “Blue Shadow”, sigla lounge dello sceneggiato Ho incontrato un’ombra del 1974, che figura nella classifica stilata da “Rolling Stone” il 26 agosto 2020 in Fantasmi e storie maledette. Le migliori sigle della tv italiana del mistero degli anni ’70. In tema di rotocalchi da menzionare che AZ un fatto come e perché (in onda dal ‘70 fino al luglio ’76) adottava un pezzo del repertorio jazz, esattamente “Hard to Keep My Mind of You”, di Woody Herman.

Dal giornalismo d’inchiesta a quello sportivo: nel ’78 era il turno di Jazz Band di Hengel Gualdi a far da “preludio” a Novantesimo minuto, storica rubrica di RaiSport, e come non citare, dal campionario di La Domenica Sportiva, “Dribbling” di Piero Umiliani (1967), “Winning The West” della Buddy Rich Big Band (1973), “Mexico” di Danilo Rea e Roberto Gatto (1985), “Breakout” di Spyro Gira (1991)? Spostandoci alla “pagina” spettacoli, fra il ’76 e il ‘78, Rete 2 dava spazio in Odeon al pianista Keith Emerson (senza Lake e Palmer) in “Odeon Rag” arrangiamento di “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin, subentrato in luogo del precedente “Honky Tonk Train Blues”, autore il pianista Meade Lux Lewis. Il filone spettacolistico avrebbe registrato più in là significativi esempi con lo scat di Lucio Dalla con gli Stadio che annuncia Lunedifilm  per un buon ventennio fino al 2002 e l’ellingtoniano “Take The A Train” di Strayhorn a fare da intro ai trailer cinematografici assemblati da AnicaFlash per la rassegna delle novità cinematografiche “di stagione”. Si diceva come luogo fertile per la semina tv di suoni jazz da filtrare nelle orecchie dei telespettatori fosse l’informazione. Gettonatissima rimane al riguardo la sigla di Mixer (1980-1996) ovvero “Jazz Carnival” dei brasiliani Azimuth, specialisti del samba doido, genere fusion-funky. Latin come nelle radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dove Herb Alpert e Tijuana Brass interpretano “A Taste of Honey”, brano di stampo pop, in repertorio a Beatles e Giganti (“In paese è festa”). Per la tv italiana va ricordato che, fuori dal reticolo giornalistico, si contano altre occasioni più dirette di esposizione per la musica jazz filtrata tramite il piccolo schermo. La Portobello Jazz Band di Lino Patruno “presentava” il programma di Enzo Tortora (cfr. La tana delle sigle in tds.sigletv.net) nel 1978, stesso anno dello sceneggiato in 3 puntate Jazz Band di Pupi Avati, colonna sonora di Amedeo Tommasi, con il clarino di Hengel Gualdi in evidenza nelle sigle di apertura e chiusura, “Jazz Band” e “Swing Time” ; poi ancora Di Jazz in Jazz, programma “dedicato” con relativa sigla a cura dell’Orchestra Big Band della Rai diretta da Giampiero Boneschi e Franco Cerri (www.teche.rai.it). “Schegge”, queste ultime, che costituivano una vetrina per il jazz di casa nostra in una situazione in cui il format varietà si teneva alquanto distante, a differenza di quanto avveniva negli U.S.A. . Dalle nostre parti vanno citati comunque Milleluci, show datato 1974, nella cui sigla finale “Non gioco più” Mina duetta con l’armonica di Toots Thielemans,  Palcoscenico, in onda fra 1980 e 1981, con Milva accompagnata da Astor Piazzolla mentre scorrono i titoli di coda in “Fumo e odore di caffè” e Premiatissima del 1985 dove il crooner Johnny Dorelli canta “La cosa si fa“ su base swing “metropolitano. Lo sdoganamento delle sigle jazz nei varietà proseguiva con Renzo Arbore (e Gegè Telesforo) a cui si deve “Smorza e’ lights (Such a night)” incipit di Telepatria International, inizio trasmissioni il 6 dicembre 1981 (www.arboristeria.itRenzo Arbore Channel). Per la cronaca il 18 marzo 1981, e fino al 1989, sarebbe andata in onda la prima edizione di Quark di Piero Angela, conduttore nonché apprezzato pianista jazz. La trasmissione di divulgazione scientifica sarebbe stata simbioticamente legata alla sigla, la “Air for G String” di Bach, eseguita da The Swingle Singers, pubblicata nell’album “Jazz Sèbastian Bach” (1963), peraltro incisa anche insieme al Modern Jazz Quartet in “Place Vendòme”, album del ’68 della Philips. Terminiamo questa breve carrellata, che non include per sintesi le emittenti private/commerciali pro-tempore, per ricordare la sigla swing di DOC Musica e altro a denominazione d’origine controllata (1987-1988) di Arbore, Telesforo e Monica Nannini, esempio di come coinvolgere il jazz in un contenitore di buona musica. Il breve excursus è stato uno squarcio fugace su una jazz age, grossomodo racchiusa fra ’54 e ’94, un fugace momento di (bel) spaesizzazione musicale segnato, al proprio interno, dal passaggio dall’analogico al digitale, fase che precedeva la successiva della tv satellite e quella attuale della connessione via internet con la diffusione dei social e di new media come le web-tv con piattaforme on demand. E’ stato osservato che nella tv generalista di oggi “il jazz non ha più la stessa presa pubblica di un tempo” (cfr. Il jazz e le sigle radiotelevisive, riccardofacchi.wordpress.com, 2/8/2016). E “CiakClub.it” ha pubblicato, a firma di Alberto Candiani, un elenco con Le 20 migliori sigle televisive di sempre: Da Friends a Il trono di spade la lista delle più affascinanti iconiche e meglio congeniate sigle delle serie tv senza che ne compaia qualcuna (simil)jazz. Vero! Ci sono molti set televisivi in cui il jazz fa comparse episodiche. C’è poi che, a causa dell’affinarsi delle tecnologie digitali, molte sigle vengono confezionate a tavolino e, perdendo in istantaneità, sono sempre meno frutto di incisioni live né tantomeno vengono selezionate fra materiali preesistenti. Ed è forse tutto ciò che ammanta quei “primi quarant’anni” di tv “eterea” di un irripetibile sapore amarcord.

 

Amedeo Furfaro